Questo
piccolo libro di David Harvey raccoglie
estratti di “Space of capital: towards a critical geography” del 2001 e
contiene un efficace riepilogo di un modello interpretativo del capitalismo
unito ad un interessante tentativo di sistematica estensione di questo alle
determinanti spaziali. Lo sfondo principale nel quale il libro si colloca è una
riflessione sulle meccaniche e le conseguenze del passaggio dal “fordismo”
(ovvero catena di montaggio, organizzazione politica di massa e intervento
dello stato sociale) alla “accumulazione flessibile” (definita come insieme del
perseguimento di mercati di nicchia, del decentramento combinato con la
dispersione spaziale della produzione, del ritiro dello Stato-nazione da
politiche interventiste, insieme a deregolazione e privatizzazioni). Una transizione
alla quale è connessa, come sostiene nella prima parte del testo, quella alle
forme postmoderne di pensiero. Ovvero al culto dei frammenti, la perdita della
ricerca della verità, e via dicendo.
Questa
transizione riguarda l’ampliamento della normale tendenza del capitalismo all’accelerazione
e alla riduzione delle barriere spaziali, ovvero a quella che chiama “compressione
spazio-temporale” (telecomunicazioni, trasporto con i cargo, containerizzazione,
mercati finanziari, information technology, …). Il punto centrale dell’esposizione
è che questa accelerazione pone in particolare rilevanza le “rendite di
monopolio”[1],
ovvero quel valore che può essere estratto dal possesso di caratteristiche
distintive e speciali. Tutti quei flussi di reddito che possono essere ottenuti
grazie ad un controllo esclusivo su un oggetto negoziabile che, però, non sia
per qualche ragione replicabile (almeno facilmente). Oppure (effetto
indiretto), per le caratteristiche uniche di qualcosa che non viene
direttamente commercializzato (ad esempio, il paesaggio senese).
Inquadramento
dei temi e premessa
La
trattazione di David Harvey parte dai suoi studi urbani di quegli anni e mette
in relazione l’incipiente accelerazione della globalizzazione, sulla quale in
quegli anni si dibatteva insistentemente anche nelle scienze del territorio[2]. La sua argomentazione
parte dalla necessità interna alla compressione spazio-temporale ed al
superamento dei vincoli posti dallo spazio (luogo della particolarità e del potere)
da parte dell’appropriazione del tempo. Quindi alla dinamica tra concorrenza e
monopolio, tanto più stretta e intima di quanto si pensi normalmente (in particolare
per il trattamento ideologico che si fa dell’idealtipo della ‘concorrenza’ in
ambito liberale). La dialettica reale non è tra concorrenza e monopolio, ma tra
diverse scale spaziali dei secondi, da questa considerazione, articolata alla
scala opportuna e messa in relazione con due unità di analisi connesse come
vedremo, scaturisce una lettura delle dinamiche geopolitiche particolarmente
robusta e soprattutto internamente coerente.
Harvey
connette questo discorso con le dinamiche di sfruttamento delle caratteristiche
uniche dei diversi territori e con la “dialettica spazio-luogo” (vero must di
quegli anni), ma anche con una spiegazione della necessità di cicli di
investimento ripetuti per effetto della causalità circolare e cumulativa che si
tratta di attivare. Ma per comprenderlo allarga lo sguardo alla relazione tra
il “modo di produzione” capitalista e la sua costante e necessaria generazione
di eccedenze (di capitale e forza lavoro principalmente) e la necessità per
queste di trovare sbocchi in dislocazioni territoriali, in un modello di
crescita a spirale il cui effetto più importante è rendere più fluida la
circolazione del capitale (e quindi il tempo socialmente necessario per il suo
realizzo). Questa crescita è fortemente innestata sulle ‘macchine territoriali’
(che producono accumulazione per effetto della meccanica della rendita) e
genera una forte causalità cumulativa. Il rischio è che si arresti e si avvii
una spirale opposta di svalutazione di investimenti e forza lavoro (ma anche
umanità).
Questa
è la matrice delle contraddizioni sulla quale si concentra il geografo e sociologo
marxista americano (come noto allievo del filosofo e studioso urbano Henry
Lefebvre). La reazione normale del modo di produzione capitalista è di trovare
una “soluzione spaziale” esportando le eccedenze di capitale e forza lavoro.
Ma
qui si incontra un problema analitico proprio dentro, e profondamente, la
tradizione marxiana. Il modello analitico originario è
strutturalmente costruito intorno allo sfruttamento del tempo, ed è in seria
difficoltà ad inquadrare le caratteristiche ed i funzionamenti spaziali. Questa
linea di scontro si incontra continuamente, tra chi vede ovunque ripetersi
fondamentalmente la stessa dialettica in rapporto al tempo dello sfruttamento (quella
tra classi identificate in relazione alla loro relazione con il tempo, l’estrazione
del tempo di lavoro, la sua funzionalizzazione ed appropriazione), e chi
focalizza lo sfruttamento di luoghi verso altri. Si tratta dello scontro tra la
tradizione del “marxismo occidentale” ed “orientale” (secondo quanto proponeva
Losurdo) o tra Marx e Lenin. Lo scontro, dice Harvey, tra “due retoriche dello
sfruttamento”. Ci sono tante questioni che vengono evocate da questa frattura,
la questione dello Stato, della dialettica centro/periferia, dello ‘sviluppo
del sottosviluppo’, della geopolitica e dell’imperialismo.
A
questo punto nasce il tema di creare un’interpretazione dello sviluppo geografico,
e delle relazioni spaziali, connesse internamente con le dinamiche dell’accumulazione
ed a queste necessarie. Una teoria che possa spiegare anche il modo caratteristico
di espressione dell’imperialismo nella fase della globalizzazione a guida
anglosassone. Lo spostamento del focus analitico si sposta verso la dialettica
tra i territori, senza perdere la comprensione della connessione con la lotta
di classe entro questi.
La
tendenza ad “annientare lo spazio attraverso il tempo” acquista tutta un’altra
luce. Soprattutto se si comprende che lo spazio è sempre particolarità e che
serve organizzazione spaziale per superare lo spazio stesso. Può sembrare un
gioco di parole, ma è semplice ovvietà: qualunque processo di valorizzazione è
fatto di connessione, e la connessione ad un livello di maggiore efficienza richiede
sempre investimenti. La valorizzazione è dunque rapporto tra le
possibilità date dalla organizzazione dello spazio e le decisioni di
localizzazione, di spostamento. La continua tendenza alla riduzione del saggio
di profitto, determinata dalla cattura dei monopoli locali in una rete di
interdipendenze, che Harvey chiama “coerenza strutturata”, è quindi superata
dalla controtendenza ad attraversare e rompere gli “spazi regionali” (questa è
la coppia analitica strutturante). Questa è una tendenza interna del
capitalismo, e porta continuamente a cercare nuovi sbocchi alle eccedenze
(capitale e lavoro), determinando un’instabilità cronica.
Gli
“spazi regionali” sono luoghi nei quali persiste, con qualche stabilità, in modo
da consentire di esplicarsi alla rotazione socialmente necessaria del capitale
e quindi alla valorizzazione, una ‘coerenza strutturata’. Ma perché questo sia
possibile sono sempre anche luoghi di una ‘alleanza di classe’ con qualche stabilità,
normalmente organizzata attraverso le forme statuali. Questa lettura consente
di distinguere sistematicamente tra un ‘dentro’ ed un ‘fuori’. Le ‘alleanze di
classe regionali’ distribuiscono beni e privilegi, consolidano un potere,
attivano forme di solidarietà comunitaria, e competono. Come scrive, “i
processi globali di lotta di classe sembrano dissolversi sotto i nostri occhi
in una varietà di conflitti interterritoriali. Lenin aveva ragione”. Da quelle
più riuscite vengono proiettate eccedenze (di capitale, tecnologia, lavoro)
necessarie per conservare la stabilità interna ed evitarne la svalutazione (per
sovrapproduzione), e determinano dipendenze. La geopolitica del
capitalismo crea quindi costantemente economie subalterne, coerenze strutturate
incomplete (perché dipendenti) e “alleanze di classe” nelle quali quelle
superiori sono di fatto estese a livello inter-nazionale. Ovvero crea
imperialismo.
Competizione
e monopolio
Partiamo
dal fatto che c’è sempre una certa tensione potenziale tra il fatto che un bene
sia ‘unico’ ed il suo sfruttamento commerciale, come anche la sua replica da
parte del mercato. Inoltre, se è vero che la competizione tende sempre al
monopolio (essendo una lotta, e il monopolio il suo premio) allora bisogna aver
ben presente che la liberalizzazione tende sempre a rovesciarsi nel suo
contrario. Questo è un punto capitale, facilitare le comunicazioni e la “compressione
spazio-temporale” tende normalmente alla creazione di monopoli più grandi, di
tipo globale. Dunque la pura concorrenza ed il libero scambio sono strutturalmente
instabili, e questo avviene a tutti i livelli. Se si comprende il contesto spaziale
nel quale si realizzano i processi si vede che anche i piccoli esercizi
economici “competitivi”, in effetti, riescono ad essere redditivi grazie allo
sfruttamento di protezioni e privilegi, sono in effetti piccoli monopoli locali.
Protezioni e privilegi determinati dalla struttura dello spazio (ovvero dall’attrito
che questo comporta per chi non sia in una data posizione). Si può dire in modo
abbreviato in questo modo: solo il monopolio giustifica il profitto e quindi,
in condizioni capitaliste, l’esistenza di un’offerta. In condizioni realmente
competitive (che sono un idealtipo) il profitto scompare e quindi anche il
mercato stesso (riducendosi di fatto ad un processo di dono nel quale viene a
mancare la componente di costrizione necessaria alla estrazione di valore dallo
scambio).
È
allora che la tendenza, propria del capitalismo globale, “all’annientamento
dello spazio attraverso il tempo” si manifesta per la sua forza; la
condizione di abilitazione è la perdita delle protezioni e privilegi di
industrie e servizi locali determinata in primo luogo dallo spazio stesso. Un effetto
che si verifica quando queste, a causa di investimenti materiali ed immateriali
(come vedremo), sono costrette all’improvviso a competere con produttori di
altri luoghi, via via sempre più lontani (e dunque numerosi). Quindi, come
ricorda Harvey, che ricordo scrive nel 2000, “la recente intensificazione della
globalizzazione ha significativamente ridotto le protezioni monopolistiche date
storicamente dai costi elevati dei trasporti e delle comunicazioni, mentre l’eliminazione
degli ostacoli istituzionali al commercio (protezionismo) ha diminuito pure le
rendite di monopolio che con tali mezzi ci si può procurare. Ma il capitalismo
non può fare a meno dei poteri monopolistici e tenta di riassemblarli” (p.26).
La
risposta che si produce è quindi la centralizzazione del capitale in imprese
sempre più grandi per dominare mercati resi più fluidi. Un’altra è implicita
nell’arena dei “diritti di proprietà intellettuale” (attraverso i quali sono
rafforzati i poteri dei monopoli industriali, ovvero delle grandi aziende
multinazionali che possono permettersi le brevettazioni).
Bisogna
però notare che tutte le caratteristiche descrivibili credibilmente come “locali”,
e quindi rare o irriproducibili, sono esse stesse sfruttabili per creare e
proteggere rendite di monopolio e questo vale, in condizione di piena
mobilità anche, e tanto più, quando gli operatori sono internazionalizzati (si
pensi alle strategie di marketing territoriale e alla relativa attrazione di
capitale per investimenti diretti a mercati sovralocali). Si tratta della
cosiddetta “dialettica spazio-luogo” che è tipicamente influenzata dalle
coalizioni locali, spesso prodotte proprio per mettere in contatto una caratteristica
distintiva con un flusso di valorizzazione al fine di estrarre una rendita di
monopolio dal capitale fluttuante e dagli investimenti a lungo termine sull’ambiente
costruito[3]. Molto spesso tra questi
fattori, e tra gli stessi investimenti territoriali, si attivano dei processi
di causalità circolare e cumulativa (se investo in un centro congressi
avrò bisogno di alberghi, e questi di trasporti migliori, cosa che porterà ad
ampliare la capacità ricettiva, etc…). Le ‘macchine per la crescita urbana’
sono dunque una cosa di questo genere: orchestrazione dei processi di investimento
e fornitura di investimenti pubblici chiave, nel luogo e nel momento giusto, il
cui scopo è di avere successo nella competizione interurbana e interregionale. Si
valorizza qualche caratteristica, rendendola unica anche a mezzi di idonei investimenti,
al fine di attrarre i capitali mobili. Del resto questo, in senso generale, è
tipico dell’intera esperienza urbana e del suo ruolo nel processo di accumulazione
capitalista[4].
Ci
sono molti esempi famosi di simili strategie di crescita, in quegli anni quello
di Barcellona, Berlino, nei quali il capitale internazionale si è impegnato
alla valorizzazione di beni posizionali e distintivi (il particolare carattere di
alcune città, la loro storia unica, l’ambiente sociale, etc.), giocando sulla
loro autenticità e unicità, rischiando, però, di distruggerle (il centro
storico di Barcellona era certo alquanto pericoloso a chi lo visitasse negli
anni ottanta, ma dopo i duemila è diventato un poco, come dire, ‘plastificato’,
e certo non vi abitano più le stesse persone, dunque non c’è più lo stesso
ambiente sociale che ne costituiva, in ultima analisi, il valore).
Il
motore interno della crescita
La
comprensione di questi fenomeni richiede una rilettura abbastanza seria dello
schema analitico marxiano, situando il concetto tendenzialmente astratto ed
a-spaziale di “modo di produzione” in una specifica relazione con le
caratteristiche spaziali che determinano gli effetti monopolistici e temporali,
i quali sovraintendono al processo di circolazione (realizzazione). L’elemento
da tenere presente nel modo di produzione capitalista è, infatti, la sua
tendenza alla continua creazione di eccedenze di capitale e di forza lavoro,
che sono generate ordinariamente e senza le quali non sopravvive (in quanto
cessa l’accumulazione di profitti)[5].
Infatti
il processo di circolazione deve avvenire entro un dato tempo, in modo da
riavviare la valorizzazione, ed è sensibile alle differenze spaziali. Le eccedenze
che si provocano costantemente, e che minacciano di rendere impossibile la
realizzazione e quindi aprire alla crisi (per quanto su questo meccanismo si
possa scendere in dettagli molto diversi secondo il lato dal quale si guarda),
possono trovare sbocco in dislocazioni spaziali e temporali[6]
che, a volte, comportano una quota di investimenti in capitale fisso
(macchinari, impianti e infrastrutture, beni di consumo durevoli come le case,
infrastrutture sociali …) e, nel migliore dei casi, contribuiscono ad accelerare
la fluidità e valore di altri sezioni del capitale. Si innesca così una crescita
“a spirale”, fortemente soggetta a causalità cumulativa. Se, però, la spirale
si arresta si produce una crisi che trova normalmente la forma della svalutazione
degli investimenti dati (le macchine si arrugginiscono inerti, gli impianti
fisici restano inutilizzati, i quartieri degradano con le loro infrastrutture,
tutto scende di valore drasticamente). Nel processo, insomma, si generano eccedenze
che normalmente non possono essere riconvertite direttamente se non con grandi
investimenti, ed a volte a nessun prezzo[7].
Esiste
una “soluzione spaziale” a queste contraddizioni? Le
eccedenze di forza lavoro e quelle di capitale possono essere esportate? Nel
particolare scontro che oppone attori a diversa mobilità, le multinazionali, e
tutti gli attori globali, traggono la propria forza. È la “capacità di spostare
rapidamente capitale e tecnologia da un posto all’altro, di sfruttare risorse
diverse, mercati del lavoro, del consumo e opportunità di profitto,
organizzando la propria divisione territoriale del lavoro, trae gran parte del
suo potere dal comando spaziale e dall’utilizzo di differenziali geografici in
modi non consentiti all’impresa familiare” (p.67).
La
frattura nella tradizione marxiana
Inoltre
è qui che si manifestano quelli che David Harvey chiama “gli scismi e le ferite”
all’interno della stessa tradizione marxista. Marx, infatti, ha abbozzato nel
suo lavoro una teoria della storia capitalistica fondata sulla rappresentazione
dello sfruttamento di una classe sull’altra. Questa teoria sale ad un
livello di astrazione sensibile al tempo (il meccanismo della valorizzazione e
della circolazione), ma molto più in difficoltà con lo spazio (che tende, come
la scienza newtoniana, a considerare liscio e uniforme). Lenin sviluppa, grazie
al confronto con problemi del tutto diversi, una tradizione che chiama “differente”.
Egli assume “la centralità dello sfruttamento delle persone in un luogo da
parte di quelle che sono in un altro (la periferia da parte del centro, il
Terzo Mondo da parte del primo)”.
Il
punto è che “le due retoriche dello sfruttamento coesistono in modo non
facile e la loro relazione resta oscura”.
Certo
Marx ammette in più luoghi cose come l’opposizione città/campagna, la divisione
territoriale del lavoro, la concentrazione delle forze produttive, i differenziali
geografici e quindi l’importanza delle connessioni; inoltre quando si è
confrontato con la questione irlandese ha inquadrato la questione della rilevanza
per il processo di valorizzazione delle differenze regionali e culturali. Ma tutto
ciò, pur importante, non è secondo Harvey integrato nella teoria al livello
necessario. Come dice “la variazione geografica è esclusa come una sorta di ‘complicazione
non necessaria’. In conclusione, la sua visione politica e la sua teoria
sono minate dalla sua incapacità di costruire una dimensione geografica e
spaziale sistematica e distintiva” (probabilmente a causa della relazione
profonda tra l’astrazione e il concetto di lavoro ‘scientifico’ che lo
contraddistingue).
Lenin
sembra colmare questo vuoto specifico. Le dimensioni geografiche e spaziali
sono messe in relazione con lo sviluppo capitalistico in modo molto più
profondo e strutturale[8], spostando l’attenzione
sull’importanza dello Stato e dei relativi conflitti geopolitici (determinati
dalla tendenza alla concentrazione monopolistica e alla gestione delle
eccedenze).
Verso
una teoria generale dello sviluppo geografico
A
questo punto il compito che resta è descritto in questo modo da Harvey:
“il
nostro compito è di costruire una teoria generale delle relazioni spaziali e
dello sviluppo geografico nel capitalismo che possa, tra l’altro, spiegare il
significato e l’evoluzione delle funzioni statali (a livello locale, regionale,
nazionale e sovranazionali), lo sviluppo geografico diseguale, le
disuguaglianze interregionali, l’imperialismo, il progresso e le forme di urbanizzazione,
e così via. Solo in questo modo possiamo comprendere come vengano plasmate e
rimodellate le configurazioni territoriali e le alleanze di classe, come i
territori perdano o guadagnino in potere economico, politico e militare, quali
siano i limiti esterni all’autonomia interna dello Stato (compresa la transizione
al socialismo), e come il potere statale, una volta costituito, possa diventare
esso stesso una barriera alla libera accumulazione del capitale, oppure un
centro strategico in cui condurre le lotte di classe o i conflitti
interimperialistici”.
Ne
segue che “la geografia storica del capitalismo dev’essere l’oggetto della
nostra teorizzazione, il materialismo storico-geografico il metodo di indagine”.
Per
cominciare bisogna comprendere che l’enorme differenziazione geografica presente
nel mondo, effetto di secoli di azione umana e di differenziazioni sia
culturali sia socio-strutturali, può essere influenzata ma non completamente
schiacciata dalla, pur enorme, forza omogeneizzante della circolazione del
capitale. E quindi dalla capacità di estrarre come valore, codificare e
tradurre in bene di scambio, rendere liquido; come dice Saskia Sassen, di “estrarre
dei beni in qualche parte del mondo per inviarli altrove” (sotto forma
finanziaria)[9].
Ci
sono alcune specificità dello spazio che vanno tenute in conto, detto in modo
abbreviato, “lo spazio geografico è sempre il regno del concreto e del
particolare”. Dunque il problema si pone in questi termini: “è possibile
costruire una teoria del concreto e del particolare nel contesto delle
determinazioni universali e astratte nel contesto delle determinazioni
universali e astratta della teoria dell’accumulazione capitalistica di Marx?
Questa è la questione fondamentale da risolvere”.
Quando
si fissa l’attenzione sul tempo, diviene centrale controllare il tempo del
pluslavoro e la sua conversione in profitto rispettando un tempo di rotazione
socialmente necessario, lo spazio è in questo contesto un inconveniente
seccante, da superare. In questo senso specifico la valorizzazione capitalista consiste
nell’annientare lo spazio attraverso il tempo.
Ma,
obietta Harvey, tutte queste cose si ottengono solo se prima vengono prodotte
configurazioni spaziali idonee. Serve infatti sempre organizzazione spaziale
per superare lo spazio. Diventa allora cruciale il rapporto tra le
possibilità date dall’organizzazione dello spazio (ad es. dalle infrastrutture
di comunicazione e trasporto) e le decisioni di localizzazione, ovvero di
spostamento. Molto spesso infatti la tendenza alla caduta del saggio di
profitto viene contrastata dalla liberazione della produzione dalla dipendenza
che si era creata nel tempo dalla localizzazione di alcune competenze lavorative,
o di materie prime, di forniture di prodotti intermedi, energia, etc. Ovvero modificando,
guadagnando margini di libertà, la “coerenza strutturata” tra produzione
e consumo entro un dato ambito spaziale. Chiamando con tale formula le forme di
produzione, le tecnologie, le quantità e qualità dei consumi, i modelli di
lavoro, e le infrastrutture. Una definizione di questo insieme è “quello spazio
in cui il capitale può circolare senza i limiti del profitto nel tempo di
rotazione socialmente necessario, ecceduto dal costo e dal tempo di movimento”
(p.73). Quindi nel quale è presente un mercato del lavoro coerente, che in
genere è garantito da uno Stato.
Ecco
comparire la proposta di unità di analisi di David Harvey, leggiamo
attentamente:
“Vi sono quindi in atto processi che
definiscono spazi regionali al cui interno produzione e consumo, domanda
e offerta (di materie prime e forza lavoro), produzione e realizzazione, lotta
di classe e accumulazione, cultura e stile di vita, si fondono in una sorta di
coerenza strutturata dentro una totalità di forze produttive e rapporti sociali”.
Questa
coerenza è centrale, ma ci sono processi che la minano. In primo luogo è lo
stesso capitalismo, nel momento in cui tende costantemente all’accumulazione ed
espansione, per se stesse. Esso, infatti, crea continuamente e
continuamente deve assorbire di nuovo, pena la svalutazione, eccedenze di capitale
e forza lavoro. Crea, quindi, in ogni regione dotata di ‘coerenza strutturata’,
e per questo funzionante sotto il punto di vista capitalistico, delle pressioni
che si trascinano all’esterno (esportazione di capitali, previa esistenza delle
opportune infrastrutture) o verso l’interno (l’immigrazione).
La
seconda dinamica da considerare è che ogni regione tende a specializzarsi tanto
più quanto più si collega, coerentemente con il suo stato di evoluzione
tecnologica.
Tutto
questo genera una instabilità cronica. Ma costringe anche a
prendere atto che “le contraddizioni interne del capitalismo si esprimono attraverso
l’inquieta formazione e ri-formazione di paesaggi geografici”, in una continua
tensione tra fissità e mutamento.
Gli
“spazi regionali” e le loro alleanza di classe
Quindi
la ‘coerenza strutturata’, che determina lo ‘spazio regionale’, si fonda sulle
decisioni degli agenti economici (individui, organizzazioni e istituzioni) circa
la circolazione del proprio capitale o l’impiego della propria forza lavoro,
restando entro la tensione tra la spinta a spostarsi verso luoghi con tasso di
remunerazione del fattore più alto, o il mantenimento della posizione. Questa tensione
si esprime in alleanze di classe regionali, normalmente organizzate attraverso
lo Stato, e che distribuiscono variamente tra le frazioni opposte che le
compongono (ad esempio il capitale ed il lavoro), beni e privilegi. Questo è il
processo attraverso il quale si consolida un potere in uno spazio dato che al
suo interno cerca di attivare un certo grado di solidarietà comunitaria, ma all’esterno
compete con altri. La conseguenza è che “i processi globali di lotta di classe
sembrano dissolversi sotto i nostri occhi in una varietà di conflitti interterritoriali.
Lenin aveva ragione”.
Quel
che avviene è che dalle più riuscite regioni dotate di ‘coerenza strutturata’
vengono proiettati flussi di capitale in eccesso, per il quale non sussistono
le condizioni per un investimento interno (ad esempio perché surriscalderebbe
il mercato del lavoro, indebolendo la posizione contrattuale dei detentori dei
capitali e quindi contribuendo al calo del tasso di profitto). Ma se una data alleanza
regionale, che vuole mantenere la sua coerenza, può anche prevenire la
sovraccumulazione dei fattori e quindi la loro svalutazione, esportandoli, sul
lungo periodo questo processo quando ha successo crea sempre più capitale
locale. E questo capitale creato tende a fare concorrenza alla regione di
partenza (alcuni esempi storici a scala mondiale sono gli Stati Uniti che
crescono all’ombra della potenza inglese, attraendo i capitali e le persone in
eccesso e finiscono per fare concorrenza e vincerla, oppure la Germania verso
le potenze industriali consolidate, ovvero ancora Inghilterra e Usa).
La
soluzione è lo sviluppo dipendente, che crea economie
subalterne, alle quali la prospettiva della concorrenza è esclusa per via
politica. Di qui l’analisi delle lotte imperiali che fu propria anche di Lenin[10].
Dunque,
“di fronte agli inesorabili processi di formazione delle crisi, la ricerca di
una soluzione spaziale converte la minaccia di svalutazione in una lotta tra
alleanze regionali instabili su chi deve sopportare il peso della crisi”. Ancora,
un esempio storico è la lotta competitiva aperta negli anni sessanta tra l’egemone
Usa, sfidato in Vietnam e logorato dal doppio deficit, e i paesi ex sconfitti,
ormai industrializzati, per chi, appunto, dovesse sopportare il peso della
sovrapproduzione, traducendolo in svalutazione[11].
Questa
è la geopolitica del capitalismo.
Se
si fa astrazione dalla dimensione spaziale il vantaggio è che ci si muove sul
piano della teoria della sovraccumulazione-svalutazione, ovvero della crisi, sulla
base di una purezza concettuale che permette, per così dire, di coglierla in
vitro. Ma se si presta attenzione alla conversione di questi processi in lotte
economiche, politiche e militari, capaci di funzionare come controtendenza,
allora compare la questione dell’imperialismo.
È
infatti la ricerca di ‘soluzioni spaziali’ a problemi generati dal ‘tempo’, ad
avviare il circolo vizioso della competizione sulla scala globale, e rischiare
la violenza.
L’accumulazione
del capitale è, in questo senso, una questione geografica,
“senza le possibilità connesse all’espansione geografica, alla riorganizzazione
spaziale e allo sviluppo geografico diseguale, il capitalismo avrebbe smesso da
tempo di funzionare come sistema economico politico” (p.100).
Come
detto, il diverso livello di sviluppo, maturità e coesione, e quindi di
eccedenze, induce ad una lotta costante per sottomettere lo spazio e quindi
determinare dipendenze. Questa necessità interna di equilibrio (dei rapporti
sociali di potere) crea quindi, sul piano della geopolitica, costantemente
economie subalterne, forza le coerenze strutturate di queste ad essere “incomplete”
(ed a completarsi solo con il contributo delle eccedenze importate) e le
relative “alleanze di classe” ad essere estese alla scala sovranazionale. Nel
senso decisivo che queste coinvolgono in posizione di super-élite anche la
parte esteroflessa delle élite ‘centrali’.
Questa
è la forma contemporanea dell’imperialismo.
[1] - Per la questione della rendita,
applicata al territorio, che come vedremo è il tema centrale della riflessione
di Harvey, si veda “Qualche
nota sulla rendita urbana e il consumo di suolo”. Mill chiamava la rendita “diventare
ricco nel sonno” (1848), qualcosa che “proviene dai frutti delle fatiche altrui,
che non ricevono”. In altre parole, l’estrazione di rendita è effetto di un mutamento
nella distribuzione della capacità di sostentamento socialmente istituita ed è
un effetto del sistema generale di distribuzione del valore. Quando interviene
la leva della finanza, in particolare, si tratta di giovarsi di una sorta di
automoltiplicazione ricorsiva che sembra generale dal nulla valore,
innestandosi in un feedback tra la disponibilità di risorse mobili (le
decisioni di allocazione di queste di attori economici attivi), l’attesa di una
valorizzazione futura, e l’attivazione di credito.
[2] - Per un misero esempio lo
scrivente nel 1997 ha discusso una tesi di dottorato in Pianificazione
Territoriale ed Urbana che aveva esattamente questo oggetto, se pur letto sotto
un profilo indiretto della ridefinizione delle modalità di regolazione e della
formazione di queste.
[4] - Si veda David Harvey, “L’esperienza
urbana”, 1989.
[5] - Per un riepilogo generale si
veda Paul Sweezy, “La
teoria dello sviluppo capitalistico”, 1944.
[6] - La “dislocazione temporale” è
quella creata dagli strumenti “derivati” della finanza strutturata, che si
manifestano come scommesse sul futuro, anticipazioni di valore, etc.
[7] - Uno stabilimento siderurgico
potrebbe essere nel ‘posto sbagliato’, contribuendo con la sua presenza a svalorizzare
il suo intorno, ma la sua demolizione potrebbe essere di grande complessità
economica e sociale, le forze lavoro impiegate possono essere difficili da riconvertire
o da riassorbire, molte competenze lungamente acquisite e tradizioni possono
andare perse per sempre, insieme alla sua unicità che ne costituiva il valore.
[8] - Si veda Lenin “L’imperialismo
fase suprema del capitalismo”, 1916.
[9] - Saskia Sassen, “Espulsioni”,
2014.
[10] - Ovviamente si veda il libro del
1916, op.cit.
[11] - Per un’analisi della crisi degli
anni sessanta (alla metà), si veda Andre Gunder Frank, “Riflessioni
sulla nuova crisi economica mondiale”, 1974, Leo Huberman, Paul Sweezy, “La
controrivoluzione mondiale”, 1968, Leo Huberman, Paul Sweezy, “Teoria
della politica estera americana”, 1962.
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