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venerdì 8 novembre 2019

Vladimir Ilic Lenin, “L’imperialismo fase suprema del capitalismo”


Vladimir Ilic Lenin, “L’imperialismo fase suprema del capitalismo


Il libro di Lenin fu scritto tra la fine del 1915 e l’inizio del 1916 e pubblicato nel 1917. Siamo esattamente sull’orlo degli eventi che cambieranno il mondo. Da Berna, dove Lenin era in esilio in quell’anno straordinario assistette alla prima rivoluzione di febbraio[1], seguita il 7 novembre dalla rivoluzione di ottobre[2], che rovesciò il governo Kerenski.

Siamo dunque un anno prima di questi eventi.



Ma, come detto si era al secondo anno di una guerra terribile[3] seguita ad anni di scontri economici, commerciali, finanziari e coloniali tra le grandi potenze europee. Lo scopo del libro è quindi di mettere ordine alle idee circa la sostanza economica dell’imperialismo, causa ultima della guerra in corso. Inoltre di combattere la battaglia ideologica con la componente riformista della socialdemocrazia europea (e russa), rappresentata dalle posizioni di Kautsky e di Martov, ma anche, in parte dello stesso Hilferding.
Le due fonti sono Hilferdinfg[4] e Hobson[5], ma rispetto a questi Lenin ritiene con più coerenza del primo, che è marxista, che il fenomeno dipenda dal funzionamento essenziale del meccanismo di accumulazione. E che non dipenda da qualcosa di esterno a questo (come nella ipotesi coeva della Rosa Luxemburg[6]). Il meccanismo cui risale la spiegazione è la semplice tendenza del capitale all’autovalorizzazione unitamente al suo carattere plurale, e quindi ineguale. Oltre a questo semplice modello, ma potente, viene sottolineato che la tendenza all’autovalorizzazione ed alla concentrazione[7] porta al monopolio e questo alla fusione del capitale finanziario con quello industriale. È questa fusione quella dalla quale scaturisce l’immane livello della competizione intercapitalista e quindi l’imperialismo. Alla fine si ha la guerra.

Nella prefazione del 1920, a guerra civile in corso, dopo i drammatici eventi del ‘17 e del ’18, il “terrore rosso”, l’intervento delle potenze occidentali in Russia ma ormai in via di sconfitta finale, Lenin scrive una prefazione nella quale denuncia con dure parole il pugno di paesi “progrediti”, in realtà predoni che si spartiscono il bottino del mondo intero. Come chiarisce nel testo si tratta di “un pugno di stati particolarmente ricchi e potenti che saccheggiano tutto il mondo mediante il semplice ‘taglio delle cedole’. [paesi che] da questo gigantesco sovraprofitto – così chiamato perché si realizza all’infuori e al di sopra del profitto che i capitalisti estorcono agli operai del ‘proprio’ paese- c’è da trarre quanto basta per corrompere i capi operai e lo strato superiore dell’aristocrazia operaia” (p.43).

L’argomentazione procede ripercorrendo l’analisi del capitalismo monopolistico e finanziario di Hilferding, la denuncia dell’imperialismo di Hobson e contrastando punto a punto le teorie di Kautsky. Essa prende l’avvio dall’analisi della concentrazione della produzione e dalla formazione dei monopoli, che sono ormai “uno dei tratti più caratteristici del capitalismo”, di fatto, compulsando le statistiche all’epoca disponibile, si può dimostrare che alcune decine di migliaia di grandi aziende sono ormai tutto, mentre milioni di piccole sono nulla (parafrasando il famoso incipit dell’abate Sieyes[8]). Il punto è che si tratta di un effetto dell’automovimento del capitalismo che, ad un certo punto della sua evoluzione, grazie alla continua concentrazione dei capitali stessi, “porta, per così dire, automaticamente alla soglia del monopolio”. Per Lenin, dunque, la “libera concorrenza” lungi dall’essere uno stato naturale è semplicemente uno stato immaturo ed incompleto del capitalismo. Ma, seguendo in questo uno schema classicamente marxiano, è pur vero che quando la concorrenza si trasforma in monopolio allora ne risulta un “immenso processo di socializzazione della produzione”, si socializzano, in particolare, miglioramenti e invenzioni tecniche. Ciò, nel portare alla “più universale socializzazione” della produzione “trascina, per così dire, i capitalisti, a dispetto della loro coscienza, in un nuovo ordinamento sociale, che segue il passaggio dalla libertà di concorrenza completa alla socializzazione completa. Viene socializzata la produzione, ma l’appropriazione dei prodotti resta privata” (p.58).

Qui bisogna allargare lo sguardo. Quel che sta immaginando Lenin nel 1916 è quel che farà nel 1918: i monopoli concentrano proprietà e mezzi di produzione, generano gigantesche concentrazioni di tecnica e di uomini, semplificano il quadro sociale eliminando l’enorme anarchia di un capitalismo nascente nel quale le imprese avevano per lo più poche decine di addetti. L’ordine sociale è quindi pronto in un senso molto pratico per essere trascritto in una proprietà collettiva con un semplice e breve passo.

Ma fino a che l’appropriazione dei prodotti resta privata, e la finanza come dirà determina i suoi effetti di dominazione, al contrario, il monopolio accresce ed intensifica il caos. E soprattutto orienta la grande macchina del capitalismo, stato per stato, nella direzione dell’imperialismo. O meglio, degli opposti imperialismi.
Svolge un ruolo essenziale in questo meccanismo il sistema finanziario che, man mano che si creano monopoli industriali passa dalla funzione di intermediario a quello di monopolista a sua volta. Ma monopolista del denaro, quindi in effetti dominante su tutto il sistema. Si tratta di uno dei processi fondamentali della trasformazione del capitalismo in imperialismo capitalista. Gli esempi che fa sono molti e riferiti ai più grandi gruppi finanziari dell’epoca, francesi, inglesi e tedeschi (per quest’ultimo la Deutsche Bank). Gruppi perché, grazie alla moltiplicazione di potenza e controllo determinata dall’innovazione, allora relativamente recente, delle società per azioni è possibile con poco capitale controllare interi grappoli di aziende a scalare.
In questo modo, e per via dei prestiti per investimenti, si genera un intimo nesso tra grandi banche monopoliste e grandi gruppi industriali monopolisti. Un monopolio al quadrato che sovraintende alla nascita del nuovo capitalismo. Questo è l’elemento essenziale del capitale finanziario, la capacità di trarre redditi giganteschi “da ogni fondazione di società, dall’emissione delle azioni, dai prestiti statali, ecc. e consolida l’egemonia delle oligarchie finanziarie, imponendo a tutta la società un tributo a favore dei detentori del monopolio” (p.88).
Dunque l’imperialismo, che è l’egemonia del capitale finanziario, è solo lo stadio supremo del capitalismo, nel quale le separazioni che il capitalismo compie normalmente[9] raggiungono dimensioni enormi. La conseguenza è che “la prevalenza del capitale finanziario su tutte le rimanenti forme del capitale imposta una posizione dominante del rentier e dell’oligarchia finanziaria, e la selezione di pochi Stati finanziariamente più ‘forti’ degli altri”.

Un’ulteriore ed importante conseguenza è che se per il vecchio capitalismo concorrenziale il risultato caratteristico era la esportazione di merci, per questo lo è del capitale direttamente. Attraverso l’esportazione del capitale (ad esempio aprendo linee di credito, prestando capitali agli stati sottomessi e coloniali) estende il suo dominio industriale e finanziario. Imponendo, ad esempio, non solo lo stacco di ‘cedole’, ma anche la fornitura delle proprie industrie[10]. È per questo che nel capitalismo sono inevitabili la disuguaglianza e la discontinuità di sviluppo e che “il capitalismo finanziario stende letteralmente i suoi tentacoli in tutti i paesi del mondo” (p.103).

Seguendo questo processo il capitalismo ha, da tempo, creato il mercato mondiale. man mano che crescono le esportazioni di capitale, si allargano infatti anche le relazioni estere e si sviluppano le relazioni coloniali. Si allargano le ‘sfere di influenza’ delle grandi associazioni monopoliste finanziario-industriali e su procede verso cartelli mondiali. Ad esempio, nell’industria elettrica, in quella del petrolio, in quella ferroviaria (i driver della seconda rivoluzione industriale che è lo sfondo di quegli eventi). Naturalmente, e questo è importante considerarlo, “i capitalisti si spartiscono il mondo non per la loro speciale malvagità, bensì perché il grado raggiunto dalla concentrazione li costringe a battere questa via, se vogliono ottenere dei profitti”.
Come giustamente ricorda, in un commento[11] alla versione di questo articolo pubblicata su “Sinistrainrete”[12], Eros Barone, la conseguenza di questa rappresentazione dei fatti è che il mondo è strutturato dallo “sviluppo ineguale” e dalla continuamente modificata gerarchia dei capitali, organizzati in blocchi di potere nazionali. Alla tradizione opposizione capitale-lavoro, scolpita nella analisi di Marx, si affianca una nuova enfasi a quella tra capitali e questi organizzati geograficamente. L’irruzione della variabile spaziale nello schema ideale marxiano, particolarmente concentrato su quella temporale, determina uno schema interpretativo di tipo tridimensionale di grande complessità. Uno schema che sarà lungamente esplorato dalla “scuola della dipendenza” a partire dal lavoro su questo tema di Paul Baran[13].



D’altra parte, l’idea che l’estensione dei cartelli internazionali (oggi si è detto “della globalizzazione”) porterebbe in sé la speranza della pace perpetua, all’epoca formulata anche da Kautsky con la strana formula dell’ultra- imperialismo, è a questo punto direttamente attaccata da Lenin come “sofisma”[14]. E’ del tutto evidente che la spartizione del mondo tra cartelli, ed anche i loro episodici accordi (magari a danno di terzi, come ad esempio della Cina), sono solo provvisori, governati da equilibri di forza sempre instabili, costantemente revocati, a rischio di rottura.
La definizione più concisa di imperialismo è dunque “lo stadio monopolistico del capitalismo”. I suoi cinque principali caratteri sono:
1-     La concentrazione della produzione e del capitale che crea i monopoli,
2-     La fusione del capitale bancario con quello industriale,
3-     L’importanza della esportazione del capitale,
4-     Il sorgere di associazioni monopolistiche internazionali che si ripartiscono il mondo,
5-     La compiuta ripartizione della terra tra le più grandi potenze capitalistiche.

La ripartizione, però, comporta sempre lotta, in ogni luogo. Se non altro per indebolire i capisaldi dell’egemonia avversaria, ed è una lotta nella quale, come sottolinea anche Hobson, prevalgono gli interessi finanziari su quelli industriali (e sono comunque interconnessi). Questa aspra lotta, come quella tra Giappone e Stati Uniti per la spartizione delle influenze sulla Cina, ricorda Lenin, rende ancora più ridicola la “stupida favola” del pacifico “ultra-imperialismo”, tentativo reazionario di piccoli borghesi impauriti (nella fattispecie Kautsky) di sfuggire ad una “tempestosa realtà”. Il mondo è spartito e nuovamente ripartito costantemente, di fase in fase, ma sempre in maniera niente affatto pacifica. Contrariamente all’ipotesi data “il capitale finanziario e i trust acuiscono, non attenuano, le differenze nella rapidità di sviluppo dei diversi elementi dell’economia mondiale” (p.136). Ed i contrasti, che sempre compaiono al mutare dei rapporti di forza, solo con la forza si possono appianare.

Inoltre, poiché la base economica più profonda dell’imperialismo è il monopolio, ovvero è la distruzione della concorrenza, questo, tramite il controllo dei prezzi e la sospensione degli effetti concorrenziali di domanda ed offerta, di fatto paralizza anche il progresso tecnico e induce la tendenza alla stagnazione e putrefazione[15].
Ma c’è un altro effetto rilevante: la crescita dei monopoli e l’estensione a monopoli finanziari il cui prodotto di esportazione sono i capitali, determina la crescita relativa, nelle società capitaliste avanzate, della classe che dai profitti di ritorno di questi capitali vivono, i rentier. Se l’imperialismo è crescita del capitale liquido in pochi paesi in questi cresceranno coloro che vivono del taglio delle ‘cedole’, che “non partecipano ad alcuna impresa ed hanno per professione l’ozio”. Chiaramente “l’esportazione di capitale, uno degli essenziali fondamenti economici dell’imperialismo, identifica questo completo distacco del ceto dei rentiers dalla produzione e dà un’impronta di parassitismo a tutto il paese, che vive dello sfruttamento del lavoro di pochi paesi e colonie d’oltre oceano”. Ad esempio in quegli anni nel paese più esposto a questa dinamica, l’Inghilterra, i profitti dei rentiers superano di cinque volte quelli del commercio estero, in sostanza l’intera nazione vive parassitariamente sul resto del mondo, e “il mondo si divide in un piccolo gruppo di stati usurai e in una immensa massa di stati debitori”.

L’esito di questo fenomeno, riprendendo Hobson, sarebbe che:

“la più parte dell’Europa occidentale potrebbe allora assumere l’aspetto e il carattere ora posseduti soltanto da alcuni luoghi, cioè l’Inghilterra meridionale, la Riviera e le località dell’Italia e della Svizzera visitate dai turisti e abitate da gente ricca. Si avrebbe un piccolo gruppo di ricchi aristocratici, traenti le loro rendite e i loro dividendi dal lontano Oriente; accanto, un gruppo alquanto più numeroso di impiegati e di commercianti e un gruppo ancora maggiore di domestici, lavoratori nei trasporti e operai occupati nel processo finale della lavorazione dei prodotti più avariabili. Allora scomparirebbero i più importanti rami dell’industria, e gli alimenti e i prodotti base affluirebbero come tributo dall’Asia o dall’Africa … ecco quale possibilità sarebbe offerta da una più vasta lega delle potenze occidentali, da una Federazione europea delle grandi potenze. Essa non solo non spingerebbe innanzi l’opera della civiltà mondiale, ma potrebbe rappresentare il gravissimo pericolo di un parassitismo occidentale, quello di permettere l’esistenza di un gruppo di nazioni industriali più progredite, le cui classi elevate riceverebbero, dall’Asia e dall’Africa, enormi tributi e, mediante questi, si procurerebbero grandi masse di impiegati e di servitori addomesticati che non sarebbero occupati nella produzione in grande di derrate agricole o di articoli industriali, ma nel servizio personale o in lavori industriali di secondo ordine sotto il controllo della nuova aristocrazia finanziaria”.

Come commenta Lenin, “Hobson ha perfettamente ragione. Se le potenze dell’imperialismo non incontrassero resistenza, esse giungerebbero direttamente a quel risultato. Qui è posto nel suo vero valore il significato di ‘Stati Uniti d’Europa’ nella odierna congiuntura imperialista”. Tra l’altro questa spartizione delle colonie conduce con sé “la possibilità economica di corrompere gli strati superiori del proletariato”.
C’è ancora altro. Dove questo avviene si determinano anche la riduzione delle emigrazioni dai paesi ‘centrali’ (ovvero imperialisti, al vertice della catena del controllo) e “l’aumento dell’immigrazione in essi di individui provenienti da paesi più arretrati, con salari inferiori” (p.146). Cioè, “l’imperialismo tende a costituire tra i lavoratori categorie privilegiate e a staccarle dalla grande massa dei proletari”, mentre gli immigrati si collocano sempre ai gradini più bassi[16]. Questa tendenza all’imborghesimento era stata rilevata anche da Engels, ad esempio in una lettera del 1858, o nella lettera a Kautsky del 1882, o nella prefazione del 1892 alla “Situazione della classe operaia in Inghilterra[17]. Tutti esempi portati da Lenin.

Questa situazione non si può risolvere contrapponendole quel che lo stesso capitalismo monopolistico è giunto a superare perché meno efficiente nei suoi termini, ovvero la libera concorrenza, ma solo passando al socialismo. Qualsiasi altra ipotesi è non senso o mera consolazione, come quella dell’ultra-imperialismo[18]. Ciò che si ha sono solo pause tra una guerra e l’altra e nel frattempo una costante pressione ed inasprimento della oppressione nazionale (ovviamente della gran parte del mondo a favore di un pugno di nazioni vincitrici).
Il capitale monopolistico, insomma, esercitando i suoi quattro monopoli[19] accentua gli antagonismi che sono di fatto la più potente forza motrice del periodo di transizione.

L’insieme è un capitalismo in transizione, o “morente”. Un bubbone che dovrà essere eliminato, e che lo sarà.

Pochi mesi dopo questa conclusione ci proverà.


[1] - Mentre la Russia era stremata per la guerra che procedeva ormai al suo terzo anno, la guarnigione di Pietrogrado tra il 23 ed il 27 febbraio si sollevò (per il nostro calendario da 8 al 12 marzo) e lo zar si dimise. La cosa partì in pratica senza controllo, le tre formazioni rivoluzionarie che erano in campo (i “menscevichi”, i “bolscevichi” e il “mezrajoncy” di Trotsky) avevano prima proclamato uno sciopero e poi revocato. Ma le fabbriche tessili entrarono in sciopero egualmente, oltre 90.000 operai scesero in strada cercando di raggiungere il centro di Pietrogrado. Il 9 marzo erano diventati 200.000 e la risposta delle autorità si fece sempre più debole. Il 25 febbraio una grande manifestazione in piazza Znamenskaja portò allo scontro a fuoco, ma inaspettatamente la folla rispose uccidendo il commissario Krylov. Solo un reparto di dragoni sulla Prospettiva Nevsji aprì il fuoco, uccidendo tre persone, ma i cosacchi si misero dalla parte dei manifestanti, spostando drasticamente i rapporti di forza. Lo zar ordinò al comandante della piazza, generale Chabalov, di risolvere la situazione e questi arrestò nella notte i comitati bolscevichi. Domenica la Prospettiva Nevskji era coperta di cadaveri, ma la IV compagnia del reggimento Pavloskji sparò contro la polizia e poi in caserma, o forse contro i reggimenti Preobarazenskji e Keksgol’mskji. A tarda sera fu proclamato lo stato di assedio. Lunedì ci fu la rivolta del reggimento Vollynskij che coinvolse gli altri reggimenti della capitale. Nel primo pomeriggio fu saccheggiato l’arsenale militare e liberarono i prigionieri politici. Si combattè nelle strade, ma a sera la cosa era risolta. Si formò un comitato della Duma composto da Rodzjanko, Kerenskij, Nekrasov, Miljukov, gli ottobristi Šidlovskij e Dmitrjukov, i nazionalisti Šul'gin e L'vov, i "progressisti" KaraulovEfremovKonovalov e Rževskij. D’altra parte si formò il soviet di Pietrogrado, composto da  GvozdevBogdanovČcheidzeGrinevičSkobelev, Kapelinskij e Frankorusskij. Il 28 febbraio la flotta del Baltico si unisce alla rivolta, che si allarga arrivando anche a controllare i treni per 250 km. Inizia la rivolta anche a Mosca. Il colpo di scena è che il Soviet, dominato dai menscevichi, rinuncia al potere e lo riconsegna alla Duma, ovvero alla grande borghesia. Il 2 (15) marzo si forma il governo provvisorio del principe L’vov e lo zar abdica. Il 3 marzo abdica anche il fratello. La monarchia è finita.
[2] - Dopo la rivoluzione di febbraio e la formazione del Governo L’vov i bolscevichi assumono una posizione inizialmente collaborativa, fino a che Lenin, tornando dalla Svizzera, pubblicò le famosissime “Tesi di aprile”, nelle quali dichiarò la necessità di trasformare la rivoluzione borghese (per una linea tradizionale del marxismo necessaria come transizione) immediatamente in rivoluzione socialista. La VII Conferenza del partito di maggio ne vide l’approvazione, proprio mentre la questione capitale della continuazione della guerra (sulla quale i bolscevichi avevano da sempre assunto posizione contraria) fece cadere il governo e sostituirlo con un altro sorretto dai menscevichi e dai socialrivoluzionari (ovvero dai populisti). In una situazione altamente confusa le parole d’ordine bolsceviche fecero sempre più presa tra gli operai e i soldati. A luglio degli scioperi spontanei portarono alla repressione antibolscevica e alla fuga di Lenin, accusato di essere un agente tedesco. Nacque il terzo governo, retto questa volta da Kerenski contro il quale il generale Kornilov tentò un colpo di stato, bloccato dalla sollevazione di massa di operai e soldati, organizzati dai bolscevichi. Ormai questi erano maggioranza nella maggior parte dei Soviet. Il 10 ottobre il Comitato Centrale del Partito Bolscevico decide, sotto spinta di Lenin e Trotskij, la sollevazione (si oppongono Kamenev e Zinov’ev, che temevano il fallimento). Il 24 ottobre (6 novembre del nostro calendario) i soldati e gli operai bolscevichi ed i marinai della Flotta del Baltico occupano i posti chiave della città, alle 10 del 25 (7 novembre) Lenin proclamò il passaggio del potere al Comitato militare rivoluzionario. Alla sera fu arrestato il governo, dopo un breve assalto al Palazzo d’Inverno. Tutto era finito e la rivoluzione d’ottobre iniziava.
[4] - Rudolf Hilferding, “Il capitale finanziario”, 1912
[5] - John Hobson, “L’imperialismo”, 1902
[6] - Rosa Luxemburg, “L’accumulazione del capitale”, 1913
[7] - Una importante nota a pag. 47 recita: “Marx distingue ‘concentrazione’ e ‘centralizzazione’. Per il processo di concentrazione osserva che ’ogni capitale individuale è una concentrazione più o meno grande di mezzi di produzione, con il corrispondente comando su un esercito più o meno grande di operai. Ogni accumulazione diventa il mezzo di accumulazione nuova. Essa allarga, con la massa aumentata della ricchezza operante come capitale, la sua concentrazione nelle mani di capitalisti individuali, e con ciò la base della produzione su larga scala e dei metodi di produzione specificatamente capitalistici. L’aumento del capitale sociale si compie con l’aumento di molti capitali individuali’. Quanto al processo di centralizzazione Marx rileva che questo si distingue da quello di concentrazione ‘pel fatto che esso presuppone solo una ripartizione mutata di capitali già esistenti e funzionanti, che al suo campo di azione non è dunque limitato all’aumento assoluto della ricchezza sociale o dai limiti assoluti dell’accumulazione. Il capitale qui in una mano sola si gonfia da diventare una grande massa, perché là in molte mani va perduto. È questa la centralizzazione vera e propria a differenza dell’accumulazione e concentrazione’ Karl Marx, Il Capitale, I, 3, p.74”.
[8] - Emmanuel, Joseph Sieyes, “Che cosa è il terzo stato?”, 1789.
[9] - Separazioni “tra il possesso del capitale e il suo impiego nella produzione, del capitale liquido da quello industriale e produttivo, del rentier (che vive solo del profitto tratto dal capitale liquido) dall’imprenditore e da tutti coloro che partecipano direttamente all’impego del capitale [investito e produttivo]”.
[10] - Nella prefazione del 1920 scrive infatti, compiendo un illuminante esempio di analisi concreta: “La costruzione delle ferrovie sembra un’impresa semplice, naturale e democratica, apportatrice di civiltà e di progresso. Tale appare infatti agli occhi dei professori borghesi, stipendiati per imbellettare la schiavitù capitalistica, e agli occhi dei filistei piccolo-borghesi. Nella realtà i fili capitalistici che collegano queste imprese, per infinite reti, alla proprietà privata dei mezzi di produzione in generale, hanno trasformato la costruzione delle linee ferroviarie in strumento di oppressione di un miliardo di uomini nei paesi asserviti (tutte le colonie. Più le semicolonie), cioè più della metà degli abitanti del globo terrestre, e degli schiavi dei capitale nei paesi ‘civili’” (p.36).
[11] - “il centro del ragionamento innovatore di Lenin è nella tesi dello sviluppo ineguale e della gerarchia dei capitali. E' questo elemento che va messo in primo piano. Il saggio sull'imperialismo approfondisce infatti, accanto all'analisi dell'opposizione tra capitale e forza-lavoro, l'analisi dell'opposizione tra i differenti capitali. Emergono in tal modo tre principali tipi di opposizione che, nella loro profondità rispettiva e nel loro effetto complessivo, sono la causa dei processi sociali. L'accumulazione ineguale del capitale crea contemporaneamente, nel suo procedere incessante, un vasto fronte di contraddizioni tra capitali e lavoratori e tra diversi capitali (e anche tra diverse frazioni di lavoratori), oltre alle loro influenze reciproche a livello nazionale e internazionale. Di conseguenza, l'acuirsi della crisi della formazione imperialistica mondiale avviene a fasi alterne per diversi settori e zone, per diversi livelli della piramide sociale di ciascun paese e di tutto il mondo. Il 'fuoco' delle contraddizioni può spostarsi, come è infatti avvenuto storicamente, determinando le difficoltà che le stesse esperienze socialiste si sono trovate a dover affrontare per via di questa grande complessità del reale”, Eros Barone, nota.
[12] - Sinistra in rete, pubblicazione di questo articolo.
[13] - Si veda, ad esempio, Paul Baran, “Il ‘surplus’ economico”, 1957.
[14] - Precisamente è qualificata come “teoricamente un assurdo, praticamente un sofisma”. E continua: “I cartelli internazionali mostrano sino a qual punto si siano sviluppati i monopoli capitalistici, e quale sia il motivo della lotta tra i complessi capitalistici. Quest’ultima circostanza è particolarmente importante, giacché essa soltanto ci illumina sul vero senso storico-economico degli avvenimenti. Infatti può mutare, e di fatto muta continuamente, la forma della lotta, a seconda delle differenti condizioni parziali e temporanee; ma finché esistono classi non muta mai assolutamente la sostanza della lotta, il suo contenuto di classe.”
[15] - Questo concetto sarà ripreso da Paul Baran sia nel suo libro del 1954, “Il surplus economico”, sia in quello con Paul Sweezy del 1966, “Il capitale monopolistico”.
[18] - Scrive, “il senso obiettivo, vale a dire reale, sociale, della sua ‘teoria’ è uno solo: consolare nel modo più reazionario le masse, con la speranza della possibilità di una pace permanente nel regime del capitalismo, sviando l’attenzione dagli antagonismi acuti e dagli acuti problemi di attualità e dirigendo l’attenzione sulle false prospettive di un qualsiasi sedicente vuoto e futuro ‘ultra-imperialismo’” (p.160).
[19] - Che sono: 1) la concentrazione della produzione, 2) l’accaparramento delle materie prime; 3) le banche come detentrici monopolistiche del potere finanziario; 4) la politica coloniale.

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