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lunedì 10 febbraio 2020

Luttwak, “Coronavirus e crisi della Cina modello Xi”


Una intervista per “Sussidiario.net” al politologo americano conservatore Edward Luttwak sugli effetti geopolitici dell’epidemia dell’influenza cinese. Si tratta come noto di un’aggressiva influenza virale che in alcuni casi, pare uno su cinque, può evolvere in polmonite virale e quindi portare anche alla morte; rispetto alla normale influenza è almeno tre volte più pericolosa, anche se è molte volte meno pericolosa dei peggiori virus (come Ebola, ad esempio). Al momento risulterebbero circa quarantamila contagiati e poco meno di mille morti. Il tasso di letalità sarebbe, insomma, del 2 per cento circa ed il contenimento allo stato molto efficace, perché fuori dell’area di quarantena ci sono solo duecento casi dopo due mesi dall’avvio dell’allarme.

Tutto bene allora?



Non proprio. Perché decine di milioni di persone, circa sessanta, sono in quarantena o sottoposte a limitazioni in una delle aree più industrializzate della Cina, e perché questa circostanza, in particolare se si allargasse e se dovesse durare più di un altro paio di mesi, prima che l’epidemia decresca, metterà sotto pressione le catene del valore mondiali. Ovvero quella rete di aziende che lavorano per produrre componenti o semilavorati che a loro volta entrano nella produzione di altre merci. Ad esempio le batterie per i telefonini di tutto il mondo, ma anche i telefonini stessi (Wuhan è la sede della Xiaomi, o del centro di ricerca di Huawei), i pannelli fotovoltaici, le novantamila aziende ad alta tecnologia del distretto Optics Valley, con un giro di affari di centocinquanta miliardi di dollari, o tutto quel che fa uso di prodotti siderurgici, metallurgici, ma anche chimico, farmaceutico, tessile, cartario, insomma quasi tutto. Alcuni, come Nomura, stimano l’impatto sul pil mondiale in una forbice tra uno e tre punti, e la stagnazione della Cina stessa. L’Italia dovrebbe pagare la sua quota con qualche decimale di Pil. Ciò se l’epidemia sarà fermata in un paio di mesi.
Ma la cosa è ben più seria, come emerge anche dall’intervista a Luttwak, al netto del suo trionfalismo, la Cina era ormai un concorrente temibilissimo, che inoltre di fatto controllava buona parte delle catene del valore, anche ad alta tecnologia, del mondo. È quel che l’americano chiama “imposizione di tecnologia per sottrarre risorse e invenzioni”, ovvero, semplicemente, supremazia tecnologica. Non va bene, detto da lui stesso in modo più esplicito e franco, che gli Stati Uniti siano costretti a coesistere con “un sistema concorrenziale oltre le regole, che ha monopolizzato la produzione mondiale”. Si sa, chi è abituato a dettare le regole a suo piacimento chiama sempre “fuori delle regole” chi a queste non si conforma e non può essere costretto. E soprattutto quando questo sostiene con la sua forza economica e geopolitica i nemici, come il Venezuela.
Dunque il coronavirus sarà preso come occasione per accelerare a disconnessione delle catene del valore per renderle più “indipendenti” (ovvero più dipendenti dal giusto egemone, e quindi più facili da proteggere). Detto con le parole di Luttwak: “Non possiamo avere un solo produttore mondiale, ci vuole diversificazione.
Quel che accadrà è dunque tutto sommato semplice: per “diversificarsi” le aziende occidentali e quelle ad esse connesse si regionalizzeranno in aree esterne all’area di controllo geopolitico dello sfidante cinese (e forse russo), garantendo costi di protezione inferiori e minore vulnerabilità strategica. Inizieranno con questa crisi, scegliendo altri fornitori, aumentando la dotazione di scorte, ristrutturando le loro catene logistiche e di fornitura secondo un principio di “ridondanza” ed uno di “sicurezza”.

Insomma, come dice appunto, “nulla sarà come prima”.

Usa, Giappone, Corea, e forse anche Germania, Francia, Inghilterra (se si lasciano convincere al gioco di squadra) “porteranno fuori della Cina produzioni e tecnologie”. Diversificheranno e produrranno molto di più “in casa”, ovvero su filiere corte e controllabili. Ricordo che si parla di produzioni, per solo quelle Usa di ca. duecentocinquanta miliardi all’anno.

Ovvero, “vedremo un ritorno dalla globalizzazione, ampiamente previsto, con un cambio di modello che potrà avere impatti positivi sui mercati interni, perché ci sarà una rimodulazione del mercato del lavoro mondiale e si punterà su quello interno. Questo discorso non piace solo a Trump, ma anche ai Democratici ed a molte nazioni occidentali”.
Del resto il cambio di modello era, da tempo, in corso. Si stava verificando lentamente un crescente decoupling tra le due sfere economiche, gli investimenti cinesi in Usa sono crollati del 90%, le aziende pubbliche (sessanta per cento di quelle totali) obbligate a comprare solo prodotti e tecnologie cinesi, lo stesso, al contrario per quelle Usa.

Vedremo se ci saranno impatti positivi sui mercati interni, ma di fatto ci saranno certamente enormi conseguenze, di ogni genere.

Bisognerà tenere gli occhi aperti.

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