Il
libro del 2017 di Nick Srnicek, autore
con Alex Williams una quindicina di anni prima del “Manifesto accelerazionista”[1], svolge un’analisi della
nuova economia del web, le cui potenzialità erano state esaltate implicitamente
nel manifesto.
Anche
ora, quattordici anni dopo, mentre l’accelerazione non è più citata (dati i
fraintendimenti ricevuti) l’era di trasformazione in corso è vista come
qualcosa di potenzialmente positivo pervertito dal capitalismo. Si tratta di
condivisione, flessibilità, imprenditorialità, liberazione dei lavoratori dalle
costrizioni e dalle gerarchie, interconnessione e on-demand per i consumatori. O,
almeno, potrebbe, perché tutto ciò nasce dentro una logica di
generazione di profitti ed ampliamento della concorrenza che è tipica del
capitalismo. La tesi del libro è che, “a causa di un lungo declino della
redditività del settore manifatturiero, il capitalismo abbia iniziato a
occuparsi dei dati come un mezzo per mantenere crescita economica e vitalità in
presenza di un settore produttivo altrimenti pigro”. I dati, cioè, hanno
assunto un ruolo sempre più centrale per le aziende ed i loro rapporti.
La
lettura che viene compiuta tenta quindi di “storicizzare le tecnologie
emergenti come risultato di più profonde tendenze del capitalismo, mostrando
come esse siano parte di un sistema di sfruttamento, esclusione e concorrenza”.
Ovvero, che, in qualche misura sono l’opposto di ciò che dicono di essere o, in
altri termini, l’opposto di ciò che potrebbero essere.
Per
capite l’emergenza della “economia delle piattaforme”[2] bisogna quindi inquadrarla
negli eventi globali del sistema economico, almeno nella risposta alla
recessione degli anni settanta, al boom e successiva piccola recessione degli
anni novanta, ed alla risposta alla crisi del 2008. Questi movimenti hanno
creato le condizioni per la nuova economia digitale e hanno determinato i modi
in cui essa si è sviluppata.
Il
capitalismo è, infatti, estremamente efficace nell’innalzare i livelli di
produttività, ma lo fa perché crea un ambiente sociale ed un rapporto con i
mezzi di produzione che creano gli incentivi per un costante rinnovamento
tecnologico[3].
Si sposta, si potrebbe dire, da una piattaforma tecnologica[4], che è intrecciata con un
intero modo di produzione e sistema sociale, ad un’altra sotto la spinta delle
crisi.
La
fine, o forse meglio l’esaurimento, della fase di spinta del dopoguerra produce
negli anni sessanta un eccesso di capacità produttiva e, insieme, una crisi di
produttività con l’estensione e il contagio della crisi a tutte le aree del
mondo. Il contesto vede le aziende manifatturiere, i cui rendimenti sono in
calo, cercare alternative, tra queste spicca dal punto di vista in oggetto il
toyotismo[5] e i software per gestire
le filiere. Ma fa parte, anzi è una delle motivazioni principali di questo
processo, l’attacco al potere del lavoro, la deregolation e l’outsorcing.
Segue
l’ascesa ed il crollo delle dot-com negli anni novanta, un periodo guidato dalla
speculazione finanziaria, e l’affermazione del modello “crescita prima dei
profitti”, che, appunto trovava la sua ragione nell’attrazione di enormi quantità
di risorse speculative in cerca di alti rendimenti potenziali nel contesto di
politiche monetarie accomodanti e crescita di sempre diverse bolle finanziarie.
Questo è il contesto di un primo boom tecnologico, ed anche della ideologia ‘californiana’
che domina gli anni novanta.
A
questo punto interviene la necessaria nemesi: la crisi del 2008. L’insorgenza
dell’austerity, politiche monetarie ancora più accomodanti ma dirette
esclusivamente a stabilizzare il sistema finanziario (ormai spina dorsale del
più ampio sistema economico), e la riduzione dei profitti anche sulle attività strettamente
finanziarie a causa di una sovraccumulazione nel settore. Ciò conduce, come
ovvio per la logica capitalistica, allo spostamento su attività ancora più
rischiose in cerca dei profitti senza i quali la stabilità e liquidità del sistema
si dissolve. Ciò induce ad un ulteriore spostamento dei flussi di capitale
sulle aziende tech. Ma, naturalmente, una buona parte di questi maggiori
profitti attesi dipende semplicemente dal fatto che le aziende ‘dematerializzate’
possono eludere o evadere molto più facilmente. Quindi insieme a questo
fenomeno c’è quello dell’espansione dei capitali detenuti nei paradisi fiscali
(ormai di gran lunga superiori al Pil mondiale).
L’altra
faccia di tutto questo sono gli esuberi e la proletarizzazione (p.34)[6].
E’
questo il contesto nel quale emerge il “capitalismo delle piattaforme”. La ristrutturazione
seguita alla crisi mette a valore le caratteristiche in essa emergenti:
automazione e sharing economy, crescita dell’economia della conoscenza e minore
costo dei relativi operatori, centralità dei dati (ottenimento ed uso). I dati
in questo sistema economico possono servire a rendere più efficienti gli
algoritmi, facilitare il coordinamento e l’outsorcing dei lavoratori,
consentire l’ottimizzazione e la flessibilità dei processi produttivi[7]. Ma i dati, nel contesto
delle piattaforme produttive contemporanee, rendono possibile anche la
trasformazione di beni a basso margine in servizi a margine molto più elevato. Inoltre,
in un processo costantemente accrescitivo, l’analisi dei dati genera altri
dati.
È
essenzialmente per sfruttare il potenziale della raccolta e manipolazione dei
dati che è emerso il modello aziendale della “piattaforma”. Per Srnicek “le
piattaforme sono infine strutture digitali che consentono a due o più gruppi di
interagire. Quindi si posizionano come intermediari che avvicinano utenti
diversi: clienti, inserzionisti, prestatori di servizi, fornitori ed anche
oggetti fisici” (p.42). Tra le cose più rilevanti va sottolineato che le ‘piattaforme’
sono soggette ad effetti di rete, quindi usano tattiche monopolistiche, spesso
rese possibili dallo spiazzamento dei quadri normativi, impreparati a queste
dinamiche, per acquisire utenze ed avvantaggiarsene. Si tratta, insomma, di “un
nuovo tipo di azienda”.
Ma
bisogna distinguere tra i vari casi. L’autore propone la seguente
classificazione:
1- “piattaforme
di advertising” (Google o Facebook) che acquisiscono informazioni e poi le vendono;
2- “piattaforme
cloud” (avs salesforce) che posseggono hardware e software e li affittano;
3- “piattaforme
industriali” (GE, Siemens) che costruiscono l’hardware e il software
necessario per trasformare la produzione tradizionale in processi connessi ad
internet e tra di loro;
4- “piattaforme
prodotto” (Rolls Royce e Spotify) che generano ricavi trasformando un bene
in servizio;
5- “piattaforme
lean” (Uber e Airbnb) che cercano di ridurre la (propria) proprietà al
minimo e creano profitti riducendo il costo il più possibile;
Poi
c’è Amazon[8] che è tutto questo
insieme.
Il
primo caso analizzato è quello di Google (p.48), che nasce nel 1997 e già l’anno
successivo riceve enormi capitali di rischio. Dopo il 2001 ha iniziato a
vendere spazi pubblicitari e creato Ad words. Oggi ben l’89% dei profitti
vengono dagli inserzionisti (per Facebook il 96,6%).
Queste
piattaforme sono trainate dal Web 2.0, che all’inizio del nuovo millennio inizia a fondarsi su contenuti creati direttamente dagli utenti in modo massivo. Diventa
un modello di business fondato sul “lavoro gratuito”[9]. L’idea è semplicissima,
le piattaforme invece di sfruttare il lavoro (che non c’è) si appropriano della
nuova materia prima prodotta che sono i dati. E li vendono agli inserzionisti
in forma rielaborata. L’importanza di questo fattore è tale che potrebbero
benissimo rendere open source tutto il loro software senza intaccare il
business, e giustifica l’attuale attenzione, ed investimenti, nella crescita
della Iot[10].
Ciò significa che se si esigesse il rispetto della privacy e la comprensione
esatta dei contratti che continuamente si fanno firmare on line, il modello di
business crollerebbe immediatamente come un castello di carte. Al contrario,
come scrive giustamente, “questa tendenza implica un pressing costante contro i
limiti di ciò che è accettabile socialmente e legalmente a livello di raccolta
dati” (p.87).
Le
“piattaforme cloud”, come Amazon, svolgono invece la funzione di
delocalizzare ed esternalizzare anche gli impianti it, e di centralizzarli in
modo molto potente.
Le
“piattaforme prodotto”, come Uber[11], prosperano sulla
stagnazione dei salari e la diminuzione dei risparmi, che costringe molti a
rendere disponibili come servizio i propri beni residuali (auto, macchina).
Le
“piattaforme lean” cercano di affermarsi come luogo di incontro in un
modello iper delocalizzato che mette tutto on line e aggiunge uno strato di
vigilanza onnipresente. Ad esempio gli iscritti a “TaskRabbit”[12] sono persone
sovraistruite e sottoutilizzate, il 70% ha la laurea ed il 5% il dottorato. Tutti
questi servizi, dunque, in una economia sana scomparirebbero. Sono fondamentalmente
un fenomeno “post 2008”. Ma anche così i soldi non arrivano dai (magri)
profitti, ma da eccedenze di capitale in cerca di alti tassi di rendimento. I
quali tassi sono prodotti dal sistema di certificazione e trattamento dati
della finanza e da un complesso intreccio di “sistema ponzi”[13].
Altre
tendenze sono quella ad “imporre il proprio ecosistema” (p.90), convergere ed
assomigliarsi sempre di più, incanalare tutto in “piattaforme silo” (p.94) che
impediscono all’utente di migrare altrove (es migliore Apple, o la relativa
incomunicabilità degli ecosistemi GE e Siemens).
Una
delle illusioni ottiche che danno questi dispositivi è della “fine della
proprietà”, in realtà si tratta della sua concentrazione.
Questi
modelli emergenti hanno tutti una tendenza connaturata al monopolio a causa dei
potenti effetti di rete, ad esempio Facebook, Google e Alibabà nel 2016 hanno
insieme raccolto il 50% della pubblicità globale. Negli Usa i primi due sono
ben al 76% del mercato pubblicitario.
L’apparenza
è quindi di un boom tecnologico, ma, in realtà, “questi modelli sono lontani
dal rappresentare il futuro del lavoro o quello dell’economia, e sembrano destinati
a sfaldarsi negli anni a venire” (p.75).
In
realtà esse dipendono, come sempre, dai profitti, almeno nel medio-lungo
termine. Se questi continuano a stagnare diventa sempre più difficile sostenere
lo ‘schema ponzi’ della finanza e si arriva improvvisamente al fallimento della
bolla. Quel che prevede Srnicek è che arriverà il redde rationem, nel contesto
di una riedizione della crisi delle dot-com del 2001, molte “piattaforme” falliranno
e le altre usciranno dal business “gratuito”, cominciando a vendere servizi “luxury”.
Quindi
secondo Srnicek crescerà l’incomunicabilità reciproca, la chiusura degli ecosistemi,
e probabilmente le “piattaforme lean” vedranno esaurirsi il modello che è di
fatto interamente basato sulla fiducia e l’attrazione del surplus di capitale
(p.107). Tutti si sposteranno sul modello molto più tradizionale ‘canone-per-servizi’.
Differenziando ovviamente gli uni e gli altri. Quindi ci saranno sempre più disparità
di accesso.
Soluzioni?
Certo
lo stato può regolamentale, o proibire le ‘piattaforme lean’, si possono
imporre controlli sul rispetto della privacy, e combattere l’evasione fiscale.
Tutte cose necessarie per l’autore (certo non sospettabile di luddismo). Ma le
piattaforme sono state e sono essenzialmente un modo, nel contesto di una
recessione molto lunga, per deviare i capitali in un settore che sembrava
dinamico, quello della estrazione dei dati.
La
soluzione come sempre per il nostro è di andare avanti, non di tornare indietro,
bisognerebbe quindi usare i capitali pubblici per offrire piattaforme come
servizio pubblico, ovvero ‘collettivizzare le piattaforme’. Inoltre “usare i
dati in esse raccolti allo scopo di distribuire risorse, garantire partecipazione
democratica, e generare ulteriore sviluppo tecnologico”[14]. Ovviamente è difficile
non essere d’accordo. Ma la precisazione di sapore “benecomunista” che inserisce
la rende poco concreta, “potrebbero essere fatti degli sforzi per creare piattaforme
pubbliche – di proprietà e controllate dalla popolazione (e, cosa
importante, autonome dal sistema di sorveglianza da parte dello Stato)”. C’è
una evidente contraddizione, data l’attuale ripartizione delle risorse e
assetto dei poteri: se bisogna “investire le enormi risorse a disposizione
delle nazioni”, ovvero il gettito fiscale delle stesse, “nella tecnologia necessaria
a sostenere queste piattaforme”, come si fa, poi, a non esercitare qualche
forma di controllo (anche solo ai fini di rendicontazione dell’uso dei beni
pubblici impiegati, al fine di essere rispondenti ai cittadini che li hanno
finanziati e prevenire appropriazioni ed abusi)? Questa è “sorveglianza”?
O
“sorveglianza” è la Commissione parlamentare sull’Odio, promossa dal Parlamento
(ricordo legittimamente, dato che è stata approvata)?
Ma
l’idea è ovviamente utile ed interessante.
Come
già detto[15]
potrebbe essere proposto, ad esempio, che “comunità energetiche cooperative”, a
scala territoriale idonea, supportate dall’infrastruttura legale di “Statuti di
Conservazione Sociale” sull’esempio tedesco, possano utilizzare una Piattaforma
pubblica gratuita per il “diritto alla città” (Lefebvre[16]). In tal modo, e connesso
con un progetto di rafforzamento della mixitè urbana, ma anche di superamento
della logica della “città fordista” per blocchi funzionali, mettere in comune
le dimensioni dell’abitare e l’informazione che si genera in essa. Ciò che le “piattaforme”
pubbliche non rivolte all’estrazione e sfruttamento dei “dati” dovrebbero fare in
questo caso è aiutare la messa in comune dei propri fabbisogni energetici
(producendoli e/o acquistandoli in comune) e il proprio tempo e le potenzialità
di lavoro. Creando consapevolezza della capacità, spesso ignota, di svolgere
servizi gli uni verso gli altri, anche sulla base di unità di conto e di
scambio ‘comunitarie’ registrate sulla piattaforma stessa. Si tratterebbe di un
investimento di capitale pubblico, necessariamente statuale, ma esercitato in
modo diffuso, capace nella sua applicazione al programma di housing sociale di
diffondere nell’intera città e nel territorio piccoli nuclei di prossimità di
alloggi sociali di diversa taglia e specializzazione, non emergenziali secondo
la logica neoliberale[17], ricavati dalla
rifunzionalizzazione del già costruito e conformi agli “Statuti”, ma
strettamente connessi in rete, anche nazionale, serviti, come detto, da “comunità
energetiche cooperative”, ed attivanti pratiche sociali volontarie e forme di
messa in comune[18].
Da
questo, a parere dell’autore, dipende il futuro. E’ troppo, ma, certo, insieme
a tutte le altre misure necessarie, potrebbe essere un passo utile.
[1] - Si veda, Alex Williams, Nick Srnicek,
“Manifesto accelerazionista”, 2013.
[2] - Di cui abbiamo già parlato in
diversi interventi. Ad esempio leggendo il coevo libro di Benedetto Vecchi, “Il
capitalismo delle piattaforme” l’intera information technology vi è
letta come risposta dei capitali, coerente con la loro logica interna, ai
conflitti sociali ed alla sfida portata alla loro capacità di comando. Si
tratta di una soluzione che mette al lavoro, valorizzandola, la
conoscenza e la capacità collettiva di costruire relazioni sociali e saperi.
Passando per una critica della tesi di Mason (“Postcapitalismo”), Vecchi
evidenzia il carattere di cattura e estrazione di cooperazioni sociali
preesistenti e inserite nelle strutture della persona e sociali, effetto degli
anni nei quali è stata diffusa conoscenza, cultura, cooperazione. Si tratta, in
certo senso, quindi di soluzioni parassitarie e residuali. Si può vedere anche “Gig
Economy o sharing economy”. Si può vedere anche “Platform
capitalism e confini del lavoro negli stazi digitali”, sempre del 2017,
nel quale sono descritti diverse piattaforme di scambio del lavoro della
cosiddetta ‘sharing economy’.
[3] - La descrizione del processo è
prettamente marxiana.
[4] - Per questo concetto si veda “Appunti
sul mutamento della ‘piattaforma tecnologica’ del capitalismo contemporaneo”
[5] - Lo stile di produzione proposto
nella Toyota, con la sostituzione della catena di montaggio con le isole di
produzione e della impresa integrata con la linea di approvvigionamento just-in-time.
[6] - Si veda Marta Fana “Non
è lavoro, è sfruttamento”, 2017, e Riccardo Staglianò, “Lavoretti”.
[7] - Si veda, ad esempio, la
questione di “industria
4.0”
[8] - Si veda “Amazon
e il suo monopolio”
[9] - Su questo tema si veda Lanier, “La
dignità ai tempi di internet”
[10]- “Internet of Things”,
ovvero l’inserimento in moltissimi oggetti di uso comune di sensori e altri
sistemi di captazione delle informazioni come dati, per trasmetterle in tempo
reale o differito alla rete.
[11] - Si veda anche “Taxi
e Uber, la questione dei servizi”
[12] - Di cui abbiamo parlato in “Edgard
Szoc, ‘Du partage a l’enchere: gli infortuni della sharing economy”
[13]- Uno dei tre schemi dell’economia
finanziaria (gli altri due sono “siepe” e “speculativa”) del modello
interpretativo di Hyman Minsky.
[14]- Lo abbiamo letto anche in “Platform
capitalism”, di fronte alla potenza del capitalismo delle piattaforme tutta
questa linea di critica post-capitalista o accelerazionista, propone come
risposta la “soggettività hacker” e il platform cooperativism (ad esempio “Produzioni dal basso” o “Goteo”, ma si potrebbe citare anche la
napoletana “Mappi[na]”) “che lavora sulla stessa frontiera,
l’erosione dei confini tra ciò che è lavoro e ciò che non lo è,
dipendente ed autonomo”, partendo, come dice “dagli spazi di autonomia politica
già conquistati nelle pratiche di intersezione tra ricerca e movimenti sociali
contemporanei” (cit. p.134).
[15] - Si veda “Ausftehen
e dintorni. Campagna per la casa”
[16] - Henry Lefebvre, “Il
diritto alla città”, 1968. Indica il diritto di ciascuno di disporre, ma
collettivamente, come diritto sociale, di una esperienza spaziale adeguata a
sostenere una vita decente e dignitosa e non segregante o
controllata. Indica un mutamento del soggetto che è legittimato a porre la
domanda circa il tipo di città che vogliamo, il tipo di persone che vogliamo
essere, i rapporti sociali cui aspiriamo, il rapporto che intendiamo promuovere
con la natura, e, naturalmente, con le tecnologie che riteniamo convenienti.
Dunque il “diritto alla città” non è un diritto
individuale di accesso alle risorse originariamente concentrate nella città
stessa: piuttosto è il diritto a cambiare insieme alla città, in modo da
renderla conforme ai desideri, insieme scoprendoli. È un diritto
collettivo (sociale) e non individuale (civile), e si traduce
necessariamente nell’esercizio di un potere collettivo sul processo di
urbanizzazione. Il “diritto alla città”, insomma, ossia
il controllo della stretta relazione fra urbanizzazione, produzione e uso delle
eccedenze di capitale, è quindi essenziale per riportare sotto controllo
sociale la dinamica del capitalismo. Perché gli attori sociali imparino,
attraverso le lotte per il riconoscimento, a riferirsi gli uni agli altri non
come strumenti del reciproco egoismo (sotto l’egemonia del valore di scambio),
ma come soggetti di bisogni. Agendo l’uno-per-l’altro, intrecciando i piani di
vita condividendo la comune preoccupazione per l’autorealizzazione. La libertà
non è, in questa visione che sarà sconfitta, realizzabile dai singoli ma da una
formazione collettiva adeguata.
[17] - Si veda “Antonio
Tosi, ‘Le case dei poveri”.
[18] - Si veda anche “Questioni
urbane: la politica della casa”
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