Una
intervista
per “Sussidiario.net” al politologo americano conservatore Edward Luttwak sugli
effetti geopolitici dell’epidemia dell’influenza cinese. Si tratta come noto di
un’aggressiva influenza virale che in alcuni casi, pare uno su cinque, può
evolvere in polmonite virale e quindi portare anche alla morte; rispetto alla
normale influenza è almeno tre volte più pericolosa, anche se è molte volte
meno pericolosa dei peggiori virus (come Ebola, ad esempio). Al momento
risulterebbero circa quarantamila contagiati e poco meno di mille morti. Il tasso
di letalità sarebbe, insomma, del 2 per cento circa ed il contenimento allo
stato molto efficace, perché fuori dell’area di quarantena ci sono solo
duecento casi dopo due mesi dall’avvio dell’allarme.
Tutto
bene allora?
Non
proprio. Perché decine di milioni di persone, circa sessanta, sono in quarantena
o sottoposte a limitazioni in una delle aree più industrializzate della Cina, e
perché questa circostanza, in particolare se si allargasse e se dovesse durare
più di un altro paio di mesi, prima che l’epidemia decresca, metterà sotto
pressione le catene del valore mondiali. Ovvero quella rete di aziende che lavorano
per produrre componenti o semilavorati che a loro volta entrano nella
produzione di altre merci. Ad esempio le batterie per i telefonini di tutto il mondo,
ma anche i telefonini stessi (Wuhan è la sede della Xiaomi, o del centro di
ricerca di Huawei), i pannelli fotovoltaici, le novantamila aziende ad alta
tecnologia del distretto Optics Valley, con un giro di affari di centocinquanta
miliardi di dollari, o tutto quel che fa uso di prodotti siderurgici,
metallurgici, ma anche chimico, farmaceutico, tessile, cartario, insomma quasi
tutto. Alcuni, come Nomura, stimano l’impatto sul pil mondiale in una forbice tra uno e tre
punti, e la stagnazione della Cina stessa. L’Italia dovrebbe pagare la sua
quota con qualche decimale di Pil. Ciò se l’epidemia sarà fermata in un paio di
mesi.
Ma
la cosa è ben più seria, come emerge anche dall’intervista a Luttwak, al netto
del suo trionfalismo, la Cina era ormai un concorrente temibilissimo, che
inoltre di fatto controllava buona parte delle catene del valore, anche ad alta
tecnologia, del mondo. È quel che l’americano chiama “imposizione di tecnologia
per sottrarre risorse e invenzioni”, ovvero, semplicemente, supremazia
tecnologica. Non va bene, detto da lui stesso in modo più esplicito e franco, che
gli Stati Uniti siano costretti a coesistere con “un sistema concorrenziale
oltre le regole, che ha monopolizzato la produzione mondiale”. Si sa, chi è
abituato a dettare le regole a suo piacimento chiama sempre “fuori delle regole”
chi a queste non si conforma e non può essere costretto. E soprattutto quando
questo sostiene con la sua forza economica e geopolitica i nemici, come il Venezuela.
Dunque
il coronavirus sarà preso come occasione per accelerare a disconnessione delle
catene del valore per renderle più “indipendenti” (ovvero più dipendenti dal
giusto egemone, e quindi più facili da proteggere). Detto con le parole di
Luttwak: “Non possiamo avere un solo produttore mondiale, ci vuole
diversificazione.”
Quel
che accadrà è dunque tutto sommato semplice: per “diversificarsi” le aziende
occidentali e quelle ad esse connesse si regionalizzeranno in aree esterne all’area
di controllo geopolitico dello sfidante cinese (e forse russo), garantendo
costi di protezione inferiori e minore vulnerabilità strategica. Inizieranno con
questa crisi, scegliendo altri fornitori, aumentando la dotazione di scorte,
ristrutturando le loro catene logistiche e di fornitura secondo un principio di
“ridondanza” ed uno di “sicurezza”.
Insomma,
come dice appunto, “nulla sarà come prima”.
Usa,
Giappone, Corea, e forse anche Germania, Francia, Inghilterra (se si lasciano
convincere al gioco di squadra) “porteranno fuori della Cina produzioni e
tecnologie”. Diversificheranno e produrranno molto di più “in casa”, ovvero su
filiere corte e controllabili. Ricordo che si parla di produzioni, per solo
quelle Usa di ca. duecentocinquanta miliardi all’anno.
Ovvero,
“vedremo un ritorno dalla globalizzazione, ampiamente previsto, con un cambio
di modello che potrà avere impatti positivi sui mercati interni, perché ci sarà
una rimodulazione del mercato del lavoro mondiale e si punterà su quello
interno. Questo discorso non piace solo a Trump, ma anche ai Democratici ed a
molte nazioni occidentali”.
Del
resto il cambio di modello era, da tempo, in corso.
Si stava verificando lentamente un crescente decoupling tra le due sfere
economiche, gli investimenti cinesi in Usa sono crollati del 90%, le aziende
pubbliche (sessanta per cento di quelle totali) obbligate a comprare solo prodotti
e tecnologie cinesi, lo stesso, al contrario per quelle Usa.
Vedremo
se ci saranno impatti positivi sui mercati interni, ma di fatto ci saranno
certamente enormi conseguenze, di ogni genere.
Bisognerà
tenere gli occhi aperti.
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