E’
bello quando molte migliaia di persone escono di casa, spinte dall’urgenza di
esprimere un sentimento ed esprimere se stesse. È in sé un gesto politico?
Potrebbe esserlo, ma cosa designa come nemico? Questa mi pare una delle domande
più importanti da porre al fenomeno in corso.
Provare
a rispondere richiede, però, un piccolo percorso.
La
prima domanda che ci dovremmo fare è: che cosa fondamentalmente sta succedendo?
Ci sono molti modi di provare a rispondere, si sta ovunque disintegrando il
consenso che dal dopoguerra reggeva un sistema sociale prima che politico,
gerarchico, fondato su una promessa di crescita e protezione. La traccia più
evidente di questa disgregazione è la perdita di legittimità verso tutte quelle
élite che rendono leggibile e coerente l’ordine sociale liberale, e consentono
il posizionamento in esso. Tra queste (insieme agli scienziati, i giornalisti,
i professori tutti) le classi politiche sono in primo piano. La ragione
probabilmente principale di questa enorme ondata di discredito, che il movimento
nascente delle “sardine” conferma, più che contrastare, come lo confermava
quello dei “gretini”, e, qualche anno fa “i girotondi”, è il tradimento della
promessa di benessere, e con essa della promessa di eguaglianza di
riconoscimento.
Ma
proprio qui c’è una linea di fattura, perché non proprio tutti
sono stati traditi, e non nello stesso modo. Ci sono almeno due gradienti
rilevanti, la densità relazionale che circonda ognuno di noi e la disponibilità
di risorse. Chi è povero di entrambe è respinto da questo assetto sociale al
margine invisibile, chi ricco di entrambe non è stato tradito, ma è
beneficiario dell’ordine sociale liberale. Chiaramente la densità di relazioni
ha aspetti materiali, ovvero spaziali, ed altri non, ma l’ordine spaziale, e
quindi territoriale conta molto[1]. Altrettanto ovviamente le
risorse non sono solo economiche, ma quelle hanno una sorta di priorità,
potendosi tradurre in pratica in ogni altra, o quasi, nella società neoliberale
nella quale viviamo[2].
Una
mobilitazione come questa, strettamente post-materialista[3], non per caso avviene
entro l’ambiente ecologico della sinistra allargata e nelle aree urbane dense. Entrambe
si sentono sfidate, direi nella loro più profonda autocomprensione esistenziale,
dal ritorno del sentimento popolare che rifiuta il “rischio”[4], con essa l’apertura, le
forme più spiazzanti di modernità. Avviene sintonizzandosi istintivamente, in
modo pre-razionale e certamente pre-politico, sul codice sorgente della modernità
contemporanea: il politicamente corretto[5].
Bisogna
sempre guardarsi molto attentamente dal fare di tanti uno, e di elevarsi, non
si capisce sulla base di quale investitura, a giudice morale. C’è certamente
molto di più, e c’è molto di importante, ogni qual volta tanti si ritrovano e
scoprono simili. Nasce sempre qualcosa.
Tuttavia
la frattura, a grandi linee, resta. Se si compie una lettura
di tipo strutturale e si sospendono le ragioni della mera lotta politica
(ovvero la questione, che pure conta, di chi vince), non si può negare ci sia
uno schema all’opera. L’insieme di politiche economiche che hanno revocato, per
crescenti parti della popolazione, via via più deprivate di densità
relazionale, anche per la caduta verticale dei territori ‘periferici’ e suburbani,
quando non marginali, le condizioni della sicurezza esistenziale, sono state travestite
da modernizzazione e da progresso, prendendo in prestito l’epica della
liberazione. Specificamente hanno convertito gli obiettivi economici, che non
potevano più garantire a tanti, in emancipazione, riconoscimento delle ‘diversità’,
… Purché non ci fosse rivendicazione di ciò che non poteva essere più concesso:
l’eguaglianza economica[6]. Dunque si è affermata una
riduzione dell’eguaglianza al ‘merito’, e questo alla capacità di affrontare il
rischio (riverbero di una obsoleta, ma ancora forte, etica cavalleresca) e di
prevalere nella competizione. Un simile ideale è intrinsecamente per pochi,
classista, conduce il “nuovo spirito del capitalismo”[7] il quale, per chi può sentirlo e
sintonizzarsi (e sono necessarie condizioni specifiche di possibilità[8]), porta con sé una
inconfondibile aura di emancipazione, una sorta di eccitazione. Anche,
attenzione però, un senso di superiorità, una certa aureola. Significa,
infatti, essere capaci di lungimiranza, coraggio, libertà, autonomia, essere
cosmopoliti, benevoli, aperti al diverso, moralmente avanzati, forti. Tutto ciò
è indiscutibilmente, per chi lo condivide, ‘essere dalla buona parte’.
Combattere
una buona battaglia.
Tra
le condizioni di attivazione di questa condizione esistenziale c’è una densità
relazionale, in parte regalata proprio dall’ambiente di vita, ad esempio
urbano, in parte dalla fase della vita, ad esempio l’isola felice degli studi
universitari o del primo periodo di post-studio, protetto dallo scudo
familiare, e c’è, ovviamente, una disponibilità di risorse cospicua.
Questa
è la condizione che ha unito la parte trainante della coalizione sociale
neoliberale in questi anni. Una coalizione sociale che ha avuto le più
diverse traduzioni politiche, ovviamente. Ha trovato una quasi perfetta
espressione nel Partito Democratico, ma non meno densa nei partiti del centro-destra
berlusconiano. È stata espressa anche dalla Lega Nord, in tutti i venti anni
della sua esistenza. Tutte queste forze politiche hanno sostenuto con zelo l’allargamento
della competizione, l’apertura al rischio, l’indebolimento delle protezioni, l’abbandono
via via più accentuato dei margini.
Tutte
hanno indebolito i diritti dei lavoratori, abbandonato la politica della casa,
lasciato degradare la sanità pubblica, la scuola, disinvestito dai territori,
ricacciata come distorcente ogni politica industriale e della ricerca, svenduto
l’industria nazionale pubblica, lasciato tutto nelle mani del “mercato”.
Per
essere equi, probabilmente bisognerebbe riconoscere che rispetto a questa
analisi generale c’è un surplus di giustificato orgoglio identitario che ha contribuito
a muovere la piazza bolognese, davanti al rischio percepito che circa ottanta
anni di ininterrotta storia politica delle sinistre, socialiste e comuniste,
con un “modello” che fu ammirato nel mondo, possano terminare con la conquista
della regione da parte della destra del paese.
Ma
il movimento delle “Sardine” si sta estendendo in molte altre realtà, venendo
abbastanza evidentemente (e, sotto certi profili, ovviamente) cavalcato per
fini di lotta politica, con molteplici elezioni in arrivo e forse anche nazionali.
Dunque
un giudizio generale si deve azzardare: se la cosa che
fondamentalmente avviene è uno scontro “alto/basso” e “centro/periferia”, la
cui forma specifica è uno scontro di estetiche e visioni del mondo, questa mobilitazione
è troppo pre-politica per non rischiare di diventare parte del problema e non
della soluzione.
Il
nemico di questa fase è, infatti, una sorta di “Giano bifronte”,
difficile da riconoscere per tale. Una faccia è rappresentata dalla destra
liberale, per certi versi tradizionale, conservatrice sul piano dei costumi e
dei valori e liberista sul piano economico dell’alleanza tra la Lega di Salvini
e Fratelli d’Italia della Meloni. Una destra che si traveste da protettrice, ma
solo sul piano della difesa identitaria, mentre sistematicamente fa i soliti
interessi quando si tratta di ciò che conta[9].
L’altra
faccia del “Giano” è la sinistra “rosè” (che non si limita solo al PD), che è
progressista per i valori ma perfettamente liberale e liberista sul piano
economico. Una sinistra che si traveste da modernizzatrice e fautrice della
libertà, ma solo individuale e formale, mentre sistematicamente fa i soliti
interessi quando si tratta di ciò che conta.
Un
solo nemico, dunque.
[1] - Si veda Christophe Guilluy, “La
società non esiste. La fine della classe media occidentale”, 2018.
[2]
- E’ del tutto evidente che
chi dispone di beni capitali o di ricchezze liquide ha maggiore facilità di
accesso al capitale culturale, sociale e relazionale. Sarà meglio accetto nella
società ‘che conta’, godrà di innumerevoli privilegi, se non altro quello di
poter aspettare le migliori occasioni, di studiare a lungo, etc.
[3] - Si veda la storica analisi di
Ronald Inglehart, “La
società post-moderna”, ma anche, in una chiave più positiva quella di
Antony Giddens, “Identità
e società”.
[4] - Lo snodo centrale della letteratura che negli anni
novanta esplora la nuova forma sociale ed esistenziale della ‘cetomedizzazione’
della società dei consumi opulenti, estesa a relativa maggioranza della popolazione
(oltre il 50%), è la individualizzazione e la “cultura del rischio” (Beck,
Giddens, Inglehart, Bauman. Gli individui che hanno raggiunto un certo livello
di benessere e danno per acquisita la protezione, la sicurezza che attribuisce
lo ‘status’ di ceto ‘medio’, si sentono poste di fronte a molteplici scelte e
davanti a possibilità crescenti. Nella ‘condizione di incertezza’, quando
associata ad una sicurezza scontata, emergono plurimi processi di costruzione
di senso e “riflessivi”. Sarà allora proprio il “rischio”, con un classico
topos liberale, a fungere da attivatore dei percorsi di vita riflessivi ed
individuali. Per Giddens, in particolare La modernità contemporanea è dunque un
“processo di ritrovamento di se stessi” che vive nella tensione tra pulsione
all’autenticità e apertura al mondo determinata dai sistemi astratti che ci
circondano e definiscono. Chiaramente questo è fonte di ansia, tuttavia essa in
positivo è “stimolo per risposte utili per l’adattamento ed anche per prendere
delle nuove iniziative” (“Identità e società”, p.19). Dunque, in
sintesi, “la modernità è un ordine post-tradizionale in cui la domanda ‘come
vivrò’ deve ricevere una risposta attraverso le decisioni quotidiane
riguardanti come comportarsi, cosa indossare, cosa mangiare o altro”. Il
passaggio a quella “contemporanea” (p.24) si dà attraverso alcune
accentuazioni: un estremo dinamismo; la separazione di tempo e spazio e il
conseguente disancoraggio delle istituzioni sociali, lo sradicamento dai
contesti locali e la riarticolazione in ambiti spazio-temporali definiti da
segni simbolici (come il denaro) e sistemi esperti (conoscenza tecnica).
[5] - Si veda Jonathan Friedman “Politicamente
corretto”. Identifico con questo termine una
forma di categorizzazione e quindi di comunicazione caratterizzata dalla
‘logica associativa’ (se dici una cosa, allora devi essere in
quella data identità preclassificata), e che fa prevalere la ‘valenza
indessicale’ (cioè il contesto della comunicazione) sul contenuto semantico (il
significato)”. Rifiutandosi all’argomentazione l’effetto sociale, e di potere,
che si produce è che inquadrare un’affermazione come “politicamente corretta”
(o s-corretta) consente di neutralizzarla; essa non può più
essere localmente vera, perché è semplicemente troppo terribile. Al
contrario diventa vero ciò che è buono, e perché lo è.
Insomma, “il terribile e il meraviglioso sono autoevidenti”. Dunque si ha un
utilizzo politico della morale per controllare la comunicazione e
censurarla ab origine in tempi di incertezza. Il “politicamente
corretto” è coevo all’insorgere di una nuova élite transnazionale (ben
vista da autori chiave come Rorty, Lasch e Dahrendorf)
che cerca di neutralizzare l’opposizione
moralizzando l’universo sociale e dunque mobilitando, a fini di
controllo, la vergogna. La simmetria essenziale è con la politica
mondiale a taglia unica (il “Washington Consensus”) ed i suoi TINA e
passa per la riclassificazione del liberale come progressista e del socialista
come reazionario. Ciò che è progressista è l’olistico, il nomade/rizomatico, il
diffuso e l’orizzontale. Ciò che è reazionario è il moderno, razionale,
astratto, verticale. La ‘vecchia’ classe lavoratrice diventa, da soggetto
storico del progresso, ‘deplorabile’ e nazionalista, egoista e meschina. Mentre
il migrante, rifugiato, le minoranze colorate, le identità plurali, diventano i
nuovi eroi. Questa è una cultura fondata sul narcisismo (Lasch) che
egemonizza una forma di controllo basata sulla classificazione creando un
controllo operativo (“matriarcale”) basato sulla vergogna. Le varie
versioni del “politicamente corretto” sono l’ideologia funzionale allo stato
della tecnica e ad un modo di produzione che da lungo tempo ha dismesso i ferri
vecchi della triade Dio-Stato-Famiglia, inseguendo la forma ‘liquida’ della
merce e costruendo un ‘umano non sociale’ abbandonato a tutte quelle forme di
autoritarismo nascoste nell’apparenza di pienezza di diritti la cui piena
espressione è il mercato autoregolato.
[6]
- Che, ovviamente, nelle
condizioni del capitalismo ‘temperato’ o ‘disciplinato’ del dopoguerra erano sempre
tendenziali. Si veda, “Note
sul dibattito costituente: l’art 3 e l’eguaglianza sostanziale”.
[7] - Si veda, Luc Boltanski, Eve Chiappello,
“Il nuovo spirito del capitalismo”, 1999.
[8] - Tra le quali le più importanti
sono il reddito familiare, in particolare la dotazione di beni di capitale.
[9] - Si veda “Giochi
di specchi ed equivoci. Il caso della Lega”
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