Il
libro
di Luca Ricolfi, presidente della Fondazione Hume[1], che fa del dato uno scopo
morale, è un testo a tema, costruito intorno ad un’aspra forzatura linguistica e
un violento strattonamento, sia del linguaggio sia dei dati stessi. Un testo infarcito,
anzi intessuto, di ideologismi e di autentici falsi, non numerosi ma decisivi. Alcune
delle cose che scrive l’autore sono anche interessanti, alcune sono pezzi di
verità, anche dolorosa, ma tutto è fondato su un’attitudine a far passare la
descrizione del reale proposto per inevitabile stato del mondo ed il
particolare come generale, il contingente come strutturale, la causa come
effetto. I pensionati che sostengono i nipoti, in parte o in sostanza, in
Italia sono solo il 14%, ovvero sono circa duemilioni, ovviamente da individuare
nello strato più abbiente, dato che dei 17 milioni di pensionati 10 vivono con
meno di 750,00 euro al mese, e l’importo medio erogato è di 1.100,00 euro al
mese[2]. Il reddito lordo procapite
è di 21.000,00 euro all’anno, sotto la media europea[3], ad onta dell’essere un
paese con consumi di massa “opulenti”. Soprattutto gli “insoddisfatti” del
proprio livello di reddito sono in Italia la metà della popolazione, con grandi
differenze geografiche, dal minimo del 40% al Nord al quasi 70% nelle isole[4], e se si passa al giudizio
sulla situazione familiare non è molto diverso, il 57% la giudica “adeguata”
(63% al nord). Come si faccia, su questa base, a giudicare la società italiana
una “società dei tre quarti” si spiega solo se i dati sono selezionati tra
quelli presenti e le definizioni, come è, tra quelle degli anni che vanno dai settanta
ai novanta e dalla letteratura della insorgenza neoliberista[5].
Tutto
questo indicherebbe, naturalmente dando altri e ben selezionati numeri e stime,
per Ricolfi una condizione “signorile di massa”. Una condizione che si
associa ad una condizione “servile” di alcuni milioni di immigrati e di
italiani in condizione di semi-povertà. Qui si annida il vero del libro, la
condizione di relativa e selettiva agiatezza, di una minoranza, ma non
irrilevante (il termine “di massa” qui esplica la sua funzione di intenzionale
ambiguità e quindi la sua funzione ideologica[6]), è strutturalmente
associata alla condizione servile, di una analoga minoranza. Si tratta di un
meccanismo causale, che ovviamente il libro trascura, per il quale la
compressione delle condizioni di lavoro spinge fuori chi ha una ‘convenzione lavorativa’[7] più alta. Costringendolo
all’inattività a causa specificamente dell’offerta sovrabbondante di lavoro “servile”,
con il quale non può e non vuole competere. Su questa considerazione si innesta
il secondo elemento di verità del libro, il capitalismo contemporaneo riesce ad
offrire a poco prezzo, anche grazie allo sfruttamento di lavoratori servili
oltre i confini, uno stile di vita tale da poter illudere di essere ancora
incluso nella società dei consumi. Molti possono permettersi un account di Netflix,
che costa meno di 5€ al mese[8], un apericena ogni tanto,
i social come Instagram, Facebook, a simulare una vasta e soddisfacente vita
sociale, qualche breve vacanza low cost, … si tratta di una risposta di mercato
a capacità di spesa libera sempre minore, e della cattura egemonica in consumi
distintivi sempre più diversificati e tali da dare l’illusione della particolarità.
Ma
si tratta anche di qualcosa di diverso: la società neoliberale ha da sempre intesa
la propria legittimazione per la rivendicata capacità di creare ricchezza per
la maggioranza. Il nucleo di legittimazione dello stato, ciò che rende la
descrizione anche norma, del libro di Ricolfi è, infatti, la parte su cui più
insiste, sin dal titolo, e che si sforza di fondare perché è niente di meno che
il principio di legittimazione nella modernità: il lavorare per il maggiore
bene, e progressivo, della maggioranza. Quindi il ceto medio deve essere
maggioritario, esso deve rappresentare oltre il 50%, o i due terzi, o i
tre quarti, e via aggiungendo. Occorre che il suo status sociale, nel quale in
effetti consiste, sia il centro stabilizzante. Qui c’è il gioco di prestigio
del nostro sociologo, fotografa una condizione di stagnazione (negando che sia
declino), che viola il requisito standard degli anni di formazione della classe
media dominante (la quale, si faccia attenzione, non è una costante storica, ma
una specifica eccezione[9]) la dinamica ascendente,
almeno potenziale. Resta un maggior grado medio di istruzione rispetto alle
classi ‘inferiori’, ma sono in crisi sia i consumi sia e soprattutto la sicurezza
nelle prospettive di lavoro, quella certa protezione che in effetti l’ha
generata storicamente. Nasce un problema che Ricolfi cerca di risolvere
nascondendo sotto il tappeto la dinamica discendente, quanto a consumi,
protezioni ed autocomprensione (anche se questa ultima in ritardo), e
contemporaneamente valorizzando il residuo di status che si annida in consumi distintivi,
come vedremo. Consumi che, pur essendo in sostanza poveri, potrebbero essere nominati
come tipici di “nicchie di massa”. Sono un centro di stabilità residuale ma
essenziale, perché da sempre essere nel ‘ceto medio’ ha sempre significato sentirsi
nel centro della società e godere quindi di una piena cittadinanza.
L’operazione
ideologica di Ricolfi è insomma di quelle cruciali: cerca di valorizzare la
creazione di “nicchie di massa”, riaffermando l’esistenza di un centro
maggioritario, per ribadire diagonalmente ed in controluce il buon diritto
della società esistente alla sua conservazione.
Certo,
il carattere paradossale del suo tentativo, che in sostanza regge sulla scelta
di alcune parole e fonti, di affermare l’esistenza di un ceto medio
maggioritario mentre riconosce che il lavoro è diventato minoranza e spesso
molto povero, che intorno alla cittadella del benessere si accampa una vasta
tendopoli di disperazione e sfruttamento, emerge ovunque. E lo costringe a
chiudere il libro chiedendo quanto può durare questo equilibrio, tutt’altro che
“signorile”.
Per
avviarci alla lettura bisogna quindi chiedersi che significa, esattamente, che
la società è “signorile” e “di massa”. I due termini insieme frizionano
gravemente, ma sono assolutamente indispensabili al programma ideologico del
testo. Del resto, come vedremo, sono definiti in molti modi diversi durante il
libro.
Ricolfi
avvia la sua descrizione della società contemporanea sintonizzandosi abilmente
sul senso naturale della borghesia del nord alla quale appartiene e chiarendo subito
il nemico. Da una parte i “notiziari”, dall’altra “un giretto”. Da una parte
chi dice che l’ineguaglianza è cresciuta nell’ultimo ventennio[10], l’Italia è un paese con
tanti disoccupati, con milioni di persone prive dei diritti sociali minimi, con
13 milioni di pensionati con meno di 1.000 euro al mese (in realtà meno di 750
come sostiene l’Istat), di giovani esclusi dal lavoro, di immigrati sfruttati…
dall’altra chi vede “gente che non lavora, oppure lavora e trascorre degli
splendidi fine settimana in luoghi di villeggiatura”, piazze piene di giovani
che “apericenano”, spiagge piene di bagnanti, famiglie con due case di
proprietà, barche ormeggiate, ristoranti pieni… insomma, il racconto che
qualche anno fa faceva Rifondazione Comunista, quando avviò la campagna sulla “terza
settimana del mese” (quando finiscono i soldi), e quello che opponeva Berlusconi,
quando segnalava i “ristoranti pieni e le barche ormeggiate”. Ci sono entrambi,
ovviamente.
Lo
specifico punto di Ricolfi è che si tratta di una realtà intrecciata. Ma
che lo è in un modo ben specifico: una maggioranza della popolazione (i tre quarti
dirà) italiana vive molto bene, si permette stili di vita “signorili”, mentre sono
solo piccole minoranze, autoctone o immigrate, a soffrire la condizione di
deprivazione.
Vediamo
come funziona, sostiene l’autore:
“la tesi che vorrei
difendere in questo libro è che l’Italia non è una società del benessere
afflitta da alcune imperfezioni, in via di più o meno rapido riassorbimento, ma
è un tipo nuovo, forse unico, di configurazione sociale. La chiamerò ‘società
signorile di massa’ perché è il prodotto dell’innesto, sul suo corpo
principale, che resta capitalistico, di elementi tipici della società signorile
del passato feudale e precapitalistico. Per società signorile di massa
intendo una società opulente in cui l’economia non cresce più e i cittadini che
accedono al surplus senza lavorare sono più numerosi dei cittadini che lavorano”.
Abbiamo
trovato quindi la prima definizione.
Vediamo
le altre, nel libro si intende per “società signorile”:
“accedere al surplus
senza lavorare”,
“l’accesso ai consumi
opulenti da parte di cittadini che non lavorano”, infatti “metà del consumo è
sostenuto da redditi che non vengono dal lavoro”,
la capacità di accedere
ad un “consumo cospicuo, ovvero capace di soddisfare esigenze che, tipicamente,
in passato solo i ‘signori’ si potevano permettere”,
il possesso della “seconda
auto, la seconda casa, le lunghe vacanze ed i weekend lunghi e ripetuti, i
corsi per i figli, …”,
la possibilità di “consumi
che eccedono i bisogni essenziali e che superano del triplo il livello di
sussistenza”,
quando “i signori sono
più numerosi dei lavoratori”,
non “una società in cui
tutti sono ricchi, ma il modello della società dei due terzi, o della società
dei tre quarti, in cui una maggioranza benestante convive con una minoranza
abbastanza lontana dagli standard di consumo della prima, e in alcuni casi
decisamente povera” (esempi e letteratura interamente presa dagli anni novanta
o precedenti).
E
si intende per società “di massa”:
una “condizione che
tocca più della metà dei cittadini”,
che coinvolge le
persone che “non sono povere”, il 94% della popolazione italiana,
una condizione che
isola i cittadini italiani, in modo da poter escludere solo il 5% di poveri
(sono il 7%, ma il 2% sono stranieri).
Una
nuvola di definizioni e numeri. Incoerente. Per lo più
fondata su una calibrata miscela di vecchie e talvolta vecchissime fonti di
definizioni obsolete (a piene mani tratte dagli anni sessanta e settanta, i
suoi anni di formazione e forse gli ultimi nei quali ha studiato davvero) e di
selezioni di dati statistici.
Non
mancano, in posizione strategica, anche gli ideologismi tipici della borghesia
conservatrice e talvolta reazionaria di tutti i tempi e luoghi[11]. Traiamo un altro strato
di lettura:
- sono nominati i “ceti
parassitari”, facendo ambiguo riferimento a Claudio Napoleoni e ovviamente all’ambiente
della critica che invalse nel Partito Comunista Italiano negli anni settanta, nel
contesto del “compromesso storico”,
- il ritiro dal lavoro è
classificato come volontario e causato dal benessere, si evoca la questione dei
‘bamboccioni’ ed implicitamente del ritornare in contatto con la “durezza del vivere”[12], citando ovviamente
letteratura del 1970, 1972, 1976,
- è accusata la scuola di
massa, che “infiacchisce la capacità dei giovani di affrontare compiti
difficili, di concentrarsi, di memorizzare conoscenza”,
- si tratta di “vivere al
di sopra dei propri mezzi” (dal 1975 al 1995, quando l’austerità ha iniziato a
ripristinare le giuste cose),
- e “non
c’è mai stata austerità” (in nota 43),
- i redditi, quindi, sono
“troppo alti rispetto alla produttività” (ovviamente data la concorrenza), come
mostra Fuà nel 1976, cosa che provoca “strozzature” (esempio di come il modello
neoliberale, basato sull’offerta sia penetrato negli anni settanta nella
cultura della sinistra, e come il paradigma permanga, cfr. p.144),
- i
titoli di studio sono “regalati”,
- la
scolarizzazione di massa ha creato inutili aspettative,
- la
distribuzione del reddito non è più ineguale di come è sempre stata (solita
cantilena neoliberale, nota 69),
- i poveri sono tali perché
irresponsabili (dato che spendono il loro reddito in droghe e gioco d’azzardo),
un evergreen (vedi p.118) e tutta la letteratura dei moralisti di ogni tempo, a
partire dall’ottocento,
- è il gioco d’azzardo a “secernere
diseguaglianza” (quindi questa, se pure esiste marginalmente è una colpa dei
poveri, p.124),
- è l’ipernormazione ad
impedire la crescita della produttività, p.208,
- chi protesta è mosso
dall’invidia sociale e dal vittimismo, p.201,
Questo
è, insomma, un libro straordinario per comprendere in quale profonda misura i
ceti intellettuali imborghesiti e da tempo inseriti profondamente nel sistema
di potere e riproduzione sociale che ha dominato incontrastato, nell’alternanza
per lo più apparente dei colori, il paese negli ultimi cinquanta anni siano
ancorati a poche idee radicali: siamo nel mondo migliore per i più, non può
cambiare e neppure è necessario lo faccia, se qualcosa va male è sempre per
colpa dei singoli, e soprattutto dei deboli e ignoranti. Deboli e ignoranti che
sono anche immorali, ‘parassiti’, incapaci e ‘choosy’, fanciulloni, che non
lavorano perché non hanno abbastanza coraggio e forza, non si accontentano, …
Una
descrizione straordinaria per persone che, per lo più: sono nate quando l’Italia,
grazie a massive politiche pubbliche e all’ambiente espansivo internazionale
determinato dal “New deal mondiale” e dalla guerra fredda[13], era nel boom e cresceva
a tassi “cinesi”; si sono laureate nei primi anni settanta (Ricolfi in filosofia
nel 1973), in una Università non certo particolarmente meritocratica, nella
quale i docenti del vecchio corso erano letteralmente assediati dalla contestazione
e dominava il ‘18 politico’ (talvolta anche il ’30 politico’ per i militanti);
magari hanno fatto carriera nei corposi corpi intermedi politici allora vitali
(Ricolfi nel sindacato della FLM con Oddone) o in enti pubblici più o meno
intermedi (nel LIA, Laboratorio di Intelligenza Artificiale, del CSI-Piemonte);
entrate all’Università dal portone e talvolta per ‘meriti politici’ (lui nel
1990 e dopo soli nove anni è già ordinario). Sono state subito inserite nel
mondo del lavoro, hanno avuto numerose e ricche alternative, hanno avuto un
percorso protetto nelle organizzazioni di massa dei partiti della sinistra e nelle
loro derivazioni.
Di
fronte a queste traiettorie si resta sempre sconcertati, in particolare per l’ingratitudine
e per la ferma volontà di chiudere la porta dietro il loro passaggio.
Scultura di Folker de Jong |
Ma
andiamo al filo narrativo del testo, che comunque merita essere letto. Questa condizione
che avvolgerebbe l’Italia con un tutto unico, internamente coerente, con delle
strutture ed un suo funzionamento, deriva sostanzialmente, dice Ricolfi, da tre
condizioni:
1- Il
numero dei cittadini che non lavorano ha superato (già dagli anni sessanta)
quello dei cittadini che lavorano;
2- La
condizione “signorile”, ovvero l’accesso a consumi opulenti da parte di
cittadini che non lavorano, è diventata di massa;
3- Il
sovraprodotto ha cessato di crescere, ovvero l’economia è entrata in un regime
di stagnazione o di decrescita.
Si
tratta di condizioni che si sarebbero date dagli anni sessanta (la prima), o dagli
anni novanta (la seconda), o dopo il 2008.
Naturalmente
già qui ci sarebbe da dire non poco: se si concede la prima condizione, la
seconda potrebbe essere parzialmente concessa solo negli anni novanta (non a
caso quelli nei quali il nostro studia per diventare ordinario, status dopo il
quale in genere si cessa la faticosa occupazione) ma negli ultimi trenta anni è
passata tanta acqua sotto i ponti; la terza, infine, ha cause specifiche e la
direzione causale di molti dei fenomeni indicati nel testo ne è altamente
influenzata.
Ma
già immediatamente dopo la definizione usata in questo incipit, quella di “consumi
opulenti di massa”, viene sostituita con una definizione di “massa” certo più
indiscutibile (il 94%), ma che perde completamente “l’opulenza”. Infatti leggiamo
a pag. 27 che ciò che “induce a parlare di società signorile di massa” è il
fatto che il 94% dei cittadini italiani, al fine, “vivono sopra la soglia di
povertà”. Insomma, in questo primo slittamento, nel tentativi di associare all’opulenza
(che, naturalmente esiste) la “massa”, ed ai “signori” (che proliferano) la
maggioranza, sarebbero “signori” tutti quelli che non sono espressamente
poveri, e questi sarebbero solo tre milioni. Insomma, sono “signori” oltre
cinquanta milioni di italiani. In pratica, sappiatelo, tutti voi che leggete siete
“signori”.
Slittando
di definizione analitica in definizione analitica, però, appena più avanti si
ritrova che è “consumo opulento” (che, ricordo, otto pagine prima doveva
essere praticato da cinquanta milioni di persone) quello che è “capace di soddisfare
esigenze che, tipicamente, in passato solo i ‘signori’ potevano permettersi”.
Con questa diversa definizione ci si ricollega alle letture di formazione. In
effetti, un topos molto praticato nel dibattito americano, tra autori progressisti
e conservatori, è che non ci sarebbero davvero poveri in Usa in quanto, dicono
i conservatori, da una parte tutti gli americani poveri stanno comunque molto
meglio di altri nel mondo, dall’altra godono di beni, come l’acqua corrente e i
bagni nell’appartamento, che una volta solo i re potevano avere. Una definizione
curiosa, in quanto per chiamare qualcuno “signore” sarebbe necessario che abbia
quel che distingue questo status ora, non mille anni fa. Mica può vivere
a cavallo dei millenni. Miracoli della cattura egemonica che la sinistra anni
novanta subì da parte della destra neoliberale anglosassone (quasi tutte le
citazioni sono di testi della scuola di Chicago e risalenti agli anni
settanta-ottanta).
Ancora,
troviamo che “oltre la metà” dei cittadini (che ora, solo tre pagine
dopo, tornano nel presente), a dimostrazione dei consumi “opulenti”, tra gli
anni ottanta ed il duemila (quando è finalmente diventato ordinario), hanno finalmente
la seconda auto, la seconda casa, fanno vacanze lunghe e ricche, etc… consumano,
insomma, oltre il triplo del livello di sussistenza[14]. Si tratterebbe dell’effetto
della “seconda transizione consumistica” (quella, appunto, degli anni novanta).
Ora, il triplo della sussistenza indicherebbe un reddito familiare per due
persone di ca 3.000 €/mese, la media italiana nel 2017 è stata di 2.500 euro[15], mentre questo livello si
raggiunge nelle famiglie di impiegati, quadri, dirigenti e imprenditori (quest’ultimi
oltre i 4.000). Una domanda al professore: come fa oltre la metà ad avere un
reddito di 3.000 euro al mese, avere il 5% con 1.000 euro o meno, e un reddito
medio di 2.500? Chiaramente manipolando le medie, scegliendo bene i confini del
segmento, si può ottenere tutto, ma cosa significa?
Ora,
il reddito medio familiare è sceso, dai valori del 2008, di qualcosa come il
13%, e quello medio equivalente nelle stime della Banca d’Italia[16] è sceso a 18.000,00 €/annui,
ovvero 1.500,00 €/mese, leggermente superiore alla stima Istat, tenendo conto che
un terzo delle famiglie riesce a risparmiare qualcosa, mentre un altro
terzo ha avuto un saldo negativo e faticava ad arrivare a fine mese, con l’indice
di Gini che è salito al 33,5% e il 23% degli individui con reddito inferiore al
60% di quello mediano (840 euro al mese), anche se per due terzi stranieri. I
conti non tornano.
Ma
vediamo più da vicino qualcuno degli indicatori citati dall’autore: secondo la
definizione più ristretta delle tante riportate, sarebbe “signorile” la
condizione per la quale si possiedono due case, due macchine e si fanno lunghe
vacanze, si possiedono ingenti capitali. Ebbene la Banca d’Italia, se conferma
che il 70% degli italiani hanno la casa di proprietà limita la seconda ad un
quarto di questi (ovvero al 24%), ed il loro valore medio a 1.800,00 €/mq, non
sono dunque case principesche (che si attestano dai 4.000,00€ in su); secondo
tema, in Italia, su sessanta milioni di persone, di cui cinque straniere, il
parco auto è di 39 milioni di veicoli con età media di quattro anni, ma il 60%
ha più di dieci anni e il 10% ne ha trenta; terza questione, le vacanze sono fatte
da oltre il 60% dei cittadini italiani, e per una media di 10 gg, ma sono stati
fatti 77 milioni di viaggi nel 2018, 27 milioni di italiani (1/3) hanno fatto
viaggi lunghi, 11 milioni una sola notte nell’anno e 24 milioni una via di
mezzo[17]; infine, la capitalizzazione
media degli italiani è 200.000 euro, ma il 30% ha solo 6.500 euro, il 30% più
ricco ha mediamente 500.000 euro (tra i quali il 5% ha 1,4 milioni). L’87% di
questo patrimonio è immobiliare. Poi ci sarebbero i consumi “opulenti” in crescita
riferiti ai cibi, al fitness (che nel 2018 è stato consumato da 18 milioni di
persone, il 30% della popolazione), la chirurgia estetica (da 930.000 persone,
il 2% della popolazione), i servizi alle famiglie (tra il 20 ed il 30% delle
famiglie), l’accesso ad internet ed alla tecnologia connessa (non certo un
consumo “opulento”, ma ormai parte del paniere di base), le droghe ed il gioco
in espansione (dato che, se vero, indica piuttosto la crescita del disagio,
p.118).
Insomma,
i numeri ed i dati, se guardati completamente e non filtrati dalle convinzioni
che l’autore si è fatto negli anni novanta (come confermato dalla letteratura,
da Glotz in poi, che cita[18]), e che oggi sostengono
la sua posizione di classe, non collimano con una società ‘signorile’
che coinvolge ‘la maggioranza’, o, addirittura, i tre quarti (o, al massimo dell’enfasi,
il 94%). Casomai può coinvolgere tra il 25 ed il 30% della popolazione.
Scale di Escher |
Veniamo
alla questione probabilmente centrale, abbiamo una società nella quale quasi
tutti sono “opulenti”, ma in effetti più della metà non lavora. Come è
possibile? La risposta di Ricolfi è contenuta nella prima parte della frase, e
cade con essa. Data l’opulenza di massa non è affatto la debolezza della
domanda di lavoro, come vorrebbero i keynesiani, che disincentiva la ricerca,
ma “il ritiro dei giovani, donne e anziani dal mercato del lavoro [che] è dovuto
essenzialmente al benessere che il miracolo economico ha
improvvisamente e repentinamente regalato agli italiani” (pag. 32).
Nel
2019?
Una
frase attribuita ad un “manipolo di studiosi” coraggiosi, tra cui il Presidente
dell’Istat De Meo, ma così strana che mi sono dovuto andare a guardare la nota
(a fondo del testo, ovviamente). “Benessere” e “miracolo economico”? Parliamo
dei figli del 5%, del 25% o del 30%? Certo, sono tanti, ma non proprio una “massa”
(anche se possono riempire benissimo una piazza bolognese). La spiegazione è
semplice: i ‘coraggiosi’ citati in nota sono De Meo nel 1970, La Malfa nel
1970, De Cecco nel 1972, Salvati nel 1976.
Testi
di cinquanta anni fa. Espressivi della linea culturale che
allora si impose alla cultura progressista italiana e da allora non l’ha mai
più lasciata: la colpa è sempre dei poveri.
Dunque,
i giovani non lavorano perché i padri sono ricchi (o i nonni), e “i signori sono
più numerosi dei lavoratori” (p.38).
Questo
accade, più in dettaglio, perché:
1- I
genitori sono ricchi,
2- La
scuola è stata distrutta e non premia più il merito, essendo diventata di
massa, come l’università,
3- Abbiamo
messo in piedi una infrastruttura ‘paraschiavistica’.
Vediamoli
uno alla volta.
La
famiglia media per Ricolfi e la Fondazione Hume, che ha la cultura del dato
evidentemente molto più della Banca d’Italia, ha un reddito di 46.000,00 euro ed
una ricchezza di 460.000,00 euro. In effetti è così, ma con il dettaglio che è
quello di coloro che riempiono di barche i porti ed i ristoranti e resort, cioè
del 30% degli italiani. La media vera è la metà di questa. Insomma, questo dato
è semplicemente falso (ma decisivo)[19].
La
scuola ha “infiacchito i giovani”, e li ha resi “choosy” (con espressa
citazione della Fornero, p.64, ma anche di un Bordieu del 1978, p.66). Abbiamo
infatti vissuto “al di sopra dei nostri mezzi”, fino al 1995 (quando fortunatamente
è arrivato l’accordo per l’Euro) e non c’è mai stata austerità (p.68 e nota
43). Nasce qui la “classe disagiata” (termine che prende da Alberto Ventura)
per effetto di “redditi troppo alti” rispetto a ciò che producono[20]; le cause sono titoli di
studio rilasciati in modo eccessivo rispetto alle capacità[21] e scolarizzazione di
massa che in una economia stagnante genera competizione eccessiva verso le
posizioni medio-alte[22].
Il
terzo fattore, e qui, la ragione è dalla sua parte, è la “infrastruttura
paraschiavistica”. In effetti ho comprato il libro per leggere questa parte. Ci
sono stime interessanti, si tratterebbe (p.71):
1- Di
un segmento di lavoratori stagionali supersfruttati, che si può stimare in
200.000 persone;
2- Un
segmento di lavoratrici del sesso, stimabile in 50.000 unità;
3- Un
segmento, il maggiore, di persone a servizio della buona borghesia italiana, ca
850.000 persone a servizio di 3,5 milioni di famiglie (su 16 milioni[23] sono il 20% ca.);
4- Un’area
di dipendenti in nero e sottopagati che stima in 450.000 persone;
Fin
qui si tratta di un’area di lavoro servile che ammonta a ca. 3.000.000 di persone,
per lo più immigrati.
A
questi vanno aggiunte situazioni “di confine”, lavoratori della droga, della
gig economy e della esternalizzazione dei servizi, stimate complessivamente in
500.000 persone.
Insomma,
un occupato su sette è in condizione di lavoro “paraschiavistico”, e
contribuisce ad abbattere il costo del lavoro e comprimere i salari.
Ma
c’è un’altra pezza in appoggio alla tesi del nostro: la metà del consumo
degli italiani sarebbe sostenuto da redditi che non vengono dal lavoro. Il consumo
sarebbe, infatti, di 800 miliardi e di questi 460 miliardi non verrebbero dal
lavoro. Nella strana tabella che segue questi sono divisi così:
-
223 miliardi da pensioni (che derivano in
realtà per oltre due terzi dal lavoro, ma differito),
-
111 miliardi, da pensioni assistenziali (a
vario titolo),
-
15 miliardi da trasferimenti delle
famiglie,
-
23 miliardi da redditi finanziari,
-
88 miliardi da vincite di gioco (a fronte
delle quali ci sono spese di gioco per 107 miliardi),
questa
confusa e distorcente tabella andrebbe (casomai) riconfigurata in questo modo:
-
38 miliardi di redditi non da lavoro
(15+23),
-
20 miliardi di reddito sottratto dal gioco
d’azzardo,
poi
ci sarebbe l’evasione fiscale, stimata in 150 miliardi (non si sa come), e che
in qualche modo sarebbe “rendita non da lavoro”, quando è evidentemente da
lavoro.
Insomma,
al netto di forzature e confusioni concettuali, questa presenza, ad andar bene
di una quarantina di miliardi su 800 (5%), giustificherebbe la prevalenza delle
rendite e l’ “Effetto Pigou”[24] (p.131).
Ma
se andassimo a verificare con i dati forniti da Banca d’Italia[25], troveremmo che a fronte
di un reddito medio familiare di 30.000 euro, 12.000 euro sono da lavoro
dipendente, 3.000 da libera professione ed impresa, 8.000 da trasferimenti, e
6.000 da capitale. Quindi i redditi non da lavoro incidono per 12.000 su 30.000.
Non poco, ma non la metà (più vicino ad un terzo).
Ma
considerando i soli italiani, come fa il nostro, si ottiene che in effetti solo
il 51% è da lavoro, il 20% da capitale (nel quale è presumibilmente incluso anche
il reddito da casa di proprietà) ed il 30% da trasferimenti (nei quali sono
incluse a fini statistici le pensioni). Quindi il 50% sussisterebbe, includendo
le pensioni, i redditi da fabbricato, quelli da trasferimenti assistenziali e/o
familiari, e i redditi da capitale finanziario[26].
Bisogna
guardare meglio, per condizione professionale: gli operai ottengono solo il 6% da
trasferimenti, ma il 13% da capitale; gli impiegati, il 5% da trasferimenti ed
il 18% da capitale; i dirigenti il 2,6 e 19%; gli imprenditori l’8% e il 19%; i
pensionati il 70% da trasferimenti ed il 24% da rendite da capitale; i non
lavoratori il 50% ed il 40%. Data l’eterogenità degli aggregati sembra che ci
sia uniformità, ma non è detto sia così[27]. La presenza della casa
di proprietà altera abbastanza la confrontabilità dei dati; con riferimento ai
quintili di reddito, infatti, i redditi da capitale restano costanti (dalle
parti del 20%, compatibili con l’uso di una casa) mentre i trasferimenti vanno dal
42% dei quintili più bassi al 20% dei più alti, probabilmente per il cessare
dei trasferimenti assistenziali (o per trasferimenti negativi).
Comunque
un qualche fenomeno c’è, anche se i dati di Ricolfi non sembrano i più adatti a
mostrarlo.
Qui
scaturisce, sullo sfondo dello stigma del “fannullone”, la parte di
introspezione psicologica (di psicologia sociale) del testo, che cerca di
spiegare fenomeni a base macroeconomica con gli strumenti piuttosto rozzamente
espressi dell’indagine microeconomica. Anche questo un marchio di fabbrica.
Come
dice, il “giovin signore” (definizione che si attaglia ai pargoli al
massimo di un terzo degli italiani, per la verità), scopre che la sua
aspettativa e autopercezione non è condivisa dal mercato che al massimo gli
riserva salari miseri. Allora la sua “robusta condizione familiare” (la villa
con piscina del padre, le molte auto, le vacanze pagate ai caraibi. …) e l’attesa
della cospicua eredità, lo incoraggiano ad aspettare l’occasione giusta. Nel frattempo
cerca una nicchia identitaria, e sposta la sua attenzione:
“il vero sforzo sta nel
trovare la nicchia in cui emergere, nel convincere gli altri che quella nicchia
ha valore, e che noi stessi ne siamo occupanti significativi. Il che nell’epoca
di internet significa diventare promotori di se stessi, quotidianamente
impegnati nella fatica di Sisifo di coltivare i propri follower, massimizzare
la propria reputazione, valorizzare la propria immagine. Una valorizzazione che,
a quanto pare, deve essere innanzi tutto visiva e rivolta a tutti” (p.168).
Quindi:
“la competizione si
sposta dal piano dell’occupazione di posizioni di status elevate alla ricerca
di nicchie di notorietà e di riconoscimento”
Questo
sarebbe un comportamento razionale, data la situazione. E probabilmente lo è
pure, per il 10% superiore della distribuzione (ma sono anche quelli che, per
capitale relazionale familiare è meno probabile si trovino in una situazione
simile).
Secondo
l’autore ci sono, insomma, due fattori:
1- Il
consumo opulento diffuso induce a rendere decisiva la manifestazione
di sé e della vita che si fa (anche qui si tratta di analisi sociologiche molto
famose, ma molto datate[28]);
2- La
competizione per lo status, ormai marginalizzata, era legata ad
un mondo in crescita, nel quale il numero di posti pregiati aumentava e quindi
l’ascensore sociale era accesso.
Questo
comportamento, la “mente signorile” è in effetti un “caso estremo di individualismo”[29] ed è connesso con il
potente meccanismo di sostegno dell’io che passa sotto il nome di “politicamente
corretto”[30]
nel quale la legittimazione scende dall’alto verso il basso.
Pensando
che questo comportamento sia spiegazione della disoccupazione giovanile,
Ricolfi giudica che sia anche il fattore che, aggregandosi, mette l’Italia in un
sentiero discendente (p.155).
Ma
solo l’Italia ha questo genere di società? Per l’autore anche Grecia, Spagna e
Lussemburgo, sono sulla strada ma a tutti e tre mancano dei fattori (cosa
manchi alla Grecia, tra stagnazione, opulenza e schiavi, mi pare noto).
Siamo,
io credo, sulla buona strada per raggiungerla, ma per ragioni del tutto
diverse.
[1] - La Fondazione Hume, è intitolata al
grande filosofo settecentesco, uno dei padri del liberalesimo, dopo Locke e Berkeley
il fondatore della scuola empirista inglese.
[5] - Chiamo qui “insorgenza
neoliberista” quel processo che le élite culturali italiane, soprattutto quelle
di sinistra, ritenute colpevoli di essere state comuniste, hanno compiuto tra
gli anni indicati andando ad alimentarsi disciplinatamente dalle fonti del
pensiero neoliberale, in particolare nativo di Chicago.
[6] - Si veda ad esempio Jean-Claude
Michéa, “L’impero
del male minore”, la legittimazione e ispirazione più profonda del
liberalismo è il rifiuto dell’incertezza derivante dagli scontri sociali e
culturali e l’aspirazione ad una vita tranquilla, concepita nella forma della
borghesia ascendente. L’energia impegnata nell’etica dell’onore viene dirottata
verso il lavoro e l’industria, sulla base di una promessa essenziale: la
ricchezza porterà la pace. E’ assolutamente necessario a questo concetto che ci
sia progresso. Ovvero pacificazione ideologica, persino in un popolo
di demoni, come scrive Kant in “La pace perpetua”, i quali si
dedichino ai propri affari e così producano il maggior bene per tutti. Non si
può concepire la logica del liberalesimo senza credere a questa armonizzazione,
necessaria e progressiva, degli interessi sulla base del solo “dolce commercio”
e del minimo necessario di autorità. Quel che chiamiamo l’economia deve, quasi
da sola, realizzare il miracolo secolare di renderci felici, fraterni e buoni,
perché ricchi. Il problema è che se manca la crescita, e tanto più se
interviene un lungo processo di impoverimento e di insicurezza, l’incanalare
grazie a strumenti giuridici e di mercato vizi privati e virtù fallisce
nell’obiettivo (che è quello prioritario) di ottenere una società ben ordinata.
Come correttamente scrive Michéa, mercato e diritto sono forme di
socializzazione, ma secondarie, e non sono in grado di fondare le proprie
stesse basi. Esse si basano su una preesistenza: quella della lealtà e di un
qualche sentimento morale che sia in grado, essendo abbastanza condiviso, di
presupporre da parte degli attori il reciproco riconoscimento e quindi la
fiducia reciproca. Non si può avere fiducia sulla base del calcolo egoistico,
perché si retrocede ad infinitum nel gioco strategico. Occorre un fondamento
antropologico radicato nel “ciclo del dono” (Mauss, “Saggio
sul dono”).
[7] - Concetto presente sin dalla
ricerca di Engels sulla condizione della classe lavoratrice inglese, e abbondantemente
ripresa nella letteratura di settore, per il quale
[8] - Dato che per 10€ rilascia due
account, e questi in effetti possono essere condivisi anche tra più utenti, l’unica
sanzione è che non è possibile vederlo contemporaneamente.
[9] - La classe media sociologicamente
dominante è in sostanza un prodotto specifico delle politiche pubbliche e
fiscali di protezione e redistribuzione del trentennio successivo alla second
guerra, prima è sempre stata una significativa minoranza. Su questo, ad
esempio, si veda il classico lavoro di Piketty.
[10] - Si potrebbe ad esempio,
riportare il libro di un sociologo che non richiede presentazioni come Arnaldo
Bagnasco in “La
questione del ceto medio”, 2016, o Branko Milanovic, “Ingiustizia
globale”, 2018, oltre che l’ampia analisi di Thomas Piketty, “Il
Capitale del XXI secolo”, 2014, che dimostra la crescita delle
ineguaglianze in occidente, Anthony Atkinson, “Disuguaglianza”,
2017, Christophe Guillyu, “La
società non esiste. La fine della classe media occidentale”, e via
dicendo…
[11] - Per una straordinaria
ricostruzione, sia pure concentrata sul caso francese si veda Pierre
Rosanvallon, “La
società dell’uguaglianza”, 2011. Ad esempio nella prima parte
dell’ottocento, conservatori come Girardin qualificavano come “barbari” gli
operai in rivolta scrivendo: “la miseria è il castigo della pigrizia e del
vizio. Ecco gli insegnamenti che ci dà la Storia”. Le classi lavoratrici
sono, per il moralista ottocentesco, viziose e pericolose; occorre dunque
istruirle e moralizzare.
[12] - Si veda “Tommaso
Padoa-Schioppa, interventi prima e dopo la crisi”, il 26 agosto 2003, nel
contesto della discussione sulla proposta di Costituzione Europea, Padoa
Schioppa (quando la crisi finanziaria non si è ancora presentata sulla scena,
ma solo due anni prima si era avuta la crisi delle società tecnologiche, la
bolla .dot-com, che portò alla crisi per la cui risoluzione i mercati furono
inondati di capitali da parte della FED), scrive in un articolo per il Corriere
della Sera nel quale è contenuta una difesa a spada tratta della logica
delle cosiddette “riforme strutturali”. L’economista considerato “di sinistra”
iscrive in tal modo il proprio nome in continuità con l’approccio liberista
ante litteram di Luigi Einaudi che descrive così: “lasciar funzionare le leggi
del mercato, limitando l’intervento pubblico a quanto strettamente richiesto
dal loro funzionamento e dalla pubblica compassione”.
Ascrive anzi questa prospettiva a Francia
e Germania (il 14 marzo Schroder aveva tenuto il discorso di lancio dell’Agenda
2010, davanti al Bundestag) e definisce il suo campo di azione in questo modo:
pensioni, sanità, mercato del lavoro, scuola. In tutti questi settori “attenuare
quel diaframma di protezioni che nel corso del ventesimo secolo hanno
progressivamente allontanato l’individuo dal contatto diretto con la durezza
del vivere, con i rovesci della fortuna, con la sanzione o il premio ai suoi
difetti o qualità”. Padoa Schioppa, che si sente abbastanza incredibilmente
di sinistra, riesce a scrivere, senza che gli tremi la penna, che “cento,
cinquanta anni fa il lavoro era necessità; la buona salute dono del signore, la
cura del vecchio, atto di pietà familiare; la promozione in ufficio,
riconoscimento di un merito; il titolo di studio o l’apprendistato di mestiere,
costoso investimento. Il confronto dell’uomo con le difficoltà della vita era
sentito, come da antichissimo tempo, quale prova di abilità e fortuna”. Simili
frasi prefigurano –anche e soprattutto nella prospettiva etica- una totale
liquidazione dello stato sociale, dei diritti di dignità e protezione che
rendono la vita sicura e degna, dell’equilibrio che rende possibile azionare i
propri diritti ed esercitare il potere cui la natura di libero cittadino ha
dotato ognuno. Prefigurano il ritorno alla società gerarchica passata, nella
quale l’individuo è abbandonato alle proprie forze di fronte al preminente
potere del denaro e della gerarchia sociale. Padoa Schioppa arriva ad esprimere
una frase che potrebbe essere virgolettata da un testo preso da un robivecchi:
“il campo della solidarietà … è degenerato a campo dei diritti che un
accidioso individuo, senza più meriti né doveri, rivendica dallo Stato”.
[13] - Naturalmente ci sono un
intreccio complesso di cause.
[14] - Per la teoria marxiana, il
livello minimo di consumi, al di sotto del quale è impossibile la sopravvivenza.
Ma già in Engels e Marx il termine è sempre relativo, si tratta della
sopravvivenza non meramente fisica ma sociale. Dunque, dipende dalle condizioni
condivise in una società, dal suo livello medio. Si potrebbe individuare in
Italia con disporre di una casa con un vano a persona, capacità di vestirsi,
mangiare, comunicare, muoversi anche se con mezzi pubblici. L’Istat definisce
la “soglia di povertà assoluta” come il valore monetario, a prezzi correnti,
del paniere di beni e servizi considerati essenziali per ciascuna famiglia,
definita in base all’età dei componenti, alla ripartizione geografica e alla
tipologia del comune di residenza. Per una famiglia di due persone nel centro Italia
è di 1.000 euro al mese.
[18] - Citati, Peter Glotz, “Il moderno
principe nella società dei due terzi”, Il Contemporaneo, n.8, 1987; Ralph
Dahrendorf, “Dalla società del lavoro alla società dell’attività”, in P.Ceri, Impresa
e lavoro in trasformazione, Il Mulino, 1988.
[19] - O, per meglio dire, dipende dal
confine e dalle esclusioni che si fanno, ma senza dirlo espressamente, se nella
media si tagliano i “non italiani” (che hanno un reddito basso e sono comunque
un decimo del totale dei residenti), e magari i poveri e quelli a rischio
povertà, facendo in effetti una media della sola parte medio-alta della società
italiana, forse si possono ottenere questi numeri.
[20] - Un classico sempreverde della cultura
di destra liberale, la produttività a capitale costante deve garantire un “adeguato”
profitto, e quindi fisso questo e fisso l’investimento di capitale
(massimizzato il primo e, quindi, minimizzato il secondo) è il salario che deve
essere flessibile.
[21] - Cosa particolarmente vera negli
ultimi anni settanta, quando ha compiuto il ciclo di studi universitario il
nostro, che quindi probabilmente sa di cosa parla.
[22] - Anche qui, se la relazione
sussiste, la soluzione di abbassare la soglia di istruzione (che non è solo
finalizzata al lavoro ma anche alla creazione di uno spirito critico diffuso e
quindi della precondizione per una democrazia sviluppata) è quella comoda per
le élite. Quella scomoda è di spingere la crescita. In effetti le élite consolidate
non amano la crescita perché aumenta la concorrenza verso di loro e diluisce il
loro potere sociale.
[24] - Il cosiddetto “effetto ricchezza”,
per il quale avere le spalle coperte da un patrimonio familiare induce a
consumare di più.
[26] - Nella nota
metodologica dell’indagine di Banca d’Italia si legge che i “trasferimenti”
includono: pensioni, assistenza economica pubblica, come il Cig, borse di studio,
assegni per alimenti e/o regali ricorrenti. Mentre i redditi da capitale includono:
i redditi da fabbricato (effettivi ed imputati), i redditi da capitale
finanziario.
[27] - Ad esempio, i redditi da
capitale includono i redditi da fabbricato e quelli da capitale finanziario, il
40% per i non lavoratori potrebbe essere un effetto di redditi assoluti molto
bassi e redditi “da fabbricato” quindi in proporzione maggiori.
[28] - E’ la cosiddetta personalità “post-materialista”.
Si veda la storica analisi di Ronald Inglehart, “La
società post-moderna”, 1988, ma anche, in una chiave più positiva
quella di Antony Giddens, “Identità
e società”, 1991. Lo snodo centrale della letteratura che negli anni
novanta esplora la nuova forma sociale ed esistenziale della ‘cetomedizzazione’
della società dei consumi opulenti, estesa a relativa maggioranza della
popolazione (oltre il 50%), è la individualizzazione e la “cultura del rischio”
(Beck, Giddens, Inglehart, Bauman. Gli individui che hanno raggiunto un certo
livello di benessere e danno per acquisita la protezione, la sicurezza che
attribuisce lo ‘status’ di ceto ‘medio’, si sentono poste di fronte a
molteplici scelte e davanti a possibilità crescenti. Nella ‘condizione di
incertezza’, quando associata ad una sicurezza scontata, emergono plurimi
processi di costruzione di senso e “riflessivi”. Sarà allora proprio il
“rischio”, con un classico topos liberale, a fungere da attivatore dei percorsi
di vita riflessivi ed individuali. Per Giddens, in particolare La modernità
contemporanea è dunque un “processo di ritrovamento di se stessi” che vive
nella tensione tra pulsione all’autenticità e apertura al mondo determinata dai
sistemi astratti che ci circondano e definiscono. Chiaramente questo è fonte di
ansia, tuttavia essa in positivo è “stimolo per risposte utili per l’adattamento
ed anche per prendere delle nuove iniziative” (“Identità e società”, p.19).
Dunque, in sintesi, “la modernità è un ordine post-tradizionale in cui la
domanda ‘come vivrò’ deve ricevere una risposta attraverso le decisioni
quotidiane riguardanti come comportarsi, cosa indossare, cosa mangiare o altro”.
Il passaggio a quella “contemporanea” (p.24) si dà attraverso alcune
accentuazioni: un estremo dinamismo; la separazione di tempo e spazio e il
conseguente disancoraggio delle istituzioni sociali, lo sradicamento dai
contesti locali e la riarticolazione in ambiti spazio-temporali definiti da
segni simbolici (come il denaro) e sistemi esperti (conoscenza tecnica).
[29] - C’è in effetti anche qui il
riverbero di analisi degli anni ottanta e novanta, si veda l’interessante libro
di Christopher Lasch, “La cultura del narcisismo”,
1979.
[30] - Si veda Jonathan Friedman “Politicamente corretto”.
Identifico con questo termine una forma di categorizzazione e quindi di
comunicazione caratterizzata dalla ‘logica associativa’ (se dici una cosa,
allora devi essere in quella data identità preclassificata), e
che fa prevalere la ‘valenza indessicale’ (cioè il contesto della
comunicazione) sul contenuto semantico (il significato)”. Rifiutandosi
all’argomentazione l’effetto sociale, e di potere, che si produce è che
inquadrare un’affermazione come “politicamente corretta” (o s-corretta) consente
di neutralizzarla; essa non può più essere localmente vera, perché è
semplicemente troppo terribile. Al contrario diventa vero ciò che è
buono, e perché lo è. Insomma, “il terribile e il meraviglioso
sono autoevidenti”. Dunque si ha un utilizzo politico della morale per
controllare la comunicazione e censurarla ab origine in tempi
di incertezza. Il “politicamente corretto” è coevo all’insorgere di una
nuova élite transnazionale (ben vista da autori chiave come Rorty, Lasch e Dahrendorf)
che cerca di neutralizzare l’opposizione
moralizzando l’universo sociale e dunque mobilitando, a fini di
controllo, la vergogna. La simmetria essenziale è con la politica
mondiale a taglia unica (il “Washington Consensus”) ed i suoi TINA e
passa per la riclassificazione del liberale come progressista e del socialista
come reazionario. Ciò che è progressista è l’olistico, il nomade/rizomatico, il
diffuso e l’orizzontale. Ciò che è reazionario è il moderno, razionale,
astratto, verticale. La ‘vecchia’ classe lavoratrice diventa, da soggetto
storico del progresso, ‘deplorabile’ e nazionalista, egoista e meschina. Mentre
il migrante, rifugiato, le minoranze colorate, le identità plurali, diventano i
nuovi eroi. Questa è una cultura fondata sul narcisismo (Lasch) che
egemonizza una forma di controllo basata sulla classificazione creando un
controllo operativo (“matriarcale”) basato sulla vergogna. Le varie
versioni del “politicamente corretto” sono l’ideologia funzionale allo stato
della tecnica e ad un modo di produzione che da lungo tempo ha dismesso i ferri
vecchi della triade Dio-Stato-Famiglia, inseguendo la forma ‘liquida’ della
merce e costruendo un ‘umano non sociale’ abbandonato a tutte quelle forme di
autoritarismo nascoste nell’apparenza di pienezza di diritti la cui piena
espressione è il mercato autoregolato.
Condivido in toto
RispondiEliminaFilippo
Segnalo due utili interventi, per molti versi integrativi, di alessandro guerani:
RispondiEliminahttps://www.econopoly.ilsole24ore.com/2020/01/02/produttivita-lavoro-ricolfi/
https://www.econopoly.ilsole24ore.com/2020/01/05/ricolfi-signorile-massa/
Ottimo articolo. Purtroppo molti liberali tendono ad essere liberisti, anziché adulti.
RispondiElimina