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venerdì 7 febbraio 2020

Giovanni Arrighi, “Una nuova crisi generale”





Nel 1972 sull’organo del Gruppo Gramsci, “Rassegna Comunista” escono quattro saggi brevi[1] su “una nuova crisi generale”. Siamo nei primi anni settanta e stanno accadendo nel mondo alcuni fatti: in Italia sono partite le Regioni, è stato approvato lo statuto dei lavoratori e la legge sul divorzio, a Reggio Calabria scoppia una rivolta su motivi apparentemente marginali, l’Ulster è in pieno scontro in Gran Bretagna, la Polonia è in tumulto per il carovita, muore Nasser in Egitto, il movimento palestinese “settembre nero” è represso dall’esercito giordano, la rivoluzione culturale in Cina retrocede, in Cambogia comincia la guerriglia dei Khmer, in Usa cresce la protesta contro la guerra del Vietnam, in Cile Allende viene eletto. In tutto il mondo si sentono le doglie di un parto che si protrarrà per oltre un ventennio.
Dal 1970 al 1974 è attiva una formazione, forte a Milano, Torino e Varese, che cerca di creare un’alternativa più strutturata allo spontaneismo anarcoide di Lotta Continua ed al marxismo di Potere Operaio. Tra i redattori della rivista c’è Giovanni Arrighi. Il Gruppo, che non è mai stato molto numeroso, dopo il 1974 confluisce in parte in Autonomia Operaia ed in parte si dissolve; per un poco pubblica il quindicinale “Rosso”. Dal 1979 parte dei militanti confluiranno in Democrazia Proletaria (e di lì, un decennio dopo in Rifondazione Comunista).

Il testo del 1972 raccoglie i materiali prodotti nell’ambito di un seminario per i quadri metalmeccanici della Cisl, quando Arrighi insegnava alla Scuola Superiore di Formazione in Sociologia della Università di Milano e con il Gruppo cercava di restare agganciato alle lotte nelle fabbriche ed ai collettivi politici che si formavano in esse (è la stagione dei “consigli”). Prima di allora era stato in Africa, esperienza dalla quale ricavò un famoso e fortunato libro nel 1965[2], e poi all’Università di Trento. Ancora prima di ciò, ovvero del 1963, anno in cui si trasferisce in Rodesia, era stato per cinque anni assistente alla facoltà di economia della Bocconi, dove si era laureato, e poi aveva fatto brevi esperienze nell’industria. Dal 1966 aveva insegnato in Tanzania, in un ambiente molto ricco e stimolante, soprattutto politicamente.
Quando Arrighi si trasferisce a Milano, e nel Gruppo Gramsci, elabora un concetto di azione politica rivolta alla produzione di egemonia culturale e politica sulla base di un mix, “diverso e complementare” di ricerca teorica e di costruzione di riflessione in azione nelle lotte. Insomma, la teoria per essere feconda dovrebbe scaturire direttamente dalle lotte, per via di autoriflessione ed esercizio di “autonomia”. Da riflessione teorica, formazione in azione, e mobilitazione dovrebbe scaturire l’autonomia intellettuale della classe operaia.

Nel 1973, poco dopo questi saggi, Giovanni Arrighi lascia Milano e si trasferisce in Calabria, dove insegnerà “Analisi delle classi e dei gruppi sociali”. Risultato di quella fase è uno straordinario e poco noto piccolo saggio “Il capitalismo in un contesto ostile[3].
Seguirà il trasferimento, dal 1979, al Ferdinand Braudel Center, al seguito di Immanuel Wallerstein, e l’allontanamento sia dalla lotta politica concreta sia dal marxismo. Il paradigma di base sul quale da allora si svolgerà la sua ricerca, e che Brenner chiamerà “marxismo smithiano”[4], è che in qualche modo la relazione tra capitalismo e lavoro salariato non sia così dominante, bensì prevalga su di essa la circolazione e l’accumulazione finanziaria (ma anche i conflitti di potenza tra stati e sistemi di egemonia territoriali). Nel Center si occupa di “world system analysis” e gradualmente il focus si sposta dal socialismo, come emergenza dall’interno delle contraddizioni del modo di produzione capitalista, allo scontro egemonico e di potenza tra grandi blocchi. La fiducia nella lotta di classe, che negli articoli del 1972 è massima, è venuta meno. Ormai il capitalismo ha posto in essere contromisure altamente efficaci, e tocca prenderne atto.
La cosa avviene gradualmente: un ventennio dopo, nel 1991, il socialismo è ancora descritto come tappa necessaria sulla strada di una crescita economica capace di eliminare le disuguaglianze[5], ma dopo dieci anni questa impostazione cambia[6]. Ne prende atto il suo vecchio amico dei tempi africani John Saul:

“sebbene la struttura di fondo e l’elaborazione del problema sia più o meno esattamente la stessa la conclusione è assolutamente differente. Ora non è più menzionato, neppure una volta, il ‘socialismo’ come un possibile antidoto alla stretta mortale del capitalismo occidentale sul sud globale. Invece, la sola speranza per scuotere l’egemonia occidentale (in particolare quella degli Stati uniti) e il dominio globale dei bianchi, viene riposta, su basi decisamente capitalistiche, nell’emergente Cina”.

Un cambiamento che questi qualifica come “singularly depressed and depressing”. Insomma, Arrighi sente tutto il peso della sconfitta storico-epocale che la classe lavoratrice occidentale ha subito tra gli anni settanta ed i primi anni ottanta. Sembra che la conclusione sia che il capitalismo non si batte, ma almeno allora potrebbe cadere l’egemonia statunitense. Tutta la sua teoria successiva, dei cicli di egemonia, formalizzata tra la fine degli anni ottanta, quando esce “Antisystemic movements[7], e nel 1994, cinque anni dopo “Il lungo XX secolo[8], nel quale proprio negli stessi anni della trionfante hybris statunitense e l’espansione della globalizzazione[9] è rivolta a mostrare come il potere apparentemente schiacciante americano è solo l’ultimo di tanti che sono caduti. All’epoca prefigura uno spostamento di potere verso oriente, ed il Giappone in particolare, poi altri e la Cina. Ma la questione non è che con la transizione di potere verso oriente si realizzerà finalmente il socialismo, solo che si determinerà un “avanzamento” e la soluzione di contraddizioni che limitano lo sviluppo delle forze produttive (di cui la finanziarizzazione è spia).
Più in particolare se anche la Cina possa essere una forma di socialismo (con “caratteristiche cinesi”), cosa sulla quale alla fine non si sbilancia, ciò che conta davvero è che è costruita intorno una forma di rispetto reciproco tra gli esseri umani e collettivo verso la natura. Tanto basta al nostro, in particolare perché ottenuto “attraverso scambi di mercato regolati dagli Stati, in modo tale da rafforzare i lavoratori e indebolire il capitale, secondo l’idea smithiana, piuttosto che attraverso la proprietà e il controllo statale dei mezzi di produzione”. Un concetto che svilupperà nella sua ultima opera, “Adam Smith a Pechino[10].



Veniamo al testo: il primo saggio, dal titolo “Dalla Stag-deflazione alla Stag-flazione”, individua l’avvio della crisi nella flessione della produzione industriale (-1,3%) e dell’occupazione in tutti i comparti con una crescita stagnante del Pil (+1,4%). È dunque una “crisi generale”, perché interessa tutti i settori, ed è internazionale perché si propaga da un paese all’altro. L’anomalia è che malgrado la crisi e la disoccupazione i prezzi continuano a salire.
Il saggio parte con una breve presentazione delle spiegazioni della crisi fornite dalle diverse scuole economico-politiche:
-          La destra (Dc) pone sotto accusa la conflittualità operaia, che impedirebbe il processo di accumulazione e disordinerebbe la produzione,
-          La sinistra del blocco dominante (Psi) riconosce questa conflittualità ma non ritiene sia la causa dominante, piuttosto la crisi deriva dalla caduta della domanda a livello internazionale forse causata da errori di politica economica e da alcune debolezze congenite, oltre che, naturalmente dall’assenza di un governo sovranazionale,
-          La sinistra esterna al blocco dominante (Pci) accusa invece la struttura del capitalismo italiano, un incrocio di parassitismo che va colpito con le idonee “riforme di struttura”.
Tutte e tre le interpretazioni hanno in comune il ritenere che la tendenza alla crisi non sia qualcosa di immanente all’accumulazione capitalistica ma una specie di “escrescenza”. Un’eccezione dovuta a un qualche errore di politica economica o sociale, oppure accidentale, non correlato con i meccanismi di fondo dell’accumulazione capitalistica. Il punto di vista marxista è notoriamente diverso: le crisi sono la condizione normale del capitalismo e dipendono dalla contraddizione tra lo sviluppo delle forze produttive e la loro appropriazione. Ovvero dalla circostanza che le forze produttive non sono sviluppate per rispondere a bisogni, quanto per la pura accumulazione. Un ulteriore difetto del punto di vista della sinistra “borghese” è che lo Stato è immaginato come una sorta di deus ex machina mentre è un prodotto delle contraddizioni e ne dipende. Ma non può eliminare la tendenza alla crisi.
Ma anche le cosiddette “forze rivoluzionarie”, ovvero la costellazione di gruppi, anche piccoli, che si pongono in posizione critica verso la politica riformista del Pci e dei sindacati, non hanno idee diverse. Si limitano a estremizzare quelle del Pci. Altre, come Lotta Continua e Potere Operaio sono per lo più d’accordo con la posizione della destra: la colpa è delle lotte, ma naturalmente ne rovesciano il segno.

La tendenza alla crisi è, invece, per Arrighi del tutto connaturata alla dinamica del capitalismo, ed alla sua specifica contraddizione tra fini e mezzi. Si determina, come crisi di realizzo (quando non si trova la domanda adeguata a vendere le merci al valore che farebbe recuperare l’investimento e conseguire un profitto) e quindi crisi per eccesso di sfruttamento. Si dà crisi sia in presenza di un tasso di sfruttamento troppo alto, sia troppo basso (in questo caso il capitale tende a “scioperare”). Ma le due crisi, se i lavoratori sono deboli e se sono troppo forti si differenziano perché producono effetti diversi, se il tasso di sfruttamento è alto il danno cade sulla classe operaia, se è basso cade sulla classe capitalista che è indotta a farsi competizione reciproca.
Ma il tasso di sfruttamento da cosa dipende? Per Arrighi dai rapporti di forza e questi dal grado di concentrazione del capitale (ovvero dalle dimensioni di aziende e fabbriche). Se questa è bassa, ovvero si è in una condizione di capitalismo concorrenziale, prevale la competizione tra capitalisti e il tasso di sfruttamento cala. In questo caso la concorrenza tra capitalisti impedisce sia di abbassare i salari sia di alzare i prezzi, a danno del margine di profitto. I lavoratori guadagnano due volte, anche nel senso che l’inflazione non aggredisce i salari reali.
Se ci si trova, invece, in condizioni di capitalismo monopolista, si ha il fenomeno opposto: la competizione di prezzo è disinnescata e quindi i prezzi possono salire, mentre il salario scende. La forza dei singoli lavoratori, che è semplicemente un riflesso delle condizioni del capitale (monopolistiche o concorrenziali) decade, ma cresce, questo è il punto cruciale, la “forza autonoma” del lavoro. Cresce perché la concentrazione del capitale in grandi aziende monopolistiche concentra anche le forze dei lavoratori come classe. Sembra un punto controintuitivo, la stessa cosa fa decadere la forza negoziale dei singoli, costretti ad accettare condizioni di lavoro inferiori, ma accresce la forza collettiva.
Se si concede il punto ne consegue che “il processo di accumulazione è allo stesso tempo un processo di subordinazione del lavoro al capitale e un processo di sviluppo del lavoro in forza antagonistica al capitale”[11], quindi sulle ceneri della forza contrattuale del lavoratore individuale si sviluppa la forza collettiva del lavoro. In altre parole “il capitale, concentrandosi e centralizzandosi, concentra e centralizza la classe operaia sviluppandone la compattezza, sviluppando la divisione del lavoro e la meccanizzazione distrugge la professionalità livellando la classe operaia ad un uguale grado di alienazione; si rafforzano così l’unità e l’antagonismo nei confronti del capitale.”
Una simile posizione vista con gli occhi di oggi può apparire assurda. Ma nei primissimi anni settanta ha una sua plausibilità, perché si è al termine di un ventennio di accelerazioni costanti delle lotte e di industrializzazione accelerata del paese. Il numero di addetti, ovvero di operai, è cresciuto con un ritmo superiore alla popolazione attiva per buona parte del secolo, in particolare è cresciuta nel decennio 1950-60. Le imprese industriali scontano un generale “nanismo”, ma sono in crescita, anche per effetto di mirate politiche pubbliche, le aziende di grande dimensione che, con la base tecnologica del momento, concentrano grandi masse di lavoratori, amplificandone la forza. A partire dagli anni ottanta, invece, si avrà un fenomeno per certi versi opposto, la progressiva deindustrializzazione, in parte per effetto della flessibilizzazione dei cicli produttivi e delle delocalizzazioni, in altre per la crescente finanziarizzazione, e la crescita del settore terziario.

Il secondo saggio, “Dalla spartizione del mondo alla riunificazione del mercato mondiale”, allarga lo sguardo: viene adesso focalizzato il mercato mondiale e la tendenza del capitale, per reagire alla caduta del saggio di profitto, di decentrare la produzione per spegnere le lotte operaie e per avere un maggiore margine di profitto. Ma, un poco sorprendentemente, per l’Arrighi del 1972 questo “non comporta un indebolimento della classe operaia nei suoi punti più avanzati”. Qui si presenta in forma idealtipica un teorema per molti versi tradizionale nelle letture marxiane: “è vero che il decentramento produttivo colpisce alcuni settori della classe operaia e tende ad aumentare l’armata di riserva nelle aree a capitalismo avanzato. Ma il decentramento produttivo mette in atto tendenze di segno opposto che contrastano l’indebolimento della capacità di resistenza all’aumento del tasso di sfruttamento da parte della classe operaia delle aree capitalisticamente più avanzate”.
Quali sono queste tendenze in contrasto ad un meccanismo elementare come quello che il decentramento produttivo e la sostituzione dei costosi lavoratori occidentali con altri più economici (ovviamente in termini di costo/produttività) mette in essere, esponendoli alla competizione?
Tre:
1-      I mezzi di produzione si producono nelle aree sviluppate, e da lì vengono esportate, per cui se anche si aprono fabbriche in concorrenza in Indonesia, ad esempio, le macchine utensili sono prodotte in Germania o in Italia, e quindi sono commesse per le relative fabbriche tedesche o italiane;
2-      Questo appena citato non è un effetto temporaneo (man mano che in Indonesia cresce una rete di imprese in grado di autosostenersi) perché man mano che si estende si amplia anche il mercato mondiale, creando effetti di rete;
3-      L’ampiamento degli scambi, per la legge dei vantaggi comparati ricardiana probabilmente, porta ad un rafforzamento anche qualitativo della divisione del lavoro.
Sono tre argomenti che in questi anni di espansione della globalizzazione abbiamo sentito spessissimo; ma il primo ha avuto effetti limitati e altamente divaricanti (di fatto creando una èlite produttiva isolata dal resto del sistema industriale che subiva la concorrenza di prodotto) e temporanei, essendo ormai da tempo sostanzialmente assorbito (in mezzi di produzione sono ampiamente diffusi ormai). Il terzo ha ormai mostrato i limiti della legge dei vantaggi comparati[12].
Insomma, è andata del tutto diversamente. Man mano che Giovanni Arrighi se ne rende conto, tra gli anni ottanta e novanta, risponde spostando il focus dal marxismo al cosiddetto ‘marxismo smithiano’ e sviluppa l’analisi dei sistemi-mondo.

Il punto cruciale della posizione del 1972 è la distinzione tra “punti di maggiore sviluppo”, ovvero di massima concentrazione di capitale e quindi dimensione dei cicli produttivi (la grande fabbrica integrata fordiana), e “aree arretrate” (la corona di imprese a bassa capitalizzazione ed intensità tecnologica, con pochi addetti per unità). L’attenzione del nostro è tutta sulla prima; come dice: “la forza strutturale che la classe operaia ha raggiunto nei suoi punti di maggiore sviluppo non tende dunque ad essere ridimensionata dal decentramento produttivo che si sviluppa con la caduta tendenziale del saggio di profitto: la tendenza principale che mette in moto è lo sviluppo accelerato del proletariato industriale nelle aree relativamente arretrate” (ovvero in Indonesia, Malesia, Corea, e via dicendo).
E perché questo? Come mai la tendenza principale è la crescita del proletariato in Malesia, mentre in Italia il decentramento produttivo, tendenza secondaria, non danneggerebbe la forza strutturale del proletariato? Sono domande importanti, perché è anche sulla base di queste posizioni che, durante il ventennio successivo ha virato la cultura della sinistra, radicale e non. La rifocalizzazione tematica della “scuola dei sistemi mondo” e la modifica della loro ambizione (con l’importante eccezione di Samir Amin) dipende anche da questo.

Intanto Arrighi prova a rispondere ad un’immaginaria obiezione: che ne è della “teoria della dipendenza” che negli anni precedenti aveva contribuito a sedimentare insieme ad autori come Andre Gunder Frank[13] e Samir Amin[14]? Che ne è dello “sviluppo del sottosviluppo” della fase che si sta chiudendo (ricordo che siamo nell’anno prima del golpe cileno[15])?
La spiegazione di Arrighi è larga e interessante. La fase di sviluppo estrattivo che ha fatto parlare di “sviluppo del sottosviluppo” negli ultimi cinquanta anni, si caratterizzava per l’accentramento della produzione, o almeno dei suoi segmenti dominanti, nelle aree avanzate, mentre la divisione del lavoro internazionale relegava le aree periferiche al ruolo di fornitori di materie prime, forza lavoro subalterna e capitali. Questa dinamica era avviata dal modo nel quale il mondo era uscito dalla crisi del 1873-96; un lungo processo di caduta del saggio di profitto e di incremento della competizione intercapitalistica durante il quale le aree più sviluppare (l’Inghilterra in particolare) esportarono capitali e mezzi di produzione nelle aree in decollo (Stati Uniti e Germania). Ad un certo punto il processo si fermò e invertì, non ci fu altra soluzione perché le altre aree nelle quali erano presenti le condizioni di accelerazione (presenza di popolazione proletarizzabile, e di élite disponibili a perdere il controllo tradizionale), erano divenute scarse. Quindi si ebbe una risposta di forza, l’espansione coloniale e forme di protezionismo. L’effetto furono guerre intercapitalistiche e guerre di liberazione nazionale.
Ma ora, al termine di quella fase, e con molti più paesi nei quali, anche per effetto della decolonizzazione, le condizioni cominciano ad esserci, il capitale, messo ancora di fronte ad un problema di riproduzione, è ad un bivio: o prende la strada della rottura dell’unità del mercato mondiale, quella che prese all’inizio del novecento. Oppure si avvia verso una più forte espansione e decentramento dell’accumulazione e di un rafforzamento del lavoro.

Giovanni Arrighi negli anni duemila


Restiamo ancora in qualche modo incerti, soccorre il terzo saggio, che chiarisce meglio cosa Arrighi intendesse dire: “Dalla crisi del capitale alla crisi rivoluzionaria”.
Ci era restata pendente questa domanda: come è possibile che una più forte espansione e decentramento dell’accumulazione, ovvero della concorrenza tra lavoratori, porti ad un rafforzamento del lavoro? La risposta è che si tratta di una sorta di spirale: il capitale, aumentando la sua capacità di riproduzione, si concentra e si centralizza ulteriormente creando uno scontro interno nella classe capitalista. Da una parte ci sono i settori “arretrati” che chiedono protezione dalla mondializzazione e dalla relativa concorrenza. Dall’altra ci sono i settori “avanzati”, che chiedono che la concorrenza abbia il suo corso. Coerentemente con la sua diagnosi di base che la concentrazione aumenta la “forza strutturale” del proletariato industriale “avanzato”, a questo punto per Arrighi è inevitabile dire che “lo Stato organizzato su basi nazionali diventa un ostacolo all’azione della concorrenza (che nelle nuove condizioni di concentrazione del capitale può operare solo su scala internazionale)”[16]. Lo sviluppo ulteriore si ha, insomma, solo su basi multinazionali e qui si apre un conflitto per respingere o cooptare (rispettivamente) le lotte operaie e per guadagnare l’egemonia su di esse.

Nel modello semplificato a due settori che qui è descritto (con un esercizio stilistico nel quale si intravede la sua formazione neoclassica), il settore industriale “avanzato” dispone di tecniche di produzione e produce merci che sono più adatte ad un clima di crescita dei salari e della capacità di spesa. Infatti, l’elevata produttività consente di assorbire l’incremento di costo unitario e, d’altra parte, le merci distintive prodotte sono quelle che crescono di prezzo man mano che sale la ricchezza diffusa; in altre parole “il loro peso e forza relativa all’interno del capitale vengono accresciuti se la caduta del tasso di profitto è dovuta ad un basso tasso di sfruttamento”[17].
Al contrario i settori industriali “arretrati”, che mettono in essere tecnologie a bassa intensità e producono merci di base, se non riescono ad aumentare il tasso di sfruttamento (a ridurre i salari per unità di prodotto), rischiano la sopravvivenza.
Infine, i ceti intermedi sono attratti da l’una o l’altra forza, a seconda siano colpiti o meno dal rafforzamento strutturale della classe operaia (che i settori avanzati favoriscono, mentre quelli arretrati combattono aspramente). Chiaramente i piccoli e medi imprenditori rientrano nel secondo novero, il capitale “arretrato”, insieme  a “quella schiera eterogenea (in parte in impiego dipendente, in parte in impiego indipendente e in parte renditiera) percettrice di piccoli (e non così piccoli) privilegi, cresciuta sotto l’ala del capitale monopolistico nella sua fase speculativo-finanziaria. Una fase nella quale l’espansione del consumo improduttivo era lo strumento fondamentale per favorire l’accumulazione e quando l’organizzazione dello Stato su basi nazionali era un’esigenza fondamentale di ogni borghesia”.
I settori “avanzati”, viceversa, “tenderanno ad egemonizzare quegli strati di ceto medio che direttamente o indirettamente s’avvantaggiano del rafforzamento strutturale della classe operaia: piccoli e medi imprenditori che s’avvantaggiano più di quanto non vengano colpiti dall’aumento dei redditi operai a causa o degli elevati livelli di produttività delle loro imprese o del tipo di merce prodotta o delle ristrutturazioni a livello sociale favorite dalla caduta del tasso di profitto; tecnocrati e dirigenti intermedi che traggono un vantaggio dalla ‘nuova professionalità’ che si sviluppa sulla base della distruzione della professionalità operaia; o dal decentramento della produzione che si accompagna al tendenziale superamento dell’organizzazione dello Stato su basi nazionali; o, infine, dall’estendersi sul piano sociale dei processi di ristrutturazione capitalistica”.

Ne consegue che l’egemonia in particolare allo scopo di controllare e dirigere la macchina dello Stato e le sue risorse, che entrambe le frazioni tentano di affermare (entrambe impedendo che la classe operaia guadagni la sua “autonomia”) è per la frazione “avanzata” più debole sull’armata di riserva e più forte sull’armata attiva del proletariato. La prima tende alla ribellione, ma la seconda serba in sé le capacità di direzione. Dunque, per evitare che le spinte di inclusione, ribellistiche, dell’esercito di riserva rifluiscano sotto l’egemonia della parte “arretrata” del capitale (che, almeno, gli offre qualche lavoro, anche se poco produttivo e mal pagato, ed inoltre promuove politiche antinflazionistiche e richiede protezione) determinandone il successo generale, è necessario dare una direzione rivoluzionaria alla “autonomia” della classe operaia e quindi promuovere l’unità dell’armata di riserva con quella attiva.
Vediamo come questa tesi, che si riverbera fino ad oggi in forma fantasmatica[18], viene costruita:
-          la frazione “avanzata” del capitale consente la riduzione dello sfruttamento, ma solo fino ad un certo punto (dovendo conservare comunque un livello minimo di plusvalore, pena l’impossibilità di riprodursi) e lo riproduce tramite l’aumento dei prezzi. Questa possibilità scaturisce dal grado minore di concorrenza determinato dalla posizione monopolista[19].
-          Ma l’inflazione in tal modo prodotta ha il potenziale di far prendere coscienza del carattere sempre più sociale della produzione e della necessità “del controllo operaio sulla produzione sociale per trasformarla da produzione di plusvalore in produzione per il soddisfacimento di bisogni sociali”[20].
-          Tuttavia più cresce la resistenza della classe operaia, e quindi diminuisce il saggio di sfruttamento, quanto più diminuiscono anche gli spazi di tolleranza e manovra.
-          Quindi tante più imprese si trovano nelle condizioni di dover passare ad un atteggiamento “arretrato” (per evitare ulteriori aumenti di salario).
-          Ciò spinge a potenziare la ristrutturazione e l’inserimento di processi di automazione, per ridurre il potere della classe operaia e quindi la conflittualità, e dall’altro ad entrare in conflitto con “l’autonomia operaia”.
Questo conflitto, così descritto, si può leggere politicamente, dato che la forza politica connessa con la parte “avanzata” è la sinistra ed il sindacato, entro o fuori del gruppo politico dominante (ovvero Psi e Pci). Lo scontro è, in ultimo, tra due frazioni del capitale che cercano di esercitare egemonia sui disoccupati e sottoccupati e sugli impiegati stabili e produttivi rispettivamente, ma anche tra queste e “l’autonomia operaia” (ovvero l’unione delle due frazioni proletarie e l’indipendenza da entrambe).
“L’autonomia operaia” è l’unica alternativa di sistema, ma l’unità in cui consiste non è possibile meramente a livello di lotta economica (per la divergenza degli interessi immediati tra l’esercito di riserva e le diverse frazioni dell’esercito attivo che vanno invece unite) e quindi lo diventa solo a livello della lotta politica per il socialismo. Alzando in altre parole “il tiro”. La posta diventa “la rivendicazione del comunismo, di rapporti sociali che le permettano di liberarsi del lavoro produttivo per poter esercitare e sviluppare la propria intellettualità in tutti i campi, nella direzione complessiva della società”.

Nel quarto articolo, “Conclusioni”, si giunge al termine. Si dichiara espressamente che “tutta la nostra analisi si regge sull’ipotesi che la fase attuale dello sviluppo capitalistico è caratterizzato da uno spostamento dei rapporti di forza tra lavoro e capitale a favore del primo che non è di natura congiunturale e quindi transitorio ma bensì di natura strutturale e quindi permanente[21].

Non sarà così.

In effetti si immaginava in quegli anni che la forza che si percepiva nelle piazze e nelle fabbriche[22] fosse un prodotto necessario dello sviluppo capitalistico, in quanto effetto dei processi di concentrazione, divisione e meccanizzazione del lavoro e quindi dei lavoratori. Una concentrazione su cui, nelle condizioni tecnologiche e di produzione degli anni settanta si reggeva l’accumulazione del capitale. Questa condizione tardo-fordista era immaginata come “tendenza permanente e ineliminabile dello sviluppo capitalistico”.
Tuttavia era piuttosto evidente che era in campo anche una controforza, ovvero una tendenza opposta all’indebolimento del lavoro. La contraddizione viene risolta da Arrighi distinguendo il livello individuale del possessore della forza-lavoro, che si indebolisce, dalla massa del lavoro “in quanto tale”, che concentrandosi sempre più nelle fabbriche si rafforza “in quanto forza produttiva”. Ovvero dai lavoratori che quando agiscono insieme possono fare molti danni ad un capitale che, per la concentrazione che ha, è vulnerabile. Il punto di massima forza, in altre parole, non è il mercato ma la fabbrica.

Durante questa crisi generale sembra, insomma, ad Arrighi che sia in corso una transizione da una fase di sviluppo del capitale nel quale la subordinazione del lavoro era forte, ad una fase in cui cresce l’insubordinazione. La progressione delle lotte di quegli anni, con le mobilitazioni ravvicinate del biennio 1968-69, quando nascono i “consigli di fabbrica”, del 1971, cui seguiranno un decennio di lotte culminato nella sconfitta finale del 1980, poteva autorizzare questa impressione.
Ma il capitale proprio in quegli anni reagisce, aumentando la meccanizzazione, la flessibilità e l’interconnessione; in Fiat tra il 1972 e il 1978 sono introdotti i primi robot di linea, accentuando il decentramento, aumentando la concorrenza. Ed esasperando la lotta interna tra una frazione che “vuol far tornare indietro” ed una che cerca di riprendere il controllo e cerca nuove ideologie. Sono le direzioni che prevarranno e che lo stesso Arrighi inizia a descrivere in un intervento di poco successivo[23], quando intravede l’avvio delle controstrategie che il capitale nel suo complesso trova: aumento drastico della flessibilità, meccanizzazione (anche con la ragione della riduzione dell’impatto ambientale[24]) ed un “nuovo modo di produrre” che molto dopo sarà sistematizzato dal sistema “giapponese”.

Le “forze rivoluzionarie”, in tutto questo quadro, sono rappresentate dalle due formazioni che il Gruppo Gramsci critica: Lotta Continua e Potere Operaio. Entrambe si sono appropriate della critica operaia al carattere parziale delle lotte duali tra le due frazioni del capitale e le forze politiche che le rappresentano (che tendono a divaricarle, garantendo privilegi ed avanzamenti a sole ‘aristocrazie’ protette), ovvero alla posizione riformista di lotta per obiettivi economici parziali, ma ne hanno fatto un feticcio. “Nelle loro mani la forza strutturale e l’autonomia operaia si sono trasformate da elemento storico, soggetto a leggi di sviluppo ben precise che occorre capire per poter agire su di esse, in forza mitica, al di fuori e al di sopra della storia”.
In altre parole la crisi è immaginata come immediatamente trasformabile in crisi rivoluzionaria e questa sul terreno militare.  
Una tragedia che ha colpito una intera generazione.



[1] - Ripubblicati in Giovanni Arrighi “Una nuova crisi generale”, Asterios, 2020.
[2] - Giovanni Arrighi, “Sviluppo economico e sovrastrutture in Africa”, Einaudi, 1965. I movimenti di liberazione che proliferano in quegli anni in Africa, per reagire al “neocolonialismo” occidentale, sono visti essenzialmente da Arrighi come movimenti populisti e nazionalisti, e non come movimenti socialisti. Naturalmente ciò non è poco, date le condizioni.
[3] - Giovanni Arrighi, “Il capitalismo in un contesto ostile”, che sarà pubblicato nel 1987 su “Review. Ferdinand Braudel Center”, (ora Donzelli, 2017).
[4] - Cfr. Giovanni Arrighi, “Adam Smith a Pechino”, Feltrinelli, 2007, Parte prima.
[5] - Giovanni Arrighi, “World income inequalities and the future of socialism”, New left Review, 189, 1991.
[6] - Giovanni Arrighi, B.Silver, B.Brewer, Industrial convergence, globalization and tge persistence of the north-south divide, “Studies in Comparative Industrial development”, 38, 2003.
[7] - Giovanni Arrighi, Therence Hopkins, Immanuel Wallerstein, “Antiystemic movements”, 1989.
[8] - Giovanni Arrighi, “Il lungo XX secolo”, 1994.
[9] - Nel 1996 viene rieletto Bill Clinton che accentua la sua linea centrista, consolidando il paradigma neoliberale in economia e promosse la campagna “Allied Force” nel Kosovo, oltre che avviare nel discorso sullo Stato dell’Unione del 1998 la pressione su Saddam Hussein, accusandolo di voler costruire armi nucleari, e istituendo una “no fly zone” con frequenti bombardamenti aerei. Durante la sua presidenza firmò 270 accordi di libero scambio e fu attivissimo nel promuovere la globalizzazione, che, di fatto, può essere considerata il suo lascito. Il 10 ottobre 2000 firmò quello più importante di tutti, l’accordo di scambi commerciali con la Cina.
[10] - Giovanni Arrighi, “Adam Smith a Pechino”, Feltrinelli, 2007.
[11] - Arrighi, cit., p.25
[12] - Si veda, ad esempio questo articolo “Steven Keen circa la globalizzazione ed il libero scambio”.
[14] - Di Samir Amin: Lo sviluppo ineguale”, 1973; “Oltre la mondializzazione”, 1999; “Per un mondo multipolare”, 2006; “La crisi”, 2009.
[15] - Questa esperienza socialista, alla quale il mondo guardava con interesse o timore, fu spezzata dal boicottaggio interno delle borghesie e dalle organizzazioni internazionali, e dalla interruzione degli investimenti esteri (che creavano una dipendenza non facile da sostituire), oltre che la sospensione dei crediti. In queste condizioni avviene il colpo di stato di Pinochet il 11 settembre 1973.
[16] - Giovanni Arrighi, op.cit., p. 44
[17] - Ivi, p.47
[18] - In alcune posizioni sull’immigrazione.
[19] - Si veda su questo l’analisi presumibilmente nota ad Arrighi di Paul Baran e Paul Sweezy, “Il capitale monopolistico”, che esce nel 1966.
[20] - Arrighi, op.cit., p.51.
[21] - Ivi, p. 57
[22] - Si veda, ad esempio, questa intervista di Luciano Pregnolato, in “Le lotte operaie alla Fiat negli anni settanta: il lavoro e la questione del potere”.
[23] - Giovanni Arrighi, “Organizzazione del lavoro. Proposte per una discussione”, Rassegna Comunista, 4, 1972.

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