Sul
Monthly Review del luglio 2016, l’economista indiano Prabhat Patnaik
pubblica una interessante recensione[1] del classicissimo saggio
di Paul Baran e Paul Sweezy, “Il capitale monopolistico”[2], del 1966. Un libro, come
ricorda, che ebbe una enorme influenza sulla sua generazione (anche se lui
stava studiando economia a Nuova Delhi) che cercava di comprendere il
funzionamento del “sistema” da contestare. L’aspetto strettamente economico,
sul quale si concentra l’autore, era che il testo, come i precedenti dei due
autori[3], superava a
sottovalutazione nella tradizione marxista del problema posto dalla domanda
aggregata, e quindi della circolazione. In un certo senso incorporava, come
aveva fatto già Kaleki[4], le intuizioni di Keynes
al riguardo in una struttura marxista di analisi. Il superamento della Legge di
Say, che implica necessariamente l’emergere della domanda come un problema
(anziché come una variabile dipendente dell’offerta), era stato posto dallo
stesso Marx, ma successivamente disinnescato dalla sua convinzione che le crisi
debbano scaturire dall’interno del “laboratorio interno” del capitalismo,
ovvero dai rapporti di produzione. A porre la questione della sovrapproduzione
generale e permanente, e quindi dell’importanza e centralità della sfera della
“riproduzione”, ovvero della “circolazione”, erano stati già la Luxemburg[5] e Bucharin[6], ma relegati ai margini
della corrente principale del marxismo che Losurdo chiamerà “occidentale”[7]. Inoltre, c’era una
carenza di analisi sull’equilibrio ed i passaggi tra questi in condizioni di
carenza di domanda aggregata (cosa che porterebbe verso una concettualizzazione
del “moltiplicatore” alla Keynes o alla Kaleki). La mera identificazione di una
tendenza alla “sovrapproduzione”, anche se come illustra Sweezy nel 1942 il
complesso delle teorie della crisi abbozzate o implicite nell’analisi marxiana
avrebbe avuto la potenzialità di completare l’analisi ben prima di Keynes, è
insufficiente a mostrare come si passa dai diversi stadi e come si
comporterebbe il sistema complessivo.
Secondo
Patnaik la funzione della tradizione messa in forma da Baran e Sweezy (e poi
proseguita nei Monthly Review ed i suoi autori) era di connettere il
punto di vista marxista con i dibattiti su moltiplicatore, spesa pubblica e
stabilizzazione in corso in quegli anni. Vi posero rimedio Kaleki, Stendl,
Lange, Baran e Sweezy, mostrando al contempo che la “medicina keynesiana”
sarebbe stata nel lungo periodo insufficiente a risolvere e stabilizzare le
contraddizioni del sistema.
Per
come lo legge Patnaik “Il capitale monopolista” era fondato su due
affermazioni teoriche di base:
-
Esiste nel capitalismo monopolista una tendenza
a far crescere i salari reali (al netto della inflazione) meno della
produttività del lavoro e quindi a far crescere nel tempo la quota di “surplus”
di produzione[8];
-
Il consumo e gli investimenti dei capitalisti
(che assorbono una parte di questo “surplus”) tendono a crescere ad un tasso
inferiore sia alla produzione sia al surplus stesso (che sono connessi).
La
conseguenza di queste due tendenze sono che, a parità di altre condizioni
(ovvero, in assenza di compensazioni), il “surplus produttivo” non riesce ad
essere realizzato nel tempo, quindi, dato che si produce solo quel che si può
realizzare[9] c’è una tendenza ex ante
al declino del grado di utilizzo delle capacità potenziali. Tale tendenza si
traduce in una tendenza non al crollo, ma alla stagnazione[10].
Questa
tendenza non è visibile negli anni in cui il libro è scritto (mentre si vede
bene oggi) perché è aumentato sia il sistema della pubblicità sia, e
soprattutto, la spesa pubblica (in particolare militare). Due controtendenze,
dunque: una endogena e propria dell’ambiente oligopolistico nel quale si trova
il capitalismo (che tende all’espansione, interna ed esterna, del mercato più
che alla ‘guerra dei prezzi’) ed una esogena perché frutto di decisione
politica e non economica, centrale e non distribuita.
Se
questa è la tesi manca, tuttavia, una teoria della relazione “surplus”-salari,
anche se è evidente che il monte-salari della parte “produttiva”[11] diminuisce rispetto al
prodotto da essi erogato, in quanto la riduzione dei costi non si scarica sui
prezzi, ma in “surplus” e quindi profitti, per effetto della disattivazione
della concorrenza operata dall’assetto monopolistico. Quindi la tendenza alla crescita
del monopolio, come affermava anche Kaleki, va insieme a quella del profitto
unitario.
Tuttavia
qui c’è una distinzione da fare.
Abbiamo
scritto che la tendenza alla crescita del “surplus produttivo” è determinata
dal disaccoppiamento tra produttività e costi di riproduzione. Questi sono
schematicamente rappresentati dai salari dei lavoratori (inclusivi di quel che
serve, dato l’ambiente e la convenzione locale, alla riproduzione degli stessi)
e dalle materie prime ed energetiche necessarie alla produzione (più gli
ammortamenti). Dunque, l’equazione di Baran e Sweezy è soddisfatta sia se sono
i salari a stagnare sia se, ed è questione di rapporti di forza, a stagnare non
sono questi ma gli altri input.
Guardando
la cosa nella prospettiva del sistema-mondo questa “soluzione” (ovvero
l’imperialismo) che scarica sul costo delle materie prime la ricerca di
“surplus” lascia invariata la tendenza alla stagnazione, in quanto fa mancare
domanda aggregata alla scala mondiale. Anche questa tendenza è diventata
visibile una ventina di anni dopo il libro. Nei termini di Patnaik, “perché uno
spostamento dai produttori di materie prime, che includono numerosi contadini e
piccoli produttori, ai capitalisti, abbasserebbe ancora il livello della
domanda aggregata a causa della maggiore propensione marginale a consumare (per
usare un termine keynesiano) dell'ex gruppo”.
Se
la prima affermazione è stata abbastanza accettata, la seconda, che il consumo
e gli investimenti dei capitalisti sarebbe cresciuta ad un tasso inferiore sia
alla produzione sia al surplus stesso, pone problemi in particolare con la
qualificazione dell’innovazione. Essa è endogena o esogena? Se spesa statale e
invasione di altri mercati sono un buon esempio di allargamento di investimenti
e consumi esogeni, l’innovazione costante non basterebbe a reintegrare gli
investimenti al livello necessario per sostenere la domanda e quindi la
riproduzione? Baran e Sweezy seguono la linea proposta da Joan Robinson[12], Josef Steindl[13] e Paolo Sylos Labini[14] nel dire che nelle
condizioni del capitalismo monopolistico le normali innovazioni non sono uno
stimolo esogeno adeguato perché la caccia al mercato reciproco è inibita.
Dunque, le innovazioni normalmente sono tenute a freno. Con le sue parole: “anche
coloro che hanno accesso al nuovo processo non intraprenderebbero alcun
investimento aggiuntivo al di là di ciò che la crescita anticipata del proprio
mercato avrebbe giustificato, vale a dire ciò che solo lo stimolo endogeno
avrebbe dettato. Ciò che gli oligopolisti che hanno accesso a un nuovo
processo faranno sarà di quindi incorporare questo nuovo processo
nell'investimento che stavano pianificando di fare comunque.” E’ frequente
l’osservazione degli acquisti da parte di monopolisti o oligopolisti di nuovi
brevetti, aziende innovative o start-up, al solo scopo di tenerle “in
panchina”.
Quindi:
“Ciò che ciò significava dal punto di vista macroeconomico era che l'effetto
dello stimolo esogeno ‘spontaneo’ sugli investimenti, lungi dall'essere
maggiore sotto il capitalismo monopolistico di prima e rendendo così possibile
compensare le conseguenze stagnazioniste di un aumento della quota del surplus,
era in realtà meno. Anche se la quota del surplus stava aumentando,
l'effetto dello stimolo esogeno nel generare investimenti stava calando sotto
il capitalismo monopolistico, aggravando così la tendenza stagnazionista.”
L’unico
caso di stimolo realmente esogeno derivante dagli investimenti è quello delle
innovazioni “epocali”. Anche se, ovviamente, non è senza limiti di fronte ad
una massiva e persistente carenza di domanda (è il caso dell’innovazione delle
automobili durante la grande depressione degli anni trenta).
Dunque,
ricapitolando, il capitalismo nella fase monopolista tende alla stagnazione
(“secolare”, secondo alcuni[15]) e viene tenuto sotto
controllo solo da spinte esogene delle quali le principali sono politiche,
ovvero la spesa pubblica, in particolare militare o connessa con la gestione
“imperiale”. Siamo, non a caso, negli anni dell’escalation in Vietnam. Ma così
facendo raggiunge una sua stabilità di fatto.
Il
problema, sostiene Patnaik, è che con questa diagnosi di stabilità, sia pure
ottenuta esogenamente, la critica si sposta sul piano morale e tutto l’impegno
si sposta nelle regioni “periferiche”, dalle quali può essere ancora sfidato.
Ovvero: “Spostando la critica del capitalismo da un piano economico a un piano
morale, Monopoly Capital ha anche spostato la posizione della sfida
all'egemonia del capitalismo alla periferia”.
Rispetto
all’analisi di dieci anni prima, avanzata da Baran, viene perso di vista il
fatto che la compensazione del sottoinvestimento e sottoconsumo tramite spese
volontarie militari e pubbliche potrebbe creare un eccesso di liquidità che è sempre
a rischio di tradursi in inflazione. Questa tesi era presente in “Il surplus
economico”, ma si perde in “Il capitale monopolistico”. Certo, la
posizione di Baran era stata attaccata da Joan Robinson, che vi aveva visto un
residuo “monetarista”, ma Patnaki sottolinea che c’era una differenza: l’idea
era di tipo patrimoniale, non monetaria. Baran “stava parlando di un aumento
della ricchezza privata, sotto forma di rivendicazioni nei
confronti del governo, che potrebbero cambiare forma ed essere trattenute come
merci (o rivendicazioni su materie prime) su suggerimento di un'inflazione, e
quindi esacerbare qualsiasi episodio inflazionistico che potrebbe sorgere”.
Negli
anni immediatamente successivi, però, qualcosa di rilevante si è verificato.
L’espansione di spesa all’estero aveva esacerbato il deficit di partire
correnti, insieme a quello fiscale, e l’espansione monetaria resasi necessaria
(quindi la spesa aggiuntiva, rispetto a quella fiscale che poteva soggiacere al
“moltiplicatore del bilancio in pareggio”) ottenne tre conseguenze:
1- La
crescita del mercato degli eurodollari e la liberazione della finanza
speculativa dai limiti di Bretton Woods,
2- La
materializzazione del circuito dell’inflazione temuto nel 1957 da Baran,
3- Il
crollo della parità dollaro-oro, proprio a causa della perdita di fiducia in
questo.
Insomma,
il sistema non era stabile e non aveva sotto controllo le sue contraddizioni.
Lo
stesso Sweezy, con i suoi coautori Magdoff e Huberman, sul Monthly Review,
negli anni successivi descriverà le fasi di questa crisi e l’insorgere di
quella che chiamiamo “finanziarizzazione”.
Insomma:
“La forza di Monopoly Capital risiedeva nella sua
incorporazione delle intuizioni della rivoluzione keynesiana in una comprensione
marxista. La sua debolezza stava nel fatto che non andava oltre. Non
prevedeva un'era post-keynesiana, ma si limitava a fornire una forte, sebbene
essenzialmente morale, critica del modo in cui il keynesismo era attuato”.
La
cosa curiosa è che il libro è invece particolarmente specifico ora che siamo
nell’era post-keynesiana (in realtà siamo alla sua fine). Le cose rilevanti
sono che con il capitale reso globalmente mobile ed il mondo meno segmentato, i
lavoratori nei paesi avanzati sono presi nella concorrenza con i lavoratori
meno pagati del terzo mondo. La divaricazione tra produttività e salari è
ormai, e da tempo, del tutto evidente (in realtà lo è dalla metà degli anni
settanta). Ma questa divaricazione è un fatto mondiale, anche se in alcuni
paesi del terzo mondo è meno visibile. Ovvero, “il vettore dei salari mondiali
non aumenta, nello stesso modo del vettore delle produttività mondiali del
lavoro, dando origine al fenomeno di una quota crescente di eccedenze nella
produzione mondiale”. La cosa è registrata dal costante incremento dell’ineguaglianza
e della ricchezza accumulata da élite sempre più ristrette.
Inoltre,
ormai non si possono più neppure attivare spinte esogene sotto forma di
interventi statali volontari, in quanto i deficit fiscali sarebbero subito
puniti dalla fuga dei capitali. L‘unico paese relativamente capace, per la
posizione del dollaro, di finanziare la spesa senza rischiare eccessivamente
l’opinione dei mercati, gli Stati Uniti non lo farebbero perché in condizioni
di deficit commerciale la spesa favorirebbe i paesi esteri e competitori. Ciò a
meno di reintegrare il protezionismo.
Questa
ultima osservazione di Patnaik, a luglio 2016, sarà immediatamente lo spazio di
manovra della nuova amministrazione Trump, eletta di lì a pochi mesi.
Se
si escludono il governo mondiale o la possibilità di riattivare le
controtendenze “esogene” politiche dei diversi stati attraverso l’eliminazione
della circolazione dei capitali e delle merci, limiti alla circolazione dei
lavoratori, restano solo le “bolle”, che, però, durano solo fino a che non
collassano inevitabilmente. Dicendolo in modo più esteso nella soluzione che si
trova per strada, attraverso la crisi aperta negli anni settanta e richiusa
negli ottanta, il “suplus produttivo” che si continuava ad espandere a causa
dell’assetto monopolista del capitalismo mondiale è stato riciclato nel
crescente settore finanziario ed in parte in un nuovo ceti di intermediari di
vario genere (professional, manager, manipolatori di simboli e di spettacoli, …).
L’accumulazione originaria è stata alimentata dalla rottura della parità, dai
petrodollari ed eurodollari, nel contesto della deregolazione, e ha
progressivamente creato una forma di capitalismo interamente concentrato sulla
generazione parossistica di surplus e sulla sua intermediazione con
appropriazione. La divisione del lavoro a scala mondiale vede ora la base
produttiva sparpagliata in tutte le aree di minore resistenza, nelle quali può
essere estratto il surplus con il minimo di attrito, con relativo disinteresse
al problema del realizzo, in quanto la domanda è fluida e mondiale (ma tende
comunque ad essere scarsa) e in quanto il meccanismo di creazione delle bolle e
gli “schemi ponzi” possono appianare le asperità, almeno temporaneamente, e creare
domanda senza base produttiva. L’espansione del debito surroga la chiusura
stabile del ciclo keynesiano appoggiandosi su “cicli Minsky” sempre più ampi e
quindi sempre più veloci ed instabili[16]. La circolazione del
valore muove dalla produzione, decentrata, divisa in catene di approvvigionamento
e montaggio sempre più lunghe ed intrecciate, quindi sempre più fragili e
costose da proteggere, e dal suo rimontaggio, amplificazione e ricircolo nel
sistema mondiale ed interconnesso di intermediazione finanziaria. Un sistema interamente
fondato sulla liquidità apparente.
Insomma,
vicolo cieco.
[1] - Prabhat Patnaik, “Monopoly
Capital then and now”, Monthly Review, vol. 68, numero 03, 01 lug 2016.
Nello stesso numero un intervento di Samir Amin su “Reading Capital,
Reading Historical Capitalisms”, ed altri interventi di John Bellamy Foster,
Jan Toporowsky, Costas Lapavitsas, mary Wrenn, Kent Klitgaard, Michael
Meeropol.
[3] - Per Paul Baran, “Il ‘surplus’ economico”, 1957, per Paul Sweezy, “La teoria dello sviluppo
capitalista”,
1942.
[8] - Per questa nozione si veda il
testo di Baran del 1957, in sostanza ciò che resta dopo che sono stati
reintegrati i costi di produzione, lavoro e materie prime.
[9] - Se l’esperienza passata mi dice
che non riesco a vendere ed i magazzini si stanno riempiendo fermo la
produzione.
[10] - Si vedano le conclusioni di
Sweezy nel testo del 1942.
[11] - Per questa distinzione il testo
di Baran del 1957.
[12] - Joan
Robinson, “The Accumulation of Capital”, Palgrave Macmillan,
2013
[13] - Josef
Steindl, “Maturità e stagnazione nel capitalismo americano” Monthly
Review Press, 1976
[14] - Paolo Sylos Labini, “Oligopolio
e progresso tecnico”, Einaudi, 1964.
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