Scrivendo[1] della recensione a “Il
capitale monopolista” di Paul Baran e Paul Sweezy che Prabhat Patnaik ha
pubblicato sui Monthly Review del luglio 2016, in occasione del cinquantenario
della pubblicazione, avevamo concluso che, data la condizione attuale, a tenere
in equilibrio il capitalismo e controbilanciare le sue contraddizioni restano
solo le “bolle”, che, però, durano solo fino a che inevitabilmente non
collassano. Tutte le tecniche alternative, se si esclude un impossibile governo
mondiale, sono state disattivate rendendo impossibile riattivare le
controtendenze politiche “esogene” (rispetto al corso naturale del capitalismo)
dei diversi stati descritte degli autori negli anni sessanta[2].
L’analisi
di Baran e Sweezy descriveva infatti le ragioni per le quali, nelle condizioni
dell’epoca ante “finanziarizzazione” e “globalizzazione”, il capitalismo ormai
compiutamente nella fase monopolista tendeva alla stagnazione se non venivano costantemente
messe in campo, come lo erano, controtendenze esogene. Alcune di queste controtendenze,
quelle di matrice politica e rivolte a contenere la produzione di “surplus” (e
quindi l’appropriazione di profitti), sono state appunto disattivate in quanto
ostacolavano i profitti a breve termine (ma li assicuravano a medio e lungo
termine). Sono state dunque sostituite, sia pure meno efficacemente, dai sottoprodotti
della fase finanziaria. È stata, cioè, trovata ‘per strada’ una soluzione, attraverso
la crisi aperta negli anni settanta e richiusa negli ottanta: il “suplus
produttivo” che si continuava ad espandere a causa dell’assetto monopolista del
capitalismo mondiale è stato riciclato nel crescente settore finanziario ed in
parte in un nuovo ceti di intermediari di vario genere (professional, manager,
manipolatori di simboli e di spettacoli, …). La necessaria ‘accumulazione
originaria finanziaria’ (ovvero il passaggio della massa di capitale dagli
investimenti in fattori produttivi a investimenti meramente finanziari) è stata
alimentata in quel passaggio dalla rottura della parità, dai petrodollari ed
eurodollari, nel contesto della deregolazione. Così facendo ha progressivamente
creato una forma di capitalismo interamente concentrato sulla generazione
parossistica di surplus e sulla sua intermediazione con appropriazione.
La
divisione del lavoro a scala mondiale vede ora la base produttiva sparpagliata
in tutte le aree di minore resistenza, nelle quali può essere estratto il
surplus con il minimo di attrito fidando su un “esercito di riserva mondiale”
che è costantemente accresciuto, con relativo disinteresse al problema del
realizzo, in quanto la domanda è fluida e mondiale (ma tende comunque ad essere
scarsa) e in quanto il meccanismo di creazione delle bolle e gli “schemi ponzi”
possono appianare le asperità, almeno temporaneamente, e creare domanda senza
base produttiva. L’espansione del debito surroga la chiusura stabile del ciclo
keynesiano appoggiandosi su “cicli Minsky” sempre più ampi e quindi sempre più
veloci ed instabili[3].
La circolazione del valore muove dalla produzione, decentrata, divisa in catene
di approvvigionamento e montaggio sempre più lunghe ed intrecciate, quindi
sempre più fragili e costose da proteggere, e dal suo rimontaggio,
amplificazione e ricircolo nel sistema mondiale ed interconnesso di
intermediazione finanziaria. Un sistema interamente fondato sulla liquidità apparente.
Un sistema, è il punto dei Patnaki, che è altamente vulnerabile alla potenziale
perdita di valore del denaro che potrebbe essere trasmessa da un’inflazione dei
valori ‘reali’. Si tratta quindi di garantire che non accadrà.
A
questo servono le politiche neoliberali.
Sempre
sui Monthly Review in un altro numero[4], dell’anno prima, i due
coniugi Patnaik hanno scritto un articolo dal titolo “L’imperialismo nell’epoca
della globalizzazione” che, due anni dopo, sarà accompagnato da un libro
sullo stesso tema[5].
Utsa e Prabhat Patnaik sono professori emeriti presso il Center for Economic
Studies and Planning alla Jawaharlal Nehru University di Nuova Delhi e seguono
un’impostazione marxista con particolare riferimento alla scuola della “dipendenza”
che fa riferimento alla lezione di Paul Baran, Paul Sweezy ed altri.
Il
punto da cui partono gli autori è una definizione di “capitalismo”
sensibilmente diversa dalla tradizione centrale del marxismo:
“Il capitalismo è principalmente un
sistema che utilizza denaro in cui gran parte della ricchezza è detenuta sotto
forma di denaro o come attività denominate in denaro, vale a dire attività
finanziarie. Perché il sistema funzioni, è essenziale che il valore del
denaro non continui a diminuire rispetto alle materie prime; altrimenti le
persone si allontanerebbero dal possesso di denaro, e cesserebbe di essere non
solo una forma di ricchezza, ma anche un mezzo di circolazione”.
Vediamo
prima di contestualizzare il termine.
Come
noto Marx usa raramente il termine “capitalismo”, introdotto da Johann Karl
Rodbertus[6] come “sistema sociale”, seguito
da Albert Schaffle, e da Werner Sombart. La tradizione classica, da Adam Smith
a Ricardo usavano invece “capitale” e “capitalista”, ma non “capitalismo”. L’autore
del “Il Capitale” lo usa solo cinque volte di sfuggita e solo in
manoscritti inediti[7],
probabilmente perché lo trova troppo poco specifico e quindi passibile di un
uso moralistico, mentre il suo sforzo è costantemente di porsi sulla strada di
Newton e identificare i fondamenti, le “leggi di movimento” e gli elementi di
base, anatomici, ed i processi fisiologici del modo di produzione
capitalistico. Nel fare questa azione sviluppa una teoria critica nella linea della
‘concezione materialistica della storia’ inquadrata insieme ad Engels negli
anni quaranta[8],
allargando per questa ragione l’analisi dall’economia all’insieme, storicamente
fondato, di una società specifica, quella capitalista, che aveva avuto un
inizio e avrebbe avuto una fine.
Nei
dizionari francesi e tedeschi, invece, la parola entra negli anni sessanta e
poi settanta del ottocento e in quelli inglesi nei successivi anni ottanta[9], quindi viene sdoganata
accademicamente da Sombart nel 1902 in “Il capitalismo moderno”[10] e, di seguito, da Max
Weber nel suo “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”[11].
L’idea
di Marx è, più o meno, che la spinta del capitalismo è la propensione ad accumulare
capitale in modo illimitato invece di consumare, cosa che porta ad espandere la
scala della produzione ed aumentare la produttività del lavoro, rischiando però
una sempre maggiore sovrapproduzione di merci. La delimitazione del capitalismo
dalle forme sociali e modi di produzione antecedenti è che tutta la
produzione è produzione di merci, e assume quindi centralità la
forza-lavoro umana. Ma, a leggere la prima versione del primo libro de “Il
capitale”, una “merce” nel capitalismo (anziché nelle società precedenti,
nelle quali occasionalmente o parzialmente poteva diventarlo), in quanto “prodotto
del capitale” è: un prodotto di massa, da un lavoro sociale organizzato
su larga scala; per un mercato di massa; e incorpora il valore del capitale
utilizzato più il plusvalore creato nel processo di produzione. La merce quindi
‘si realizza’ attraverso il processo di circolazione ed è in definitiva soggetta
per l’intero ciclo di vita, dal concepimento al consumo, al dominio del “capitale”
(e non dei “capitalisti”). In altre parole, e come scrive Kratke, “nel
capitalismo e solo nel capitalismo tutta la produzione di merci è solo un mezzo
per un fine dominante generale, la produzione di plusvalore”. Se prodotto e
se realizzato il plusvalore va infine a formare nuovo capitale; in modo
che, in sostanza, nel modo di produzione capitalistico, ed è una sua caratteristica
specifica (oltre che contraddizione rispetto alla più ampia natura), il
capitale produce capitale. Capitale che, naturalmente, “non è una cosa, ma
un rapporto sociale fra persone mediato da cose”[12]. Ne deriva che il “capitale”,
per restare tale, deve essere sempre in crescita, è un processo che si
estende nel tempo e nello spazio. Produzione per appropriazione di plusvalore,
via circolazione, accumulazione e produzione, …
Qui
gioca il suo ruolo il denaro, che prevale su tutto come ed in quanto
relazione sociale e diventa mezzo e motivo dell’azione economica che ne è
interamente dominata. Anche se qualcuno può andare in bancarotta, il capitale
in generale, come relazione sociale intrinsecamente gerarchizzante (ovvero come
ordine del mondo) sopravviverà sempre, fino a che continua il processo di aumento
del valore. Ovvero, in altri termini, il “denaro in quanto denaro” non ha
limiti, non ha misura e non ha obiettivo.
Spesso
si obietta a questa posizione marxiana il suo essere disegnata per la fase
competitiva, per la centralità della produzione industriale, e per una
concezione del denaro come equivalente generale fondato in ultima istanza sull’oro.
La
prima e seconda obiezione è fatta propria anche da alcuni autori della
tradizione di studi marxisti ai quali i Patnaik si richiamano, in particolare
si può leggere su questo un intervento di Samir Amin del 2016, “Reading
Capital, reading historical capitalism”[13]. Ma la terza, quella che
denuncia la radicale discontinuità tra la moneta nel capitalismo del golden
standard (peraltro solo in parte coincidente con il percorso di vita di Marx) e
quella della moneta “fiat” post Bretton Woods, è meno fondata. La concettualizzazione
del denaro del marxismo, dato l’elevato livello di astrazione alla quale è tenuta,
è rileggibile anche nelle mutate condizioni attuali. In altre parole, l'oro non
ha molto a che fare con la concezione del denaro (non della moneta) di Marx, in
quanto per lui il denaro è un’astrazione e, come dice, “un rapporto sociale”.
Per meglio dire la concretizzazione di una relazione di potere. Se è
pure vero che l’attenzione di Marx è molto focalizzata su produzione e merce,
tuttavia è “il valore” che è espresso nella forma (del denaro). Ma “il
valore” per il marxismo non ha direttamente a che fare con il lavoro[14]
(e questo non è solo o direttamente lavoro cronometrato nella fabbrica, questo
ne è solo una espressione tra tante, mentre la misura ne è
l'essenziale), bensì con la “forza-lavoro” che viene valorizzata[15]. “Valorizzata” significa
trasformata in qualcosa di quantificabile e scambiabile, di cui si può far
somma e magazzino (in un certo senso). “Forza-lavoro” significa quindi
esattamente quella potenzialità che è valorizzabile in quanto compare nella
tecnica. Tutto questo non si limita al rapporto di fabbrica, ma può essere
identicamente tradotto nel lavoro del banchiere. Il denaro creato ex-nihilo ne
è solo una forma estrema; quel che determina la specifica “forza-lavoro” degli
operatori di finanza è un intero sistema sociale ed una tecnica che li
autorizza, per così dire, a determinare le precondizioni di liquidità di
sistema. Ovvero le condizioni di esistenza dell'intera “forza-lavoro”
incorporata nel capitalismo (mondiale). Dunque in un certo senso oggi è più
importante il modo di produzione del denaro finanziario, ma in un altro non lo
è. Ci vogliono certamente le condizioni di esistenza, ma poi ci vuole anche ciò
che in esse esiste.
Se
il capitalismo monetario, per Braudel il capitalismo in senso proprio, fonda la
propria esistenza e stabilità sulla capacità, socialmente e giuridicamente
autorizzata, di anticipazione e quindi di attivazione di un ciclo di
investimento e realizzo, ciò si deve tradurre nel fatto che il capitalismo come
sistema d’ordine è fondato sulla relazione sociale di debito. La novità
è che questa, con la sua astrazione concreta, sostituisce storicamente, nel
corso dei cinque secoli del suo sviluppo, via via le vecchie “lealtà e
obbligazioni”. Si tratta, cioè, di un’istituzione strettamente connessa con il
vasto processo di secolarizzazione. “Prestare denaro che non si ha”, come fanno
i banchieri commerciali e centrali, significa in sostanza istituire una
relazione, e consentire a questa di estendersi collegando funzionalmente i
soggetti generando una forma di coordinamento interamente “razionale” (in senso
weberiano).
Se
si sposta la concettualizzazione concreto-materiale del “lavoro” dal modello
della manifattura e si pensa la “forza-lavoro” si comprende come il “capitale”,
in tutte le sue forme, comanda tutte quelle dimensioni della vita che esso crea
(la “forza-lavoro” è una creazione del capitale).
Torniamo
ora alla definizione dalla quale eravamo partiti:
“Il capitalismo è principalmente un
sistema che utilizza denaro in cui gran parte della ricchezza è detenuta sotto
forma di denaro o come attività denominate in denaro, vale a dire attività
finanziarie. Perché il sistema funzioni, è essenziale che il valore del
denaro non continui a diminuire rispetto alle materie prime; altrimenti le
persone si allontanerebbero dal possesso di denaro, e cesserebbe di essere non
solo una forma di ricchezza, ma anche un mezzo di circolazione”.
È
da qui che partono i Patnaik. È essenziale per la sopravvivenza del
capitalismo, ovvero del sistema sociale che questo rende in essere, che il “valore”
espresso in “denaro” sia conservato. Conservato in modo che possa
moltiplicarsi il capitale stesso nelle forme liquide ed indefinitamente accumulabili,
astratte, che oggi ha.
Nel
passaggio dalla forma storica del modo di produzione capitalista concorrenziale
coevo a Marx, alla forma monopolista che si rende visibile nel novecento, fino
alla forma storica del modo di produzione capitalista finanziarizzato che si
afferma (una seconda volta) sul finire del secolo, diventa particolarmente
centrale questa stabilità. Ovvero diventa particolarmente cruciale la
minaccia essenziale rappresentata dalla tendenza all’inflazione del valore
monetario.
Ci
sono molti modi attraverso i quali l’assetto del capitalismo nella forma finanziaria
si impegna a garantire la stabilità del valore del denaro, e quindi di se
stesso: uno è il mantenimento, a portata di mano, di un vasto e stabile
esercito di manodopera di riserva in tutte le periferie del mondo. Ovvero sia
nelle cosiddette “metropoli” (ma nelle cinture) sia nel cosiddetto “terzo mondo”.
La trasmissione degli input deflazionari che la presenza di questa manodopera
potenziale, ma non attiva, producono esplica i suoi effetti attraverso il
contenimento del costo delle materie prime, dei semilavorati e delle componenti
che circolano nelle supply chain mondiali, e produce il contenimento del costo
dei salari monetari dei lavoratori delle “metropoli”, che subiscono gli effetti
della concorrenza e quelli del deflusso dei capitali verso le “periferie”.
Si
tratta di un circuito di produzione e circolazione intrecciato esattamente a
questo fine.
Tenendo
al centro dell’attenzione che qui si tratta sempre di abbondanza e contenimento
dei costi relativi (ovvero relativi alla produttività), la deflazione
dei redditi svolge allora, in particolare nelle “metropoli”, l’essenziale
funzione di impedire che al di là del costo di produzione l’accumulazione di
capitale disponibile produca un incremento dei prezzi insostenibile almeno di
alcune merci “scarse”[16]. L’indispensabile deflazione
del reddito (anche qui in senso relativo, rispetto alla posizione nel processo
di produzione del valore) viene ottenuta durante la lunga ascesa del
capitalismo in occidente attraverso vari espedienti (e semplice rapina) volti a
canalizzare surplus prodotto nella periferia verso il centro e, al contempo, o
è condotta distruggendo, anche qui con vari espedienti, la produzione locale soprattutto
esponendola alla competizione ineguale della metropoli. Questo processo di deindustrializzazione
ed impoverimento ha prodotto storicamente il necessario “esercito di riserva
distante”. Tutto questo viene definito “imperialismo” dai Patnaik.
Ma tutto ciò non si
limita ad esistere durante i cinque secoli di ascesa del capitalismo (via
mercantilismo) occidentale, né solo nella fase propriamente imperialista delle
grandi potenze europee tra la fine dell’ottocento e le grandi guerre, oppure
non è presente solo nella fase del neocolonialismo post-indipendenza tra gli
anni cinquanta e settanta. In realtà, sostengono gli autori, “al contrario,
la sua importanza aumenta con la finanziarizzazione quando la stabilità del
valore del denaro diventa una questione di preoccupazione ancora maggiore (da
cui l'attuale ossessione per l'inflazione)”.
Abbastanza comprensibilmente
questo “sifonamento” di ricchezza, creato e tenuto in essere costantemente da
rapporti sociali e politici ineguali e rapporti di effettiva dominazione, è
stato sistematicamente negato e occultato (dietro svariate spiegazioni
alternative[17])
da tutti gli economisti e storici liberali, incluso i migliori. Si tratta infatti
di una idea profondamente urticante.
Dunque questo “imperialismo”,
pur essendo un fenomeno storico, non è limitato a una qualche “fase” del
capitalismo ma ne è una caratteristica specifica e necessaria. E in quanto tale
si manifesta ed esplica anche in questa fase di “globalizzazione”.
La dimostrazione che ha
una dimensione storica ed una concettuale che gli economisti indiani producono
a tal fine è abbastanza compatta:
-
l’economia monetaria, essenziale per l’esistenza
stessa del capitalismo come forma sociale, esiste solo se le tendenze alla tesaurizzazione
sotto forma di “merce” sono neutralizzate. Infatti il capitalismo non esisteva
nel mondo antico perché l’essenziale ricchezza era trattenuta dalla terra, le
altre forme economiche ne erano complementari.
-
Nei termini degli autori occorre
neutralizzare i “rendimenti decrescenti” che sono sempre stati, da Ricardo a
Keynes, l’incubo della scienza economica.
Apparentemente l’argomento
è imperniato sul caso storico della produzione agricola, ed in particolare
della produzione agricola tropicale, ma ha valenza più generale. La questione
non è neppure solo relativa al tasso di profitto decrescente ricardiano (e marxiano),
ma è che al crescere dell’accumulazione le risorse scarse, o comunque non
altrettanto velocemente espandibili per effetto di un innesco di “rendimenti
decrescenti”, tenderebbero a veder crescere il loro prezzo in termini “reali”. Ma
se l’espansione del valore del denaro nella forma liquida fosse sopravanzato
dall’espansione del valore di alcune merci cruciali (l’esempio è, appunto, il
cibo e quindi la terra che lo produce con l’insieme dei potenziamenti e delle
strutture che lo facilitano), allora, dicono gli autori, “nessuno deterrà la
ricchezza nella sua forma monetaria”.
Tuttavia fino ad ora
tutto ciò non è avvenuto, i rendimenti decrescenti della
forma di denaro detenuto liquido nel sistema finanziario non si sono attivati,
o sono stati costantemente sopravanzati. L’esempio della produzione alimentare
è richiamato dagli autori (ma, attenzione, come mostra la risposta ad Harvey in
“A theory of imperialism”, è un esempio):
“Non possiamo
semplicemente affermare che i ‘rendimenti decrescenti’ siano un mito. La
limitazione della dimensione della terra è senza dubbio una realtà materiale da
non sottovalutare. La dimensione del terreno ovviamente può essere
aumentata, non in unità naturali ma in unità efficaci, attraverso progressi tecnologici
di aumento del rendimento, o attraverso determinati tipi di investimenti, come
l'irrigazione, che rendono possibile il taglio multiplo. In altre parole,
sono certamente possibili misure di ‘potenziamento del territorio’. Ma in
loro assenza, i limiti delle dimensioni della terra aumenterebbero nel tempo,
con l'aumentare della domanda, il ‘costo reale’ della produzione agricola, per
usare il termine di Keynes. Ciò significa che, per un dato salario
monetario e prezzi monetari di altri input, il prezzo di fornitura di questo
output aumenterà nel tempo man mano che ne viene prodotta una quantità maggiore.
Un tale aumento del
prezzo dell'offerta crea seri problemi al capitalismo”.
Una
controforza che ha operato è il vantaggio strutturale che la moneta, in forma
elettronica, detiene su tutte le altre forme di investimento e merce, in quanto
priva di attrito, mentre queste hanno costi di trasporto (e costi di
mantenimento). Questa è naturalmente forte, ma può essere sopravanzata dal
rischio che è connaturato al denaro in forma liquida di deprezzamento (per
inflazione o illiquidità quando detenuto, come nella grandissima parte dei casi
sotto forma di “titoli”).
Pressione
che è particolarmente attiva nei beni posizionali rari (tra questi gli autori,
dal loro punto di vista, pongono le produzioni agricole tropicali, alcune delle
quali non replicabili in altre latitudini). Ciò che va tenuto costantemente in
equilibrio compatibile con la conservazione della ricchezza in forma monetaria
(e quindi accumulabile senza costosissime infrastrutture e quindi senza
redistribuzione) è questa dinamica del prezzo relativo e quindi della tendenza
del denaro non impiegato a dissolversi via inflazione.
“È essenziale per la
fattibilità del sistema capitalista che questo fenomeno di aumento del prezzo
dell'offerta non debba manifestarsi. E questo è esattamente ciò che è
accaduto nella storia del capitalismo, motivo per cui né i pronostici ricardiani
né le anticipazioni keynesiane si sono mai materializzate. Questo non
perché i rendimenti decrescenti siano un mito, ma perché il capitalismo ha
fatto ricorso ad altri modi per assicurarsi che non si materializzassero.
L'imperialismo è uno di
questi dispositivi, il che garantisce che il fenomeno dell'aumento del prezzo
dell'offerta non si manifesti realmente. In effetti, come vedremo, non è
solo un possibile dispositivo, ma il dispositivo
tipicamente utilizzato dal capitalismo per questo scopo, da cui ne consegue che
l'imperialismo è immanente nella stessa forma monetaria”.
Certo
questa tendenza può essere controbilanciata anche, riducendo la soluzione “imperialista”,
impegnando il capitale nel potenziamento territoriale, ovvero in tutte quelle
forme di investimento infrastrutturali, tecnologici, in generale abilitanti
maggiore produzione a parità di input naturale. Azioni di ribilanciamento che
andrebbero condotte dallo Stato con risorse pubbliche. In questo modo il capitale
contrasterebbe per due vie la tendenza inflattiva: impegnandosi, riducendo la
sovraccumulazione e competizione, ed espandendo l’offerta di beni. La linea di
ricerca da Lefebvre[18] ad Harvey[19] ha sottolineato questa
dimensione, o meglio l’importanza della costruzione di spazio nella
stabilizzazione dell’accumulazione.
Ma
l’attuale propensione, connaturata allo spirito animale del capitalismo, alla “sana
finanza” e alla “responsabilità fiscale”, depotenzia sistematicamente questa
possibilità. Lo dimostrano anche lo stato delle nostre infrastrutture
territoriali e l’abbondanza, al converso, di usi speculativi del suolo.
Ma
la depotenzia sia direttamente, ostacolando per via normativa la spesa
pubblica, sia indirettamente, sottraendo risorse fiscali e garantendosi che i
redditi dei lavoratori e della generale base fiscale dello Stato sia calante. La
“deflazione salariale” coglie due piccioni con una fava, anzi tre: impedisce l’inflazione
dei prezzi e quindi il possibile uso come riserva di valore di “merci”; aumenta
il surplus trattenuto come profitto; inibisce l’azione dello Stato.
Seguendo
un modello centro-periferia (che in prima battuta, ma non esclusiva, indica la
dialettica tra occidente ed oriente o sud del mondo) resta da capire se ad
essere schiacciati in un assetto deflazionario debbano essere i lavoratori del “centro”
o della “periferia”. Naturalmente l’azione si può svolgere su qualsiasi
segmento e anche su entrambi. Ma la “stabilità sociale” del capitalismo
metropolitano richiederebbe che l’amaro calice sia bevuto soprattutto dalla
periferia. Quindi si tratta di “spostare l’onere della deflazione del reddito
il più possibile verso la periferia”. Cosa corretta, tanto più se si concepisce
la dialettica “centro-periferia” come scalare e diagonale rispetto alle partizioni
geografiche statuali e geopolitiche.
Vediamo
esattamente come la mettono:
“In un mondo
esclusivamente capitalista in cui anche le attività dei ‘rendimenti decrescenti’
sono all'interno del settore capitalista, come la situazione che Ricardo aveva
visualizzato, il termine ‘imperialismo’ non avrà alcun significato. La deflazione
salariale all'interno del capitalismo sarà quindi l'unica forma di
deflazione del reddito. Ma quando ci sono altri modi di produzione e
classi che hanno un'esistenza spazialmente distinta (come nella massa terrestre
tropicale o nella periferia in generale, distinta dal capitalismo metropolitano
che si trova principalmente nelle regioni temperate), allora l'imposizione della
deflazione del reddito ha anche una dimensione spaziale; e questa spazialità
è stata tradizionalmente definita e catturata dal termine ‘imperialismo’.”
Questa
posizione è espressamente pensata dal punto di vista di persone che sono attive
in un paese come l’India, acutamente sensibile alla differenza rispetto al
capitalismo a guida anglosassone. Lavora con una distinzione tra interno
ed esterno (del capitalismo) proposta come distinzione tra un modo di
produzione (monetizzato e finanziario) ed “altri modi di produzione”, ed un’altra
tra classi le quali hanno “un’esistenza spazialmente distinta”. Questa duplice
differenza, tra modi di essere della riproduzione sociale e tra classi
spazializzate (un concetto di classe diverso da quello funzionale del marxismo “volgare”)
è nella parentesi ricondotta ad un esempio. Infatti scrivono “come nella”.
Si
tratta della frattura tra la periferia in generale e il capitalismo
metropolitano, gli uni e gli altri geograficamente localizzati (rispettivamente
nella fascia tropicale ed in quella temperata).
La
cosa si presta, non bisogna farsi attrarre dagli esempi, ad essere applicata
anche entro il capitalismo, per usare lo schema dei Patnaik, ma ai suoi
margini diradati. Dove stazionano frazioni di classe anche esse spazialmente
distinte ma contigue ai centri metropolitani. Non solo nel ‘terzo mondo’
(peraltro l’India non ne fa più parte, almeno nei suoi centri, da tempo
apparendo più come un centro “semi-imperiale” per usare una terminologia di
Gunder Frank), quindi, ma nel “semi-primo”. Christophe Guilluy, in “La
società non esiste”[20], ad esempio, identifica e
spazializza il fenomeno della crescente deflazione dei ceti intermedi
periferici nel centro d’ordine francese. Nessuno può credibilmente dire che la
Francia sia periferia vessata e colonizzata, ma tutti possono identificarla
senza difficoltà in uno dei centri propulsivi dell’imperialismo occidentale. Eppure
una specifica e sempre più riconoscibile geografia, identificata con le
periferie urbane e rurali, e sociologia, a sua volta riconducibile a
professioni, lavori, stili di vita e condizioni meno dinamici e meno
interconnessi, parla di una frattura in allargamento tra una periferia
ed un centro. La tenaglia tra i processi urbani e territoriali, e perciò
sociali, della gentrificazione e ghettizzazione, con i suoi intermedi, opera
incessantemente allargando le classi spazializzate che possono essere ormai
identificate come “popolari”. O, in altri termini, allarga gli ambienti vasti
nei quali prevalgono condizioni di marginalità e i relativi atteggiamenti
esistenziali e politici. Provoca l’ira delle periferie. Il fenomeno descritto
dai Patnaik, della deflazione provocata per conservare stabilità all’accumulazione
capitalistica e le relative gerarchie sociali, limitando al minimo i terreni
nei quali si può tollerare l’inflazione dei prezzi e dei salari, che
provocherebbe un assorbimento di ricchezza e riduzione del potere di acquisto
del capitale, si manifesta qui pienamente. La “Francia periferica”, ovvero “designa
tutti quei territori lontani dalle prime quindici metropoli del paese, in cui
vive quali il 60% della popolazione francese. La categoria serve ad analizzare
la ricomposizione sociale dei territori e il ruolo delle classi popolari nel
modello globalizzato, ma questo non significa assolutamente che il cento per
cento dei territori e delle città della Francia periferica siano in declino o
siano abitati esclusivamente da classi popolari precarie, né che tutti i
territori metropolitani siano gentrificati. Piuttosto la categoria di Francia
periferica serve a descrivere dinamiche economiche che si ritrovano in tutti i
paesi sviluppati e sono caratterizzate da processi di concentrazione della
ricchezza e dell’arroccamento delle classi superiori in territori da cui
vengono progressivamente allontanate le classi popolari”[21].
Questi
fenomeni accadono perché la dipendenza non è un gioco tra blocchi omogenei, ma è
un rapporto dinamico reso dai differenziali di potere (nelle forme in cui
questo si manifesta). Questo differenziale, che è necessario per proteggere il
surplus e la sua appropriazione, creando centri dominanti nei quali si
concentra e periferie dalle quali si estrae, si manifesta nelle grandi città,
nelle aree “dell’osso” delle regioni sviluppate, nella divaricazione
macroregionale (ad esempio quella italiana), nella tendenziale stagnazione
relativa o perdita di spinta dei sistemi-paese spinti ai margini. Queste
dinamiche accadono nel nord inglese, nella regione della ruggine americana,
nelle periferie urbane praticamente ovunque, nelle regioni appenniniche (o
alpine) italiane, nei sud (in termini relativi). Ovvero nelle “cinture” nelle
quali peraltro vince, non per caso, il “populismo”.
Tutto
questo viene designato come dinamica imperiale dai nostri.
Ovviamente in ogni periferia, in ogni ambiente periferico, ovunque esso sia,
permane in posizione d’ordine, un segmento di borghesia che si nutre dell’intermediazione
e quindi cresce. Un segmento che è a cavallo ed in contatto con il capitale
metropolitano e produce alcuni, se pure limitati, ‘effetti alone’. In conseguenza
ci sono zone e paesi che hanno registrato un’elevata “crescita”. Normalmente ottenuta,
data la posizione di intermediazione, a spese della trasmissione di surplus e
quindi spingendo ancora più in basso i ceti produttivi subalterni.
Questo
genere di “imperialismo”, la cui funzione è proteggere l’accumulazione di
capitale tramite la salvaguardia del “valore del denaro”[22] e quindi la deflazione
del reddito nelle periferie è diventato ancora più pressante, pur essendosi in
qualche modo nascosto, nell’epoca della finanziarizzazione e globalizzazione. Inoltre,
esso si manifesta non solo sotto forma di scontro tra capitali nazionali (come
era focalizzato nella nota polemica Kautsky vs Lenin[23]), ma anche come capitale
finanziario direttamente internazionale. Mentre il vecchio imperialismo colonialista,
con controllo diretto o indiretto[24], estraeva surplus e
imponeva deflazione del reddito alla periferia con le tassazioni coloniali
dirette e la deindustrializzazione, il nuovo, a guida Usa, pur godendo dell’estrazione
di surplus tramite il monopolio tecnologico (e i brevetti e diritti d’autore) ha
essenzialmente bisogno delle politiche neoliberali. Sono queste il
principale mezzo per imporre una deflazione del reddito ai lavoratori della
periferia. E ciò attraverso cinque strade:
-
la prima è
un massiccio aumento delle ineguaglianze di reddito, sfruttando le enormi masse
di forza-lavoro disponibile in India, Cina, Indonesia, Bangladesh che mantengono
anche bassi i salari degli operai nella metropoli (perché devono competere). Ma
questo semplice effetto, centrale, determina una tendenza del vettore dei
salari reali mondiali a calare. Quindi la produttività aumentata (in senso
relativo, ovvero rispetto al salario pagato) determina una tendenza globale al “sotto-consumo”.
-
la seconda
è l’estrazione fiscale dissimmetrica, la libertà di movimento dei capitali che rende
i sistemi di regolazione in competizione reciproca, e la regola di equilibrio
di bilancio fa il resto. Alla riduzione dell’estrazione fiscale ai profitti
delle aziende internazionali (che possono delocalizzare) fa da contrappunto la
riduzione necessaria dei trasferimenti e degli investimenti. Anche questa via
riduce il potere di acquisto nelle mani dei lavoratori della periferia (e, per
via di accresciuta concorrenza, al centro) e aumenta la loro esposizione e
debolezza[25].
-
La terza strada
è la crescita dell’incidenza delle grandi aziende multinazionali monopolistiche,
con un accesso privilegiato al credito e vantaggi fiscali derivanti dalla loro
mobilità potenziale.
-
Quarta strada
è l’allargamento della deindustrializzazione, causata da competizione ineguale,
a sempre più settori, a causa dell’estensione del modello Walmart e Amazon[26].
-
Quinta strada,
ed in particolare in India (e Africa) è la semplice espropriazione massiva dei
mezzi di produzione dei contadini.
In
sintesi, “la globalizzazione accelera quindi notevolmente il processo di
separazione dei piccoli produttori dai loro mezzi di produzione. Allo
stesso tempo, aumenta anche le dimensioni dell'esercito di riserva globale del
lavoro e aiuta a garantire che non si esaurisca”.
La
differenza tra la trattazione tradizionale della dinamica retributiva e
riproduttiva nel capitalismo dominato dalla merce e dalla produzione del tempo
di Marx, e quindi per essa la dinamica dell’esercito di riserva descritta da
lui e da Engels, e quella necessaria al tempo del denaro creditizio è per i
Patnaki che occorre ora garantire la deflazione non solo in termini delle merci
e servizi che si possono comprare (salari reali), ma anche in termini
puramente monetari. La funzione della deflazione salariale, e per essa dell’esercito
di riserva, ha alla fine due lati: preserva il processo di appropriazione del
plusvalore, garantendo che ci sia adeguato surplus (funzione tradizionale), e “mantiene
in funzione il sistema monetario”. Inoltre, a causa della messa in contatto dei
salari dei lavoratori metropolitani e di quelli periferici, lo stesso “esercito
di riserva” svolge una funzione globale. In altre parole:
“Anche se non si
trova nella stessa metropoli, svolge un ruolo globale mantenendo il vettore dei
salari monetari in tutti i paesi, compresa la metropoli, e impartendo stabilità
al sistema monetario metropolitano. Il mantenimento di un esercito di
riserva globale completa così il processo di deflazione del reddito ed è parte
integrante dell'operazione dell'imperialismo”.
Il
punto è che la globalizzazione, e la crescita dell’ineguaglianza mondiale, spostando
il mix di produzione verso i consumi delle fasce più abbienti, produce
spontaneamente, per moto proprio, l’esercito di riserva globale. Il motivo
è che i ricchi richiedono prodotti con meno intensità di occupazione e più
moderni (che, in genere sono prodotti con processi moderni che richiedono meno
lavoro). Quindi al salire del tasso di produzione scende il tasso di
occupazione nelle condizioni della globalizzazione. Ciò è stato in parte, ma non
sufficientemente, controbilanciato dalla crescita della produzione in alcune
economie ex-periferiche, le due principali essendo India e Cina. Inoltre la
funzione della sovrappopolazione relativa, ovvero dell’esercito di riserva, per
le borghesie dei paesi periferici come per il capitale metropolitano (i cui
interessi di classe coincidono) rende “ingenua” la speranza che prima o poi
tale esercito mondiale sia riassorbito e l’effetto disciplinante sui salari si
inverta: “qualsiasi simile riassorbimento sarà associato a un
collasso del sistema monetario nella metropoli, a cui quest'ultima resisterà
ferocemente, insieme alla grande borghesia locale che è ora integrata con essa”.
Tutti
questi processi in definitiva intrappolano le periferie nella loro rete e sono
elementi chiave dell’imperialismo contemporaneo. Sono complessivamente delle
strutture di nesso e di imposizione dai quali i lavoratori delle periferie non
possono sfuggire, a meno che non disconnettano le loro economie dal regime dei
capitali e dei flussi commerciali liberalizzati.
Questa
tesi contesta l’opinione diffusa secondo la quale la dinamica imperialista mentre
era attiva ancora negli anni cinquanta e sessanta (quando furono rovesciati con
la forza i governi Mossadegh, Arbenz e Allende, che stavano cercando di
aumentare la propria indipendenza economica) oggi non lo è più. È qualcosa
di peggio: allora le politiche di tassazione delle multinazionali, di
potenziamento del settore pubblico nell’industria, di potenziamento dei servizi
pubblici e di investimenti tecnici, resero visibili le reazioni imperiali, ma nella
fase neoliberale tutte queste politiche sono inibite in radice, l’imperialismo
si è reso invisibile, ma solo perché è molto più potente.
“Ma questo significa
solo che le forme tradizionali di resistenza di classe diventano
più difficili da replicare e che devono essere sviluppate nuove forme di
resistenza.
Per distrarre dalle
difficoltà economiche che sotto la globalizzazione sono portate alla gente, i
regimi neoliberisti cercano di trovare ‘oggetti di scena’ politici per la loro
sopravvivenza promuovendo la lotta etnica, religiosa e altre forme di conflitto
settario nella società. In tal modo contribuiscono alla disintegrazione
della vita sociale.
Tale tendenza,
tuttavia, crea anche le condizioni per un rovesciamento del neoliberismo e un
movimento in più fasi verso la trascendenza del capitalismo, in quanto sempre più
chiaro alle persone che la scelta - come afferma Rosa Luxemburg - è tra
socialismo e barbarie”.
Socialismo
o barbarie.
[1] - Questo post, “Prabhat
Patnaik, ‘Capitale monopolistico, allora ed ora”.
[2] - Ovvero l’eliminazione della
circolazione dei capitali, delle merci e attraverso limiti alla circolazione
dei lavoratori.
[3] - Si veda Hyman Minsky, “Keynes
e l’instabilità del capitalismo”, 1975.
[4] - Utsa Patnaik, Prabhat Patnaik, “L’imperialismo
nell’era della globalizzazione”, Monthly Review, vol. 67, n. 3 luglio 2015.
[5] - Utsa Patnaik, Prabhat Patnaik, “Una
teoria dell’imperialismo”, Columbia University Press, 2017
[6] - Johann Karl Rodbertus, “Zur
erklarung und abbulfe der beutingen creditnoth des grundbesitzes, Berlin, 1868.
[7] - Nel manoscritti del 1861-69 una
volta e nella prima stesura del Capitale come “spinta del capitalismo”, dove
afferma che questa si “sviluppa completamente solo sulla base di questo modo di
produzione”. Nel 1875 in “Estratti e commenti critici a ‘Stato e anarchia’ di
Bakunin” Marx usa il termine come abbreviazione di “modo di produzione
capitalistico”. Inoltre il termine è usato nelle bozze e nella lettera a Vera
Zasulic, quando adopera la formula “schizzo della genesi del capitalismo nell’Europa
occidentale”.
[8] - Karl Marx, Friedrich Engels, “L’ideologia
tedesca”,
[9] - Si veda, Michael Kratke, “Capitalismo”,
in AAVV, “Marx revival”, a cura di Marcello Musto, Donzelli, 2019.
[10] - Werner Sombart, “Il
capitalismo moderno”, 1902
[11] - Max Weber, “L’etica
protestante e lo spirito del capitalismo”, 1904.
[12] - Karl Marx, “Il capitale”,
vol III, p.828
[13] - Samir Amin, “Reading
Capital, reading historical capitalism”, Monthly Review, vol. 68,
luglio 2016
[14] - Ad esempio Norbert Trenkle in un
saggio del 1998 individuale nel “lavoro” marxiano un’attività strettamente
connessa con la nozione di “merce” e con quella di “valore”. Un’attività che è
molto lontana dall’essere naturale e spontanea, e che implica l’esercizio di
razionalità astratta, finalità allo scopo, tempo misurabile e lineare,
concorrenza. In questa accezione si tratta di un principio strutturale di base
dell’organizzazione sociale, ma di questa organizzazione
sociale, ovviamente. Nel “Saggio su Friedrich List”, del 1845, un giovane Marx scriverà: “il ‘lavoro’ è, per
sua essenza, l’attività non-libera, inumana, asociale; esso è condizionato
dalla proprietà privata e la crea a sua volta”. Tuttavia numerosi
passaggi de “Il capitale”, invece, rileggono
il lavoro come una sorta di “caratteristica antropologica eterna”, dunque
valevole per ogni società possibile. La frattura è gestita in qualche modo
distinguendo tra “lavoro concreto” (che è il cucire, il macellare e via
dicendo) e “lavoro astratto”, in cui i suoi risultati sono ricondotti e ridotti
alla metrica del tempo e del denaro.
[15] - Il lavoro dentro le macchine del
capitalismo è un tempo specializzato, che espelle strutturalmente le altre
dimensioni della vita, interessi, sentimenti, svago, cura. La
separazione del lavoro crea le sfere separate che sono una delle
caratteristiche dell’organizzazione sociale della modernità. Dunque il
‘lavoro’, per come lo concepiamo quando pensiamo ad esso (un’attività limitata,
utile, produttiva di valore, razionale), è una forma specifica della società
mercantile ed è in sé “astratto”, separato dal resto dei rapporti sociali. E
richiede che il soggetto che lo eroga sia inserito in una macchina produttiva a
sé esterna, che lo obbliga, con la sua assenza da sé, a cedere in vendita una
parte del suo tempo. O meglio, a specializzare e cedere in un solo gesto, un
tempo. Questo processo di astrazione è strettamente connesso con la costruzione
di un’altra infrastruttura concettuale essenziale della modernità: il
tempo astratto, lineare ed omogeneo. Quella infrastruttura concettuale che
è stata messa a punto nella lunga evoluzione della rivoluzione scientifica, tra
il 1500 ed il 1700. Il tempo che conta è quello misurabile, la misura è in
esatto rapporto con la produzione di merci e con la possibilità del salario e
del profitto. Dunque ogni lavoro, sempre, è la riduzione del tempo ad una
quantità puramente astratta e reificata di tempo speso, che rende scambiabili
tra di loro i relativi prodotti. Cioè il ‘lavoro’ in quanto astrazione forma la
sostanza del valore, nella misura i cui esso incorpora nel suo stesso concetto
la misura nel tempo astratto.
[16] - Occorre notare che nel gergo
marxista “merce”, quando si tratta di guardare alla complessiva circolazione
del capitale è anche la “forza-lavoro”, e quindi qui si tratta anche di
scarsità di competenze. Ovvero si tratta anche dei “lavoratori della conoscenza”.
[17] - Un esempio di spiegazione
alternativa è la scuola neo-istituzionalista.
[18] - Henry Lefebvre, “Il
diritto alla città”, 1972, e Henry Lefebvre, “Spazio
e politica”, 1974
[19] - David Harvey, “Geografia
del dominio”, 2001
[20] - Christophe Guilluy, “La
società non esiste”, 2018
[21] - Idem
[22] - “Valore del denaro” non è
meramente, o solo, protezione dall’inflazione, anche se in questa si manifesta
con particolare chiarezza la minaccia, ma protezione del ruolo e della capacità
disciplinante del capitale. Cioè dell’accumulo di potenza che questo
rappresenta.
[23] - Vladimir Ilic Lenin, “L’imperialismo
fase suprema del capitalismo”, 1916.
[24] - Si tratta dei due modelli
ottocenteschi, il controllo diretto di stampo francese o quello indiretto
(tramite le élite locali) inglese.
[25] - Viene fatto un impressionante
esempio sulla produzione pro-capite di cereali. Tra il triennio 1979-81 e
quello 1999-2001 la produzione pro-capite di cereali è scesa da 355 a 344 kg, ma
contemporaneamente il reddito pro capite è cresciuto. Con una elasticità del
reddito della domanda di cereali positiva e senza variazioni significative
delle scorte ci si aspetterebbe per normali leggi di mercato non manipolate che
le ragion di scambio si sarebbero spostate a favore dei cereali, i cui prezzi
relativi sarebbero aumentati. Invece sono diminuite del 46%. La cosa si spiega
con la deflazione del reddito dei lavoratori.
[26] - Si veda, “Amazon
e il suo monopolio”.
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