Christophe
Guilluy è un geografo francese che ha scritto questo più che opportuno libro nel 2018 poco prima che il movimento
dei Gilet Gialli occupasse il centro di una scena che così abilmente descrive[1].
L’oggetto
principale del suo sguardo è largamente riconosciuto[2] (se pur c’è qualcuno che
ancora lo nega[3]):
il declino dei ceti medi e la crescita di quello che chiama “il mondo della
periferia”. È chiaro che questa descrizione è scandalosa; attesta il fallimento
di un modello che ha da sempre[4] inteso la propria
legittimazione per la rivendicata capacità di creare ricchezza per la
maggioranza. Non è possibile sottovalutare la potenza di questo principio
di legittimazione nella modernità. Anche se i ‘ceti medi’ sono sempre stati una
‘insalata di occupazioni’, come diceva Wright Mills, tuttavia erano uniti da
uno status sociale, prima ancora che da reddito. Status che essenzialmente
indicava una dinamica ascendente, almeno potenziale, un maggior grado di
istruzione e di consumi, rispetto alle classi ‘inferiori’, soprattutto più sicurezza
nelle prospettive di lavoro, una certa protezione. Essere nel ‘ceto
medio’ ha sempre significato essere, insomma, nel centro della società e
godere quindi di una piena cittadinanza. La cosa importante è che questa descrizione,
l’esistenza di questo centro, maggioritario, è assolutamente necessaria per
considerare fondato il buon diritto della società esistente alla sua conservazione.
Si tratta di un mito indispensabile.
Dunque
Guilluy attacca una pietra angolare dell’attuale piramide ideologica.
Muoviamo
dunque all’attacco.
Per
farlo occorre preliminarmente diradare una nebbiolina intorno al concetto: si
può sempre tracciare una stratificazione, in relazione a parametri quantitativi
come il reddito individuale o familiare, individuare una mediana[5], prendere una congrua fascia
sotto e sopra e nominarla “ceto medio”. Si tratta di un semplice esercizio
matematico.
Ma
se pure in questo modo si può individuare un 70% che staziona nell’intervallo,
un 10% sopra ed un 20% sotto, la verità è che fuori dei nostri modelli e delle
aule universitarie nelle quali ce li raccontiamo, per consolarci, il ‘ceto’ maggioritario
protetto dalla dinamica sociale dell’economico non c’è più. Si polarizza,
ascende in qualche parte e discende in parte maggioritaria, ovvero si divarica.
Ormai la massa presente al centro della distribuzione non è solo una ‘insalata’,
ma è anche incapace di percepire un unico destino. In particolare è imploso un
modello che riusciva ad integrare, e proteggere, le classi popolari, le quali,
questo è importante, “costituivano lo zoccolo duro della classe media
occidentale, e ne incarnavano i valori”.
E
quel che discende, perdendo la sicurezza che è l’elemento centrale dello ‘status’,
non è solo presente dove è sempre stato, nei ghetti e nelle zone marginali
(nelle ‘periferie’ estreme che tanto volentieri fotografiamo e riprendiamo), ma,
sostiene Guilluy, staziona nelle zone ‘periferiche’, nelle piccole città, nel ‘suburbano
imposto’, nelle aree rurali, in quelle rade e miste. Non è per caso che proprio
in questi territori continui a rafforzarsi l’ondata populista, quel fenomeno
socio-politico irrompente che “mostra sempre la stessa geografia (le periferie
urbane e rurali) e la stessa sociologia (le categorie umili che rappresentano
la maggioranza della classe media)”. Questa non è un margine, qualcosa di
fisiologico, ma una potenziale maggioranza.
Si
tratta del risultato di una tenaglia tra i processi di gentrificazione[6] e di ghettizzazione[7]; di quella area grigia in
mezzo. Emerge da classi che per la ricchezza possono essere distinte in “povere”,
“modeste” e “medie”, per l’identità in francesi e immigrate. Dove, ovviamente,
essere nella seconda categoria ordinariamente implica un minor grado di
inclusione di cittadinanza e quindi un aggravio notevole rispetto alla sostanza
dell’essere ‘classe media’.
Quindi
nella definizione di “classi popolari”, non rientrano solo gli abitanti dei
quartieri di edilizia popolare delle grandi città, “dove si concentrano le categorie
popolari dei poveri e degli immigrati”, ma anche l’insieme molto più ampio “degli
abitanti dei territori deindustrializzati, delle zone rurali, delle città di
piccole e medie dimensioni”. Una sorta di “Francia periferica” che va
decisamente oltre la definizione e la coppia urbano/rurale. Se c’è una
opposizione questa ormai è “tra grandi aree urbane globalizzate in fase di gentrificazione,
da una parte, e tutti gli altri dall’altra”.
Per
comprendere la dinamica in corso, due grandi forze trainano la dinamica
populista: la precarietà sociale, che è l’effetto del modello economico,
e la precarietà culturale, che per l’autore è l’effetto della nascita
della società multiculturale. La ragione è elementare, se c’è solo la prima
forma di insicurezza, sociale, si resta su sentieri normali, magari di sinistra
radicale, e se c’è solo la seconda si aderisce all’elettorato borghese di
destra.
Questo
mondo, quello del voto populista, principalmente Le Pen in Francia, è, alla
fine, semplicemente “il riflesso geografico della divisione sociale prodottasi
nel ventunesimo secolo tra un ‘alto’, un mondo di sopra, economicamente integrato,
e un ‘basso’, un mondo di sotto, relegato alla marginalità” (p.16).
Ciò
significa anche che le separazioni più rilevanti non passano più per:
-
destra/sinistra, classe operaia/padroni,
rurale/urbano,
ma:
-
privilegiato dalla globalizzazione/debole
e perdente dalla stessa, nomade/sedentario, nuove classi superiori/nuove classi
popolari,
Ovvero
significa che: “per la prima volta nella storia dell’occidente, i gruppi a
basso reddito non vivono nei luoghi in cui si creano la maggior parte dell’accumulazione
e della ricchezza e, cosa ancora più rilevante, non possono permettersi di
viverci”. Naturalmente ci sono tantissime eccezioni, in tutte le direzioni, ma
confermano questa indicazione, perché nelle enclave ricche delle zone periferiche
hanno votato Macron, e nelle sacche marginali entro le aree forti Le Pen. Del resto
questo sembra essere il gradiente decisivo, un intero insieme sociale si è
mosso. Non solo i segmenti marginali degli operai e dei contadini, ma
dipendenti, lavoratori manuali, piccoli colletti bianchi, giovani, pensionati,
abitanti delle zone rurali e urbane. Tutti strati che, uno alla volta e uno
dopo l’altro, sono stati scientemente sacrificati. Prima la classe operaia, poi
il terziario precarizzato, quindi tutti i servizi nei quali si era rifugiato il
lavoro ormai debole, ora la pressione si sta spostando su impiegati e piccoli
lavoratori autonomi.
Ormai
sono “tutti marginali”. Ma “il problema è che sommando tutti questi marginali
si ottiene un insieme completo: quello della vecchia classe media occidentale”
(p.33). Come mostra bene, infatti, anche Bagnasco, in realtà il ‘ceto medio’
occidentale non era stato prodotto dagli spiriti animali del capitalismo, ma
era stato costruito nelle lotte e sotto la pressione del modello alternativo
del socialismo da ‘contratti sociali’ che erano strettamente connessi,
intimamente, con il modello di capitalismo industriale del dopoguerra[8]. Un capitalismo che si era
accontentato di “coniugare insieme crescita economica e coesione sociale, in un
quadro di democrazia politica”[9]. La base sociale di questa
regolazione vedeva una grande, anche se mai maggioritaria, e abbastanza coesa
classe operaia, e il “ceto medio” che si connetteva con questa in un continuum
e proseguiva in quei segmenti necessari per tenere in piedi la grande macchina.
Questo processo di inclusione sociale molto forte, anche se parziale, includeva
i manager, necessari per la crescita di organizzazioni sempre più grandi e
complesse, gli strati superiori degli impiegati e degli operai (la cosiddetta
“aristocrazia operaia”), la “service class” che gli ruotava intorno e parte del
pubblico impiego. Un insieme sociale che accompagnava l’istituzionalizzazione
del conflitto ed il “compromesso socialdemocratico”. Lo Stato, notevolmente
presente ed interventista, cercava di gestire la domanda e spingere la spesa
pubblica, nei momenti di flessione, per garantire l’occupazione e salvaguardare
l’inclusione, oltre che la pace sociale anche attraverso la contemporanea
crescita del “welfare state” (che è un movimento molto più ampio e generale
rispetto alle sole politiche keynesiane). Complessivamente tutto questo
meccanismo di regolazione era rivolto alla gestione e riduzione dei rischi, via
inclusione, in cambio di lealtà politica.
Tutto
questo è stato smontato, e progressivamente continua ad esserlo, ma senza porsi
davvero più il problema della coesione sociale. Affidando tutto alla
disintegrazione delle identità sociali, all’inattivazione individualista, ed a
forme sempre più autistiche di edonismo e narcisimo[10]. Bagnasco lo chiama uno “smontaggio
senza costruzione”.
Quella
che si è generata è, insomma, una nuova geografia sociale e quindi politica.
Che vale anche per la Germania, per l’Italia (che è emersa il 4 marzo). Ma anche
per il segnale forse principale, naturalmente: quello della elezione di Trump. Né
quella di Macron è davvero una eccezione, che indica la dinamica di ribasso
dell’ondata populista, come si è detto con un sospiro di sollievo; in realtà si
tratta della stessa ricomposizione politica. Entrambi, se pur su sponde
opposte, sono estranei al rispettivo campo, sono outsider.
Quando
si arriva ad avere tassi di disoccupazione reali negli Stati Uniti del 20%, ca
90 milioni di persone, di cui 50 vivono con i buoni alimentari, l’aspettativa
di vita cala in tutti i paesi per le classi medio-basse, e questo avviene sia
nell’Ohio sia nella campagna francese, allora è cominciata l’estinzione della
classe media. Processo che sarà completo quando anche i decani, ora sotto
attacco sia in Francia sia in Italia, dovranno ridurre il loro tenore di vita,
giudicato un peso insopportabile ed una sorta di perversa ingiustizia. Chi soffre
non capisce perché altri non lo facciano. Ma sono i pensionati che, in vario
modo, hanno rallentato l’ondata populista[11]. La cosa è semplice, in
fondo: “per tosare i decani della classe media occidentale tuttavia serve una giustificazione
ed i beneplacito del resto della popolazione, perciò diventa essenziale
presentare queste persone come appartenenti a categorie di privilegiati, e i
media e la classe accademica sono impegnati in questo senso” (p.42). Quando sarà
compiuto la precarizzazione dei pensionati (molti dei quali lo sono già) sarà l’ultimo
passo.
Se
accadrà non ci sarà più una vera e propria classe media.
La frattura tra le classi dominanti, ormai sempre più separate, e le classi
precarizzate, spaventate e insicure, sarà definitivamente compiuto. Ma con questo
si perderà anche il più potente stabilizzatore sociale. In epoca di ormai avanzata
secolarizzazione, quando non si crede più a valori e quadri cosmologici comuni,
verrà meno quel “sentimento di appartenenza alla classe media” che non si è mai
basato solo sul reddito, neppure sulle professioni (pur essendo queste due
dimensioni importanti), ma sul “sentirsi portatori di valori maggioritari”. E
questi valori sentirli “parte integrante di un movimento economico, sociale e
culturale avviato dalle classi dominanti”. Si trattava, insomma, del tessuto
che teneva insieme la società e la teneva connessa e coerente con lo strato
dominante.
Se
dal “centro” si guarda su, però, è in qualche modo necessario che “dall’alto”
si risponda allo sguardo. Ed è questo che, a partire dagli anni ottanta, per
Guilluy è collassata la coesione sociale. Come ricorda spesso anche David
Harvey, le classi superiori, prendendo per anni tutto il surplus prodotto e
serbandolo per sé, si sono separate. Hanno cominciato a parlare di “miserabili”,
di “sdentati”, hanno visto formarsi tra lo spaventato e l’indifferente, una
sottoclasse razzista, rancorosa e ignorante. L’hanno quindi abbandonata sdegnate.
Hanno proposto modelli multiculturali, rifugiandosi nel “politicamente corretto”[12], senza comprendere che
nessuna integrazione è possibile se non si muove dalle classi popolari. Hanno reagito
al senso di tradimento, rancore e dolore, che viene dal basso colpevolizzando.
Comincia
così il tempo della “a-società”, il tempo delle opposte secessioni[13].
“Il
sacrificio della classe media occidentale sull’altare della globalizzazione è
stato solo il primo passo in un processo che porta il mondo di sopra ad
abbandonare i modelli e i valori comuni che costituivano i pilastri della
società occidentale. Per la prima volta nella storia, la classe dominante e i
suoi portavoce nel mondo dei media, della cultura e dell’università non parlano
né a nome né contro le classi popolari, perché ormai esse sono fuori della
storia” (p.63).
Questo
processo ha spesso preso i nomi fuorvianti di “metropolizzazione”, o di “open
society”, in realtà è un arroccamento. Chi consegna le vittorie
elettorali (ad esempio a Macron) sono sempre i garantiti dal sistema sociale,
ma queste sono sempre più difficili, per due motivi: i garantiti sono sempre di
meno e questi hanno sempre meno egemonia. Peraltro questo sistema tendenzialmente
non garantisce nessuno, e quindi i garantiti di oggi saranno le vittime di
domani.
Sulla
base di questa valutazione emerge il concetto guida della rappresentazione dell’autore.
Quello di “Francia periferica”. Che “non va confuso con quello di ‘periferie’;
esistono periferie tanto nelle aree metropolitane che nella Francia periferica.
Di nuovo, il concetto di Francia periferica designa tutti quei territori
lontani dalle prime quindici metropoli del paese, in cui vive quali il 60%
della popolazione francese. La categoria serve ad analizzare la ricomposizione
sociale dei territori e il ruolo delle classi popolari nel modello
globalizzato, ma questo non significa assolutamente che il cento per cento dei
territori e delle città della Francia periferica siano in declino o siano
abitati esclusivamente da classi popolari precarie, né che tutti i territori
metropolitani siano gentrificati. Piuttosto la categoria di Francia periferica
serve a descrivere dinamiche economiche che si ritrovano in tutti i paesi
sviluppati e sono caratterizzate da processi di concentrazione della ricchezza
e dell’arroccamento delle classi superiori in territori da cui vengono
progressivamente allontanate le classi popolari”. Si tratta di una categoria
che serve a rendere visibile il doppio fenomeno interconnesso della
gentrificazione e della desertificazione, del quale parla ad esempio la parabola
svedese, il rifiuto del modello multiculturale nel momento in cui chi è già “umile”,
non sopporta giustamente di diventare anche minoranza, di contendere risorse
calanti[14]. Una divaricazione nella
quale trova spazio, in alto, individualismo e gregarismo sociale, ed in basso,
solidarietà imposta dalle circostanze e forme di comunitarismo difensivo.
Fenomeno,
peraltro, che deve restare oscuro, del quale non si deve parlare in quanto chi ne
parla rischia il più duro ostracismo. In particolare se fa parte del ceto
preposto al controllo delle idee, degli intellettuali e degli operatori dei
media.
C’è
anche un altro problema, e qui probabilmente la vicenda in corso dei Gilet
Gialli ne è una conferma: si tratta di un fenomeno nel quale è “molto difficile
creare le condizioni della rivoluzione intesa alla maniera dei secoli
precedenti, quando esisteva ancora il legame (conflittuale a volte) tra classi
popolari e classi superiori. La secessione della borghesia e la dispersione
delle classi popolari stanno creando una situazione politica senza precedenti,
per cui tutte le tensioni sociali e identitarie vengono annientate dal
disimpegno delle classi superiori. Infatti nessun processo può emergere senza
che una frazione dell’élite o della borghesia scenda in campo”[15]. Insomma, “non esistono
movimenti di massa, non esistono rivoluzioni senza alleanza tra le classi”.
Questa
incapacità di mettersi in contatto, anche quando si provi, è dimostrata per
Guilluy dalle parabole di Skyriza e di Podemos, che hanno reso evidente l’impossibilità
di rappresentare le aspirazioni popolari da parte della borghesia illuminata. Inoltre,
oltre che impossibile, è anche individualmente pericoloso: il muro minaccioso
del ‘politicamente corretto’, le accuse di razzismo, le deplorazioni degli ‘analfabeti
funzionali’, le ‘campagne contro l’odio’ (ovvero contro il conflitto sociale),
sono tutte armi che sono rivolte specificamente contro quella porzione delle classi
superiori e intellettuali che volessero essere tentate di spendersi. Nessuna di
queste armi ha infatti veramente senso contro i ceti popolari, che sanno quel
che sono e vogliono, e da tempo hanno perso la timidezza, ma sono efficacissime
nel far capire a chi, facendo parte del ceto superiore non volesse capire il suo
posto, e tradire la classe, che il prezzo sarà la morte civile. In
questo modo si impedisce l’accumulazione delle condizioni di un reale
cambiamento.
Ma
non sta davvero funzionando.
Il
“mondo di sotto” è ormai troppo forte, ed esercita quello che l’autore chiama
un “invisibile soft power”, il quale è il motore dell’ondata populista. Questo
costringe i politici ed i media a trattare i temi fino a poco fa proibiti. Anche
quando provengono da partiti che fino a ieri sostenevano, e di fatto sostengono,
altri ceti ed interessi[16]. Del resto è più
generale, come scrive: “la verità è che Donald Trump, Marine Le Pen, Jean-Luc
Mélenchon, Beppe Grillo, Luigi Di Maio, Matteo Salvini, Steve Bannon, David
Goodhart o Eric Zemmour non influenzano in alcun modo l’opinione pubblica: al
contrario, si nutrono di essa” (p.122). La ragione è semplice, tutto il
movimento populista, comunque sia orientato, è causato dagli effetti della
scomparsa della classe media, non dal talento di un tribuno. È l’effetto politico
di una potente richiesta di protezione sociale e culturale. Di fatto si tratta,
per i più umili, solo di conservare il proprio capitale sociale e culturale. L’unica
cosa che gli appartiene e non può essere sottratto, l’essenziale della loro
vita. Tutto questo le classi dominanti lo chiamano “populismo”, ovvero
fascismo, ma per Guilluy è solo movimento democratico.
Ovvero
è l’esito necessario del tentativo:
-
di fronte alla volontà di ridurre il
welfare, di preservare il bene comune,
-
alla deregolazione e denazionalizzazione
di opporre un inquadramento nazionale,
-
al mito dell’ipermobilità contrapporre un
mondo popolare sedentario,
-
rispetto al mondo senza distinzioni
culturali far valere un mondo che protegge il capitale culturale collettivo.
Questo
è il movimento che porta ad imporre temi come: il protezionismo, la regolazione
della immigrazione, la lotta alla speculazione finanziaria. Ovvero a contrastare
il dogma centrale del liberalismo, la libertà di movimento di merci, persone e
capitali.
Fino
a che non si capirà che tutto è semplicemente l’effetto del finale fallimento di
un sistema che non riesce a creare società, e quindi fallisce nell’essenziale,
non si potrà superare la crisi (sociale e quindi economica).
[1] - La protesta inizia a
sedimentare, infatti, nel maggio di quell’anno, ma è solo dal 17 novembre che
iniziano le, fino ad ora ininterrotte, ‘giornate’ di protesta.
[2] - Ad esempio si può leggere il
libro di un sociologo che non richiede presentazioni come Arnaldo Bagnasco in “La
questione del ceto medio”, 2016, o Branko Milanovic, “Ingiustizia
globale”, 2018, oltre che l’ampia analisi di Thomas Piketty, “Il
Capitale del XXI secolo”, 2014, che dimostra la crescita delle
ineguaglianze in occidente, Anthony Atkinson, “Disuguaglianza”,
2017, e via dicendo…
[3] - Leggeremo, ad esempio, il recente
libro di Luca Ricolfi, “La società signorile di massa” che, con una lettura
a tema non priva di forzature enfatizza fenomeni certamente presenti, ma di
nicchia, e con un gioco di prestigio li amplifica a “massa”, con ciò
producendosi in una confutazione del declino della classe media, cui attribuisce
una consistenza immutata.
[4] - Si veda ad esempio Jean-Claude
Michéa, “L’impero
del male minore”, la legittimazione e ispirazione più profonda del
liberalismo è il rifiuto dell’incertezza derivante dagli scontri sociali e
culturali e l’aspirazione ad una vita tranquilla, concepita nella forma della
borghesia ascendente. L’energia impegnata nell’etica dell’onore viene dirottata
verso il lavoro e l’industria, sulla base di una promessa essenziale: la
ricchezza porterà la pace. E’ assolutamente necessario a questo concetto che ci
sia progresso. Ovvero pacificazione ideologica, persino in un popolo
di demoni, come scrive Kant in “La pace perpetua”, i quali si
dedichino ai propri affari e così producano il maggior bene per tutti. Non si
può concepire la logica del liberalesimo senza credere a questa armonizzazione,
necessaria e progressiva, degli interessi sulla base del solo “dolce commercio”
e del minimo necessario di autorità. Quel che chiamiamo l’economia deve, quasi
da sola, realizzare il miracolo secolare di renderci felici, fraterni e buoni,
perché ricchi. Il problema è che se manca la crescita, e tanto più se
interviene un lungo processo di impoverimento e di insicurezza, l’incanalare
grazie a strumenti giuridici e di mercato vizi privati e virtù fallisce nell’obiettivo
(che è quello prioritario) di ottenere una società ben ordinata. Come correttamente
scrive Michéa, mercato e diritto sono forme di socializzazione, ma secondarie,
e non sono in grado di fondare le proprie stesse basi. Esse si basano su una
preesistenza: quella della lealtà e di un qualche sentimento morale che sia in
grado, essendo abbastanza condiviso, di presupporre da parte degli attori il
reciproco riconoscimento e quindi la fiducia reciproca. Non si può avere
fiducia sulla base del calcolo egoistico, perché si retrocede ad infinitum nel
gioco strategico. Occorre un fondamento antropologico radicato nel “ciclo del
dono” (Mauss, “Saggio
sul dono”).
[5] - Termine che si riferisce a quel
punto di una distribuzione nel quale ciò che resta sopra è equivalente a quel
che resta sotto. Non va confusa con la media, che è semplicemente la quantità
diviso la numerosità, ad esempio reddito tortale diviso numero dei percipienti.
[6] - Si dice “gentrificazione” quando
in un’area, tipicamente un quartiere, progressivamente si attiva un processo di
sostituzione della popolazione originale con altra di maggiore ceto sociale, e
questo, arrivando di fatto espelle quella residua. La meccanica è guidata dal
mercato, nel senso che l’arrivo di ceti più alti tende a migliorare il quartiere
sotto il profilo della sua attrattibilità e ciò alzai valori immobiliari e dei
fitti. I nuovi venuto spingono per una riqualificazione degli edifici e
programmi urbani di riqualificazione che accelerano il processo, fino a che
letteralmente i vecchi abitanti non si possono più permettere di vivere sul
posto.
[7] - E’ l’esatto opposto, quando in
un quartiere per i più diversi motivi si concentrano popolazioni a basso
reddito tendono ad espellere le popolazioni più abbienti, e ciò accelera il
degrado, la carenza di manutenzione, fino a prendere una direzione di
accelerazione e formare il vero e proprio ghetto.
[8] - Si veda anche, Arnaldo Bagnasco,
Nicola Negri, “Classi, ceti, persone”, Liguori, 1994. In questo libro,
della metà degli anni novanta, al culmine del processo di cetomedizzazione, si
scrive che “i ceti medi sono un importante e a volte decisivo elemento di
stabilizzazione della società. Cresciuti con lo sviluppo economico del dopoguerra
e con le innovazioni tecnologiche, organizzative e politiche che questo ha
comportato, essi acquisterebbero nuove funzioni di stabilizzazione sociale in
una fase di instabilità dei grandi sistemi economici”, p.40.
[9] - Arnaldo Bagnasco, “La
questione del ceto medio”, op.cit.,
[10] - Si veda la diagnosi di Lasch, in
particolare “La
ribellione delle élite”. In questo libro del 1995, l’ultimo, si chiede
se il declino dell’industria manifatturiera, la contrazione della classe media,
la crescita della povertà e il degrado territoriale lasceranno speranza alla
democrazia. Come sosteneva anche l’ultimo Dahrendorf (si veda, ad esempio, “Dopo
la democrazia”) secondo lui le classi privilegiate si sono separate e
sono diventate sempre più cosmopolite e mobili. La necessità di spostarsi come
requisito preliminare per fare carriera, ben noto nei ceti alti, è il più
importante fattore che determina l’insorgere di una “mentalità turistica” e
allontana di fatto dalla democrazia. Secondo Lasch kle élite hanno perso
fiducia nei valori dell’occidente e hanno ristretto il radicalismo e la spinta
al cambiamento a movimenti come il femminismo, l’antirazzismo, i movimento
LGBT.. etc. che non “hanno nulla in comune tra di loro” e come rivendicazione
coerente hanno solo la cooptazione nelle strutture dominanti. Si veda anche “La cultura del narcisismo”, 1979.
[11] - Questo accenno assomiglia, ma
con più senso delle proporzioni, alla tesi centrale di Ricolfi.
[12] - Si veda Jonathan Friedman “Politicamente
corretto”. Identifico con questo termine una forma di categorizzazione
e quindi di comunicazione caratterizzata dalla ‘logica associativa’ (se dici
una cosa, allora devi essere in quella data identità
preclassificata), e che fa prevalere la ‘valenza indessicale’ (cioè il contesto
della comunicazione) sul contenuto semantico (il significato)”. Rifiutandosi
all’argomentazione l’effetto sociale, e di potere, che si produce è che
inquadrare un’affermazione come “politicamente corretta” (o s-corretta) consente
di neutralizzarla; essa non può più essere localmente vera, perché è
semplicemente troppo terribile. Al contrario diventa vero ciò che è
buono, e perché lo è. Insomma, “il terribile e il meraviglioso
sono autoevidenti”. Dunque si ha un utilizzo politico della morale per controllare
la comunicazione e censurarla ab origine in tempi di
incertezza. Il “politicamente corretto” è coevo all’insorgere di una
nuova élite transnazionale (ben vista da autori chiave come Rorty, Lasch e Dahrendorf) che cerca di neutralizzare l’opposizione moralizzando
l’universo sociale e dunque mobilitando, a fini di controllo, la
vergogna. La simmetria essenziale è con la politica mondiale a taglia unica
(il “Washington Consensus”) ed i suoi TINA e passa per la riclassificazione
del liberale come progressista e del socialista come reazionario. Ciò che è
progressista è l’olistico, il nomade/rizomatico, il diffuso e l’orizzontale.
Ciò che è reazionario è il moderno, razionale, astratto, verticale.
La ‘vecchia’ classe lavoratrice diventa, da soggetto storico del progresso,
‘deplorabile’ e nazionalista, egoista e meschina. Mentre il migrante,
rifugiato, le minoranze colorate, le identità plurali, diventano i nuovi eroi.
Questa è una cultura fondata sul narcisismo (Lasch) che egemonizza una forma
di controllo basata sulla classificazione creando un controllo operativo
(“matriarcale”) basato sulla vergogna. Le varie versioni del “politicamente
corretto” sono l’ideologia funzionale allo stato della tecnica e ad un modo di
produzione che da lungo tempo ha dismesso i ferri vecchi della triade
Dio-Stato-Famiglia, inseguendo la forma ‘liquida’ della merce e costruendo un
‘umano non sociale’ abbandonato a tutte quelle forme di autoritarismo nascoste
nell’apparenza di pienezza di diritti la cui piena espressione è il mercato
autoregolato.
[13] - Per quella delle élite si veda Christopher
Lasch, “La
ribellione delle élite”, 1995.
[14] - Un caso specifico e noto è la
concorrenza per le case popolari, sempre di meno e quindi nelle quali la riserva
di fatto o di diritto agli immigrati pesa sempre più. Si veda, Antonio Tosi, “Le
case dei poveri”.
[15] - p.105. Un concetto simile lo
esprime anche Lenin in “Che fare?”
[16] - Il maggior esempio è Salvini
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