Nuova Direzione è un’associazione di cultura politica che nasce dal
percorso sulla sovranità costituzionale avviato nel 2018 con Patria e
Costituzione ed il suo “Manifesto sulla Sovranità Costituzionale”[1]. A marzo dell’anno scorso alcune formazioni, peraltro maggioritarie, si
sono separate dal percorso di PeC presagendo una evoluzione moderata e “riformista”,
che si sarebbe tradotta nell’appoggio, se pur critico, al governo “Biancogiallo”.
In tale occasione fu pubblicata una “Lettera sul Manifesto per la Sovranità
Costituzionale”[2]
e fu dato avvio ad un percorso costituente. Nell’assemblea preliminare di
giugno, “Oltre la sinistra. Lavoro, sovranità, autodeterminazione”, a Roma, la relazione di apertura,
firmata da Carlo Formenti e Alessandro Visalli, recitava “”Partito e classe
dopo la fine della sinistra”[3]. Da quell’assemblea fu
costituito un gruppo di lavoro e coordinamento che ha predisposto, in sei mesi
di serrate discussioni e confronti delle Tesi Politiche ed uno Statuto.
Nell’assemblea di Milano gli interventi programmati, definiti per chiarire
la linea dell’associazione sono stati quello di Mimmo Porcaro[4] e Carlo Formenti[5] il sabato e quelli di
Alessandro Visalli[6],
Andrea Zhok[7]
e Ugo Boghetta[8]
la domenica. Al termine è stato approvato un “Ordine del giorno”[9].
Quelle che seguono sono quindi le Tesi Politiche che la nuova
associazione, costituita il 25 e 26 gennaio a Milano, propone alla discussione
collettiva.
Tesi sull’Italia e il socialismo per il
XXI secolo
1. Contro la mondializzazione
L’esposizione senza protezioni all’uso capitalistico della rivoluzione
tecnologica e alla globalizzazione finanziaria sono fondamentali fattori distruttivi
nel mondo contemporaneo. L’interconnessione non è un valore in
sé. In assenza della capacità di mutuo riconoscimento delle identità storiche e
degli ordinamenti istituzionali differenti ciò che resta è semplicemente
competizione rivolta ad instaurare rapporti di dominazione. La modernità
capitalistica, dissolvendo sistematicamente tutte le barriere, non produce
autodeterminazione né emancipazione, ma dipendenza e servitù (talvolta
coattiva, talaltra servitù ‘volontaria’, come nel caso italiano). Capitalismo è
l’asservimento di ogni funzione sociale e antropologica al fine della
riproduzione e accrescimento del capitale, mercificando ogni relazione, quali
che siano le conseguenze.
La cosiddetta ‘finanziarizzazione dell’economia’ rende esplicito questo
aspetto, in quanto indebolisce le componenti fisse, territoriali, della
produzione, rendendo più facili gli spostamenti di capitale e con ciò il potere
di ricatto dello stesso. I mercati finanziari (azionario, obbligazionario e
monetario) appaiono come il motore centrale dell'accumulazione, indebolendo il
potere contrattuale del lavoro, che viene marginalizzato. Fusioni,
acquisizioni, outsourcing, riacquisti azionari, precarizzazioni,
cartolarizzazioni, piramidi di controllo, elusione fiscale, sono fenomeni
connessi che abbiamo sotto gli occhi costantemente. Il gigantismo dell’apparato
finanziario, lungi dall'aiutare l'economia reale, sottrae risorse attraverso
interessi e provvigioni, aumenta la concorrenza internazionale e alimenta la
mobilità del capitale industriale. Molti piccoli risparmiatori vengono inoltre
forzati ad entrare nei giochi del capitale (con pensioni private,
assicurazioni, e riserve di valore per affrontare la crescente insicurezza).
Essi sono perciò indotti ad allearsi al medesimo sistema che li sfrutta,
prendendosi a cuore le sorte della rendita, cui partecipano in maniera
marginale, ma per loro importante.
Come già altre volte nella storia, il capitalismo finanziario, con il suo
potere di destabilizzazione nazionale, lungi dall’alimentare una ‘pacifica
interconnessione’, accentua i tratti di ostilità internazionale, promuovendo
reazioni protezionistiche e competizione, incluso il rafforzamento militare.
Se questa è la modernità, il socialismo
deve percorrere vie differenti. Superare la modernità capitalistica non
significa riesumare modi di vita e produzione passati, ma consentire a diverse
società e culture di scoprire il proprio modo di vivere e produrre.
Bisogna difendere la libertà di vivere in una dimensione che non insegua forzosamente
il mito del ‘progresso’ lineare, mutuato dalla tecnoscienza, ma sia capace di
coltivare le proprie capacità, sviluppare i propri talenti, portare a
compimento la propria natura e far maturare le proprie migliori tradizioni. Un
progresso autentico non può essere mera crescita di potenza, esercitata
indiscriminatamente sull’uomo e la natura. Progresso, per noi, non è
l’indefinito incremento del Pil, o delle esportazioni, o del potere della
propria moneta, e neppure il mero incremento di libertà individuali. Progresso
è crescita democratica, capacità storica di trovarne una sintesi tra
partecipazione ed emancipazione, diritto all’autodeterminazione individuale e
collettiva. Riacquisire sovranità democratica significa ribadire la capacità
della politica di governare l’economia, e della cittadinanza di governare la
politica; e significa farlo per sfuggire alle spinte alla massima
valorizzazione del capitale e alla dipendenza dal mercato mondiale.
2) Contro il progetto imperiale europeo
Il processo di unificazione europea sancito dal trattato di Maastricht
rappresenta il tentativo del grande capitale europeo, e dei suoi ceti di
riferimento, di costruire un nuovo centro imperiale per partecipare al dominio
del mondo. Questo progetto assegna ruoli primari
e ruoli subalterni, arruolando forzatamente i paesi europei in una lotta contro
altri centri imperiali (Usa, Cina, Russia). In questo contesto l’Italia è
terreno di scontro tra il recente progetto imperiale franco-tedesco e il
consolidato progetto imperiale statunitense. Gli effetti collaterali di questo
scontro si ripercuotono sul paese in termini di perdurante stagnazione e
recessione. Si tratta di una lotta che coinvolge, sia pure in forma subalterna,
parte delle élite e dei capitali nazionali, in particolare al nord. Per
competere in questa corsa al dominio del mondo (che non potrà non avere una
dimensione militare), viene costantemente ripetuto che i lavoratori devono
sacrificarsi, lo stato deve dimagrire, che le protezioni vanno tolte per
esporre i lavoratori alla “durezza del vivere”. Chi deve farsi carico di questa
“durezza” sono infatti sempre i lavoratori, mai il capitale. Le conseguenze
sono una struttura economica indebolita, un apparato pubblico
sottodimensionato, una crescita di fratture sociali e territoriali, una
politica estera inesistente.
È quindi necessario revocare il processo di unificazione europeo nato a
Maastricht, rompere la camicia di forza dell’Euro e restituire la sovranità
monetaria ad una Banca Centrale Italiana che risponda al potere politico.
Bisogna transitare verso un’economia mondiale equilibrata e rispettosa delle
individualità nazionali che prediligano la domanda interna, invece che
dissanguarsi in una lotta per l’espansione delle esportazioni e la relativa
accumulazione finanziaria. Prediligere la domanda interna significa ritornare
all’obiettivo prioritario della piena occupazione, subordinando il fine della
stabilità monetaria che interessa principalmente i ceti possidenti; significa
rafforzare il lavoro, sostenere i salari, spingere direttamente e
indirettamente il capitale ad innovare, impedendogli di conseguire i profitti
attesi con la semplice estensione dello sfruttamento.
3) Contro la guerra tra poveri
Il paese può tornare ad essere uno, a garantire il riconoscimento sociale a
ciascuno, valorizzando i propri talenti, contrastando la disgregazione e
l’attuale disperato ripiegamento narcisistico. Oggi, in tutte
le aree decentrate o periferiche, e nei paesi semi-centrali come l’Italia, i
soggetti marginali o precarizzati percepiscono l’immigrazione come causa di
un’ulteriore competizione per le abitazioni, il welfare, il salario. Si tratta
di una visione corretta, ma parziale. È necessario ribadire come all’origine di
questa pressione sulle proprie condizioni di vita non stiano primariamente
altri sfruttati di varia provenienza, ma le modalità di produzione della
ricchezza. Questo passo è necessario per disinnescare la ricerca di capri
espiatori in forma di xenofobia; tuttavia va parimenti respinto il principio
dell’accoglienza illimitata. Gli ingressi nel paese vanno calibrati in rapporto
all’effettiva e realistica capacità di accoglimento e integrazione. Sono
processi che non possono essere lasciati al “mercato”, alla “libera ricerca di
opportunità” della forza-lavoro internazionale. L’obiettivo dev’essere la
coesione sociale e la creazione di una società “decente”, non il potenziamento
di un esercito di riserva che ricatti i lavoratori.
Il capitalismo è in primo luogo allargamento dello sfruttamento abbattendo
tutte le barriere al movimento di capitali e forza-lavoro. Come socialisti
siamo perciò per un severo controllo dei flussi, per il rispetto della
legalità, e per la piena integrazione, economica, sociale e culturale, di chi
resta con noi, senza esclusioni né discriminazioni di alcun genere. Rigettiamo
l’idea di società nazionali come zone di passaggio alla ricerca di
sostentamento provvisorio. Non abbiamo nulla da guadagnare dal conflitto tra
poveri (che è da sempre il gioco della retorica di destra). Ciò che va difeso,
ovunque, è il diritto a non emigrare, a non esservi costretti da ricatti
economici, costrizioni materiali o morali; ciò che va difeso, ovunque, è il
diritto a vivere e lavorare in condizioni degne nel proprio paese, in primo
luogo per i nostri cittadini nel nostro paese. L’autentica solidarietà
internazionalista fra le classi popolari implica il diritto all’unità e allo
sviluppo integrale di ogni nazione.
4) Contro le sinistre liberali
La mutazione delle sinistre in difensori
dell’ineluttabilità del capitalismo e della sua mondializzazione si è vestita
di modernismo e progressismo, tipiche bandiere della sinistra liberale. I propri referenti non sono più perciò i ceti popolari, ma frazioni di
classe della media borghesia, connesse con il modo di produzione della
“accumulazione flessibile”. Anche le sinistre radicali, figlie dell’onda lunga
del ’68, si sono rifugiate nelle loro piccole ecclesie e in movimenti (settori
dell’ecologismo, del femminismo, Lgbt, animalisti, pacifisti, ecc.) che
rimuovono accuratamente il problema dei rapporti di potere economico,
annegandolo in rivendicazioni settoriali e identitarie che preservano il
sistema. Non è un caso che la cultura di queste sinistre veda come principale
nemico lo Stato e assuma come obiettivo centrale la lotta alle gerarchie e
all’autoritarismo (spesso etichettato come “patriarcato”). Queste
rivendicazioni sono occasioni per aumentare la segmentazione sociale, e sono
peraltro agevolmente integrabili nell’attuale modo di produzione, come
estetica, marketing, ecc. Concentrarsi su diritti soggettivi e identità
esclusive finisce per atomizzare la società, dissimulando il problema dei
rapporti di forza economici.
5) Per la democrazia reale
La sfida principale del nostro tempo è quella alla democrazia reale, che
non è minacciata dai movimenti populisti, ma dalla reazione ad essi da parte
delle élite in tutto il mondo occidentale. Per
fronteggiare questa reazione occorre una nuova classe dirigente, con una base
autenticamente popolare, che non sia l’ennesima variante minore dell’ordine
liberale. L’energia sociale per uscire dall’attuale impasse si può
trovare solo nei ceti in maggiore sofferenza. Quelli a proprio agio, o troppo
interni al modo di produzione per distaccarsene, possono solo seguire. Si pone
perciò il problema dell’unificazione non solo delle classi subalterne, ma di
tutto l’ampio fronte che può muoversi in direzione antiliberista e
antieuropeista.
Questa forza terza, indisponibile al vecchio bipolarismo, deve porre la
questione dei rapporti sociali, della subordinazione del mercato alla
democrazia, chiarendo quali gruppi, ceti e posizioni, incarnano l’interesse
generale dell’Italia. Essa deve inoltre porre la questione degli strumenti
della democrazia, come quelli forniti dalla nuova interconnessione virtuale,
estesa a tutti i cittadini, con la possibilità di avviare discussioni
molecolari in ogni momento e su ogni tema. Si deve porre anche il problema del
crollo delle strutture di autorità e reputazionali tradizionali, e delle sue
conseguenze sulla logica della delega. Bisogna confrontarsi con la
manipolazione dei dati, l’appropriazione delle informazioni nelle piattaforme
proprietarie, e gli enormi rischi che ciò comporta.
6) Per una nuova coalizione sociale
Serve per questo una larga coalizione sociale, che attraversi il paese da
Nord a Sud, rispondendo alle diverse esigenze delle sue aree culturali ed
economiche, spesso radicate in storie secolari. Bisogna saper parlare con i neo-proletari della new economy, i
professionisti in via di “uberizzazione”, i lavoratori autonomi sfruttati e
marginali, i pensionati a basso reddito e negletti, la parte ancora reattiva
del sottoproletariato urbano. Per fare ciò bisogna superare i modelli utili ma
insufficienti dei meet-up, o delle effimere mobilitazioni social,
attraendo a sé i segmenti di piccola borghesia operanti sul mercato interno, il
ceto impiegatizio pubblico, e parte dei ceti medi riflessivi, staccandoli
dall’egemonia esercitata dalla borghesia cosmopolita e dal settore dedito alle
esportazioni.
Oggi nessun soggetto privilegiato della storia può guidare in esclusiva una
transizione al socialismo. E lo stesso socialismo deve essere declinato in modo
da consentire una pluralità di vie, integrate nelle comunità territoriali, con
le loro tradizioni storiche e le matrici costituzionali. Il socialismo sarà
inclusivo, democratico, storicamente e territorialmente radicato, o non sarà.
Il ‘soggetto’ di questa trasformazione non può più essere unilateralmente
una frazione qualificata della società. Non può esserlo la vecchia classe
operaia ormai frammentata e dispersa; né possono esserlo le “classi riflessive”
della nuova economia della conoscenza, spesso in prima fila per la
conservazione dei loro declinanti, piccoli, privilegi; né non meglio precisate
“moltitudini”, con il loro rifiuto di porre la questione del potere; né le
“donne”, quasi fossero una classe a sé stante. Il blocco sociale capace di
riaprire il futuro può solo essere una rete contingente di soggetti sociali,
sensibili alle diseguaglianze orizzontali e verticali, tra periferie e centri.
Quest’aggregazione contingente deve prendere le mosse dai danni creati dallo
sviluppo unilaterale della valorizzazione capitalistica, dai luoghi dove le
condizioni di lavoro o di vita risultano insopportabili per chi non gode di
posizioni privilegiate. È qui che nasce la resistenza da cui partire.
Il punto diventa quindi costruire linee oppositive al capitalismo che
passino innanzitutto per i differenziali di reddito, di mobilità, di luogo. È
la divaricazione tra i ‘vincenti’ – che riescono a fare il proprio prezzo e si
muovono nei centri geografici funzionali al sistema – e i ‘perdenti’, che il
prezzo lo subiscono e stazionano in area periferica – a definire il campo della
lotta di classe per un socialismo del XXI secolo. Solo focalizzando su tale
frattura si può reggere lo scontro con l’Unione Europea e con quella parte del
paese che dell’UE si serve per affermare i propri interessi, spacciandoli per
necessità o interesse collettivo.
7) Per un’economia umana
La piena
occupazione garantita dev’essere un obiettivo guida, per rovesciare i rapporti
di potere contrattuale. Che siano i datori di lavoro privati a dover competere
per acquisire i migliori lavoratori, e non questi ultimi a doversi svendere, in
una competizione al ribasso fratricida. Bisogna imporre un ‘pavimento’ al
mercato del lavoro che non possa venire compresso e salga progressivamente.
Tale “pavimento” non può essere il risultato della semplice fissazione legale
di un salario minimo, ma è l’effetto di un mutamento dei rapporti di forza nel
mercato del lavoro ottenuto grazie ad un forte intervento pubblico di rilancio
dell’occupazione attraverso piani di lavoro di ultima o di prima istanza.
Con
salari e diritti crescenti il capitale, pubblico e privato, sarà costretto a
investire in tecnologia, innovazione e qualità. In quest'ottica la Pubblica
Amministrazione deve essere messa nelle condizioni di funzionare adeguatamente,
svolgendo il ruolo di occupatore di Prima Istanza, con assunzioni massicce e
quanto mai necessarie, oltre a quello di riserva di buona occupazione
transitoria, come parametro per l'intero mercato del lavoro.
Un
robusto pool di imprese di stato, nei settori strategici e a vocazione monopolistica,
dovrà rianimare il modello di economia mista che ha fatto la fortuna del nostro
paese, e che si sta affermando imperiosamente nelle economie in crescita
egemonica nel mondo (Cina in primis). Il rafforzamento della domanda aggregata
interna potrà riattivare lo spirito dei lavoratori italiani, rianimando le
periferie depresse, e spegnendo le lotte tra ultimi e penultimi. Il ripristino
del controllo sui movimenti di capitale con la sua subordinazione alla funzione
sociale, la demercificazione del lavoro e della natura, la cura, il sostegno e
la protezione ai piani di vita di ciascuno, la capacità costituente esercitata
dal basso e dalle periferie sono i capisaldi del socialismo che cerchiamo.
Questo
modello va a fornire un incremento di domanda anche al commercio mondiale, che
in questo modo troverebbe nuove risorse e fattori di crescita sufficienti per
essere basato su rapporti equilibrati fra aree e paesi. Sarebbe superato il
tentativo odierno di operare un abbattimento tecnocratico, e ad ogni costo, di
ogni frontiera per trovare i mercati e la domanda di beni che nel frattempo si
è perduta abbattendo il salario, a partire da quello europeo. Anche e
soprattutto per questa via passa il riequilibrio fra apertura democraticamente
vagliata dei mercati e sovranità democratico-costituzionale. Solo per questa
via è proponibile qualunque idea reale e non mistificata di internazionalismo.
In
questo quadro un rilievo particolare dovrà essere dato alla “questione
ambientale”, che lungi dall’essere una moda passeggera, rappresenta un
orizzonte decisivo per le sorti dell’umanità futura. La pulsione alla
competizione anarchica, sotto regime capitalistico, rende inevitabile una
costante devastazione degli equilibri ecologici e organici. Emergerà perciò con
sempre più chiarezza la necessità di superare questo modello di sviluppo
autodistruttivo. Il socialismo, come subordinazione del mercato a politiche
democratiche e finalità umane, è la forma dell’unica soluzione
possibile. L’antico slogan “socialismo o barbarie” dovrebbe oggi essere
declinato in “socialismo o collasso ecologico del pianeta”.
8) Per il perseguimento dell’interesse
nazionale in un’ottica multipolare
Puntare
su di uno sviluppo del mercato interno mostra il sovrapporsi di interesse
nazionale e interesse di classe. Aumentare le opportunità dei
lavoratori e delle imprese italiane, e ridurre la dipendenza dalle
esportazioni, rappresentano insieme una conquista di indipendenza geopolitica e
di benessere sociale. Oggi più che mai c’è la necessità di un forte settore
pubblico dell’economia, capace di riequilibrare i rapporti di forza tra lavoro
e capitale, e di rilanciare il ruolo dell’Italia in una direzione geopolitica
multipolare. Senza coltivare avventure imperiali o neocoloniali, ma anche senza
diventare una zattera alla deriva nel mediterraneo.
Nonostante in Occidente tutti facciano finta di non
accorgersene, il bipolarismo della Guerra Fredda è finito da trent’anni. È ora
di aggiornare le nostre priorità e smettere di reiterare le costanti storiche
della nostra politica estera: l’irrilevanza nel dibattito interno e
l’affidamento esclusivo all’alleato forte. Due caratteristiche che entrambe mal
si coniugano con la promozione dell’interesse nazionale in un multipolarismo
come quello attuale. Mai come oggi gli obiettivi geostrategici dell’Italia
differiscono tanto da quelli americani quanto da quelli dei competitors
europei.
Se recuperassimo tutti gli strumenti – politici ed
economici – che si confanno a uno Stato sovrano, potremmo rilanciare il nostro
ruolo di media potenza, con un ritrovato attivismo che – lungi dal ripercorrere
tristi esperienze coloniali passate – riesca a valorizzare al meglio la nostra
collocazione geografica.
L’Italia ha interesse al sorgere di un mondo multipolare con un nuovo
equilibrio internazionale. La
subalternità ad un occidente che non riesce a liberarsi del fallimentare
modello neoliberale può essere superata solo se si istituiscono relazioni eque
con il mondo emergente, e se si valorizza la nostra collocazione nel
mediterraneo. Senza rigettare le tradizionali relazioni con il centro europeo e
con gli Stati Uniti, solo un multilateralismo che giochi su più tavoli – Africa,
Russia, Cina, India, America Latina – può consentire di ridurre la nostra
subalternità. Costruire un socialismo per il XXI secolo implica perciò anche
difendere il proprio apparato pubblico e le proprie aziende strategiche,
incluse quelle militari ed energetiche, dalle altrui mire di dominio.
9) Per un socialismo plurale nel XXI
secolo
I socialismi del XXI secolo non dovrebbero essere progressisti più di
quanto non siano conservatori. Essi non dovrebbero cioè predicare la
convergenza di tutta l’umanità in una forma di sviluppo culturale predefinita.
Gran parte dei fallimenti e delle sconfitte del socialismo storico è dipesa da
questa ambizione, non troppo dissimile dalle pulsioni uniformanti ed astratte
del capitalismo. Bisogna andare oltre i modelli di socialismo storici (previo
loro approfondito studio, che rimane cruciale) prestando attenzione alle forme
innovative che si sono sviluppate in Cina e nei paesi “bolivariani”. I socialismi
per il XXI secolo devono fare buon uso dei mercati, ma impedendo che si saldino
in un unico illimitato ‘sistema di mercato’. I mercati sono esistiti ben prima
del capitalismo ed esisteranno dopo di esso, né devono per forza avere
carattere capitalista. L’istituzione dei mercati può far leva su forme di
organizzazione sociale decentrata che si può fondare sullo scambio di surplus
tra pari, senza che siano indefinitamente e automaticamente traducibili in un
unico metro di valore; va rigettato il modello esemplificato dai mercati
finanziari, dove tutto è ininterrottamente mobile, mercificato e liquido in
vista di un margine quale che sia di profitto. Rilanciare la tradizione
socialista, questa volta ancorandola a forme di vita plurali e rispettose dei
propri percorsi, significa liberarsi da un modello che riduca gli scambi
sociali alla pratica della domanda ed offerta. Percorsi socialisti plurali,
possono consentire l’esistenza di mercati contenuti da una sfera sociale più
ampia, rigettando invece la risoluzione del ‘sociale’ nel mercato. L’orizzonte
di un socialismo del XXI secolo è dunque quello di comunità in cui l’economia
non è sovraordinata alla società ma sottomessa a un controllo pubblico,
trasparente, plurale e democratico, comunità capaci di fondarsi sulla
creatività, sulla capacità socializzante dell’umano e sulla logica del dono.
Essere anticapitalisti significa riconoscere che “il vero è nell’intero” e che
l’economico è solo una delle dimensioni della vita, né autosufficiente né
auto-consistente.
10) Che fare?
Come diffondere oggi in Italia un autentico progetto socialista? Si tratta di un’impresa difficile perché radicale. Ed è radicale perché non
vuole semplicemente riproporre l’intervento statale del passato, ma inaugurare
una nuova azione pubblica, evitandone le forme monopolizzate dall’interesse
privato dei partiti e dei manager di stato. Che fare, dunque, concretamente? È
necessario prima di tutto uno sforzo per acclimatare il progetto socialista in
un paese che, pur avendone disperato bisogno, lo teme, essendosi abituato negli
anni a pensare in maniera antisocialista. L’Italia ne ha bisogno perché
oggi solo l’intervento statale e la proprietà pubblica possono guidare una
ripresa. Le sconsiderate privatizzazioni dei decenni scorsi rendono necessaria
una radicale inversione di rotta verso la ricostruzione di uno stato capace di
direzione politico-amministrativa, e democraticamente controllato. Ma gli
italiani oggi temono questo indirizzo, sia per l’aspettativa
(mediaticamente coltivata) del malfunzionamento di tutto ciò che è pubblico,
sia soprattutto perché la struttura sociale italiana è stata consapevolmente
costruita (dalla DC, dal craxismo, dalla “modernizzazione” neoliberista) in
modo da ostacolare le concentrazioni operaie e favorire l’impresa individuale o
familiare. Da ciò emerge la propensione a vedere nello Stato un protettore
occasionale, che però non deve pretendere tasse o dirigere l’economia. Il
problema, acuito dal fatto che spesso nella stessa famiglia si intrecciano
redditi da lavoro dipendente e redditi d’impresa, non può essere affrontato con
leggerezza, perché la microimpresa, con i suoi vizi e le sue virtù, è in ogni
caso, e soprattutto in periodo di crisi, fonte di sopravvivenza per
numerosissime famiglie.
Questa tensione tra Stato e privato, inevitabile nelle attuali condizioni,
dev’essere dislocata verso il sistema del credito (banche, ma specificamente la
BCE). La via maestra per la ripresa e per una possibile redistribuzione passa
infatti per la monetizzazione del deficit dello Stato, non il rigore fiscale.
Il problema dell’infedeltà fiscale deve ovviamente essere affrontato, ma con
provvedimenti rivolti ai vertici della piramide sociale, e potrà essere
pienamente risolto solo nella scia di una ripresa del paese, distinguendo
tra evasione di sopravvivenza ed evasione opportunista. La prospettiva dovrà
essere quella di una regolarizzazione progressiva e non traumatica delle
microimprese, basata sullo scambio tra lealtà fiscale e normativa dal lato
privato, e servizi efficienti dal lato pubblico.
In questa prospettiva, fondamentale giacché riguarda una cultura diffusa
nel paese, è necessario costruire una strategia politica che non si limiti a
declamare le buone ragioni del socialismo, dell’intervento pubblico, dell’euroscetticismo,
ma individui i modi concreti per dar loro corso. L’obiettivo fondamentale non è
affatto “l’unità della sinistra” contro la “destra fascista”. La destra attuale
non è fascista, anche se ha pericolosi tratti autoritari. E d’altra parte la
sinistra non è affatto democratica (anche se molti suoi elettori e militanti lo
sono): non lo è perché il suo globalismo sconsiderato ha sottomesso il paese
alla dittatura dello spread, perché (come la destra) ha sfasciato la
Costituzione del ’48, perché (come la destra) mostra costantemente impulsi
censori rispetto all’espressione del dissenso. In queste condizioni, è assai
difficile dire se un futuro governo autoritario sia oggi più favorito da
istanze di destra o di sinistra.
L’obiettivo fondamentale dev’essere quindi la lotta contro ogni
riproposizione del bipolarismo, e dunque anche contro il maggioritario che lo
accompagna. Il bipolarismo serve infatti a consolidare la subordinazione del
paese attraverso uno scontro fittizio fra due poli, divisi su questioni
secondarie, ma uniti dalla fedeltà atlantica ed europea. Ciò vale con tutta
evidenza per il polo di sinistra, anche se il M5S dovesse stabilmente
parteciparvi. Ma vale anche per il polo di destra, perché ha già dimostrato di
alimentare un euroscetticismo di facciata, sostenendo l’irreversibilità
dell’euro, e di essere avverso ad ogni rafforzamento dell’impresa pubblica e ad
ipotesi di nazionalizzazione. Per rompere il bipolarismo è necessario
ricostruire un terzo polo, dialogando con la parte critica dell’elettorato e
della militanza M5S, raccogliendo tutte le forze che sono sovraniste in quanto
socialiste, ma soprattutto dando espressione a chi da decenni non ha
rappresentanza politica: la vasta e frammentata classe dei lavoratori
subordinati, dei precari, dei disoccupati.
Un tale terzo polo non può nascere attorno alla mera parola d’ordine negativa
dell’Italexit. L’evidente balbettio dei sedicenti sovranisti gialloverdi di
fronte all’Ue, le convulsioni della Brexit, la presa nell’opinione pubblica del
ricatto dello spread, rendono difficile – salvo brusche accelerazioni
della crisi europea – aggregare consensi decisivi, solo ponendo al centro la
prospettiva dell’uscita dall’UE. Tenendo ferme le ragioni per un’uscita dai
trattati, bisogna innanzitutto accumulare le forze su espliciti contenuti positivi
(più stato, piena occupazione, mercato interno, Sud…). Per farlo lanciare
un programma che indichi l’uscita come condizione della propria piena
realizzazione, ma che sia articolato in obiettivi intermedi parzialmente
perseguibili anche in ambito UE.
• In questa prospettiva Nuova Direzione
deve impegnarsi a:
I. Ribadire una dura critica all’Unione europea, sviluppando su ciò
attività di formazione e controinformazione, anche in connessione con altri
soggetti.
II. Costruire progressivamente un programma socialista per il paese,
articolato in obiettivi di fase concretamente perseguibili. Qui l’elaborazione
concettuale deve accompagnarsi alla costruzione di alleanze politiche con
soggetti collocati criticamente nei diversi partiti, nell’apparato dello stato,
nel mondo delle imprese e del sindacato, nei luoghi di maggiore conflitto
sociale.
III. Inserirsi in tutte le esperienze di conflitto che esprimano un
netto dissenso verso la situazione generale del paese e verso le politiche di
indebolimento delle condizioni dei lavoratori: crisi industriali,
regolarizzazione dei precari, contrasti tra banche e debitori, e così via.
IV. Promuovere, o comunque
intercettare, quei conflitti con radicamento territoriale in cui si presenti
una lotta fra centro e periferia, Hinterland contro città, Sud contro Nord e
così via. Il fine non è disgregare, ma riaggregare su nuove basi ciò che si sta
irrevocabilmente frammentando. Il fine è presentarsi come movimento per
l’unità d’Italia: unità fra i suoi diversi lavoratori, fra questi e le
piccole e medie imprese, fra tutti i territori che il neoliberismo italiano,
rappresentato dalla sinistra come dalla destra, mette in infinita competizione
a solo vantaggio del capitalismo e dell’Unione Europea.
*
* *
I nodi storici
d'Italia: classi, Stato, sovranità
Nei momenti di crisi e difficoltà
emergono le caratteristiche di fondo di un paese. La storia non dimentica, i
nodi vengono al pettine. Quello che siamo ora è scritto nel percorso. Per
questo, al fine di prescrivere una terapia, sono necessarie un'anamnesi e una
diagnosi.
Il parto della nazione italiana è
stato complicato. Fra le opzioni che si sono confrontate nell’intento di
unificare l'Italia, alla fine ha vinto quella sabauda, anche grazie alla
tattica cavourriana che si muoveva fra le potenze del tempo sfruttandone i
conflitti. La vittoria dell'opzione monarchica ha comportato l'imposizione
dello Statuto Albertino e del modello statale piemontese, senza alcun passaggio
costituente, e ciò anche a causa della debolezza politico-programmatica delle
correnti democratiche e dello stesso garibaldinismo. Sono state unificate in
modo repentino realtà sociali, modelli istituzionali e monete diverse. Così
l’Italia è nata da subito affetta da condizioni di squilibrio. L'unificazione,
costruita con una mobilitazione contraddittoria delle masse, allora in gran
parte contadine, e delle varie borghesie, ha prodotto il rifiuto del nuovo
Stato in varie parti del paese, rifiuto sollecitato dalla reazione borbonica,
dal clero e, all’inizio, anche dai più coerenti fra i repubblicani e
garibaldini. La Chiesa, allora unica “forza nazionale”, dopo l'occupazione dei
territori pontifici e la presa di Porta Pia, è stata all'opposizione del nuovo
Stato, fino ai Patti Lateranensi.
Da questa modalità di unificazione
nasce la questione meridionale. La questione agraria, in particolare, non è mai
stata un punto centrale nel processo di unificazione per le forze repubblicane
egemonizzate da ceti intellettuali borghesi e piccolo borghesi. Il fascismo
utilizzò le masse contadine in maniera del tutto subalterna e reazionaria. Da queste modalità di unificazione nasce
anche il sentire lo Stato come esterno, quando non avverso. Priva
dell'ancoraggio di un'appartenenza forte, di istituzioni solide, e di una vera
classe dirigente nazionale, l'Italia ha manifestato tratti di incertezza fin
dalle origini.
La partecipazione delle masse
cominciò a mutare le cose con il nascere del movimento socialista. Un primo
risultato politico di questo mutamento sarà il suffragio universale maschile
nel 1912.
L'entrata guerra dell'Italia nel
primo conflitto mondiale evidenziò la gracilità del nuovo Stato dal punto di
vista militare e di coesione sociale. La larga insoddisfazione popolare seguita
alla guerra e i conflitti che ne derivarono comportarono una dura reazione
delle classi agrarie e industriali e della monarchia, nell’assenza di politiche
adeguate da parte delle opposizioni. La nazionalizzazione delle masse da parte
del fascismo e il sovrapporsi dello Stato fascista a quello monarchico furono
solo in grado di sopire gran parte dei problemi o di celarli fino a che la
guerra non portò il paese allo sgretolamento.
L’8 settembre segnò così la fine
ingloriosa di un altrettanto inglorioso periodo, assestando un colpo mortale al
sentimento nazionale. L’indebolirsi dell’idea di nazione ha intaccato tanto
l'idea dell'autonomia che il valore attribuito all’interesse generale. Esito
della sconfitta furono anche la perdita di rango nel consesso internazionale e
la subalternità, che dura tutt’oggi, agli USA.
La Resistenza rappresentò tuttavia
un correttivo a questa condizione. La presenza di forze antifasciste che si
erano formate nell'esilio e nella clandestinità consentì di portare il paese
alla transizione verso la Repubblica e all’elaborazione della Costituzione, e
di non farlo divenire un protettorato anglo-francese. La Resistenza, unico
riscatto del popolo italiano, prima ancora che tradita fu troppo breve e troppo
circoscritta territorialmente per incidere in maniera duratura sul profilo della
Repubblica. E già durante i lavori della Costituente si inaugurava la
subordinazione della politica italiana agli Usa. La Costituzione, del resto, fu
un obiettivo quanto mai alto se si constata quanto marginalmente era prevalsa
nel referendum la scelta della Repubblica, a testimonianza di come fosse ancora
forte la resistenza conservatrice delle classi borghesi, della Chiesa e anche
di parti consistenti delle classi popolari, contadine in particolare.
Così lo spirito e la lettera della
Costituzione (la centralità del lavoro, il ruolo dello Stato finalizzato a
rimuovere e a promuovere diritti ed uguaglianza, l’economia mista, la
finalizzazione dell'impresa privata all'interesse generale), vennero
contraddetti dal ruolo centrale assunto dagli esponenti liberisti (in primo
luogo Einaudi) e dal permanere di personale fascista nei ranghi dello Stato,
mentre ne venivano espulsi molti membri di origine antifascista. Ciò garantì,
almeno inizialmente, una significativa continuità sia con il regime
monarco-fascista che con precedente Stato liberale.
La Costituzione del '48 non ebbe
dunque modo, per ragioni interne ed internazionali, di attuarsi completamente.
Ma, anche grazie alla sua promulgazione, le forze sociali e le tendenze
culturali di cui essa era espressione non potevano più essere escluse
dall’agone politico: ed è per questo che essa costituì lo scudo del pur
relativo avanzamento dei ceti popolari degli anni ’60 e ’70, e, in quanto tale,
fu sottoposta ai più duri attacchi. Se il primo periodo del centro sinistra
sembrò iniziare ad attuare alcuni dei dettami della Carta, negli stessi anni e
in seguito si poté assistere a una serie di assalti, politici, militari,
istituzionali alla logica costituzionale.
Quegli assalti, che andavano dai
minacciati golpe allo stragismo, dall’uccisione di Moro alle trasformazioni
derivanti dall’ingresso del paese nell’Ue, culminarono nella Seconda
Repubblica, inaugurata dall’ambigua stagione di “Mani Pulite”. E non è un caso
se chi lasciò che Moro fosse ucciso, dimostrando quanto limitata fosse la
nostra sovranità, fu anche artefice di una sottomissione della costituzione ai
dettami di Maastricht.
Ciononostante, la presenza egemone
nella Resistenza di forze politiche non-liberali se non addirittura
anti-liberali permise che la sopravvivenza post-bellica - aspramente combattuta
dalle forze liberali - dell’IRI, creata dal regime fascista per affrontare le
conseguenze della Grande Depressione del ’29, diventasse il perno del decollo
italiano (il cosiddetto ‘miracolo’, che avvenne con tassi di crescita ‘cinesi’)
che cambiò drasticamente, si può dire per la prima volta nella storia italiana,
le condizioni di vita materiali di ampie masse di popolazione.
Il mondo liberale che aveva mal
sopportato la permanenza dell’IRI, nonché il predominio dei partiti di massa,
aspetti che aveva continuamente combattuto nel dopoguerra, iniziò già dagli
anni ’70 una violenta controffensiva. Approfittando della crisi politica di
fine ’70, riuscì a imporre un passaggio del paese sotto il ‘vincolo esterno’
europeo con l’ingresso nello SME che, ulteriormente rafforzato dal divorzio
Bankitalia-Tesoro, preluse allo smantellamento dell’IRI e quindi alla
demolizione delle condizioni politiche della crescita economica del paese,
riportando la gestione economica complessiva nelle mani di quelle forze
liberali che se ne erano sentite limitate dalla Resistenza, dalla Costituzione
e dai partiti di massa.
Infatti, la seconda repubblica è
stata, in realtà, una sorta di golpe continuato contro la Costituzione, e il popolo
italiano, consentito dai Presidenti della Repubblica, dalla Corte
Costituzionale, dai partiti “contro-riformati”. È stata la repubblica “della
società civile” e non più delle classi, del “cittadino-consumatore” e non più
del lavoratore. La repubblica senza ideologie, tranne il liberismo. La seconda
repubblica ha vissuto, e così è tutt’ora, in un’orgia di leggi elettorali
rapidamente cambiate per favorire questo o quello, di liberalizzazioni e
privatizzazioni, di riduzione dei diritti del lavoro, blocco dei salari,
disoccupazione a due cifre, povertà, diseguaglianze, assorbimento subalterno
dei sindacati, modifiche al titolo V che frantumano il paese e preludono a
richieste di disunioni ulteriori (come l’autonomia differenziata). Ha
partecipato a guerre destabilizzanti condotte per “esportare la democrazia”,
ossia a guerre di occupazione per l'egemonia mondiale dell'occidente e del suo
paese guida, gli Usa. Fino ad arrivare al masochismo di una guerra alla Libia
voluta da nazioni concorrenti quali Francia ed Inghilterra, dopo che solo
qualche tempo prima si era siglato un accordo storico con la Libia stessa. La
partecipazione a questa guerra è stato un tradimento, oltre che della Carta,
anche dell’interesse nazionale.
L’adesione all’Unione europea ha aggravato
la subordinazione del paese. Oltre agli Usa ora ci si è subordinati alla
finanza, ai mercati, ai paesi europei più forti politicamente o economicamente.
La classe dirigente italiana ha pensato di poter così governare con il vincolo
esterno le recalcitranti classi popolari italiane. La garrota dell’Unione e
dell’euro comportano un declino continuo sul piano sociale, economico,
culturale, democratico.
Stando così le cose, non stupisce
che il paese dia sempre maggiori segni di scollamento. Tutto sembra crollare ma
nessuno appare responsabile di alcunché. Il paese sta perdendo il senso di
appartenenza ad una storia. Siamo fra le nazioni con il maggior grado di
diseguaglianza, la giustizia è sempre più lenta, e meno cieca di quanto
dovrebbe, come accade peraltro in tutto l’occidente, con
la decadenza dello spirito pubblico e l’insorgenza dell’interesse privatistico
competitivo di mercato, la corruzione dilaga. Si sente la mancanza di uno Stato che,
in realtà, in Italia non è mai “stato”. C'è una crisi conclamata delle élite.
Tutto ciò crea insicurezza, rancore,
rabbia che però restano a livello individuale. La rabbia non prende la strada
del conflitto, della lotta. Un tempo ci si rivolgeva alla sinistra per
risolvere i problemi: ora non più. La cosiddetta sinistra è parimenti colpevole
dello stato di cose presente. Ai cittadini non sembra rimanere altro che la
protesta elettorale. E questo accade proprio quando la democrazia (e con essa
le elezioni) è sempre più una finzione, in quanto le decisioni vengono prese
altrove: da Bruxelles o dai “mercati”. Milioni di cittadini ad ogni votazione
vagano da partito a partito alla confusa ricerca di protezione, ordine, cambiamento.
Non è dunque un caso che il paese rimanga inquieto, conflittuale. I lavoratori
e le masse non sono assopiti, anche se non sanno bene cosa fare: viviamo una
continua transizione verso il nulla. L’Italia si presenta come una pentola in
continua ebollizione che sembra non scoppiare mai.
Questo stato di cose impone di
andare alla radice dei problemi: è tempo ormai di riconquistare la sovranità
nella politica interna ed estera, conformemente ai principi costituzionali e
all’interesse nazionale. La seconda
guerra mondiale è finita da settant’anni, e l’abbiamo ormai pagata abbastanza!
Del resto, l’Alleanza atlantica,
già discutibile negli intenti originari, alimenta oggi conflitti e aggressioni
su vasta scala, divenendo così seriamente
controproducente per gli interessi nazionali e popolari. Lo stesso discorso
vale per l’Unione Europea, dove gli interessi internazionali di Francia e
Germania non sono affatto coincidenti con
quelli dell’Italia.
L’interesse nazionale del popolo
italiano richiede una neutralità attiva e
funzionale alla pace, in particolare nel Mediterraneo. La globalizzazione e
il liberismo, la competizione di tutti contro tutti, hanno fallito: serve più
Stato, lo Stato della Costituzione. forte contro i forti. Servono
programmazione, controllo dei capitali, delle merci e delle persone per una
buona e piena occupazione, affinché i lavoratori non siano merce ed il lavoro
non sia tortura ed usura. Serve una nuova idea di società e una nuova idea di
economia e di rapporto con l’ambiente. Un’economia per la società e non una
società per l’economia.
La risposta a tutto ciò può ancora
essere trovata nella Costituzione del 1948. La
Costituzione non è dietro di noi. Essa è un obiettivo che ci sta davanti, per
cui è necessario costruire un popolo e uno Stato. A tal fine serve una
memoria storica che ci ricordi le lotte che, dalla Resistenza agli anni ’70 e
oltre, hanno tentato di costituire pienamente la nazione, le reazioni
antipopolari e antinazionali delle classi dominanti, le circostanze che fanno
sì che oggi l’interesse nazionale, l’interesse ad avere una nazione sovrana e
capace di crescere nella pace, coincida ormai con quello delle classi
subalterne. A tal fine servono nuove culture politiche, nuovi partiti capaci di
riprendere il cammino e ricucire i fili che la regressione degli ultimi decenni
sembra aver reciso.
[1] - Si veda questo
post che ne riassume i contenuti.
[2] - Di cui si riporta
il testo: “Il 9 marzo scorso, dopo lunga attività preparatoria, è stato
presentato a Roma il “Manifesto per la
Sovranità Costituzionale”.
I
10 punti del Manifesto illustrano una posizione articolata ed organica da cui
emergono, tra le altre cose:1)
la
necessità di ridare centralità ai principi della Costituzione del ’48, di cui
si dichiara l’incompatibilità con i Trattati costitutivi dell’Unione Europea;
2)
la
necessità di combattere la mobilità incontrollata di capitali, merci e persone,
inclusi i migranti economici, il cui ingresso va condizionato alle capacità di
assorbimento economico e di accoglimento dignitoso del paese ospitante;
3)
la
riconsegna di centralità allo Stato nazionale, come primaria arena della lotta
politica e come argine ai processi di globalizzazione economica, di cui è
strumento indispensabile la riacquisizione della sovranità monetaria;
4)
la
necessità, per dare seguito ai punti del Manifesto, di costruire un soggetto
politico di ispirazione socialista, che vada al di là dell’odierna offerta
politica di destra come di sinistra.
Il
Manifesto è stato sottoscritto da tre associazioni politiche (Patria e Costituzione, Rinascita! e Senso Comune), ed è stato promosso con
l’idea di farne un collettore politico intorno a cui aggregare ulteriori forze,
secondo un modello organizzativo aperto e non verticistico.Si
tratta di promuovere un diverso sistema economico e sociale imperniato sulla
piena e buona occupazione, l’affermazione della funzione sociale della
proprietà privata come limite insuperabile ai suoi abusi, la centralità della
lotta ai fallimenti del mercato e delle pressioni sull’uomo, sulla natura e
sulla coesione sociale che ne derivano, la lotta internazionalista ai monopoli
ed al conseguente imperialismo.Gli
immediati sviluppi di questo passo, ambizioso e promettente, si sono però
mostrati contraddittori.In
prima istanza, l’iniziativa di un’autorevole minoranza ha messo gli aderenti di
fronte a una situazione di fatto compiuto, portando alla marginalizzazione di
una delle associazioni firmatarie.In
seconda battuta, su diversi punti qualificanti del Manifesto, e specificamente
sul rigetto dell’euro e dell’Unione Europea, sul distanziamento dall’attuale
sinistra, e sulla necessità di creare un nuovo soggetto politico si sono
registrati arretramenti e atteggiamenti ondivaghi.Nonostante
reiterati tentativi di chiarimento tali ambiguità non sono state dissipate.In
opposizione a tali ambiguità è nostra intenzione ribadire integralmente e senza tentennamenti le premesse del progetto, e
segnatamente:•
nei contenuti dei punti 1-4 qui sopra,•
nel fare da collettore democratico di una pluralità di esperienze e culture
politiche,•
nella ferma intenzione di costituire un soggetto politico autonomo.Queste
istanze sono per noi caratterizzanti e necessarie.In
quest’ottica, proseguiremo il progetto nella sua forma iniziale, in autonomia
rispetto all’attuale dirigenza di Patria e Costituzione e di Senso Comune,
procedendo verso la costituzione di un soggetto politico, a partire da
un'assemblea pubblica di prossima convocazione.Questo
progetto è concepito come un’operazione di lungo periodo, disinteressata alla
competizione per spazi al sole, ed aperta a vecchi come nuovi compagni di
strada.”[3] - Si veda Carlo Formenti,
Alessandro Visalli, “Partito
e classe dopo la fine della sinistra”.
[4] - Riportato in questo video nel
quale vengono descritte le tesi “Tesi politiche di
Nuova Direzione”.
[5] - Riportato in questo video “Socialismo del XXI
secolo” e in forma testuale qui.
[6] - Riportato in questo video “Passare tra Scilla
e Cariddi, il nostro compito” e in forma testuale qui.
[7] - Riportato in questo video “Oltre la
destra e la sinistra: la necessità di una nuova direzione”, ed in forma
testuale qui.
[8] - Riportato in questo video.
[9] - “Assemblea
nazionale del 25-26 gennaio 2020. Ordine del giorno”.
Nessun commento:
Posta un commento