Ancora
su “Bollettino Culturale” Francesco Barbommel intervista il prof Prabhat
Patnaik, un noto economista marxista indiano che ha insegnato al Centro degli
studi economici e della pianificazione della Università Jawaharial Nehru di
Nuova Delhi dal 1970 al 2010, per ben quaranta anni. Ha anche fatto un’esperienza
di amministrazione nel Consiglio di Pianificazione del Kerala e si è laureato e
dottorato anche in filosofia ad Oxford. Nel 1969 fu attivo anche all’Università
di Cambridge (Clare College) prima di rientrare in india nel 1970. Convinto
critico delle politiche neoliberali, dopo la crisi del 2008 ha fatto parte di
una commissione dell’Onu per raccomandare misure di riforma del sistema
finanziario (con Joseph Stiglitz, Francois Houtart e Pedro Paez). Tra i suoi
libri, “A theory of imperialism”[1] e “Lenin and imperialism” [2] o “The value of money”[3], o diversi interventi su
decine di riviste[4],
o sul suo blog[5].
L’avvio
dell’intervista si concentra sulla pianificazione nell’epoca di Nehru. Questi,
con l’aiuto di Bettelheim, prese come riferimento il modello sovietico
sforzandosi di costruire un forte settore pubblico da elevare come baluardo
contro l’influenza delle multinazionali (come ovvio, in uscita dalla
dominazione coloniale inglese) e di rendere il paese quanto più possibile
autosufficiente. La spinta fu particolarmente diretta all’istruzione tecnica ed
alla creazione di industrie di base. Ma fallì nella completa redistribuzione delle
terre, e quindi nel rapporto con il grande capitale agrario che rimase
dominante, insieme a quello medio “kulako”. Ciò ha finito per limitare il
mercato interno e quindi per non creare condizioni per l’autosufficienza
industriale. Inoltre si trattava, come per il modello sovietico, di un sistema
fortemente accentrato che quindi inibiva l’iniziativa locale e periferica. Questa
caratteristica limitò la possibile mobilitazione al momento in cui le forze del
capitale alleate imposero il ritorno al neoliberismo.
Due
critiche emergono in proposito nell’intervista di Patnaik: l’accentramento e
la questione della democrazia come frontiera di lotta per l’effettività del
suffragio universale e la piena espressione delle libertà. Critiche rivolte indietro
al modello di Nehru, ma soprattutto, a lato, al modello cinese. Precisamente al
modello dei vicini orientali nella versione attuale, essenzialmente a causa della
dittatura monopartitica “che finisce inevitabilmente per spoliticizzare gli
operai ed i contadini”. Un simile modello per l’economista indiano “non è
socialismo”, e, inoltre, contribuisce a far crescere l’ineguaglianza. Rispetto all’epoca
di Mao, invece, l’economista indiano valorizza alcune idee-forza, precisamente:
“l’enfasi sulla regolazione del cambiamento tecnico per raggiungere la piena
occupazione, sull’evitare il consumismo, sull’accettazione volontaria di un
modello di consumo nella società tale per cui tutti rimangano occupati, e
soprattutto sulla costruzione di solidarietà tra le persone invece che di
competitività che le esclude reciprocamente”[6].
Questo
è uno dei punti qualificanti dell’intervista e del genere di marxismo che
Patnaik difende, con dichiarate derivazioni dalla scuola di Kaleki, Baran e
Sweezy: il rifiuto di considerare centrale lo “sviluppo delle forze produttive”
e, al contrario, la valorizzazione delle piccole produzioni, delle forme
collettive di proprietà e della riqualificazione e trasferimento tecnologico
(favorito dalla funzione pubblica), insieme all’approfondimento della
democrazia. Nella risposta a David Harvey[7] riafferma, per questa
ragione, la validità della ‘teoria della dipendenza’ e della ‘causazione
circolare cumulativa’ di Myrdal. In particolare, viene richiamato il concetto
chiave di “sviluppo del sottosviluppo”[8] (Andre Gunder Frank) e la
sua relazione interna necessaria con la dinamica di conservazione ed accumulo
del capitale, nonché con la persistenza delle dinamiche coloniali e, più in
generale, imperialiste. Ne deriva la valorizzazione, come unica via possibile
per i paesi del sud sfruttato del mondo, della “disconnessione” proposta da
Samir Amin. In effetti, come dice, “in assenza di ‘disconnessione’ è
impossibile per un paese periferico essere autonomo nel perseguire le politiche
di sua scelta”. Ogni crescita in condizioni di accumulazione capitalista si
accompagna di necessità all’estensione di sacche sempre maggiori di
sovrasfruttamento. La cosa ci dovrebbe essere familiare, non appena i salari
cominciano a salire, ovunque, invariabilmente qualcuno ci ricorda che in queste
condizioni non “siamo” più competitivi, che si allargherà la disoccupazione,
che bisogna fare sacrifici. Per combattere questa tendenza intrinseca sarebbe
necessario l’attivismo statale, ma anche il controllo dei capitali per
prevenirne la fuga e quindi il controllo commerciale per non subire alla fine uno
squilibrio della bilancia dei pagamenti (per incremento delle importazioni e
decremento delle esportazioni, almeno in una fase transitoria). Tutto ciò si
può fare solo con una parziale disconnessione.
Di
qui, però, si rende necessario cambiare la struttura di classe dello
Stato, per: “perseguire una strategia di sviluppo che protegga l’agricoltura
contadina; effettuare la ridistribuzione della terra; intraprendere misure di
«aumento della terra disponibile»; aumentare la produzione pro capite e la
disponibilità di cereali; industrializzare non rimuovendo dalla terra la
popolazione dipendente dall’agricoltura, cioè non effettuando l’«accumulazione
primitiva di capitale», ma organizzando questa popolazione in cooperative e
collettivi volontari e lasciando che tali collettivi (a parte il settore
pubblico) diventino essi stessi proprietari dell’industria; e fornire
l’istruzione universale gratuita e l’assistenza sanitaria attraverso le
istituzioni pubbliche”.
Dopo
aver compiuto una divagazione sull’esperienza storica della pianificazione e delle
eventuali crisi da sovrapproduzione nella vecchia Unione Sovietica, Patnaik,
guidato dall’intervistatore, passa a negare che possano esistere modelli “temperati”
di “capitalismo dai valori asiatici” (Singapore e Corea del Sud) nei quali, per
una miscela di autoritarismo ed interventismo statale e di economia di mercato
(selvaggia) si possa ottenere la quadratura di avere capitalismo senza
sottosviluppo. In realtà i due casi (e gli altri) citati, di forte sviluppo
durante gli anni dai sessanta ai novanta, non confuta la “teoria della
dipendenza” perché si tratta solo di estensione del “centro” ad enclave ex
periferiche, ma continuando a coltivare la povertà e l’ineguaglianza estrema.
La dipendenza non è, infatti, fissa tra un novero di paesi ed un altro, ma è
una caratteristica necessaria della dinamica di accumulazione capitalista e
quindi interessa rapporti ‘centro-periferia’ continuamente mobili. Inoltre, si
applica anche entro le aree di regolazione statuali, coltivando entro queste
sacche di povertà specularmente necessarie all’accumulazione di ricchezza in
forma monetaria. Vediamo come la mette:
“Se Mumbai, per esempio, fosse un
paese separato che si aprisse per diventare una base per il capitale del
centro, e che imponesse un divieto a tutta l’immigrazione dal suo entroterra,
allora potrebbe benissimo diventare un «paese» prospero. In realtà,
l’imperialismo sta sempre sostenendo tali esempi di «successo» per camuffare la
sua tendenza di base a impoverire le masse del Terzo mondo. Ma la mia
preoccupazione è con l’«entroterra».
Ciò pone l’importante
questione su ciò che dovrebbe costituire l’unità di analisi. L’unità di analisi
non può essere un «paese» giuridicamente definito. Poiché l’imperialismo è un
fenomeno globale, dobbiamo guardare la totalità di ciò che esso fa ai popoli
del Terzo mondo”.
A
dimostrazione di questa posizione Patnaik mostra che nel terzo mondo,
complessivamente, la povertà è cresciuta rispetto ai vicini anni ottanta,
malgrado la crescita del Pil aggregato (che, notoriamente, include grandezze
molto eterogenee e mal distribuite).
Sul
piano più squisitamente teorico svolge, riprendendo Kaleki e quindi la scuola
americana, una critica alla sottovalutazione dell’importanza della domanda
aggregata nella tradizione marxiana come fattore scatenante delle crisi
capitalistiche. Come anche qui la mette:
“Ora, Kalecki, Baran e
Sweezy sono andati in netta controtendenza all’interno del marxismo, motivo per
cui prendo molto seriamente il loro lavoro. Fra l’altro, Baran fu tra i primi
marxisti a considerare il ruolo dell’imperialismo non solo nel senso leninista,
ma anche nel colonialismo, nello sviluppo del capitalismo. Siccome ritengo che
il capitalismo non possa essere visto come un sistema autonomo, che purtroppo è
il modo in cui Marx lo aveva analizzato nel Volume I de il Capitale, mi trovo
nella tradizione di Kalecki, Baran, e Sweezy. È questa tradizione del marxismo
che è di grande rilevanza per i marxisti del Terzo mondo”.
Questa
tradizione introduce perciò delle zone di resistenza verso l’unilaterale “enfasi
data nel marxismo allo ‘sviluppo delle forze produttive’”, che lascia
scambiare il socialismo stesso, o la tendenza verso di esso, con una dinamica
che può sembrare essere resa disponibile dal capitalismo: la crescita
della disponibilità materiale. Di qui si può scivolare nel “produzionismo”,
cosa che, a parere dell’autore, è capitato in Cina dopo Mao Tze Tung. Chiaramente:
“La vittoria del
produttivismo è avvenuta in parte perché sembra conforme all’asserzione di base
secondo cui il socialismo è sinonimo di sviluppo di forze produttive (e non di
libertà umana) e in parte perché ha un grande fascino nel Terzo mondo, che ha
visto così poco sviluppo in questa direzione. Inoltre, il fatto stesso che la
delocalizzazione delle attività avvenisse sotto il capitalismo neoliberista ha
dato alla tendenza «produzionista» nel marxismo nel Terzo mondo una credibilità
di cui non aveva mai goduto prima”.
Dunque
il capitalismo vince, nella forma neoliberale, perché sembra liberare le forze
produttive (anche se limita la libertà umana reale).
C’è
un secondo fattore cruciale:
“Il secondo fattore è
il peso sociale e le aspirazioni della gioventù della classe media, che vuole
emulare lo stile vita occidentale. La globalizzazione neoliberista lo fa capire
chiaramente: pur avendo giovato alla classe media e avendo goduto di un
notevole sostegno all’interno di questa classe, ha al tempo stesso portato
grandi difficoltà ai contadini. Infatti il conflitto tra la gioventù
(soprattutto urbana) borghese e i contadini (e gli operai che soffrono anche a
causa della miseria dei contadini che gonfia l’esercito industriale di
riserva), è il nuovo fenomeno più visibile nel Terzo mondo di oggi. Ma ritengo
anche che questa situazione stia cambiando. Il neoliberismo ha raggiunto un
vicolo cieco. Il fatto stesso che Donald Trump stia introducendo il
protezionismo negli Stati Uniti è sintomatico di questo vicolo cieco. Grazie
alla prolungata crisi in cui questo vicolo cieco del neoliberismo ha spinto
l’umanità, una crisi in cui ci troviamo ancora oggi, i giovani della classe
media che fino ad ora avevano sostenuto con entusiasmo la globalizzazione, saranno
presto disillusi; e nuove possibilità rivoluzionarie si apriranno per portare
avanti le società del Terzo mondo nella direzione del socialismo”.
Si
può dire che questo stia accadendo non solo nel “terzo mondo”, ma anche nel “semiprimo”.
Ovvero da noi.
Accade,
abbastanza chiaramente, perché la dipendenza non è un gioco tra blocchi
omogenei, ma un rapporto dinamico reso dai differenziali di potere (nelle forme
in cui questo si manifesta). E quindi si manifesta nelle periferie delle grandi
città, nelle aree “dell’osso” delle regioni sviluppate, nella divaricazione
macroregionale (ad esempio quella italiana), nella tendenziale stagnazione
relativa o perdita di spinta dei sistemi-paese spinti ai margini. Queste dinamiche
accadono nel nord inglese, nella regione della ruggine americana, nelle
periferie urbane praticamente ovunque, nelle regioni appenniniche (o alpine)
italiane, nel sud. Nei sud (in termini relativi). Ovvero nelle “cinture” nelle
quali vince il “populismo”.
È
sempre avvenuto.
Ma
i sistemi sociali e politici, ovvero i sistemi di potenza non economici, hanno
sempre messo in campo delle contromosse quando la tensione generata non poteva
più essere contenuta.
Il
neoliberismo disattiva questi meccanismi.
E
nel farlo spinge l’umanità in un vicolo cieco.
[1] - “A Theory of Imperialism” Columbia University Press, 2016,
con sua moglie Utsa Patnaik. Nel testo viene formulata la proposta di
considerare le relazioni commerciali tra nord e sud come intrinsecamente
ineguali. Una delle parti più interessanti del testo è il dialogo con David
Harvey. Il libro include, infatti, “A commentary on ‘A theory of imperialism’”
di David Harvey e la replica degli autori (pp. 154-198). La stessa linea
genealogica del concetto di “imperialismo”, proposta nel libro mostra l’area
culturale e la corrente alla quale gli autori appartengono: “Burke,
Marx, Hobson, Lenin, Luxemburg, Gandhi, Fanon, Guha, and Said”. Imperialismo
viene semplicemente, ed in via generale, definito come il dominio di una
regione su un’altra, il colonialismo è solo una delle sue forme particolari. L’imperialismo
non è “l’ultimo stadio del capitalismo” (Lenin), ma è essenziale dall’inizio della
formazione sociale capitalista. È intrinseco, cioè, alla natura dinamica del
capitale, che cerca per dare risposta alla sua natura intrinsecamente competitiva,
sempre nuovi rapporti di dominazione esterni, nuovi “stimoli esterni”. Ciò che
si chiama “imperialismo” è la forma specifica che prende la dominazione
necessaria alla riproduzione del capitale spinta dalla competizione a superare
le sue “ancore territoriali iniziali” (nelle quali tende alla
sovraccumulazione). Essenzialmente il capitalismo è un sistema che utilizza il
denaro e detiene la maggior parte della ricchezza sotto forma di esso, dunque perché
funzioni è cruciale che il valore del denaro non continui a diminuire rispetto
alle materie prime. Se accadesse le persone a lungo andare si allontanerebbero
dalla conservazione del denaro che cadrebbe come forma di accumulo di ricchezza
e come principale veicolo della circolazione. Per mantenerne il valore si attivano
alcuni meccanismi, come la conservazione di un vasto esercito di riserva
mondiale, altre forme di deflazione del reddito, sifonando il surplus, e
tenendo sotto pressione la possibile concorrenza delle periferie.
[2] - “Lenin and imperialism”, ed. Prabhat
Patnaik, 1986
[3] - “The value of money”, Columbia University
Press, 2008
[4] - Ad esempio quelli sui Monthly
Review, “Il
capitalismo neoliberista in un vicolo cieco”, “La
rivoluzione di ottobre e la sopravvivenza del capitalismo”, “Capitale
monopolistico allora ed ora”, “Il
capitalismo e la sua crisi attuale”, o “L’imperialismo
nell’era della globalizzazione”,
[5] - Si veda “Ideas”.
[6] - In una parte molto interessante dell’intervista
Patnaik dice: “Il ruolo dello Stato è estremamente importante. È importante per
«disconnettere» l’economia dalla globalizzazione attraverso controlli dei
capitali e commerciali; per investire nel settore pubblico, dal momento che i
capitalisti andranno in uno «sciopero degli investimenti»; per realizzare la
ridistribuzione della terra e per difendere l’avanzamento verso il socialismo
contro i tentativi imperialisti di sabotaggio. Ma non vorrei un modello di
sviluppo centralizzato e pesantissimo. Vorrei che lo sviluppo fosse
decentralizzato e inquadrato in un obiettivo di approfondimento della
democrazia.
La vera sfida della costruzione del
socialismo sta però altrove, cioè nel trovare una fonte alternativa di
motivazione e di disciplina del lavoro senza le quali nessuna società può
esistere. Sotto il feudalesimo, la gente lavora a causa dell’uso e della tradizione,
che sta alla base della coercizione, per esempio la frusta del monsignore;
sotto il capitalismo la disciplina del lavoro è inculcata attraverso la
coercizione implicita dell’esercito industriale di riserva, che significa che
se il «capo» non è soddisfatto del vostro lavoro allora siete licenziati; sotto
il socialismo la motivazione del lavoro e la disciplina del lavoro devono
venire dalla pura volontà dei lavoratori di lavorare.Il socialismo, come è esistito
realmente, ha usato la coercizione per introdurre la disciplina di lavoro; ma
questo non può essere l’immagine di una società socialista. Come ho detto
prima, il socialismo deve avere la «piena occupazione» nel senso che tutti
ottengono un salario. Se la motivazione del lavoro e la disciplina del lavoro
devono essere volontarie in una situazione del genere, mi sembra necessaria una
decentralizzazione del processo decisionale. In un contesto collettivo, ad
esempio, l’emulazione, la pressione tra pari e la discussione possono svolgere
il ruolo di rendere effettiva la disciplina del lavoro”.[7] - In “A theory
of imperialism”,
[8]
- Arrighi lo descrive in
questo modo, una metafora varata per descrivere spiegare quella vistosa
divergenza [tra i paesi sviluppati e quelli in ritardo]. La divergenza
sosteneva, altro non era che l’espressione di un processo di espansione
capitalistica globale capace di generare allo stesso tempo sviluppo (ricchezza)
al centro (Europa occidentale e poi America del Nord e Giappone) e
sottosviluppo (povertà) nel resto del pianeta”.
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