Nell’epoca
in cui austeri dizionari on line, come quello della Treccani, coniano termini
come “sovranismo psichico”[1], riprendendo un Rapporto
del Censis[2] ed avviando una polemica[3] ben meritata, l’illustre sociologo
torinese Marco Revelli, di cui abbiamo già letto altro[4] si impegna in una damnatio
di quel che identifica come un populismo 3.0.
Il
libro
del politologo e sociologo torinese (anzi cuneese) ex Lotta Continua e poi
Bobbio boys[5],
sembra interessante soprattutto per questo: è perfettamente espressivo dello
spiazzamento della migliore cultura della sinistra italiana.
Una
cultura che è forse di sinistra, ma certamente da lungo tempo completamente
disancorata con la tradizione socialista[6], se pure nella radice
dalla quale proviene l’ex ribelle fattosi pompiere torinese è mai stata
connessa[7].
Ciò
che accade nel presente a Revelli appare chiaro da un lato e completamente
oscuro dall’altro. È in corso quella che chiama una “rivolta dei margini”,
un ‘ribollire’ di periferie in fibrillazione (p.56). Svolgendo sotto questo
profilo un’analisi simile nella descrizione, ma del tutto opposta nella
presa di posizione, a quella che ad esempio abbiamo letto nel lavoro del geografo
Guilluy[8], Revelli individua una
precisa rappresentazione dell’inversione tra sinistra e destra negli esiti
elettorali che dal 2016, sempre più chiaramente, si sono accumulati (Brexit,
Trump, fino ai Gilet Gialli). Ma ritrova, proprio come Guilluy, una conferma
anche nelle vittorie del centro, quella di Macron in Francia, che ottengono il
successo esercitando una loro forma populista, come fece, peraltro Renzi nella
sua breve parabola[9].
Quel che si sta verificando è dunque una rivolta, precisamente “dei margini”.
Ma
mentre il geografo francese sta con i rivoltosi, sperando possano divenire
rivoluzionari, il politologo piemontese sta senza alcun dubbio con il centro
assediato. La cosa non potrebbe essere più chiara. E non
potrebbe essere più interessante. Come nel caso del Censis e della Treccani,
qui è in corso il principio di uno scontro civile totale, occorre
prendere posizione[10].
Come
si prende posizione? Avvicinandosi ai simili. È quel che fa
Revelli, in effetti, ed è quel che tutte le élite, con la loro ampia corona di
organizzazioni, media, ed ambienti sociali, fanno. Si tratta di alzare le
bandiere della ‘civiltà’, del ‘buon senso’, della buona educazione, della
‘competenza’ contro i barbari, incivili, incomprensibili, plebei, incompetenti,
rozzi e ineducati, e quindi anche pieni di ri-sentimento, di rancore.
Gente lontana, cattiva, la cui attitudine è distruttiva, l’opposto di ogni buon
ordine. Questa “fibrillazione dei margini”, che il nostro professore osserva
con distacco da entomologo, come fosse un brulicante mondo di insetti, è infatti
pieno, al suo sguardo lontano, di “rancoroso distacco e ostilità nei confronti
delle élite governanti” (p.68). Di rancore che “i secondi” portano ai “primi”,
tra i quali, è evidente, si annovera per una sorta di diritto di nascita[11].
I
“secondi”, vivono in quelli che descrive con precisa immagine spazi a
“scorrimento più lento”, in sé quindi portatori dello stigma della lontananza
dal principio della modernità e della civiltà. Questi “lenti” e per questo
lontani (ed inferiori) vivono in spazi marginali, nella “province, le zone
rurali, le periferie dei poveri”. Si tratta di spazi nei quali, l’immagine è di
potentissima ed indicativa evocazione, “domina il buio, la luce privata costa,
quella pubblica è magari fulminata o intermittente”.
Se
domina il buio insorgerà il maligno. Non tarderà a
palesarsi.
Il
sociologo qui introduce alcune spiegazioni, in epoca di risorse pubbliche
calanti e di dominio dello spirito del mercato i servizi sono andati dove potevano
essere sostenuti, ed hanno abbandonato le periferie, incoraggiando un circolo
vizioso discendente nel quale molti, e molti territori, sono affondati. Naturalmente
chi è vicino a chi affonda, anche se sta per ora un poco meglio, ha paura. Ha
paura di raggiungere chi sta scendendo (p.76). Del resto ormai mancano tutti
quei corpi intermedi, come i vecchi partiti di massa (quelli socialisti e la
democrazia cristiana) che sostenevano una relazione interna con i ceti
marginali. Questa relazione, ormai persa, è descritta come disciplinante;
attraverso l’egemonia culturale che il mondo allargato della sinistra, nella
quale svolgevano ruolo centrale e strutturante i ‘chierici’ dei quali l’autore
è esponente, lo spirito del buio era tenuto a freno. Oggi il freno è venuto
meno.
Tramite
gli effetti di questo venire meno è interpretato da Revelli il dispositivo
centrale del populismo. L’uomo che si sente ‘perduto’, perché si rende conto di
essere periferico, catturato nella lentezza e nel buio, abita spesso in una
piccola città, assiste alla proletarizzazione diffusa e alla conseguente
perdita di status ne è il protagonista. Si tratta di quello che moltissimi
sociologi ed economisti identificano come l’arretramento della classe media.
Il
populismo è, in altre parole, l’effetto di una disattivazione. La disattivazione
del dispositivo della cetomedizzazione che era sviluppato dall’insieme di
politiche e dei corpi sociali che le trasmettevano (sindacati, centri
dopolavoristici, circoli sportivi, associazioni, volontariato, partiti).
Dispositivo che, sottolineo ancora, sotto la guida degli intellettuali
‘organici’, disciplinava i ‘subalterni’, spingendoli ad accettare il loro posto
nel mondo. Questa è una delle possibili declinazioni del concetto di
“riformismo” nel quale la cultura azionista e quella ex socialista in
particolare di matrice comunista (e della ‘nuova sinistra’) si è ritirata dopo
gli anni ottanta.
In
realtà è sempre stata la declinazione principale del termine.
Revelli
la tocca davvero forte. Con un richiamo prima a Kracauer[12], poi a Bloch[13], peraltro entrambi datati
e quindi fuori spazio, lancia un anatema sui ribelli che si rifiutano a farsi
ancora guidare. Sarebbero niente di meno che inumani.
Con
la stessa mossa del Censis e della Treccani, ma molto più violento, riduce ogni
opposizione al disciplinamento che il riformismo diretto dall’alto produceva
sulle masse, e che è ormai del tutto screditato, con la tecnica dell’evocazione
del male assoluto. Nel 1933, quando sale al potere Hitler, Ernst Bloch
scrisse: “non è solo l’uomo mite a scomparire: scompare tutto quanto reca il
nome di uomo”. Ciò che accadde, secondo lo scrittore tedesco, alla insorgenza
del primo nazismo è quindi una metamorfosi degli uomini in demoni[14].
Seriamente,
per decine di pagine, procede a paragonare, fino ad identificare, il male del
nazismo con la rivolta degli elettori contemporanea[15]. L’insorgenza di Hitler
con l’eventuale, aborrita, vittoria democratica del più vecchio partito
italiano, pur criticabile[16].
Richiama
una presunta “tara antropologica”, il male nell’uomo, una “cattiveria”,
un “compiacimento nell’inumano”, il gusto di “mostrarsi crudeli”, o
“indifferenti al male altrui” (cosa che sarebbe, da notare, per lui equivalente).
Certo l’indifferenza al male altrui è, in effetti, quella che lui stesso esercita,
in quanto nomina ma non comprende il senso di essere abbandonati e traditi
dalle politiche che la sinistra, in primis, ha portato avanti. Politiche che ha
lui stesso avallato qaundo non mancò di dare il proprio pensoso appoggio a
Monti[17] (dato che scacciava
l’altro male assoluto, all’epoca rappresentato da Berlusconi).
Ovviamente
il punto di massimo esercizio di questo paradigma interpretativo, che segnala
in modo davvero plastico l’abbandono dello spirito popolare da parte delle
sinistre rifugiatesi da decenni nelle loro cittadelle (siano esse sociali,
universitarie o variamente baronali), è l’immigrazione. Una ventina di
pagine di autentici deliri. In cui le “vere vittime” sono gli immigrati (lo
sono, naturalmente[18], ma non per questo le
plebi abbandonate a se stesse dall’assetto neoliberale non lo sono, non per
questo sono “false”). Tutte le politiche di respingimento sarebbero allora semplicemente
“disumanizzazione” (dal che si deduce che sono inumani in pratica tutti i
popoli del mondo, e lo sono da sempre[19]). Per respingere sarebbe
necessaria una sorta di “neutralizzazione morale” ed il “rovesciamento del
rapporto vittimario” (p.101). Questo rovesciamento poggerebbe sulla “percezione
di una concorrenza sleale”, che viene vissuta da chi si sente assediato dalle
bollette da pagare, non riesce più a stare dietro alle scadenze e a pagare la
scuola ai figli, o a vestirli, soffre la deprivazione corrispondente, non si
può pagare le cure mediche, e via dicendo. Si tratta di “un grande serbatoio di
disagio materiale” che, però, essendo solo un “disagio” (e non una
disperazione, che evidentemente il professore, non avendola mai vissuta, non è
in grado di capire e neppure di com-patire) non basta a spiegare quel che Revelli
identifica come, niente di meno che “uno spaventoso svuotamento del sé
dall’umano”. Una frase pomposa, come se il sé possa essere svuotato
dall’essenza umana, quasi come si toglie un liquido da un recipiente. Una frase
che alluderebbe a “qualcosa di mentale”, un vedersi fuori del “racconto collettivo”,
invisibili.
C’è
qualcosa del genere, accade, ma resta il fatto che per il nostro professore
torinese il ‘mentale’ implica immediatamente una “regressione nel disumano” che
nessun dolore subito può giustificare; implica una “metamorfosi in demoni” di
gente comune che, se poteva essere magari sostenuta da Bloch (se pur nel 1933 e
non nel 1943), suona strana, stridula applicata oggi a persone che, in fondo,
protestano contro la perdita di senso e di democrazia.
Suona
ancora più strana nel momento in cui l’autore si mostra consapevole che c’è una
connessione con il fatto della globalizzazione. Un evento che era stato
indicato dalla sinistra come la “premessa per un nuovo, più universalistico,
umanesimo”, mentre ne è nemico. Ma questa relazione è ricondotta a sua volta ad
una “sindrome”, ovvero è ancora medicalizzata. La sindrome non elaborata del
melting pot in cui si sciolgono (e devono farlo perché è un destino storico) le
identità collettive e “nessuno riesce più ad avere un proprio ruolo e un proprio
status corrispondente, garantito”. Qui compare, scritto da un garantito
ovviamente, un gioco di prestigio dialettico:
“cosicchè
si crede – falsamente – che segregando e sigillando ‘fuori’ quell’umanità
eccedente, che preme oltre i confini e che si vorrebbe escludere rafforzando
quei confini (peraltro sempre più precari), si possa ritornare ad ‘essere’ –
come prima – qualcosa, senza accorgersi che così, sciaguratamente, si
finisce per estinguere anche quel residuo di umanità che si conservava dentro,
e che ci salvava. Come individui e come ‘popolo’. Ci si riduce, appunto, a niente”
(p.108).
Sarò
sincero, è un esercizio di stile, ma non significa assolutamente nulla.
Intanto non c’è qualcosa come una “umanità eccedente”, questo è esercizio di
pura astrazione liberale del tipo peggiore[20], esistono invece sempre
esseri umani situati, che sono ‘nati da donna’ e che sono stati cresciuti
in una cultura, connessi a degli obblighi e portatori dei diritti
reciprocamente riconosciuti in comunità umane specifiche. E questi esseri umani
possono essere talvolta ‘eccedenti’, quindi indotti o costretti ad emigrare, ma
ciò non ha proprio nulla a che fare con l’essere qualcosa (ovvero dotati di
risorse e diritti, ordinati nel mondo) o con il non esserlo. Comprendo molto bene
che la generazione dei chierici alla quale appartiene Revelli abbia fatto
dell’abbandono del popolo al suo destino un segno morale, un elemento di
distinzione e marcatore di superiorità, l’identificatore di una appartenenza e
di una promozione[21], ma la questione di essere
qualcosa, usando gli stessi termini, si pone, e non è affatto vana. Avere,
come ovviamente si ha, un confine ed affermare in esso una sovranità è una
precondizione per poter lottare (certo contro le élite che l’autore così
ben rappresenta), per tornare ad essere. Non è questione di avere “residui di
umanità” che “salvano”, idea che solo un borghese con tutto l’essenziale al
sicuro può accarezzare. È questione di avere di nuovo il materiale
necessario.
Per
nascondere questa semplice posta, keynesiana si potrebbe dire, della
redistribuzione necessaria per rimettere in questione i rapporti di forza, ci
si sposta sulla Repubblica di Weimar, la Turchia del 1916, la Roma del tardo
impero, addirittura Sodoma e Gomorra… per sostenere la tesi piuttosto astorica
ed astratta che la pietà sarebbe “sostanza indivisibile”, o si ha per tutti e
sempre o non c’è, o la si prova o se ne è privi. Se ne deduce che Revelli ne è
privo, dato che prova un evidente disprezzo di classe, con assoluta incapacità
di comprensione, delle sofferenze di almeno dieci milioni di italiani,
cinquanta milioni di statunitensi, un’altra trentina di milioni di europei, che
magari talvolta si fanno tentare a votare populista (qualunque cosa
significhi), ma certo vivono la disperazione di sentirsi scendere ed arretrare
giorno dopo giorno da anni. Come sia, al netto di qualche altra ridicolaggine,
come il sacro dovere di ospitalità (che è sempre stato altamente selettivo) o
l’abuso di Cicerone e Seneca, il tono resta questo.
Ovviamente
i politici che hanno interpretato questo sentimento di dolore ed abbandono dei
propri concittadini sono dichiarati “psicopatici” (anche se “di successo”),
colpevoli di “sdoganare il male” e di un comportamento mimetico che compie la
mossa del “assorbimento mediante abbassamento” (p.126). Colpevoli di utilizzare
ed esercitare un linguaggio semplificato e di cercare di passare dal principio
di legittimazione nel quale le élite “positive” sono esperte, il “paradigma
della superiorità”, a quello nel quale eccellono quelle populiste, il “paradigma
del rispecchiamento”.
In
altre parole, invece di mostrarsi “migliori” (ovvero aristoi) questi
nuovi politici si mostrano schietti, talvolta volgari, praticano
“l’abbassamento” verso un popolo che è “un aggregato linguistico maleodorante
di termini fallici e in genere sessuali, di posteriori e promiscuità, da
frequentatori di angiporti e di trivii; un popolo, appunto ridotto ai propri
attributi corporeo-materiali, capace di recepire con particolare rilievo i
richiami elementari della riproduzione genitale o gastro-intestinali”.
In
questi passaggi lo scontro tra estetiche e quindi tra classi non potrebbe
essere più chiaro. Si tratta di una profonda frattura, incomunicabile, una matrice
di reciproco disprezzo e finanche di odio. Ma non sono solo i “populisti” che
odiano gli aristocratici alla Revelli, è, evidentemente, anche che lui odia
loro.
Revelli
sente emanare da questo popolo frammentato quello che chiama “un acre odore di
zolfo”, una società regredita ad una condizione asociale. Una regressione alla
“forma informe del vuoto” (p.163). Una forma che “farà il suo giro” e nella sua
ambiguità costitutiva sta prendendo la forma di una sorta di “populismo 3.0”,
più espressamente “di destra” che lavora con la vecchia tecnica del “capro
espiatorio”.
Scrivevamo
all’inizio che è il principio di uno scontro civile totale.
Gli
allineamenti sono abbastanza evidenti, anche formazioni intermedie, sensibili
al “momento populista”[22] sentono il richiamo della
foresta, i tam tam della tribù che battono. Oppure è evidente nella
mobilitazione semispontanea delle “Sardine”[23] che appare sempre più
come un movimento vasto e reattivo, trascinato dalla paura esistenziale. Se
quel che si muove dal fondo e dalla periferia della società occidentale è una ‘rivolta
degli elettori’ alla loro designazione come vittime (della storia, secondo la
lettura di aristoi come Revelli), quel che dall’altro lato si allinea è una
contro-rivolta, un singolare movimento pro-establishment composto da ceti e frazioni
di classe non solo protetti e garantiti, ma accumunati da un desiderio di status.
Sostiene Guilluy che la frazione dominante della società occidentale ha
abbandonato i segmenti popolari e si è distaccata (una tesi che a suo tempo
avanzò anche Lasch ed altri), e che l’egemonia sta passando al basso.
Di
fronte a questo movimento ‘polanyiano’[24] è in corso una sorta di
contro-contro-movimento. Si tratta di un allineamento che in altri termini
avremmo definito “sovrastrutturale”. Una spaccatura che nasce dalla paura di alcuni
mondi vitali di essere travolti, dalla “rivolta degli elettori” che si sentono
messi a margine e scacciati nell’irrilevanza.
Il
mondo vitale plurimo che si mobilita contro la rivolta, e che si esercita in
una singolare contro-rivolta pro-establishment, è aggregato da un certo tono libertario,
da un’estetica liberale e da un afflato ancora competitivo, dal desiderio se
non altro di essere cooptato di accedere alle aree dense e veloci. Spesso si
assommano anche i militanti di movimenti non distributivi, come l’ambientalismo,
le lotte per i diritti civili, il pacifismo, il femminismo. Movimenti che
hanno, e da sempre, una chiara egemonia piccolo-borghese e metropolitana. In
questo campo c’è maggiore densità degli urbani, di coloro che hanno una
formazione media o alta, che condividono quindi le narrazioni e le strutture
cognitive dominanti, sono stati formati in esse. In termini di stratificazione
sociale (ma ricordo che l’adesione ai ceti medi è questione di status percepito
molto più che di mera condizione materiale), troviamo in questo campo allineato
con la contro-reazione impiegati, giovani precari ad alto sfruttamento (ma “provvisorio”),
insegnanti, studenti, quadri pubblici, piccolo borghesi anche autonomi,
professionisti, pensionati a reddito alto, imprenditori di imprese rivolte ai
mercati esteri. Insomma, coloro che sono nel centro o aspirano ad accedervi.
Nello
scontro civile l’altra parte, i barbari e gli inumani, i demoni, sono molto più
operai, ancora giovani precari, ma con poche speranze di riscattarsi, certo
anche alcuni sottoproletari, alcuni dipendenti pubblici e privati, ancora
segmenti di piccola borghesia e di lavoro autonomo, molti professionisti, anche
imprenditori che lavorano verso il mercato interno e ne percepiscono la
sofferenza. Coloro che sono al margine sanno di esservi.
Le
contraddizioni attraversano entrambi i campi ed i confini sono tutt’altro che
impermeabili, soprattutto i meri interessi economici non spiegano tutto. Se la
prima Italia, quella alta e centrale, è per il mercato, di cui apprezza le
virtù salvifiche, lo spirito libero e competitivo, il vitalismo, la seconda
Italia, quella bassa e periferica, normalmente avversa lo Stato, la sua
imposizione fiscale. Contraddittoriamente la prima si trincera in esso, la
seconda ne richiede la protezione, sociale e lavoristica.
Lo
scontro civile totale, al quale il libro di Revelli porta armi, nasce dall’incapacità
di entrambe le Italie, della rivolta come della contro-rivolta, di
comprendere se stesse e di venire a patti con la propria estetica. Non si
riconoscono vicendevolmente l’appartenenza al campo dell’umano, e parlano
lingue diverse.
Si
riconoscono al primo sguardo, al movimento, al vestiario, alla prima parola, e
si odiano.
[1] - Il neologismo compare a questa
voce: “sovranismo psichico s. m. Atteggiamento mentale
caratterizzato dalla difesa identitaria del proprio presunto spazio
vitale. ♦ Sovranismo psichico, prima ancora che politico. È la definizione del
Censis nel 52esimo rapporto presentato ieri al Cnel a Roma. Più che un’analisi
sui dati dell’economia, e della sua crisi, l’indagine trova un suo interesse
per il panorama che offre sulla crisi della soggettività nell’epoca del risentimento
e del «populismo» al potere. L’espressione ridondante di «sovranismo» non
allude solo al conflitto tra Stato-Nazione e tecnocrazia europea, ma al
cittadino-consumatore che «assume i profili paranoici della caccia al capro
espiatorio». (Roberto Ciccarelli, Manifesto.it, 8 dicembre 2018, Italia) •
Non accettiamo la realtà del nostro futuro che sarà nella globalizzazione dei
mercati e in una società multietnica e multirazziale? Noi italiani che corrispondiamo
a meno dell’1% della popolazione mondiale vogliamo metterci alla guida
dell’altro 99% affermando che devono fare quello che riteniamo giusto noi?
Naturalmente, in questo modello di pensiero, se gli altri popoli non si
adeguano ci sentiamo incompresi e accerchiati per cui costruiamo dei nemici
mentali che in questo momento storico sono i migranti e le istituzioni
sovranazionali come l’Unione europea, i mercati, il Fondo monetario, etc.
Ringrazio il Censis e il Dr. De Rita per aver chiarito, inventando il termine
sovranismo psichico, questo modello di pensiero e perché poi, inevitabilmente,
sfoci in rabbia e cattiveria verso gli altri. (Luciano Casolari, Fatto
Quotidiano.it, 18 dicembre 2018, Blog) • È vero: sondaggi alla mano, questo
grumo ideologico di nazionalismo securitario e xenofobo seduce molti italiani,
rinchiusi nei miti della “Piccola Patria” e nei riti del “sovranismo psichico”
(per restare alla formula Censis). (Massimo
Giannini, Repubblica.it, 2 gennaio 2018, Commento).”
[2] - 52° Rapporto Censis, che
attribuisce ad un sentimento, come il rancore e quindi la cattiveria,
che è normalmente pensata come una attitudine ad offendere, a far del
male, e quindi la radice di azioni riprovevoli, dannosi, il sovranismo. Cito: “Al
volgere del 2018 gli italiani sono soli, arrabbiati e diffidenti. La prima
delusione ‒ lo sfiorire della ripresa ‒ è evidente nell’andamento dei
principali indicatori economici nel corso dell’anno. La seconda disillusione ‒
quella del cambiamento miracoloso ‒ ha ulteriormente incattivito gli italiani.
Così, la consapevolezza lucida e disincantata che le cose non vanno, e più
ancora che non cambieranno, li rende disponibili a librarsi in un grande balzo
verso un altrove incognito. Una disponibilità resa in maniera pressoché
incondizionata: non importa se il salto è molto rischioso e dall’esito incerto,
non importa se si rende necessario forzare – fino a romperli – i canonici
schemi politico-istituzionali e di gestione delle finanze pubbliche, a
cominciare dalla messa in stato d’accusa di Bruxelles. L’Europa non è più un
ponte verso il mondo, né la zattera della salvezza delle regole rispetto al
nostro antico eccesso di adattismo: è una faglia incrinata che rischia
di spezzarsi. Così come il Mediterraneo non è più la culla delle civiltà e la
nostra piattaforma relazionale, bensì ritorna come limes, limite, linea di
demarcazione dall’altro, se non proprio cimitero di tombe. Gli italiani sono
ormai pronti ad alzare l’asticella: sono disponibili a un funambolico camminare
sul ciglio di un fossato che mai prima d’ora si era visto da così vicino,
perfino a un salto nel buio, se la scommessa è quella poi di spiccare il volo.
È quasi una ricerca programmatica del trauma, nel silenzio arrendevole delle
élite, purché l’altrove vinca sull’attuale. È una reazione pre-politica
che ha profonde radici sociali, che hanno finito per alimentare una sorta di
sovranismo psichico, prima ancora che politico. Un sovranismo psichico che
talvolta assume i profili paranoici della caccia al capro espiatorio, quando la
cattiveria diventa la leva cinica di un presunto riscatto e si dispiega
in una conflittualità latente, individualizzata, pulviscolare e disperata, ma
non più espressa nelle manifestazioni, negli scioperi, negli scontri di piazza
tipici del conflitto sociale tradizionale”.
[3] - Scrive, ad esempio, Andrea Zhok:
“Dopo essere stata presa in giro sui social per mesi la definizione di ‘sovranismo
psichico’ ha l'onore di essere ospitata come voce dalla Treccani online. Forse
è il caso di smettere di ridere e di chiederci se ci siano ancora limiti che i
poteri mediaticamente ed economicamente più influenti (l'establishment)
considerano non sorpassabili, o se oramai siamo arrivati al punto in cui si
ritiene che valga tutto, assolutamente tutto, pur di abbattere l'avversario. Già,
perché ospitare come voce accreditata una formula che è dimostrabilmente
un'idiozia con finalità di lotta politica spicciola ricalca esattamente una
delle dinamiche descritte da George Orwell, di confisca concettuale e
assoggettamento culturale. Da un lato le istanze del 'politicamente corretto' mettono
fuori legge tutte le espressioni che suonano come critiche dell'opinionismo
mainstream, e dall'altro vengono accreditate unità concettuali farlocche e
strumentali come se fossero descrittori di natura scientifica. Non basta dunque
aver distorto pervicacemente la nozione di 'sovranismo', applicata
originariamente in contesto francofono per le istanze di rivendicazione
autonomiste su base nazionale (Quebec, Irlanda, Palestina, ecc.), trasformandola
in un sinonimo di 'nazifascismo'. Ora si passa alla fase della patologizzazione
del dissenso, che viene ridotto a categoria psichiatrica, a deviazione mentale.
Esaminiamo innanzitutto la definizione che ne viene data: ‘Atteggiamento
mentale caratterizzato dalla difesa identitaria del proprio presunto spazio vitale’.
La prima cosa da osservare è che se togliamo
l'aggettivo 'presunto', che insinua la natura illusoria, erronea del giudizio
(per il loro 'presunto' punto di vista obiettivo), il resto della definizione
rappresenta una descrizione che si attaglia a tutte le specie viventi, a tutte
le unità culturali, istituzionali e statali di cui abbiamo contezza. Infatti,
la ‘difesa identitaria del proprio spazio vitale’ è qualcosa che può valere per
l'identità di un organismo rispetto a fattori esogeni che ne destabilizzano
l'identità, così come per ogni unità politica nota. Anche la multiculturale e
multinazionale Svizzera opera in forme che tendono a preservare la difesa
identitaria del proprio spazio vitale: ha una Costituzione, dei confini, leggi
comuni, regole che ne definiscono l'indipendenza da altre unità politiche entro
uno spazio in cui vivono i suoi cittadini.
Salvo che per colonie, protettorati o entità politiche
fittizie (come alcuni paradisi fiscali), nel mondo non esistono che unità
politiche per cui è ovvio che la propria identità entro uno spazio vitale vada
difeso. Tutto il peso dello stigma nella definizione sta nel carattere di
illusorietà ('presunto'), che farebbe dell' ‘atteggiamento mentale’ una forma
di delirio, di allucinazione malata. Le citazioni che forniscono la
campionatura d'uso dell'espressione sono in questo senso eloquenti. La prima fa
riferimento ad un atteggiamento 'paranoico', cioè appunto ad una categoria
delirante; niente viene aggiunto al quadro, salvo il giudizio insindacabile del
giudicante: si tratta di patologia mentale.
La seconda addirittura, secondo il canone retorico
dello 'strawman', inventa di sana pianta una tesi che nessuno, neanche qualche
ultras neonazi etilista, ha mai sostenuto ("vogliamo metterci alla guida
dell’altro 99% affermando che devono fare quello che riteniamo giusto
noi?"), per poter procedere alla liquidazione forfettaria di ogni
richiesta di sovranità. Ora, ciò che è particolarmente preoccupante in questo
episodio di malcostume culturale è vedere l'abisso di malafede, arroganza e
ignoranza in cui sguazzano soddisfatti precisamente quelli che sparacchiano
accuse ad alzo zero di malafede, arroganza e ignoranza sui dissenzienti. Siamo
di fronte ad operazioni spudorate, prive di scrupoli, in cui vengono avvelenati
i pozzi del dibattito pubblico da coloro i quali sono stati posti a guardia
degli stessi.
E' qualcosa che eravamo abituati a leggere nelle
descrizioni sull'atmosfera di falsificazione culturale nella Controriforma
tridentina o nella Restaurazione napoleonica, pensando che eravamo fortunati a
vivere in un'epoca che li aveva superati. E ci ritroviamo oggi con i sedicenti
portatori sani di 'illuminismo' a fare le stesse cose, ma con meno scuse.”
[4] - Si veda, Marco Revelli, “Finale
di partito”, 2013; “Dentro
e contro”, 2015; “Populismo
2.0”, 2016.
[5] - Marco Revelli, figlio di un
partigiano e poeta come Nuto Revelli, si è laureato in giurisprudenza sotto la
guida di Norberto Bobbio all’avvio degli anni settanta, insegna Scienza della
politica all’Università del Piemonte orientale dalla fondazione fino allo
scioglimento aderisce a Lotta Continua e poi aderisce al gruppo di Primo
Maggio. La sua biografia è perfettamente rappresentativa di un’intera epoca
della cultura italiana.
[6] - Per questa distinzione tra le tradizioni della
“sinistra” e del “socialismo” si veda Jean-Claude Michéa, “I
misteri della sinistra”, che pone in chiave di ricostruzione filosofica
della storia delle idee al centro il semplice fatto, noto a tutti ma da tutti
dimenticato, che il socialismo non è il liberalesimo. Sono stati alleati, nella
lotta contro la reazione, ma non coincidono. E neppure si può dire che il
socialismo sia il superamento dialettico del liberalesimo, in quanto si tratta
di tradizioni di pensiero che da quasi duecento anni procedono in parallelo,
anche se hanno alcuni costrutti comuni. Tra i più profondi e problematici
quello di “progresso”, che entrambe le tradizioni tendono a leggere, in una
sorta di residuo illuminista e positivista, sotto la forma della crescita
economica illimitata e auto programmata. In questo modo la dimensione “sociale”
e comunitaria della tradizione socialista viene oscurata in favore della
fascinazione per il continuo sradicare e rendere flessibili, mobili, della
modernità contemporanea. La pratica della costante rivoluzione culturale della
modernità discioglie nelle gelide acque del calcolo egoista tutte le costituzioni
e le eredità, smontando ciò che permane. E’ chiaro che questa ideologia, e sin
dall’inizio, trova senso e scopo nell’ineguaglianza e guarda il mondo dal punto
di vista dei possidenti. A chi giova la libertà desiderante dai vincoli sociali
ed il trionfo dell’individuo, a chi ha le risorse economiche per goderne e non
vuole limiti a questo, o a chi lotta giorno per giorno per avere l’essenziale?
Nascondendo questo fatto la metafisica del progresso è “lo zoccolo duro di
tutte le concezioni borghesi del mondo” (Michéa), e con esso l’idea che le
forme produttive dominanti siano anche, e sempre, delle forme della ragione
(una sorta di hegelismo pervertito) e dunque “tappe storicamente necessarie”
per la liberazione e la parusia. La versione liberale di questa è la “pace
perpetua” nel contesto di una futura governance mondiale a-politica e della
totale mobilità di ogni fattore (con la dissoluzione di ogni identità, in
quanto ostacolo al dispiegarsi della logica del valore e della sua
appropriazione individuale). La versione socialista sfuma in quella. Ma nella
tradizione socialista è presente anche un altro sistema di idee, radicalmente
indisponibile alla dissoluzione nelle gelide acque del calcolo, la critica alla
reificazione che ricorda come non necessariamente ogni passo “avanti” è per
definizione nella “giusta” direzione. La direzione della storia, in particolare
quando procede verso la dissoluzione delle forme sociali esistenti sotto la
spinta dell’automovimento della tecnologia e dell’economico, non è sempre
apprendimento ed emancipazione. Secondo quanto sintetizza Michéa, “nessun
liberale autentico – ovvero nessun liberale psicologicamente capace di
accettare tutte le implicazioni logiche delle sue convinzioni – potrà mai
ritrovarsi in un’altra ‘patria’ (se con tale nome ormai demonizzato s’intende
ogni primaria struttura di appartenenza che –come la famiglia, il paese di
origine, o la lingua madre- non può derivare, per definizione dalla libera
scelta degli individui) che non sia quella ormai costituita dal mercato globale
senza frontiere” (p.31). I liberali sono, cioè, naturaliter cosmopoliti.
Ma essere ‘conservatori’ non è sempre
identico all’essere di destra, a volte significa essere realmente socialisti. La conclusione di Michéa è prettamente politica: accettando
questa analisi, ne deriva che il ‘significante principale’ intorno al quale
schierare un fronte avverso al selvaggio liberalismo trionfante dei nostri
tempi non può limitarsi alla “sinistra”, ma deve riprendere quelle che chiama
“bandiere a priori” molto più larghe ed unificanti. Che abbiano senso per tutte le
classi popolari e per i loro alleati. E’ chiaramente la questione del
populismo.
[7] - Si veda in proposito Luc
Boltanski, Eve Chiappello, “Il nuovo spirito del capitalismo”, 2014
[8] - Christophe Guilluy, “La
società non esiste”, 2018.
[9] - Si veda la diagnosi dello stesso
Revelli in “Dentro
e contro”, 2015.
[10] - Da una parte la visione
dell’emancipazione come rottura e liberazione da ogni vincolo, in primo
luogo comunitario. In quella che Honneth in “Il
diritto della libertà”,
caratterizzerà in modo convincente come una parziale ed insufficiente libertà
solo “negativa”, da oltrepassare sia in senso “riflessivo” (è libero ciò
che effettivamente scelgo senza essere costretto neppure da passioni e
costrizioni acquisite) sulla scorta delle lunghe riflessioni in questo senso
(da Aristotele alle riprese di Rousseau e dello stesso Kant) sia e più
profondamente dalla “libertà sociale” (sono libero solo quando mi
oriento verso l’altro e insieme sosteniamo i reciproci piani d’azione). Ecco
che un’emancipazione come libertà di essere solo, in concorrenza con
tutti gli altri, invece attiva inevitabilmente forme di schiacciamento
dell’altro, di mancato riconoscimento come persona e di riduzione ad oggetto, a
strumento, e di potenziamento delle ineguaglianze.
[11] - Ciò che accade nel secondo
dopoguerra è, in particolare in alcuni ambienti semicentrali come la Torino
degli anni dai cinquanta ai settanta e ottanta l’effetto di un mito fondativo
imperniato sulla resistenza e sull’azionismo. Chi scrive condivide l’alta
valutazione della resistenza ma bisogna avere il coraggio di dire il vero.
Intorno a questa si sono formate delle vere e proprie aristocrazie che fondano
il proprio potere, radicato in alcuni ambienti densi come l’università e alcune
amministrazioni e soprattutto corpi intermedi essenziali per il funzionamento
democratico, ma anche viatico di cooptazioni che assicurano la continuità,
sulla presunta e rivendicata superiorità morale. Questo tono inconfondibile è
la tecnica attraverso la quale si sceglie ex ante chi è “primo” e chi
“secondo”, chi sta al centro, perché ha il buon diritto che deriva dalla
riconosciuta cultura e dalla indubitabile integrità, e chi è, perché lo deve,
periferico.
[12] - Siegfried Kracauer, “Gli
impiegati”, Einaudi, 1980
[13] - Ernst Bloch, “Il mito della
Germania e le potenze mediche”, 1933
[14] - Ricordiamo qualche antefatto: Nel
1923 la grande guerra è finita da pochi anni e la Germania è nel pieno del
caos, dall’ottobre 1918 al 1919 si sussegue una guerra civile a bassa intensità
nella quale trovano la morte Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, il
governo andò ai socialdemocratici moderati di Ebert che vinsero le elezioni del
19 gennaio 1919, formando la Repubblica di Weimar. A Monaco, invece, venne
proclamata una Repubblica Sovietica che fu repressa dall’esercito. Quindi ci
furono sollevazioni in Polonia e tre distinte sollevazioni slesiane. Nel frattempo
la Germania firmò il Trattato di Versailles accettando condizioni che
umilieranno il paese e porranno le condizioni (come previse un giovane Keynes),
della rivalsa successiva. Tale fu l’odio per il Trattato che due dei firmatari
per parte tedesca saranno successivamente assassinati. Il nuovo Stato è sotto
la pressione di opposti estremismi. Mentre altre sollevazioni comuniste si
susseguivano (nella Ruhr, in Sassonia ed a Amburgo) dal 1923 la Repubblica è
insolvente verso le riparazioni di guerra e le truppe francesi occuparono la
Ruhr; seguirono scioperi massicci e stampa di ulteriore moneta per pagare
comunque gli operai. Partì quindi una breve ma impressionante fiammata di
iperinflazione (causata dalla totale mancanza di fiducia nella moneta e nel governo
che questa rappresentava). Nel 1923, a Monaco di Baviera, Adolf Hitler con il
neonato Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori (NSDAP)
diede seguito al Putsch della birreria; dal 1921 si formarono le SA
(sturmabteilung). Hitler venne arrestato e condannato a cinque anni di carcere,
ma dopo uno fu rilasciato. Dal 1923 si formò un governo di coalizione che
sembrò tranquillizzare un poco la situazione, per stabilizzare l’economia avviò
però una brutale politica restrittiva (ridusse le spese e alzò le tasse).
Purtroppo nel 1930 Heinrich Bruning venne nominato cancelliere, ma il
governo era debole e cadde quasi subito. Il 14 settembre 1930 alle elezioni il
NSDAP ottenne il 18% dei voti. Mentre la nazione scivolava verso la guerra
civile Bruning sulla base di Decreti Presidenziali di emergenza, non avendo la
maggioranza, tentò di risanare lo Stato su inflessibili linee di stretta
austerità liberale. Ridusse quindi drasticamente la spesa pubblica, creando
milioni di disoccupati in un paese in cui l’iperinflazione di pochi anni prima
aveva distrutto i risparmi di moltissimi, ed eliminò anche i sussidi per la
disoccupazione introdotti nel 1927. La disoccupazione arrivò al 40%. Le
elezioni del 3i luglio 1932 portarono la NSDAP al 37,2%, e poi al 33% nelle
immediatamente successive nuove elezioni. Il 30 gennaio 1933 Adolf Hitler fu
nominato Reichskanzler.
Ma anche nel resto del mondo nei cruciali anni venti
si era nel pieno di quelle reazioni difensive a catena imperniate sotto molti profili
nella difesa ostinata della “base aurea” e quindi delle politiche deflattive
che questa imponeva. Negli anni venti l’Italia cade nel fascismo, nei trenta
tocca alla Germania e, al termine del decennio, alla Spagna. Il sistema
internazionale che aveva retto il mondo nel settantennio di pace sotto
l’imperialismo inglese e “il concerto” delle nazioni termina quindi
definitivamente; fallisce cioè il tentativo di ripristinarlo dopo la grande
guerra. In tutti i paesi europei, Inghilterra nel 1931, Austria nel 1923,
Francia nel 1926, Germania nel 1931, i partiti della sinistra, dopo aver
sostenuto politiche di austerità perdendo parte del loro consenso, furono
allontanati quando si trattò di “salvare la moneta”. Come Karl Polanyi fisserà
nel suo capolavoro “La
grande trasformazione” furono accusati delle difficili condizioni i
salari inflazionati e i disavanzi di bilancio per cui si perseverò nella scelta
di ulteriore austerità nel mezzo di una devastante crisi. Come dice Polanyi,
quindi: “il tempo divenne maturo per la soluzione fascista”. Nel 1932 molti
intellettuali si rivolsero verso la ricerca di soluzioni forti, Werner Sombart
pronunciò un indicativo discorso su “L’avvenire
del capitalismo”.
[15] - Formula richiamata in un
fortunato libro di Andrew Spannaus, “La
rivolta degli elettori”, del 2017.
[16] - Si veda, ad esempio, “Giochi
di specchi ed equivoci: il caso della Lega”
[17] - Si veda, Marco Revelli, “Bacio
il rospo Monti, ma…”. E’ interessante che dichiari di fare il tifo per
Monti per una questione estetica (ed etica), di pelle. Lo strepitio, la
volgarità al potere, il caravanserraglio, … del governo di Berlusconi
offendevano il suo senso dell’appropriato. Si tratta di uno schieramento che si
manifesta su linee prerazionali (anche se non mancano anche le ragioni
razionali, il solito Tina), ovvero per allineamenti identitari. E quale è
l’identità che è qui così bene manifestata? Ovviamente si tratta di un richiamo
ai tradizionali valori di sobrietà, buon senso, educazione ed ordine della
buona borghesia. Anche un poco noiosa, un poco conservatrice, ma certamente
capace di sapere come si sta a tavola. Si potrebbe dire molto altro, e di
interessante, su questo articolo, ma non è la sede.
[18] - Sono vittime sia per il viaggio,
sia per il selvaggio sfruttamento, la vera e propria schiavitù cui sono
sottoposte da parte dei ceti imprenditoriali e borghesi italiani. In un sistema
di sfruttamento paraschiavistico che coinvolge milioni di persone (questa è
l’unica parte valida del recente libro di Luca Ricolfi “La
società signorile”, 2019.
[19] - Difficile non vedere, se non
dagli spessi occhiali della ideologia, che in pratica tutti i paesi del mondo
praticano, tanto più quanto più sono sovrani, la regolazione dell’immigrazione.
Come difficile non sapere che le politiche di welfare sono cresciute sempre in
condizione di regolazione forte degli spiriti animali del capitalismo e di
rafforzamento della coalizione sociale del lavoro, e quindi dell’immigrazione
(che tende ad alimentare gli uni e depotenziare l’altra). Si veda, ad esempio,
Kiran Klaus Patel, “Il
New deal”, ma si veda anche per un quadro allargato “Appunti
sull’economia politica delle emigrazioni: il caso dei paesi semi-periferici”.
[20] - Si veda, ad esempio la polemica
tra liberali e comunitari degli anni ottanta. Ad esempio il grande classico di
Michael Sandel “Il
liberalismo e i limiti della giustizia”, 1982.
[21] - La promozione a classe dirigente
del paese e a parte essenziale della sua borghesia. Proprio mentre si disprezza
il paese reale e si dichiara l’indispensabilità del vincolo esterno.
[22] - Mi riferisco a Patria e
Costituzione, che qualche giorno fa ha pubblicato il post “Perché
il fascismo è una patologia dell’anima”, nel quale con argomenti piuttosto
leggeri riprende la tesi di una sorta di radice antropologica del fascismo e
con l’artificio retorico dell’abuso del termine “negazionalista” (riferito non
a chi neghi l’olocausto, ma a chi dubiti della natura fascista dei populisti)
accusa indifferentemente di “tentare di difendere i fascisti”. Con questo
cortocircuito, ed il richiamo del libro più liberale della fase più liberale di
un autore come Umberto Eco (“Il fascismo eterno”, nel quale in sostanza
si bollava come fascismo tutto quello che non è liberale), e la dimostrazione
dell’esistenza di qualche sparuto gruppuscolo di autentici fascisti, la
redazione prende posizione, disumanuzzando gli avversari. Si tratta di un
allineamento estetico, in effetti. Un allineamento di classe.
[23] - Si veda, “Sardine”. Per
un intervento di Marco Revelli si veda, “Il
neo-qualunquismo della sinistra radicale che attacca le sardine”.
[24] - Si veda Karl Polanyi, “La
grande trasformazione”, 1944. nel quale descrive appunto il crollo
subitaneo della mondializzazione liberale di tardo ottocento per effetto delle
forze che aveva mobilitato e della reazione difensiva della società sfidata di
distruzione da queste. Come scrive, cioè, l’effetto dell’incapacità del
capitalismo del lassaire-faire di governare le forze che esso stessa aveva
messo in moto e il venir meno quindi dei meccanismi fondamenti del suo
funzionamento. L’utopia di autoregolazione senza politica e dissolvendo la
società crolla sotto il peso delle sue contraddizioni e del mondo inospitale
che crea. L’opinione dell’autore è, infatti, che queste idee siano del
tutto errate, che l’individualismo e in particolare la rivoluzione industriale
non sia un veicolo di progresso, ma una vera e propria calamità sociale; che il
mercato non sia autoregolato, non sia soggetto ad un automovimento, ma
sia un’artificiosa costruzione parte di un intreccio funzionale di
“istituzioni” (un equilibrio di potere geopolitico, la base aurea
internazionale, lo Stato liberale), e alla fine non possa che operare, se
lasciato nella sua purezza, per annullare la sostanza umana e naturale della
società (che talvolta chiama “organica”); per distruggere quindi sia l’uomo che
l’ambiente.
È per reazione a quest’aggressione che
“la società” (cioè concretamente le forze sociali che hanno di volta in volta
da perdere, anche in inedite alleanze di fatto) si difende, introducendo
vincoli e garanzie che sono alla lunga incompatibili con esso e finiscono per
provocarne il crollo (descritto negli anni quaranta).
Per Polanyi la popolazione ed in essa le
classi sociali e le forze che sono principalmente aggredite e destabilizzate
dalla centralità dell’interesse egoistico senza freni del mercato (nelle tre
dimensioni del lavoro, del denaro e della terra in particolare) “manifesta una
fondata esigenza di sicurezza materiale e di riconoscimento sociale”. Dunque
legittimamente sottopone il mercato al vincolo di una “società democratica” che
sottrae i fattori del lavoro, del denaro e della terra al mercato, fissandone
politicamente i prezzi (cioè regolando il lavoro ed i relativi contratti,
limitando i movimenti di capitale e controllando gli scambi nei limiti del
danno ai territori).
Nessun commento:
Posta un commento