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sabato 2 novembre 2019

Nick Srnicek, “Capitalismo digitale”



Il libro del 2017 di Nick Srnicek, autore con Alex Williams una quindicina di anni prima del “Manifesto accelerazionista[1], svolge un’analisi della nuova economia del web, le cui potenzialità erano state esaltate implicitamente nel manifesto.



Anche ora, quattordici anni dopo, mentre l’accelerazione non è più citata (dati i fraintendimenti ricevuti) l’era di trasformazione in corso è vista come qualcosa di potenzialmente positivo pervertito dal capitalismo. Si tratta di condivisione, flessibilità, imprenditorialità, liberazione dei lavoratori dalle costrizioni e dalle gerarchie, interconnessione e on-demand per i consumatori. O, almeno, potrebbe, perché tutto ciò nasce dentro una logica di generazione di profitti ed ampliamento della concorrenza che è tipica del capitalismo. La tesi del libro è che, “a causa di un lungo declino della redditività del settore manifatturiero, il capitalismo abbia iniziato a occuparsi dei dati come un mezzo per mantenere crescita economica e vitalità in presenza di un settore produttivo altrimenti pigro”. I dati, cioè, hanno assunto un ruolo sempre più centrale per le aziende ed i loro rapporti.
La lettura che viene compiuta tenta quindi di “storicizzare le tecnologie emergenti come risultato di più profonde tendenze del capitalismo, mostrando come esse siano parte di un sistema di sfruttamento, esclusione e concorrenza”. Ovvero, che, in qualche misura sono l’opposto di ciò che dicono di essere o, in altri termini, l’opposto di ciò che potrebbero essere.

Per capite l’emergenza della “economia delle piattaforme”[2] bisogna quindi inquadrarla negli eventi globali del sistema economico, almeno nella risposta alla recessione degli anni settanta, al boom e successiva piccola recessione degli anni novanta, ed alla risposta alla crisi del 2008. Questi movimenti hanno creato le condizioni per la nuova economia digitale e hanno determinato i modi in cui essa si è sviluppata.
Il capitalismo è, infatti, estremamente efficace nell’innalzare i livelli di produttività, ma lo fa perché crea un ambiente sociale ed un rapporto con i mezzi di produzione che creano gli incentivi per un costante rinnovamento tecnologico[3]. Si sposta, si potrebbe dire, da una piattaforma tecnologica[4], che è intrecciata con un intero modo di produzione e sistema sociale, ad un’altra sotto la spinta delle crisi.
La fine, o forse meglio l’esaurimento, della fase di spinta del dopoguerra produce negli anni sessanta un eccesso di capacità produttiva e, insieme, una crisi di produttività con l’estensione e il contagio della crisi a tutte le aree del mondo. Il contesto vede le aziende manifatturiere, i cui rendimenti sono in calo, cercare alternative, tra queste spicca dal punto di vista in oggetto il toyotismo[5] e i software per gestire le filiere. Ma fa parte, anzi è una delle motivazioni principali di questo processo, l’attacco al potere del lavoro, la deregolation e l’outsorcing.
Segue l’ascesa ed il crollo delle dot-com negli anni novanta, un periodo guidato dalla speculazione finanziaria, e l’affermazione del modello “crescita prima dei profitti”, che, appunto trovava la sua ragione nell’attrazione di enormi quantità di risorse speculative in cerca di alti rendimenti potenziali nel contesto di politiche monetarie accomodanti e crescita di sempre diverse bolle finanziarie. Questo è il contesto di un primo boom tecnologico, ed anche della ideologia ‘californiana’ che domina gli anni novanta.
A questo punto interviene la necessaria nemesi: la crisi del 2008. L’insorgenza dell’austerity, politiche monetarie ancora più accomodanti ma dirette esclusivamente a stabilizzare il sistema finanziario (ormai spina dorsale del più ampio sistema economico), e la riduzione dei profitti anche sulle attività strettamente finanziarie a causa di una sovraccumulazione nel settore. Ciò conduce, come ovvio per la logica capitalistica, allo spostamento su attività ancora più rischiose in cerca dei profitti senza i quali la stabilità e liquidità del sistema si dissolve. Ciò induce ad un ulteriore spostamento dei flussi di capitale sulle aziende tech. Ma, naturalmente, una buona parte di questi maggiori profitti attesi dipende semplicemente dal fatto che le aziende ‘dematerializzate’ possono eludere o evadere molto più facilmente. Quindi insieme a questo fenomeno c’è quello dell’espansione dei capitali detenuti nei paradisi fiscali (ormai di gran lunga superiori al Pil mondiale).
L’altra faccia di tutto questo sono gli esuberi e la proletarizzazione (p.34)[6].

E’ questo il contesto nel quale emerge il “capitalismo delle piattaforme”. La ristrutturazione seguita alla crisi mette a valore le caratteristiche in essa emergenti: automazione e sharing economy, crescita dell’economia della conoscenza e minore costo dei relativi operatori, centralità dei dati (ottenimento ed uso). I dati in questo sistema economico possono servire a rendere più efficienti gli algoritmi, facilitare il coordinamento e l’outsorcing dei lavoratori, consentire l’ottimizzazione e la flessibilità dei processi produttivi[7]. Ma i dati, nel contesto delle piattaforme produttive contemporanee, rendono possibile anche la trasformazione di beni a basso margine in servizi a margine molto più elevato. Inoltre, in un processo costantemente accrescitivo, l’analisi dei dati genera altri dati.

È essenzialmente per sfruttare il potenziale della raccolta e manipolazione dei dati che è emerso il modello aziendale della “piattaforma”. Per Srnicek “le piattaforme sono infine strutture digitali che consentono a due o più gruppi di interagire. Quindi si posizionano come intermediari che avvicinano utenti diversi: clienti, inserzionisti, prestatori di servizi, fornitori ed anche oggetti fisici” (p.42). Tra le cose più rilevanti va sottolineato che le ‘piattaforme’ sono soggette ad effetti di rete, quindi usano tattiche monopolistiche, spesso rese possibili dallo spiazzamento dei quadri normativi, impreparati a queste dinamiche, per acquisire utenze ed avvantaggiarsene. Si tratta, insomma, di “un nuovo tipo di azienda”.

Ma bisogna distinguere tra i vari casi. L’autore propone la seguente classificazione:
1-     piattaforme di advertising” (Google o Facebook) che acquisiscono informazioni e poi le vendono;
2-     piattaforme cloud” (avs salesforce) che posseggono hardware e software e li affittano;
3-     piattaforme industriali” (GE, Siemens) che costruiscono l’hardware e il software necessario per trasformare la produzione tradizionale in processi connessi ad internet e tra di loro;
4-     piattaforme prodotto” (Rolls Royce e Spotify) che generano ricavi trasformando un bene in servizio;
5-     piattaforme lean” (Uber e Airbnb) che cercano di ridurre la (propria) proprietà al minimo e creano profitti riducendo il costo il più possibile;
Poi c’è Amazon[8] che è tutto questo insieme.

Il primo caso analizzato è quello di Google (p.48), che nasce nel 1997 e già l’anno successivo riceve enormi capitali di rischio. Dopo il 2001 ha iniziato a vendere spazi pubblicitari e creato Ad words. Oggi ben l’89% dei profitti vengono dagli inserzionisti (per Facebook il 96,6%).
Queste piattaforme sono trainate dal Web 2.0, che all’inizio del nuovo millennio inizia a fondarsi su contenuti creati direttamente dagli utenti in modo massivo. Diventa un modello di business fondato sul “lavoro gratuito”[9]. L’idea è semplicissima, le piattaforme invece di sfruttare il lavoro (che non c’è) si appropriano della nuova materia prima prodotta che sono i dati. E li vendono agli inserzionisti in forma rielaborata. L’importanza di questo fattore è tale che potrebbero benissimo rendere open source tutto il loro software senza intaccare il business, e giustifica l’attuale attenzione, ed investimenti, nella crescita della Iot[10]. Ciò significa che se si esigesse il rispetto della privacy e la comprensione esatta dei contratti che continuamente si fanno firmare on line, il modello di business crollerebbe immediatamente come un castello di carte. Al contrario, come scrive giustamente, “questa tendenza implica un pressing costante contro i limiti di ciò che è accettabile socialmente e legalmente a livello di raccolta dati” (p.87).

Le “piattaforme cloud”, come Amazon, svolgono invece la funzione di delocalizzare ed esternalizzare anche gli impianti it, e di centralizzarli in modo molto potente.
Le “piattaforme prodotto”, come Uber[11], prosperano sulla stagnazione dei salari e la diminuzione dei risparmi, che costringe molti a rendere disponibili come servizio i propri beni residuali (auto, macchina).
Le “piattaforme lean” cercano di affermarsi come luogo di incontro in un modello iper delocalizzato che mette tutto on line e aggiunge uno strato di vigilanza onnipresente. Ad esempio gli iscritti a “TaskRabbit”[12] sono persone sovraistruite e sottoutilizzate, il 70% ha la laurea ed il 5% il dottorato. Tutti questi servizi, dunque, in una economia sana scomparirebbero. Sono fondamentalmente un fenomeno “post 2008”. Ma anche così i soldi non arrivano dai (magri) profitti, ma da eccedenze di capitale in cerca di alti tassi di rendimento. I quali tassi sono prodotti dal sistema di certificazione e trattamento dati della finanza e da un complesso intreccio di “sistema ponzi”[13].
Altre tendenze sono quella ad “imporre il proprio ecosistema” (p.90), convergere ed assomigliarsi sempre di più, incanalare tutto in “piattaforme silo” (p.94) che impediscono all’utente di migrare altrove (es migliore Apple, o la relativa incomunicabilità degli ecosistemi GE e Siemens).

Una delle illusioni ottiche che danno questi dispositivi è della “fine della proprietà”, in realtà si tratta della sua concentrazione.
Questi modelli emergenti hanno tutti una tendenza connaturata al monopolio a causa dei potenti effetti di rete, ad esempio Facebook, Google e Alibabà nel 2016 hanno insieme raccolto il 50% della pubblicità globale. Negli Usa i primi due sono ben al 76% del mercato pubblicitario.

L’apparenza è quindi di un boom tecnologico, ma, in realtà, “questi modelli sono lontani dal rappresentare il futuro del lavoro o quello dell’economia, e sembrano destinati a sfaldarsi negli anni a venire” (p.75).
In realtà esse dipendono, come sempre, dai profitti, almeno nel medio-lungo termine. Se questi continuano a stagnare diventa sempre più difficile sostenere lo ‘schema ponzi’ della finanza e si arriva improvvisamente al fallimento della bolla. Quel che prevede Srnicek è che arriverà il redde rationem, nel contesto di una riedizione della crisi delle dot-com del 2001, molte “piattaforme” falliranno e le altre usciranno dal business “gratuito”, cominciando a vendere servizi “luxury”.
Quindi secondo Srnicek crescerà l’incomunicabilità reciproca, la chiusura degli ecosistemi, e probabilmente le “piattaforme lean” vedranno esaurirsi il modello che è di fatto interamente basato sulla fiducia e l’attrazione del surplus di capitale (p.107). Tutti si sposteranno sul modello molto più tradizionale ‘canone-per-servizi’. Differenziando ovviamente gli uni e gli altri. Quindi ci saranno sempre più disparità di accesso.

Soluzioni? Certo lo stato può regolamentale, o proibire le ‘piattaforme lean’, si possono imporre controlli sul rispetto della privacy, e combattere l’evasione fiscale. Tutte cose necessarie per l’autore (certo non sospettabile di luddismo). Ma le piattaforme sono state e sono essenzialmente un modo, nel contesto di una recessione molto lunga, per deviare i capitali in un settore che sembrava dinamico, quello della estrazione dei dati.

La soluzione come sempre per il nostro è di andare avanti, non di tornare indietro, bisognerebbe quindi usare i capitali pubblici per offrire piattaforme come servizio pubblico, ovvero ‘collettivizzare le piattaforme’. Inoltre “usare i dati in esse raccolti allo scopo di distribuire risorse, garantire partecipazione democratica, e generare ulteriore sviluppo tecnologico”[14]. Ovviamente è difficile non essere d’accordo. Ma la precisazione di sapore “benecomunista” che inserisce la rende poco concreta, “potrebbero essere fatti degli sforzi per creare piattaforme pubbliche – di proprietà e controllate dalla popolazione (e, cosa importante, autonome dal sistema di sorveglianza da parte dello Stato)”. C’è una evidente contraddizione, data l’attuale ripartizione delle risorse e assetto dei poteri: se bisogna “investire le enormi risorse a disposizione delle nazioni”, ovvero il gettito fiscale delle stesse, “nella tecnologia necessaria a sostenere queste piattaforme”, come si fa, poi, a non esercitare qualche forma di controllo (anche solo ai fini di rendicontazione dell’uso dei beni pubblici impiegati, al fine di essere rispondenti ai cittadini che li hanno finanziati e prevenire appropriazioni ed abusi)? Questa è “sorveglianza”?
O “sorveglianza” è la Commissione parlamentare sull’Odio, promossa dal Parlamento (ricordo legittimamente, dato che è stata approvata)?

Ma l’idea è ovviamente utile ed interessante.
Come già detto[15] potrebbe essere proposto, ad esempio, che “comunità energetiche cooperative”, a scala territoriale idonea, supportate dall’infrastruttura legale di “Statuti di Conservazione Sociale” sull’esempio tedesco, possano utilizzare una Piattaforma pubblica gratuita per il “diritto alla città” (Lefebvre[16]). In tal modo, e connesso con un progetto di rafforzamento della mixitè urbana, ma anche di superamento della logica della “città fordista” per blocchi funzionali, mettere in comune le dimensioni dell’abitare e l’informazione che si genera in essa. Ciò che le “piattaforme” pubbliche non rivolte all’estrazione e sfruttamento dei “dati” dovrebbero fare in questo caso è aiutare la messa in comune dei propri fabbisogni energetici (producendoli e/o acquistandoli in comune) e il proprio tempo e le potenzialità di lavoro. Creando consapevolezza della capacità, spesso ignota, di svolgere servizi gli uni verso gli altri, anche sulla base di unità di conto e di scambio ‘comunitarie’ registrate sulla piattaforma stessa. Si tratterebbe di un investimento di capitale pubblico, necessariamente statuale, ma esercitato in modo diffuso, capace nella sua applicazione al programma di housing sociale di diffondere nell’intera città e nel territorio piccoli nuclei di prossimità di alloggi sociali di diversa taglia e specializzazione, non emergenziali secondo la logica neoliberale[17], ricavati dalla rifunzionalizzazione del già costruito e conformi agli “Statuti”, ma strettamente connessi in rete, anche nazionale, serviti, come detto, da “comunità energetiche cooperative”, ed attivanti pratiche sociali volontarie e forme di messa in comune[18].

Da questo, a parere dell’autore, dipende il futuro. E’ troppo, ma, certo, insieme a tutte le altre misure necessarie, potrebbe essere un passo utile.

                    



[1] - Si veda, Alex Williams, Nick Srnicek, “Manifesto accelerazionista”, 2013.
[2] - Di cui abbiamo già parlato in diversi interventi. Ad esempio leggendo il coevo libro di Benedetto Vecchi, “Il capitalismo delle piattaforme” l’intera information technology vi è letta come risposta dei capitali, coerente con la loro logica interna, ai conflitti sociali ed alla sfida portata alla loro capacità di comando. Si tratta di una soluzione che mette al lavoro, valorizzandola, la conoscenza e la capacità collettiva di costruire relazioni sociali e saperi. Passando per una critica della tesi di Mason (“Postcapitalismo”), Vecchi evidenzia il carattere di cattura e estrazione di cooperazioni sociali preesistenti e inserite nelle strutture della persona e sociali, effetto degli anni nei quali è stata diffusa conoscenza, cultura, cooperazione. Si tratta, in certo senso, quindi di soluzioni parassitarie e residuali. Si può vedere anche “Gig Economy o sharing economy”. Si può vedere anche “Platform capitalism e confini del lavoro negli stazi digitali”, sempre del 2017, nel quale sono descritti diverse piattaforme di scambio del lavoro della cosiddetta ‘sharing economy’.
[3] - La descrizione del processo è prettamente marxiana.
[5] - Lo stile di produzione proposto nella Toyota, con la sostituzione della catena di montaggio con le isole di produzione e della impresa integrata con la linea di approvvigionamento just-in-time.
[6] - Si veda Marta Fana “Non è lavoro, è sfruttamento”, 2017, e Riccardo Staglianò, “Lavoretti”.
[7] - Si veda, ad esempio, la questione di “industria 4.0
[9] - Su questo tema si veda Lanier, “La dignità ai tempi di internet
[10]-Internet of Things”, ovvero l’inserimento in moltissimi oggetti di uso comune di sensori e altri sistemi di captazione delle informazioni come dati, per trasmetterle in tempo reale o differito alla rete.
[13]- Uno dei tre schemi dell’economia finanziaria (gli altri due sono “siepe” e “speculativa”) del modello interpretativo di Hyman Minsky.
[14]- Lo abbiamo letto anche in “Platform capitalism”, di fronte alla potenza del capitalismo delle piattaforme tutta questa linea di critica post-capitalista o accelerazionista, propone come risposta la “soggettività hacker” e il platform cooperativism (ad esempioProduzioni dal basso” o “Goteo”, ma si potrebbe citare anche la napoletana Mappi[na]”) “che lavora sulla stessa frontiera, l’erosione dei confini tra ciò che è lavoro e ciò che non lo è, dipendente ed autonomo”, partendo, come dice “dagli spazi di autonomia politica già conquistati nelle pratiche di intersezione tra ricerca e movimenti sociali contemporanei” (cit. p.134).
[16] - Henry Lefebvre, “Il diritto alla città”, 1968. Indica il diritto di ciascuno di disporre, ma collettivamente, come diritto sociale, di una esperienza spaziale adeguata a sostenere una vita decente e dignitosa e non segregante o controllata. Indica un mutamento del soggetto che è legittimato a porre la domanda circa il tipo di città che vogliamo, il tipo di persone che vogliamo essere, i rapporti sociali cui aspiriamo, il rapporto che intendiamo promuovere con la natura, e, naturalmente, con le tecnologie che riteniamo convenienti. Dunque il “diritto alla città” non è un diritto individuale di accesso alle risorse originariamente concentrate nella città stessa: piuttosto è il diritto a cambiare insieme alla città, in modo da renderla conforme ai desideri, insieme scoprendoli. È un diritto collettivo (sociale) e non individuale (civile), e si traduce necessariamente nell’esercizio di un potere collettivo sul processo di urbanizzazione. Il “diritto alla città”, insomma, ossia il controllo della stretta relazione fra urbanizzazione, produzione e uso delle eccedenze di capitale, è quindi essenziale per riportare sotto controllo sociale la dinamica del capitalismo. Perché gli attori sociali imparino, attraverso le lotte per il riconoscimento, a riferirsi gli uni agli altri non come strumenti del reciproco egoismo (sotto l’egemonia del valore di scambio), ma come soggetti di bisogni. Agendo l’uno-per-l’altro, intrecciando i piani di vita condividendo la comune preoccupazione per l’autorealizzazione. La libertà non è, in questa visione che sarà sconfitta, realizzabile dai singoli ma da una formazione collettiva adeguata.
[17] - Si veda “Antonio Tosi, ‘Le case dei poveri”.                                                                                   

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