Pagine

domenica 23 febbraio 2020

Utsa Patnaik, Prabhat Patnaik, “L’imperialismo nell’era della globalizzazione”





Scrivendo[1] della recensione a “Il capitale monopolista” di Paul Baran e Paul Sweezy che Prabhat Patnaik ha pubblicato sui Monthly Review del luglio 2016, in occasione del cinquantenario della pubblicazione, avevamo concluso che, data la condizione attuale, a tenere in equilibrio il capitalismo e controbilanciare le sue contraddizioni restano solo le “bolle”, che, però, durano solo fino a che inevitabilmente non collassano. Tutte le tecniche alternative, se si esclude un impossibile governo mondiale, sono state disattivate rendendo impossibile riattivare le controtendenze politiche “esogene” (rispetto al corso naturale del capitalismo) dei diversi stati descritte degli autori negli anni sessanta[2].
L’analisi di Baran e Sweezy descriveva infatti le ragioni per le quali, nelle condizioni dell’epoca ante “finanziarizzazione” e “globalizzazione”, il capitalismo ormai compiutamente nella fase monopolista tendeva alla stagnazione se non venivano costantemente messe in campo, come lo erano, controtendenze esogene. Alcune di queste controtendenze, quelle di matrice politica e rivolte a contenere la produzione di “surplus” (e quindi l’appropriazione di profitti), sono state appunto disattivate in quanto ostacolavano i profitti a breve termine (ma li assicuravano a medio e lungo termine). Sono state dunque sostituite, sia pure meno efficacemente, dai sottoprodotti della fase finanziaria. È stata, cioè, trovata ‘per strada’ una soluzione, attraverso la crisi aperta negli anni settanta e richiusa negli ottanta: il “suplus produttivo” che si continuava ad espandere a causa dell’assetto monopolista del capitalismo mondiale è stato riciclato nel crescente settore finanziario ed in parte in un nuovo ceti di intermediari di vario genere (professional, manager, manipolatori di simboli e di spettacoli, …). La necessaria ‘accumulazione originaria finanziaria’ (ovvero il passaggio della massa di capitale dagli investimenti in fattori produttivi a investimenti meramente finanziari) è stata alimentata in quel passaggio dalla rottura della parità, dai petrodollari ed eurodollari, nel contesto della deregolazione. Così facendo ha progressivamente creato una forma di capitalismo interamente concentrato sulla generazione parossistica di surplus e sulla sua intermediazione con appropriazione.
La divisione del lavoro a scala mondiale vede ora la base produttiva sparpagliata in tutte le aree di minore resistenza, nelle quali può essere estratto il surplus con il minimo di attrito fidando su un “esercito di riserva mondiale” che è costantemente accresciuto, con relativo disinteresse al problema del realizzo, in quanto la domanda è fluida e mondiale (ma tende comunque ad essere scarsa) e in quanto il meccanismo di creazione delle bolle e gli “schemi ponzi” possono appianare le asperità, almeno temporaneamente, e creare domanda senza base produttiva. L’espansione del debito surroga la chiusura stabile del ciclo keynesiano appoggiandosi su “cicli Minsky” sempre più ampi e quindi sempre più veloci ed instabili[3]. La circolazione del valore muove dalla produzione, decentrata, divisa in catene di approvvigionamento e montaggio sempre più lunghe ed intrecciate, quindi sempre più fragili e costose da proteggere, e dal suo rimontaggio, amplificazione e ricircolo nel sistema mondiale ed interconnesso di intermediazione finanziaria. Un sistema interamente fondato sulla liquidità apparente. Un sistema, è il punto dei Patnaki, che è altamente vulnerabile alla potenziale perdita di valore del denaro che potrebbe essere trasmessa da un’inflazione dei valori ‘reali’. Si tratta quindi di garantire che non accadrà.

A questo servono le politiche neoliberali.



Sempre sui Monthly Review in un altro numero[4], dell’anno prima, i due coniugi Patnaik hanno scritto un articolo dal titolo “L’imperialismo nell’epoca della globalizzazione” che, due anni dopo, sarà accompagnato da un libro sullo stesso tema[5]. Utsa e Prabhat Patnaik sono professori emeriti presso il Center for Economic Studies and Planning alla Jawaharlal Nehru University di Nuova Delhi e seguono un’impostazione marxista con particolare riferimento alla scuola della “dipendenza” che fa riferimento alla lezione di Paul Baran, Paul Sweezy ed altri.

Il punto da cui partono gli autori è una definizione di “capitalismo” sensibilmente diversa dalla tradizione centrale del marxismo:

Il capitalismo è principalmente un sistema che utilizza denaro in cui gran parte della ricchezza è detenuta sotto forma di denaro o come attività denominate in denaro, vale a dire attività finanziarie. Perché il sistema funzioni, è essenziale che il valore del denaro non continui a diminuire rispetto alle materie prime; altrimenti le persone si allontanerebbero dal possesso di denaro, e cesserebbe di essere non solo una forma di ricchezza, ma anche un mezzo di circolazione”.

Vediamo prima di contestualizzare il termine.
Come noto Marx usa raramente il termine “capitalismo”, introdotto da Johann Karl Rodbertus[6] come “sistema sociale”, seguito da Albert Schaffle, e da Werner Sombart. La tradizione classica, da Adam Smith a Ricardo usavano invece “capitale” e “capitalista”, ma non “capitalismo”. L’autore del “Il Capitale” lo usa solo cinque volte di sfuggita e solo in manoscritti inediti[7], probabilmente perché lo trova troppo poco specifico e quindi passibile di un uso moralistico, mentre il suo sforzo è costantemente di porsi sulla strada di Newton e identificare i fondamenti, le “leggi di movimento” e gli elementi di base, anatomici, ed i processi fisiologici del modo di produzione capitalistico. Nel fare questa azione sviluppa una teoria critica nella linea della ‘concezione materialistica della storia’ inquadrata insieme ad Engels negli anni quaranta[8], allargando per questa ragione l’analisi dall’economia all’insieme, storicamente fondato, di una società specifica, quella capitalista, che aveva avuto un inizio e avrebbe avuto una fine.
Nei dizionari francesi e tedeschi, invece, la parola entra negli anni sessanta e poi settanta del ottocento e in quelli inglesi nei successivi anni ottanta[9], quindi viene sdoganata accademicamente da Sombart nel 1902 in “Il capitalismo moderno[10] e, di seguito, da Max Weber nel suo “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo[11].

L’idea di Marx è, più o meno, che la spinta del capitalismo è la propensione ad accumulare capitale in modo illimitato invece di consumare, cosa che porta ad espandere la scala della produzione ed aumentare la produttività del lavoro, rischiando però una sempre maggiore sovrapproduzione di merci. La delimitazione del capitalismo dalle forme sociali e modi di produzione antecedenti è che tutta la produzione è produzione di merci, e assume quindi centralità la forza-lavoro umana. Ma, a leggere la prima versione del primo libro de “Il capitale”, una “merce” nel capitalismo (anziché nelle società precedenti, nelle quali occasionalmente o parzialmente poteva diventarlo), in quanto “prodotto del capitale” è: un prodotto di massa, da un lavoro sociale organizzato su larga scala; per un mercato di massa; e incorpora il valore del capitale utilizzato più il plusvalore creato nel processo di produzione. La merce quindi ‘si realizza’ attraverso il processo di circolazione ed è in definitiva soggetta per l’intero ciclo di vita, dal concepimento al consumo, al dominio del “capitale” (e non dei “capitalisti”). In altre parole, e come scrive Kratke, “nel capitalismo e solo nel capitalismo tutta la produzione di merci è solo un mezzo per un fine dominante generale, la produzione di plusvalore”. Se prodotto e se realizzato il plusvalore va infine a formare nuovo capitale; in modo che, in sostanza, nel modo di produzione capitalistico, ed è una sua caratteristica specifica (oltre che contraddizione rispetto alla più ampia natura), il capitale produce capitale. Capitale che, naturalmente, “non è una cosa, ma un rapporto sociale fra persone mediato da cose”[12]. Ne deriva che il “capitale”, per restare tale, deve essere sempre in crescita, è un processo che si estende nel tempo e nello spazio. Produzione per appropriazione di plusvalore, via circolazione, accumulazione e produzione, …
Qui gioca il suo ruolo il denaro, che prevale su tutto come ed in quanto relazione sociale e diventa mezzo e motivo dell’azione economica che ne è interamente dominata. Anche se qualcuno può andare in bancarotta, il capitale in generale, come relazione sociale intrinsecamente gerarchizzante (ovvero come ordine del mondo) sopravviverà sempre, fino a che continua il processo di aumento del valore. Ovvero, in altri termini, il “denaro in quanto denaro” non ha limiti, non ha misura e non ha obiettivo.

Spesso si obietta a questa posizione marxiana il suo essere disegnata per la fase competitiva, per la centralità della produzione industriale, e per una concezione del denaro come equivalente generale fondato in ultima istanza sull’oro.
La prima e seconda obiezione è fatta propria anche da alcuni autori della tradizione di studi marxisti ai quali i Patnaik si richiamano, in particolare si può leggere su questo un intervento di Samir Amin del 2016, “Reading Capital, reading historical capitalism[13]. Ma la terza, quella che denuncia la radicale discontinuità tra la moneta nel capitalismo del golden standard (peraltro solo in parte coincidente con il percorso di vita di Marx) e quella della moneta “fiat” post Bretton Woods, è meno fondata. La concettualizzazione del denaro del marxismo, dato l’elevato livello di astrazione alla quale è tenuta, è rileggibile anche nelle mutate condizioni attuali. In altre parole, l'oro non ha molto a che fare con la concezione del denaro (non della moneta) di Marx, in quanto per lui il denaro è un’astrazione e, come dice, “un rapporto sociale”. Per meglio dire la concretizzazione di una relazione di potere. Se è pure vero che l’attenzione di Marx è molto focalizzata su produzione e merce, tuttavia è “il valore” che è espresso nella forma (del denaro). Ma “il valore” per il marxismo non ha direttamente a che fare con il lavoro[14] (e questo non è solo o direttamente lavoro cronometrato nella fabbrica, questo ne è solo una espressione tra tante, mentre la misura ne è l'essenziale), bensì con la “forza-lavoro” che viene valorizzata[15]. “Valorizzata” significa trasformata in qualcosa di quantificabile e scambiabile, di cui si può far somma e magazzino (in un certo senso). “Forza-lavoro” significa quindi esattamente quella potenzialità che è valorizzabile in quanto compare nella tecnica. Tutto questo non si limita al rapporto di fabbrica, ma può essere identicamente tradotto nel lavoro del banchiere. Il denaro creato ex-nihilo ne è solo una forma estrema; quel che determina la specifica “forza-lavoro” degli operatori di finanza è un intero sistema sociale ed una tecnica che li autorizza, per così dire, a determinare le precondizioni di liquidità di sistema. Ovvero le condizioni di esistenza dell'intera “forza-lavoro” incorporata nel capitalismo (mondiale). Dunque in un certo senso oggi è più importante il modo di produzione del denaro finanziario, ma in un altro non lo è. Ci vogliono certamente le condizioni di esistenza, ma poi ci vuole anche ciò che in esse esiste.
Se il capitalismo monetario, per Braudel il capitalismo in senso proprio, fonda la propria esistenza e stabilità sulla capacità, socialmente e giuridicamente autorizzata, di anticipazione e quindi di attivazione di un ciclo di investimento e realizzo, ciò si deve tradurre nel fatto che il capitalismo come sistema d’ordine è fondato sulla relazione sociale di debito. La novità è che questa, con la sua astrazione concreta, sostituisce storicamente, nel corso dei cinque secoli del suo sviluppo, via via le vecchie “lealtà e obbligazioni”. Si tratta, cioè, di un’istituzione strettamente connessa con il vasto processo di secolarizzazione. “Prestare denaro che non si ha”, come fanno i banchieri commerciali e centrali, significa in sostanza istituire una relazione, e consentire a questa di estendersi collegando funzionalmente i soggetti generando una forma di coordinamento interamente “razionale” (in senso weberiano).
Se si sposta la concettualizzazione concreto-materiale del “lavoro” dal modello della manifattura e si pensa la “forza-lavoro” si comprende come il “capitale”, in tutte le sue forme, comanda tutte quelle dimensioni della vita che esso crea (la “forza-lavoro” è una creazione del capitale).

Torniamo ora alla definizione dalla quale eravamo partiti:

Il capitalismo è principalmente un sistema che utilizza denaro in cui gran parte della ricchezza è detenuta sotto forma di denaro o come attività denominate in denaro, vale a dire attività finanziarie. Perché il sistema funzioni, è essenziale che il valore del denaro non continui a diminuire rispetto alle materie prime; altrimenti le persone si allontanerebbero dal possesso di denaro, e cesserebbe di essere non solo una forma di ricchezza, ma anche un mezzo di circolazione”.

È da qui che partono i Patnaik. È essenziale per la sopravvivenza del capitalismo, ovvero del sistema sociale che questo rende in essere, che il “valore” espresso in “denaro” sia conservato. Conservato in modo che possa moltiplicarsi il capitale stesso nelle forme liquide ed indefinitamente accumulabili, astratte, che oggi ha.
Nel passaggio dalla forma storica del modo di produzione capitalista concorrenziale coevo a Marx, alla forma monopolista che si rende visibile nel novecento, fino alla forma storica del modo di produzione capitalista finanziarizzato che si afferma (una seconda volta) sul finire del secolo, diventa particolarmente centrale questa stabilità. Ovvero diventa particolarmente cruciale la minaccia essenziale rappresentata dalla tendenza all’inflazione del valore monetario.

Ci sono molti modi attraverso i quali l’assetto del capitalismo nella forma finanziaria si impegna a garantire la stabilità del valore del denaro, e quindi di se stesso: uno è il mantenimento, a portata di mano, di un vasto e stabile esercito di manodopera di riserva in tutte le periferie del mondo. Ovvero sia nelle cosiddette “metropoli” (ma nelle cinture) sia nel cosiddetto “terzo mondo”. La trasmissione degli input deflazionari che la presenza di questa manodopera potenziale, ma non attiva, producono esplica i suoi effetti attraverso il contenimento del costo delle materie prime, dei semilavorati e delle componenti che circolano nelle supply chain mondiali, e produce il contenimento del costo dei salari monetari dei lavoratori delle “metropoli”, che subiscono gli effetti della concorrenza e quelli del deflusso dei capitali verso le “periferie”.

Si tratta di un circuito di produzione e circolazione intrecciato esattamente a questo fine.

Tenendo al centro dell’attenzione che qui si tratta sempre di abbondanza e contenimento dei costi relativi (ovvero relativi alla produttività), la deflazione dei redditi svolge allora, in particolare nelle “metropoli”, l’essenziale funzione di impedire che al di là del costo di produzione l’accumulazione di capitale disponibile produca un incremento dei prezzi insostenibile almeno di alcune merci “scarse”[16]. L’indispensabile deflazione del reddito (anche qui in senso relativo, rispetto alla posizione nel processo di produzione del valore) viene ottenuta durante la lunga ascesa del capitalismo in occidente attraverso vari espedienti (e semplice rapina) volti a canalizzare surplus prodotto nella periferia verso il centro e, al contempo, o è condotta distruggendo, anche qui con vari espedienti, la produzione locale soprattutto esponendola alla competizione ineguale della metropoli. Questo processo di deindustrializzazione ed impoverimento ha prodotto storicamente il necessario “esercito di riserva distante”. Tutto questo viene definito “imperialismo” dai Patnaik.
Ma tutto ciò non si limita ad esistere durante i cinque secoli di ascesa del capitalismo (via mercantilismo) occidentale, né solo nella fase propriamente imperialista delle grandi potenze europee tra la fine dell’ottocento e le grandi guerre, oppure non è presente solo nella fase del neocolonialismo post-indipendenza tra gli anni cinquanta e settanta. In realtà, sostengono gli autori, “al contrario, la sua importanza aumenta con la finanziarizzazione quando la stabilità del valore del denaro diventa una questione di preoccupazione ancora maggiore (da cui l'attuale ossessione per l'inflazione)”.
Abbastanza comprensibilmente questo “sifonamento” di ricchezza, creato e tenuto in essere costantemente da rapporti sociali e politici ineguali e rapporti di effettiva dominazione, è stato sistematicamente negato e occultato (dietro svariate spiegazioni alternative[17]) da tutti gli economisti e storici liberali, incluso i migliori. Si tratta infatti di una idea profondamente urticante.
Dunque questo “imperialismo”, pur essendo un fenomeno storico, non è limitato a una qualche “fase” del capitalismo ma ne è una caratteristica specifica e necessaria. E in quanto tale si manifesta ed esplica anche in questa fase di “globalizzazione”.

La dimostrazione che ha una dimensione storica ed una concettuale che gli economisti indiani producono a tal fine è abbastanza compatta:

-          l’economia monetaria, essenziale per l’esistenza stessa del capitalismo come forma sociale, esiste solo se le tendenze alla tesaurizzazione sotto forma di “merce” sono neutralizzate. Infatti il capitalismo non esisteva nel mondo antico perché l’essenziale ricchezza era trattenuta dalla terra, le altre forme economiche ne erano complementari.
-          Nei termini degli autori occorre neutralizzare i “rendimenti decrescenti” che sono sempre stati, da Ricardo a Keynes, l’incubo della scienza economica.

Apparentemente l’argomento è imperniato sul caso storico della produzione agricola, ed in particolare della produzione agricola tropicale, ma ha valenza più generale. La questione non è neppure solo relativa al tasso di profitto decrescente ricardiano (e marxiano), ma è che al crescere dell’accumulazione le risorse scarse, o comunque non altrettanto velocemente espandibili per effetto di un innesco di “rendimenti decrescenti”, tenderebbero a veder crescere il loro prezzo in termini “reali”. Ma se l’espansione del valore del denaro nella forma liquida fosse sopravanzato dall’espansione del valore di alcune merci cruciali (l’esempio è, appunto, il cibo e quindi la terra che lo produce con l’insieme dei potenziamenti e delle strutture che lo facilitano), allora, dicono gli autori, “nessuno deterrà la ricchezza nella sua forma monetaria”.

Tuttavia fino ad ora tutto ciò non è avvenuto, i rendimenti decrescenti della forma di denaro detenuto liquido nel sistema finanziario non si sono attivati, o sono stati costantemente sopravanzati. L’esempio della produzione alimentare è richiamato dagli autori (ma, attenzione, come mostra la risposta ad Harvey in “A theory of imperialism”, è un esempio):

“Non possiamo semplicemente affermare che i ‘rendimenti decrescenti’ siano un mito. La limitazione della dimensione della terra è senza dubbio una realtà materiale da non sottovalutare. La dimensione del terreno ovviamente può essere aumentata, non in unità naturali ma in unità efficaci, attraverso progressi tecnologici di aumento del rendimento, o attraverso determinati tipi di investimenti, come l'irrigazione, che rendono possibile il taglio multiplo. In altre parole, sono certamente possibili misure di ‘potenziamento del territorio’. Ma in loro assenza, i limiti delle dimensioni della terra aumenterebbero nel tempo, con l'aumentare della domanda, il ‘costo reale’ della produzione agricola, per usare il termine di Keynes. Ciò significa che, per un dato salario monetario e prezzi monetari di altri input, il prezzo di fornitura di questo output aumenterà nel tempo man mano che ne viene prodotta una quantità maggiore.
Un tale aumento del prezzo dell'offerta crea seri problemi al capitalismo”. 

Una controforza che ha operato è il vantaggio strutturale che la moneta, in forma elettronica, detiene su tutte le altre forme di investimento e merce, in quanto priva di attrito, mentre queste hanno costi di trasporto (e costi di mantenimento). Questa è naturalmente forte, ma può essere sopravanzata dal rischio che è connaturato al denaro in forma liquida di deprezzamento (per inflazione o illiquidità quando detenuto, come nella grandissima parte dei casi sotto forma di “titoli”).
Pressione che è particolarmente attiva nei beni posizionali rari (tra questi gli autori, dal loro punto di vista, pongono le produzioni agricole tropicali, alcune delle quali non replicabili in altre latitudini). Ciò che va tenuto costantemente in equilibrio compatibile con la conservazione della ricchezza in forma monetaria (e quindi accumulabile senza costosissime infrastrutture e quindi senza redistribuzione) è questa dinamica del prezzo relativo e quindi della tendenza del denaro non impiegato a dissolversi via inflazione.

“È essenziale per la fattibilità del sistema capitalista che questo fenomeno di aumento del prezzo dell'offerta non debba manifestarsi. E questo è esattamente ciò che è accaduto nella storia del capitalismo, motivo per cui né i pronostici ricardiani né le anticipazioni keynesiane si sono mai materializzate. Questo non perché i rendimenti decrescenti siano un mito, ma perché il capitalismo ha fatto ricorso ad altri modi per assicurarsi che non si materializzassero.
L'imperialismo è uno di questi dispositivi, il che garantisce che il fenomeno dell'aumento del prezzo dell'offerta non si manifesti realmente. In effetti, come vedremo, non è solo un possibile dispositivo, ma il dispositivo tipicamente utilizzato dal capitalismo per questo scopo, da cui ne consegue che l'imperialismo è immanente nella stessa forma monetaria”.

Certo questa tendenza può essere controbilanciata anche, riducendo la soluzione “imperialista”, impegnando il capitale nel potenziamento territoriale, ovvero in tutte quelle forme di investimento infrastrutturali, tecnologici, in generale abilitanti maggiore produzione a parità di input naturale. Azioni di ribilanciamento che andrebbero condotte dallo Stato con risorse pubbliche. In questo modo il capitale contrasterebbe per due vie la tendenza inflattiva: impegnandosi, riducendo la sovraccumulazione e competizione, ed espandendo l’offerta di beni. La linea di ricerca da Lefebvre[18] ad Harvey[19] ha sottolineato questa dimensione, o meglio l’importanza della costruzione di spazio nella stabilizzazione dell’accumulazione.
Ma l’attuale propensione, connaturata allo spirito animale del capitalismo, alla “sana finanza” e alla “responsabilità fiscale”, depotenzia sistematicamente questa possibilità. Lo dimostrano anche lo stato delle nostre infrastrutture territoriali e l’abbondanza, al converso, di usi speculativi del suolo.

Ma la depotenzia sia direttamente, ostacolando per via normativa la spesa pubblica, sia indirettamente, sottraendo risorse fiscali e garantendosi che i redditi dei lavoratori e della generale base fiscale dello Stato sia calante. La “deflazione salariale” coglie due piccioni con una fava, anzi tre: impedisce l’inflazione dei prezzi e quindi il possibile uso come riserva di valore di “merci”; aumenta il surplus trattenuto come profitto; inibisce l’azione dello Stato.
Seguendo un modello centro-periferia (che in prima battuta, ma non esclusiva, indica la dialettica tra occidente ed oriente o sud del mondo) resta da capire se ad essere schiacciati in un assetto deflazionario debbano essere i lavoratori del “centro” o della “periferia”. Naturalmente l’azione si può svolgere su qualsiasi segmento e anche su entrambi. Ma la “stabilità sociale” del capitalismo metropolitano richiederebbe che l’amaro calice sia bevuto soprattutto dalla periferia. Quindi si tratta di “spostare l’onere della deflazione del reddito il più possibile verso la periferia”. Cosa corretta, tanto più se si concepisce la dialettica “centro-periferia” come scalare e diagonale rispetto alle partizioni geografiche statuali e geopolitiche.

Vediamo esattamente come la mettono:

“In un mondo esclusivamente capitalista in cui anche le attività dei ‘rendimenti decrescenti’ sono all'interno del settore capitalista, come la situazione che Ricardo aveva visualizzato, il termine ‘imperialismo’ non avrà alcun significato. La deflazione salariale all'interno del capitalismo sarà quindi l'unica forma di deflazione del reddito. Ma quando ci sono altri modi di produzione e classi che hanno un'esistenza spazialmente distinta (come nella massa terrestre tropicale o nella periferia in generale, distinta dal capitalismo metropolitano che si trova principalmente nelle regioni temperate), allora l'imposizione della deflazione del reddito ha anche una dimensione spaziale; e questa spazialità è stata tradizionalmente definita e catturata dal termine ‘imperialismo’.”

Questa posizione è espressamente pensata dal punto di vista di persone che sono attive in un paese come l’India, acutamente sensibile alla differenza rispetto al capitalismo a guida anglosassone. Lavora con una distinzione tra interno ed esterno (del capitalismo) proposta come distinzione tra un modo di produzione (monetizzato e finanziario) ed “altri modi di produzione”, ed un’altra tra classi le quali hanno “un’esistenza spazialmente distinta”. Questa duplice differenza, tra modi di essere della riproduzione sociale e tra classi spazializzate (un concetto di classe diverso da quello funzionale del marxismo “volgare”) è nella parentesi ricondotta ad un esempio. Infatti scrivono “come nella”.
Si tratta della frattura tra la periferia in generale e il capitalismo metropolitano, gli uni e gli altri geograficamente localizzati (rispettivamente nella fascia tropicale ed in quella temperata).

La cosa si presta, non bisogna farsi attrarre dagli esempi, ad essere applicata anche entro il capitalismo, per usare lo schema dei Patnaik, ma ai suoi margini diradati. Dove stazionano frazioni di classe anche esse spazialmente distinte ma contigue ai centri metropolitani. Non solo nel ‘terzo mondo’ (peraltro l’India non ne fa più parte, almeno nei suoi centri, da tempo apparendo più come un centro “semi-imperiale” per usare una terminologia di Gunder Frank), quindi, ma nel “semi-primo”. Christophe Guilluy, in “La società non esiste[20], ad esempio, identifica e spazializza il fenomeno della crescente deflazione dei ceti intermedi periferici nel centro d’ordine francese. Nessuno può credibilmente dire che la Francia sia periferia vessata e colonizzata, ma tutti possono identificarla senza difficoltà in uno dei centri propulsivi dell’imperialismo occidentale. Eppure una specifica e sempre più riconoscibile geografia, identificata con le periferie urbane e rurali, e sociologia, a sua volta riconducibile a professioni, lavori, stili di vita e condizioni meno dinamici e meno interconnessi, parla di una frattura in allargamento tra una periferia ed un centro. La tenaglia tra i processi urbani e territoriali, e perciò sociali, della gentrificazione e ghettizzazione, con i suoi intermedi, opera incessantemente allargando le classi spazializzate che possono essere ormai identificate come “popolari”. O, in altri termini, allarga gli ambienti vasti nei quali prevalgono condizioni di marginalità e i relativi atteggiamenti esistenziali e politici. Provoca l’ira delle periferie. Il fenomeno descritto dai Patnaik, della deflazione provocata per conservare stabilità all’accumulazione capitalistica e le relative gerarchie sociali, limitando al minimo i terreni nei quali si può tollerare l’inflazione dei prezzi e dei salari, che provocherebbe un assorbimento di ricchezza e riduzione del potere di acquisto del capitale, si manifesta qui pienamente. La “Francia periferica”, ovvero “designa tutti quei territori lontani dalle prime quindici metropoli del paese, in cui vive quali il 60% della popolazione francese. La categoria serve ad analizzare la ricomposizione sociale dei territori e il ruolo delle classi popolari nel modello globalizzato, ma questo non significa assolutamente che il cento per cento dei territori e delle città della Francia periferica siano in declino o siano abitati esclusivamente da classi popolari precarie, né che tutti i territori metropolitani siano gentrificati. Piuttosto la categoria di Francia periferica serve a descrivere dinamiche economiche che si ritrovano in tutti i paesi sviluppati e sono caratterizzate da processi di concentrazione della ricchezza e dell’arroccamento delle classi superiori in territori da cui vengono progressivamente allontanate le classi popolari”[21].

Questi fenomeni accadono perché la dipendenza non è un gioco tra blocchi omogenei, ma è un rapporto dinamico reso dai differenziali di potere (nelle forme in cui questo si manifesta). Questo differenziale, che è necessario per proteggere il surplus e la sua appropriazione, creando centri dominanti nei quali si concentra e periferie dalle quali si estrae, si manifesta nelle grandi città, nelle aree “dell’osso” delle regioni sviluppate, nella divaricazione macroregionale (ad esempio quella italiana), nella tendenziale stagnazione relativa o perdita di spinta dei sistemi-paese spinti ai margini. Queste dinamiche accadono nel nord inglese, nella regione della ruggine americana, nelle periferie urbane praticamente ovunque, nelle regioni appenniniche (o alpine) italiane, nei sud (in termini relativi). Ovvero nelle “cinture” nelle quali peraltro vince, non per caso, il “populismo”.

Tutto questo viene designato come dinamica imperiale dai nostri. Ovviamente in ogni periferia, in ogni ambiente periferico, ovunque esso sia, permane in posizione d’ordine, un segmento di borghesia che si nutre dell’intermediazione e quindi cresce. Un segmento che è a cavallo ed in contatto con il capitale metropolitano e produce alcuni, se pure limitati, ‘effetti alone’. In conseguenza ci sono zone e paesi che hanno registrato un’elevata “crescita”. Normalmente ottenuta, data la posizione di intermediazione, a spese della trasmissione di surplus e quindi spingendo ancora più in basso i ceti produttivi subalterni.
Questo genere di “imperialismo”, la cui funzione è proteggere l’accumulazione di capitale tramite la salvaguardia del “valore del denaro”[22] e quindi la deflazione del reddito nelle periferie è diventato ancora più pressante, pur essendosi in qualche modo nascosto, nell’epoca della finanziarizzazione e globalizzazione. Inoltre, esso si manifesta non solo sotto forma di scontro tra capitali nazionali (come era focalizzato nella nota polemica Kautsky vs Lenin[23]), ma anche come capitale finanziario direttamente internazionale. Mentre il vecchio imperialismo colonialista, con controllo diretto o indiretto[24], estraeva surplus e imponeva deflazione del reddito alla periferia con le tassazioni coloniali dirette e la deindustrializzazione, il nuovo, a guida Usa, pur godendo dell’estrazione di surplus tramite il monopolio tecnologico (e i brevetti e diritti d’autore) ha essenzialmente bisogno delle politiche neoliberali. Sono queste il principale mezzo per imporre una deflazione del reddito ai lavoratori della periferia. E ciò attraverso cinque strade:
-          la prima è un massiccio aumento delle ineguaglianze di reddito, sfruttando le enormi masse di forza-lavoro disponibile in India, Cina, Indonesia, Bangladesh che mantengono anche bassi i salari degli operai nella metropoli (perché devono competere). Ma questo semplice effetto, centrale, determina una tendenza del vettore dei salari reali mondiali a calare. Quindi la produttività aumentata (in senso relativo, ovvero rispetto al salario pagato) determina una tendenza globale al “sotto-consumo”.
-          la seconda è l’estrazione fiscale dissimmetrica, la libertà di movimento dei capitali che rende i sistemi di regolazione in competizione reciproca, e la regola di equilibrio di bilancio fa il resto. Alla riduzione dell’estrazione fiscale ai profitti delle aziende internazionali (che possono delocalizzare) fa da contrappunto la riduzione necessaria dei trasferimenti e degli investimenti. Anche questa via riduce il potere di acquisto nelle mani dei lavoratori della periferia (e, per via di accresciuta concorrenza, al centro) e aumenta la loro esposizione e debolezza[25].
-           La terza strada è la crescita dell’incidenza delle grandi aziende multinazionali monopolistiche, con un accesso privilegiato al credito e vantaggi fiscali derivanti dalla loro mobilità potenziale.
-          Quarta strada è l’allargamento della deindustrializzazione, causata da competizione ineguale, a sempre più settori, a causa dell’estensione del modello Walmart e Amazon[26].
-          Quinta strada, ed in particolare in India (e Africa) è la semplice espropriazione massiva dei mezzi di produzione dei contadini.

In sintesi, “la globalizzazione accelera quindi notevolmente il processo di separazione dei piccoli produttori dai loro mezzi di produzione. Allo stesso tempo, aumenta anche le dimensioni dell'esercito di riserva globale del lavoro e aiuta a garantire che non si esaurisca”.

La differenza tra la trattazione tradizionale della dinamica retributiva e riproduttiva nel capitalismo dominato dalla merce e dalla produzione del tempo di Marx, e quindi per essa la dinamica dell’esercito di riserva descritta da lui e da Engels, e quella necessaria al tempo del denaro creditizio è per i Patnaki che occorre ora garantire la deflazione non solo in termini delle merci e servizi che si possono comprare (salari reali), ma anche in termini puramente monetari. La funzione della deflazione salariale, e per essa dell’esercito di riserva, ha alla fine due lati: preserva il processo di appropriazione del plusvalore, garantendo che ci sia adeguato surplus (funzione tradizionale), e “mantiene in funzione il sistema monetario”. Inoltre, a causa della messa in contatto dei salari dei lavoratori metropolitani e di quelli periferici, lo stesso “esercito di riserva” svolge una funzione globale. In altre parole:

Anche se non si trova nella stessa metropoli, svolge un ruolo globale mantenendo il vettore dei salari monetari in tutti i paesi, compresa la metropoli, e impartendo stabilità al sistema monetario metropolitano. Il mantenimento di un esercito di riserva globale completa così il processo di deflazione del reddito ed è parte integrante dell'operazione dell'imperialismo”.

Il punto è che la globalizzazione, e la crescita dell’ineguaglianza mondiale, spostando il mix di produzione verso i consumi delle fasce più abbienti, produce spontaneamente, per moto proprio, l’esercito di riserva globale. Il motivo è che i ricchi richiedono prodotti con meno intensità di occupazione e più moderni (che, in genere sono prodotti con processi moderni che richiedono meno lavoro). Quindi al salire del tasso di produzione scende il tasso di occupazione nelle condizioni della globalizzazione. Ciò è stato in parte, ma non sufficientemente, controbilanciato dalla crescita della produzione in alcune economie ex-periferiche, le due principali essendo India e Cina. Inoltre la funzione della sovrappopolazione relativa, ovvero dell’esercito di riserva, per le borghesie dei paesi periferici come per il capitale metropolitano (i cui interessi di classe coincidono) rende “ingenua” la speranza che prima o poi tale esercito mondiale sia riassorbito e l’effetto disciplinante sui salari si inverta: “qualsiasi simile riassorbimento sarà associato a un collasso del sistema monetario nella metropoli, a cui quest'ultima resisterà ferocemente, insieme alla grande borghesia locale che è ora integrata con essa”.

Tutti questi processi in definitiva intrappolano le periferie nella loro rete e sono elementi chiave dell’imperialismo contemporaneo. Sono complessivamente delle strutture di nesso e di imposizione dai quali i lavoratori delle periferie non possono sfuggire, a meno che non disconnettano le loro economie dal regime dei capitali e dei flussi commerciali liberalizzati.
Questa tesi contesta l’opinione diffusa secondo la quale la dinamica imperialista mentre era attiva ancora negli anni cinquanta e sessanta (quando furono rovesciati con la forza i governi Mossadegh, Arbenz e Allende, che stavano cercando di aumentare la propria indipendenza economica) oggi non lo è più. È qualcosa di peggio: allora le politiche di tassazione delle multinazionali, di potenziamento del settore pubblico nell’industria, di potenziamento dei servizi pubblici e di investimenti tecnici, resero visibili le reazioni imperiali, ma nella fase neoliberale tutte queste politiche sono inibite in radice, l’imperialismo si è reso invisibile, ma solo perché è molto più potente.

“Ma questo significa solo che le forme tradizionali di resistenza di classe diventano più difficili da replicare e che devono essere sviluppate nuove forme di resistenza. 
Per distrarre dalle difficoltà economiche che sotto la globalizzazione sono portate alla gente, i regimi neoliberisti cercano di trovare ‘oggetti di scena’ politici per la loro sopravvivenza promuovendo la lotta etnica, religiosa e altre forme di conflitto settario nella società. In tal modo contribuiscono alla disintegrazione della vita sociale. 
Tale tendenza, tuttavia, crea anche le condizioni per un rovesciamento del neoliberismo e un movimento in più fasi verso la trascendenza del capitalismo, in quanto sempre più chiaro alle persone che la scelta - come afferma Rosa Luxemburg - è tra socialismo e barbarie”.

Socialismo o barbarie.



[2] - Ovvero l’eliminazione della circolazione dei capitali, delle merci e attraverso limiti alla circolazione dei lavoratori.
[3] - Si veda Hyman Minsky, “Keynes e l’instabilità del capitalismo”, 1975.
[4] - Utsa Patnaik, Prabhat Patnaik, “L’imperialismo nell’era della globalizzazione”, Monthly Review, vol. 67, n. 3 luglio 2015.
[5] - Utsa Patnaik, Prabhat Patnaik, “Una teoria dell’imperialismo”, Columbia University Press, 2017
[6] - Johann Karl Rodbertus, “Zur erklarung und abbulfe der beutingen creditnoth des grundbesitzes, Berlin, 1868.
[7] - Nel manoscritti del 1861-69 una volta e nella prima stesura del Capitale come “spinta del capitalismo”, dove afferma che questa si “sviluppa completamente solo sulla base di questo modo di produzione”. Nel 1875 in “Estratti e commenti critici a ‘Stato e anarchia’ di Bakunin” Marx usa il termine come abbreviazione di “modo di produzione capitalistico”. Inoltre il termine è usato nelle bozze e nella lettera a Vera Zasulic, quando adopera la formula “schizzo della genesi del capitalismo nell’Europa occidentale”.
[8] - Karl Marx, Friedrich Engels, “L’ideologia tedesca”,
[9] - Si veda, Michael Kratke, “Capitalismo”, in AAVV, “Marx revival”, a cura di Marcello Musto, Donzelli, 2019.
[10] - Werner Sombart, “Il capitalismo moderno”, 1902
[12] - Karl Marx, “Il capitale”, vol III, p.828
[13] - Samir Amin, “Reading Capital, reading historical capitalism”, Monthly Review, vol. 68, luglio 2016
[14] - Ad esempio Norbert Trenkle in un saggio del 1998 individuale nel “lavoro” marxiano un’attività strettamente connessa con la nozione di “merce” e con quella di “valore”. Un’attività che è molto lontana dall’essere naturale e spontanea, e che implica l’esercizio di razionalità astratta, finalità allo scopo, tempo misurabile e lineare, concorrenza. In questa accezione si tratta di un principio strutturale di base dell’organizzazione sociale, ma di questa organizzazione sociale, ovviamente. Nel “Saggio su Friedrich List”, del 1845, un giovane Marx scriverà: “il ‘lavoro’ è, per sua essenza, l’attività non-libera, inumana, asociale; esso è condizionato dalla proprietà privata e la crea a sua volta”. Tuttavia numerosi passaggi de “Il capitale”, invece, rileggono il lavoro come una sorta di “caratteristica antropologica eterna”, dunque valevole per ogni società possibile. La frattura è gestita in qualche modo distinguendo tra “lavoro concreto” (che è il cucire, il macellare e via dicendo) e “lavoro astratto”, in cui i suoi risultati sono ricondotti e ridotti alla metrica del tempo e del denaro.
[15] - Il lavoro dentro le macchine del capitalismo è un tempo specializzato, che espelle strutturalmente le altre dimensioni della vita, interessi, sentimenti, svago, cura. La separazione del lavoro crea le sfere separate che sono una delle caratteristiche dell’organizzazione sociale della modernità. Dunque il ‘lavoro’, per come lo concepiamo quando pensiamo ad esso (un’attività limitata, utile, produttiva di valore, razionale), è una forma specifica della società mercantile ed è in sé “astratto”, separato dal resto dei rapporti sociali. E richiede che il soggetto che lo eroga sia inserito in una macchina produttiva a sé esterna, che lo obbliga, con la sua assenza da sé, a cedere in vendita una parte del suo tempo. O meglio, a specializzare e cedere in un solo gesto, un tempo. Questo processo di astrazione è strettamente connesso con la costruzione di un’altra infrastruttura concettuale essenziale della modernità: il tempo astratto, lineare ed omogeneo. Quella infrastruttura concettuale che è stata messa a punto nella lunga evoluzione della rivoluzione scientifica, tra il 1500 ed il 1700. Il tempo che conta è quello misurabile, la misura è in esatto rapporto con la produzione di merci e con la possibilità del salario e del profitto. Dunque ogni lavoro, sempre, è la riduzione del tempo ad una quantità puramente astratta e reificata di tempo speso, che rende scambiabili tra di loro i relativi prodotti. Cioè il ‘lavoro’ in quanto astrazione forma la sostanza del valore, nella misura i cui esso incorpora nel suo stesso concetto la misura nel tempo astratto.
[16] - Occorre notare che nel gergo marxista “merce”, quando si tratta di guardare alla complessiva circolazione del capitale è anche la “forza-lavoro”, e quindi qui si tratta anche di scarsità di competenze. Ovvero si tratta anche dei “lavoratori della conoscenza”.
[17] - Un esempio di spiegazione alternativa è la scuola neo-istituzionalista.
[18] - Henry Lefebvre, “Il diritto alla città”, 1972, e Henry Lefebvre, “Spazio e politica”, 1974
[19] - David Harvey, “Geografia del dominio”, 2001
[20] - Christophe Guilluy, “La società non esiste”, 2018
[21] - Idem
[22] - “Valore del denaro” non è meramente, o solo, protezione dall’inflazione, anche se in questa si manifesta con particolare chiarezza la minaccia, ma protezione del ruolo e della capacità disciplinante del capitale. Cioè dell’accumulo di potenza che questo rappresenta.
[23] - Vladimir Ilic Lenin, “L’imperialismo fase suprema del capitalismo”, 1916.
[24] - Si tratta dei due modelli ottocenteschi, il controllo diretto di stampo francese o quello indiretto (tramite le élite locali) inglese.
[25] - Viene fatto un impressionante esempio sulla produzione pro-capite di cereali. Tra il triennio 1979-81 e quello 1999-2001 la produzione pro-capite di cereali è scesa da 355 a 344 kg, ma contemporaneamente il reddito pro capite è cresciuto. Con una elasticità del reddito della domanda di cereali positiva e senza variazioni significative delle scorte ci si aspetterebbe per normali leggi di mercato non manipolate che le ragion di scambio si sarebbero spostate a favore dei cereali, i cui prezzi relativi sarebbero aumentati. Invece sono diminuite del 46%. La cosa si spiega con la deflazione del reddito dei lavoratori.
[26] - Si veda, “Amazon e il suo monopolio”.

Nessun commento:

Posta un commento