Vladimir
Ilic Lenin, “L’imperialismo fase suprema del capitalismo”
Il
libro
di Lenin fu scritto tra la fine del 1915 e l’inizio del 1916 e pubblicato nel
1917. Siamo esattamente sull’orlo degli eventi che cambieranno il mondo. Da
Berna, dove Lenin era in esilio in quell’anno straordinario assistette alla
prima rivoluzione di febbraio[1], seguita il 7 novembre
dalla rivoluzione di ottobre[2], che rovesciò il governo
Kerenski.
Siamo
dunque un anno prima di questi eventi.
Ma,
come detto si era al secondo anno di una guerra terribile[3] seguita ad anni di scontri
economici, commerciali, finanziari e coloniali tra le grandi potenze europee.
Lo scopo del libro è quindi di mettere ordine alle idee circa la sostanza
economica dell’imperialismo, causa ultima della guerra in corso. Inoltre di combattere
la battaglia ideologica con la componente riformista della socialdemocrazia
europea (e russa), rappresentata dalle posizioni di Kautsky e di Martov, ma
anche, in parte dello stesso Hilferding.
Le
due fonti sono Hilferdinfg[4] e Hobson[5], ma rispetto a questi
Lenin ritiene con più coerenza del primo, che è marxista, che il fenomeno
dipenda dal funzionamento essenziale del meccanismo di accumulazione. E che non
dipenda da qualcosa di esterno a questo (come nella ipotesi coeva della Rosa
Luxemburg[6]). Il meccanismo cui risale
la spiegazione è la semplice tendenza del capitale all’autovalorizzazione
unitamente al suo carattere plurale, e quindi ineguale. Oltre a questo semplice
modello, ma potente, viene sottolineato che la tendenza all’autovalorizzazione
ed alla concentrazione[7] porta al monopolio e
questo alla fusione del capitale finanziario con quello industriale. È questa
fusione quella dalla quale scaturisce l’immane livello della competizione
intercapitalista e quindi l’imperialismo. Alla fine si ha la guerra.
Nella
prefazione del 1920, a guerra civile in corso, dopo i drammatici eventi del ‘17
e del ’18, il “terrore rosso”, l’intervento delle potenze occidentali in Russia
ma ormai in via di sconfitta finale, Lenin scrive una prefazione nella quale
denuncia con dure parole il pugno di paesi “progrediti”, in realtà predoni che
si spartiscono il bottino del mondo intero. Come chiarisce nel testo si tratta
di “un pugno di stati particolarmente ricchi e potenti che saccheggiano tutto
il mondo mediante il semplice ‘taglio delle cedole’. [paesi che] da questo
gigantesco sovraprofitto – così chiamato perché si realizza all’infuori e al di
sopra del profitto che i capitalisti estorcono agli operai del ‘proprio’ paese-
c’è da trarre quanto basta per corrompere i capi operai e lo strato superiore
dell’aristocrazia operaia” (p.43).
L’argomentazione
procede ripercorrendo l’analisi del capitalismo monopolistico e finanziario di
Hilferding, la denuncia dell’imperialismo di Hobson e contrastando punto a
punto le teorie di Kautsky. Essa prende l’avvio dall’analisi della
concentrazione della produzione e dalla formazione dei monopoli, che sono ormai
“uno dei tratti più caratteristici del capitalismo”, di fatto, compulsando le
statistiche all’epoca disponibile, si può dimostrare che alcune decine di
migliaia di grandi aziende sono ormai tutto, mentre milioni di piccole sono
nulla (parafrasando il famoso incipit dell’abate Sieyes[8]). Il punto è che si tratta
di un effetto dell’automovimento del capitalismo che, ad un certo punto della
sua evoluzione, grazie alla continua concentrazione dei capitali stessi,
“porta, per così dire, automaticamente alla soglia del monopolio”. Per Lenin,
dunque, la “libera concorrenza” lungi dall’essere uno stato naturale è
semplicemente uno stato immaturo ed incompleto del capitalismo. Ma, seguendo in
questo uno schema classicamente marxiano, è pur vero che quando la concorrenza
si trasforma in monopolio allora ne risulta un “immenso processo di
socializzazione della produzione”, si socializzano, in particolare, miglioramenti
e invenzioni tecniche. Ciò, nel portare alla “più universale socializzazione”
della produzione “trascina, per così dire, i capitalisti, a dispetto della loro
coscienza, in un nuovo ordinamento sociale, che segue il passaggio dalla
libertà di concorrenza completa alla socializzazione completa. Viene
socializzata la produzione, ma l’appropriazione dei prodotti resta privata”
(p.58).
Qui
bisogna allargare lo sguardo. Quel che sta
immaginando Lenin nel 1916 è quel che farà nel 1918: i monopoli concentrano
proprietà e mezzi di produzione, generano gigantesche concentrazioni di tecnica
e di uomini, semplificano il quadro sociale eliminando l’enorme anarchia di un
capitalismo nascente nel quale le imprese avevano per lo più poche decine di
addetti. L’ordine sociale è quindi pronto in un senso molto pratico per essere
trascritto in una proprietà collettiva con un semplice e breve passo.
Ma
fino a che l’appropriazione dei prodotti resta privata, e la finanza come dirà
determina i suoi effetti di dominazione, al contrario, il monopolio accresce ed
intensifica il caos. E soprattutto orienta la grande macchina del capitalismo,
stato per stato, nella direzione dell’imperialismo. O meglio, degli opposti
imperialismi.
Svolge
un ruolo essenziale in questo meccanismo il sistema finanziario che, man
mano che si creano monopoli industriali passa dalla funzione di intermediario a
quello di monopolista a sua volta. Ma monopolista del denaro, quindi in
effetti dominante su tutto il sistema. Si tratta di uno dei processi
fondamentali della trasformazione del capitalismo in imperialismo capitalista.
Gli esempi che fa sono molti e riferiti ai più grandi gruppi finanziari
dell’epoca, francesi, inglesi e tedeschi (per quest’ultimo la Deutsche Bank).
Gruppi perché, grazie alla moltiplicazione di potenza e controllo determinata
dall’innovazione, allora relativamente recente, delle società per azioni è
possibile con poco capitale controllare interi grappoli di aziende a scalare.
In
questo modo, e per via dei prestiti per investimenti, si genera un intimo nesso
tra grandi banche monopoliste e grandi gruppi industriali monopolisti. Un
monopolio al quadrato che sovraintende alla nascita del nuovo capitalismo.
Questo è l’elemento essenziale del capitale finanziario, la capacità di trarre
redditi giganteschi “da ogni fondazione di società, dall’emissione delle
azioni, dai prestiti statali, ecc. e consolida l’egemonia delle oligarchie
finanziarie, imponendo a tutta la società un tributo a favore dei detentori del
monopolio” (p.88).
Dunque
l’imperialismo, che è l’egemonia del capitale finanziario, è solo lo stadio
supremo del capitalismo, nel quale le separazioni che il capitalismo compie
normalmente[9]
raggiungono dimensioni enormi. La conseguenza è che “la prevalenza del capitale
finanziario su tutte le rimanenti forme del capitale imposta una posizione
dominante del rentier e dell’oligarchia finanziaria, e la selezione di pochi
Stati finanziariamente più ‘forti’ degli altri”.
Un’ulteriore
ed importante conseguenza è che se per il vecchio capitalismo concorrenziale
il risultato caratteristico era la esportazione di merci, per questo lo è del
capitale direttamente. Attraverso l’esportazione del capitale (ad esempio
aprendo linee di credito, prestando capitali agli stati sottomessi e coloniali)
estende il suo dominio industriale e finanziario. Imponendo, ad esempio, non
solo lo stacco di ‘cedole’, ma anche la fornitura delle proprie industrie[10]. È per questo che nel
capitalismo sono inevitabili la disuguaglianza e la discontinuità di sviluppo e
che “il capitalismo finanziario stende letteralmente i suoi tentacoli in tutti
i paesi del mondo” (p.103).
Seguendo
questo processo il capitalismo ha, da tempo, creato il mercato mondiale.
man mano che crescono le esportazioni di capitale, si allargano infatti anche
le relazioni estere e si sviluppano le relazioni coloniali. Si allargano le
‘sfere di influenza’ delle grandi associazioni monopoliste finanziario-industriali
e su procede verso cartelli mondiali. Ad esempio, nell’industria
elettrica, in quella del petrolio, in quella ferroviaria (i driver della
seconda rivoluzione industriale che è lo sfondo di quegli eventi).
Naturalmente, e questo è importante considerarlo, “i capitalisti si spartiscono
il mondo non per la loro speciale malvagità, bensì perché il grado raggiunto
dalla concentrazione li costringe a battere questa via, se vogliono ottenere
dei profitti”.
Come
giustamente ricorda, in un commento[11] alla versione di questo
articolo pubblicata su “Sinistrainrete”[12], Eros Barone, la
conseguenza di questa rappresentazione dei fatti è che il mondo è strutturato
dallo “sviluppo ineguale” e dalla continuamente modificata gerarchia dei capitali,
organizzati in blocchi di potere nazionali. Alla tradizione opposizione
capitale-lavoro, scolpita nella analisi di Marx, si affianca una nuova enfasi a
quella tra capitali e questi organizzati geograficamente. L’irruzione della
variabile spaziale nello schema ideale marxiano, particolarmente concentrato su
quella temporale, determina uno schema interpretativo di tipo tridimensionale
di grande complessità. Uno schema che sarà lungamente esplorato dalla “scuola
della dipendenza” a partire dal lavoro su questo tema di Paul Baran[13].
D’altra
parte, l’idea che l’estensione dei cartelli internazionali (oggi si è detto
“della globalizzazione”) porterebbe in sé la speranza della pace perpetua,
all’epoca formulata anche da Kautsky con la strana formula dell’ultra-
imperialismo, è a questo punto direttamente attaccata da Lenin come
“sofisma”[14].
E’ del tutto evidente che la spartizione del mondo tra cartelli, ed anche i
loro episodici accordi (magari a danno di terzi, come ad esempio della Cina),
sono solo provvisori, governati da equilibri di forza sempre instabili,
costantemente revocati, a rischio di rottura.
La
definizione più concisa di imperialismo è dunque “lo stadio monopolistico del
capitalismo”. I suoi cinque principali caratteri sono:
1- La
concentrazione della produzione e del capitale che crea i monopoli,
2- La
fusione del capitale bancario con quello industriale,
3- L’importanza
della esportazione del capitale,
4- Il
sorgere di associazioni monopolistiche internazionali che si ripartiscono il
mondo,
5- La
compiuta ripartizione della terra tra le più grandi potenze capitalistiche.
La
ripartizione, però, comporta sempre lotta, in ogni luogo. Se non altro per
indebolire i capisaldi dell’egemonia avversaria, ed è una lotta nella quale,
come sottolinea anche Hobson, prevalgono gli interessi finanziari su quelli
industriali (e sono comunque interconnessi). Questa aspra lotta, come quella
tra Giappone e Stati Uniti per la spartizione delle influenze sulla Cina,
ricorda Lenin, rende ancora più ridicola la “stupida favola” del pacifico “ultra-imperialismo”,
tentativo reazionario di piccoli borghesi impauriti (nella fattispecie Kautsky)
di sfuggire ad una “tempestosa realtà”. Il mondo è spartito e nuovamente
ripartito costantemente, di fase in fase, ma sempre in maniera niente affatto
pacifica. Contrariamente all’ipotesi data “il capitale finanziario e i trust
acuiscono, non attenuano, le differenze nella rapidità di sviluppo dei diversi
elementi dell’economia mondiale” (p.136). Ed i contrasti, che sempre compaiono
al mutare dei rapporti di forza, solo con la forza si possono appianare.
Inoltre,
poiché la base economica più profonda dell’imperialismo è il monopolio, ovvero
è la distruzione della concorrenza, questo, tramite il controllo dei prezzi e
la sospensione degli effetti concorrenziali di domanda ed offerta, di fatto paralizza
anche il progresso tecnico e induce la tendenza alla stagnazione e putrefazione[15].
Ma
c’è un altro effetto rilevante: la crescita dei monopoli e l’estensione a
monopoli finanziari il cui prodotto di esportazione sono i capitali, determina
la crescita relativa, nelle società capitaliste avanzate, della classe che dai
profitti di ritorno di questi capitali vivono, i rentier. Se
l’imperialismo è crescita del capitale liquido in pochi paesi in questi
cresceranno coloro che vivono del taglio delle ‘cedole’, che “non partecipano
ad alcuna impresa ed hanno per professione l’ozio”. Chiaramente “l’esportazione
di capitale, uno degli essenziali fondamenti economici dell’imperialismo,
identifica questo completo distacco del ceto dei rentiers dalla produzione e dà
un’impronta di parassitismo a tutto il paese, che vive dello sfruttamento del
lavoro di pochi paesi e colonie d’oltre oceano”. Ad esempio in quegli anni nel
paese più esposto a questa dinamica, l’Inghilterra, i profitti dei rentiers
superano di cinque volte quelli del commercio estero, in sostanza l’intera
nazione vive parassitariamente sul resto del mondo, e “il mondo si divide in un
piccolo gruppo di stati usurai e in una immensa massa di stati debitori”.
L’esito
di questo fenomeno, riprendendo Hobson, sarebbe che:
“la
più parte dell’Europa occidentale potrebbe allora assumere l’aspetto e il
carattere ora posseduti soltanto da alcuni luoghi, cioè l’Inghilterra
meridionale, la Riviera e le località dell’Italia e della Svizzera visitate dai
turisti e abitate da gente ricca. Si avrebbe un piccolo gruppo di ricchi
aristocratici, traenti le loro rendite e i loro dividendi dal lontano Oriente;
accanto, un gruppo alquanto più numeroso di impiegati e di commercianti e un
gruppo ancora maggiore di domestici, lavoratori nei trasporti e operai occupati
nel processo finale della lavorazione dei prodotti più avariabili. Allora
scomparirebbero i più importanti rami dell’industria, e gli alimenti e i
prodotti base affluirebbero come tributo dall’Asia o dall’Africa … ecco quale
possibilità sarebbe offerta da una più vasta lega delle potenze occidentali, da
una Federazione europea delle grandi potenze. Essa non solo non spingerebbe
innanzi l’opera della civiltà mondiale, ma potrebbe rappresentare il gravissimo
pericolo di un parassitismo occidentale, quello di permettere l’esistenza di un
gruppo di nazioni industriali più progredite, le cui classi elevate
riceverebbero, dall’Asia e dall’Africa, enormi tributi e, mediante questi, si
procurerebbero grandi masse di impiegati e di servitori addomesticati che non
sarebbero occupati nella produzione in grande di derrate agricole o di articoli
industriali, ma nel servizio personale o in lavori industriali di secondo
ordine sotto il controllo della nuova aristocrazia finanziaria”.
Come
commenta Lenin, “Hobson ha perfettamente ragione. Se le potenze
dell’imperialismo non incontrassero resistenza, esse giungerebbero direttamente
a quel risultato. Qui è posto nel suo vero valore il significato di ‘Stati
Uniti d’Europa’ nella odierna congiuntura imperialista”. Tra l’altro questa
spartizione delle colonie conduce con sé “la possibilità economica di
corrompere gli strati superiori del proletariato”.
C’è
ancora altro. Dove questo avviene si determinano anche la riduzione delle
emigrazioni dai paesi ‘centrali’ (ovvero imperialisti, al vertice della catena
del controllo) e “l’aumento dell’immigrazione in essi di individui provenienti
da paesi più arretrati, con salari inferiori” (p.146). Cioè, “l’imperialismo
tende a costituire tra i lavoratori categorie privilegiate e a staccarle dalla
grande massa dei proletari”, mentre gli immigrati si collocano sempre ai
gradini più bassi[16]. Questa tendenza
all’imborghesimento era stata rilevata anche da Engels, ad esempio in una
lettera del 1858, o nella lettera a Kautsky del 1882, o nella prefazione del
1892 alla “Situazione della classe operaia in Inghilterra”[17]. Tutti esempi portati da
Lenin.
Questa
situazione non si può risolvere contrapponendole quel che lo stesso capitalismo
monopolistico è giunto a superare perché meno efficiente nei suoi termini,
ovvero la libera concorrenza, ma solo passando al socialismo. Qualsiasi altra
ipotesi è non senso o mera consolazione, come quella dell’ultra-imperialismo[18]. Ciò che si ha sono solo
pause tra una guerra e l’altra e nel frattempo una costante pressione ed
inasprimento della oppressione nazionale (ovviamente della gran parte del mondo
a favore di un pugno di nazioni vincitrici).
Il
capitale monopolistico, insomma, esercitando i suoi quattro monopoli[19] accentua gli antagonismi
che sono di fatto la più potente forza motrice del periodo di transizione.
L’insieme
è un capitalismo in transizione, o “morente”. Un bubbone che dovrà essere
eliminato, e che lo sarà.
Pochi
mesi dopo questa conclusione ci proverà.
[1] - Mentre la Russia era stremata
per la guerra che procedeva ormai al suo terzo anno, la guarnigione di
Pietrogrado tra il 23 ed il 27 febbraio si sollevò (per il nostro calendario da
8 al 12 marzo) e lo zar si dimise. La cosa partì in pratica senza controllo, le
tre formazioni rivoluzionarie che erano in campo (i “menscevichi”, i
“bolscevichi” e il “mezrajoncy” di Trotsky) avevano prima proclamato uno
sciopero e poi revocato. Ma le fabbriche tessili entrarono in sciopero
egualmente, oltre 90.000 operai scesero in strada cercando di raggiungere il
centro di Pietrogrado. Il 9 marzo erano diventati 200.000 e la risposta delle
autorità si fece sempre più debole. Il 25 febbraio una grande manifestazione in
piazza Znamenskaja portò allo scontro a fuoco, ma inaspettatamente la folla
rispose uccidendo il commissario Krylov. Solo un reparto di dragoni sulla
Prospettiva Nevsji aprì il fuoco, uccidendo tre persone, ma i cosacchi si
misero dalla parte dei manifestanti, spostando drasticamente i rapporti di
forza. Lo zar ordinò al comandante della piazza, generale Chabalov, di
risolvere la situazione e questi arrestò nella notte i comitati bolscevichi.
Domenica la Prospettiva Nevskji era coperta di cadaveri, ma la IV compagnia del
reggimento Pavloskji sparò contro la polizia e poi in caserma, o forse contro i
reggimenti Preobarazenskji e Keksgol’mskji. A tarda sera fu proclamato lo stato
di assedio. Lunedì ci fu la rivolta del reggimento Vollynskij che coinvolse gli
altri reggimenti della capitale. Nel primo pomeriggio fu saccheggiato
l’arsenale militare e liberarono i prigionieri politici. Si combattè nelle
strade, ma a sera la cosa era risolta. Si formò un comitato della Duma composto
da Rodzjanko, Kerenskij, Nekrasov, Miljukov, gli ottobristi Šidlovskij e Dmitrjukov, i
nazionalisti Šul'gin e L'vov,
i "progressisti" Karaulov, Efremov, Konovalov e Rževskij.
D’altra parte si formò il soviet di Pietrogrado, composto da Gvozdev, Bogdanov, Čcheidze, Grinevič, Skobelev, Kapelinskij e Frankorusskij. Il
28 febbraio la flotta del Baltico si unisce alla rivolta, che si allarga
arrivando anche a controllare i treni per 250 km. Inizia la rivolta anche a
Mosca. Il colpo di scena è che il Soviet, dominato dai menscevichi, rinuncia al
potere e lo riconsegna alla Duma, ovvero alla grande borghesia. Il 2 (15) marzo
si forma il governo provvisorio del principe L’vov e lo zar abdica. Il 3 marzo
abdica anche il fratello. La monarchia è finita.
[2] - Dopo la rivoluzione di febbraio
e la formazione del Governo L’vov i bolscevichi assumono una posizione
inizialmente collaborativa, fino a che Lenin, tornando dalla Svizzera, pubblicò
le famosissime “Tesi di aprile”, nelle quali dichiarò la necessità di
trasformare la rivoluzione borghese (per una linea tradizionale del marxismo
necessaria come transizione) immediatamente in rivoluzione socialista. La VII
Conferenza del partito di maggio ne vide l’approvazione, proprio mentre la
questione capitale della continuazione della guerra (sulla quale i bolscevichi
avevano da sempre assunto posizione contraria) fece cadere il governo e
sostituirlo con un altro sorretto dai menscevichi e dai socialrivoluzionari
(ovvero dai populisti). In una situazione altamente confusa le parole d’ordine
bolsceviche fecero sempre più presa tra gli operai e i soldati. A luglio degli
scioperi spontanei portarono alla repressione antibolscevica e alla fuga di
Lenin, accusato di essere un agente tedesco. Nacque il terzo governo, retto questa
volta da Kerenski contro il quale il generale Kornilov tentò un colpo di stato,
bloccato dalla sollevazione di massa di operai e soldati, organizzati dai
bolscevichi. Ormai questi erano maggioranza nella maggior parte dei Soviet. Il
10 ottobre il Comitato Centrale del Partito Bolscevico decide, sotto spinta di
Lenin e Trotskij, la sollevazione (si oppongono Kamenev e Zinov’ev, che
temevano il fallimento). Il 24 ottobre (6 novembre del nostro calendario) i
soldati e gli operai bolscevichi ed i marinai della Flotta del Baltico occupano
i posti chiave della città, alle 10 del 25 (7 novembre) Lenin proclamò il
passaggio del potere al Comitato militare rivoluzionario. Alla sera fu
arrestato il governo, dopo un breve assalto al Palazzo d’Inverno. Tutto era
finito e la rivoluzione d’ottobre iniziava.
[4] - Rudolf Hilferding, “Il
capitale finanziario”, 1912
[5] - John Hobson, “L’imperialismo”,
1902
[6] - Rosa Luxemburg, “L’accumulazione
del capitale”, 1913
[7] - Una importante nota a pag. 47
recita: “Marx distingue ‘concentrazione’ e ‘centralizzazione’. Per il processo
di concentrazione osserva che ’ogni capitale individuale è una concentrazione
più o meno grande di mezzi di produzione, con il corrispondente comando
su un esercito più o meno grande di operai. Ogni accumulazione diventa il mezzo
di accumulazione nuova. Essa allarga, con la massa aumentata della
ricchezza operante come capitale, la sua concentrazione nelle mani di
capitalisti individuali, e con ciò la base della produzione su larga
scala e dei metodi di produzione specificatamente capitalistici. L’aumento del
capitale sociale si compie con l’aumento di molti capitali individuali’. Quanto
al processo di centralizzazione Marx rileva che questo si distingue da quello
di concentrazione ‘pel fatto che esso presuppone solo una ripartizione
mutata di capitali già esistenti e funzionanti, che al suo campo di azione non
è dunque limitato all’aumento assoluto della ricchezza sociale o dai limiti
assoluti dell’accumulazione. Il capitale qui in una mano sola si gonfia da
diventare una grande massa, perché là in molte mani va perduto. È questa la centralizzazione
vera e propria a differenza dell’accumulazione e concentrazione’
Karl Marx, Il Capitale, I, 3, p.74”.
[8] - Emmanuel, Joseph Sieyes, “Che
cosa è il terzo stato?”, 1789.
[9] - Separazioni “tra il possesso del
capitale e il suo impiego nella produzione, del capitale liquido da quello
industriale e produttivo, del rentier (che vive solo del profitto tratto dal
capitale liquido) dall’imprenditore e da tutti coloro che partecipano
direttamente all’impego del capitale [investito e produttivo]”.
[10] - Nella prefazione del 1920 scrive
infatti, compiendo un illuminante esempio di analisi concreta: “La costruzione
delle ferrovie sembra un’impresa semplice, naturale e democratica, apportatrice
di civiltà e di progresso. Tale appare infatti agli occhi dei professori
borghesi, stipendiati per imbellettare la schiavitù capitalistica, e agli occhi
dei filistei piccolo-borghesi. Nella realtà i fili capitalistici che collegano
queste imprese, per infinite reti, alla proprietà privata dei mezzi di
produzione in generale, hanno trasformato la costruzione delle linee
ferroviarie in strumento di oppressione di un miliardo di uomini nei paesi
asserviti (tutte le colonie. Più le semicolonie), cioè più della metà degli
abitanti del globo terrestre, e degli schiavi dei capitale nei paesi ‘civili’”
(p.36).
[11]
- “il centro del ragionamento
innovatore di Lenin è nella tesi dello sviluppo ineguale e della gerarchia dei
capitali. E' questo elemento che va messo in primo piano. Il saggio
sull'imperialismo approfondisce infatti, accanto all'analisi dell'opposizione
tra capitale e forza-lavoro, l'analisi dell'opposizione tra i differenti
capitali. Emergono in tal modo tre principali tipi di opposizione che, nella
loro profondità rispettiva e nel loro effetto complessivo, sono la causa dei
processi sociali. L'accumulazione ineguale del capitale crea contemporaneamente,
nel suo procedere incessante, un vasto fronte di contraddizioni tra capitali e
lavoratori e tra diversi capitali (e anche tra diverse frazioni di lavoratori),
oltre alle loro influenze reciproche a livello nazionale e internazionale. Di
conseguenza, l'acuirsi della crisi della formazione imperialistica mondiale
avviene a fasi alterne per diversi settori e zone, per diversi livelli della
piramide sociale di ciascun paese e di tutto il mondo. Il 'fuoco' delle
contraddizioni può spostarsi, come è infatti avvenuto storicamente,
determinando le difficoltà che le stesse esperienze socialiste si sono trovate
a dover affrontare per via di questa grande complessità del reale”, Eros Barone, nota.
[12] - Sinistra in rete, pubblicazione
di questo articolo.
[13] - Si veda, ad esempio, Paul Baran, “Il
‘surplus’ economico”, 1957.
[14] - Precisamente è qualificata come
“teoricamente un assurdo, praticamente un sofisma”. E continua: “I cartelli
internazionali mostrano sino a qual punto si siano sviluppati i monopoli
capitalistici, e quale sia il motivo della lotta tra i complessi capitalistici.
Quest’ultima circostanza è particolarmente importante, giacché essa soltanto ci
illumina sul vero senso storico-economico degli avvenimenti. Infatti può
mutare, e di fatto muta continuamente, la forma della lotta, a seconda delle
differenti condizioni parziali e temporanee; ma finché esistono classi non muta
mai assolutamente la sostanza della lotta, il suo contenuto di classe.”
[15] - Questo concetto sarà ripreso da
Paul Baran sia nel suo libro del 1954, “Il surplus economico”, sia in quello con Paul Sweezy
del 1966, “Il capitale monopolistico”.
[16] - Su questo concetto si veda anche
“Appunti sull’economia politica
delle emigrazioni: il caso dei paesi semi-centrali”.
[18] - Scrive, “il senso obiettivo,
vale a dire reale, sociale, della sua ‘teoria’ è uno solo: consolare nel modo
più reazionario le masse, con la speranza della possibilità di una pace
permanente nel regime del capitalismo, sviando l’attenzione dagli antagonismi
acuti e dagli acuti problemi di attualità e dirigendo l’attenzione sulle false
prospettive di un qualsiasi sedicente vuoto e futuro ‘ultra-imperialismo’”
(p.160).
[19] - Che sono: 1) la concentrazione
della produzione, 2) l’accaparramento delle materie prime; 3) le banche come
detentrici monopolistiche del potere finanziario; 4) la politica coloniale.
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