Nel
libro che Utsa Patnaik e Prabhat Patnaik, scrivono nel 2017 sull’imperialismo[1] c’è un’ultima parte nella
quale è riportato un dialogo a distanza con David Harvey. Il notissimo geografo
marxista americano svolge diverse critiche molto serrate ai due economisti
indiani e questi replicano in modo altrettanto deciso. Si tratta di un
confronto tra discipline e tra culture, ma anche tra posizioni interiorizzate. Sembra
di leggere tra le righe il fantasma dell’oggetto stesso della contesa, la dualità
centro-periferia e quella occidente-oriente e la memoria del colonialismo. L’uno
scrive da britannico e da New York, gli altri da indiani e da Nuova Delhi. Ma soprattutto,
pur essendo tutti critici del capitalismo e quasi coetanei, a separarli ci sono
le tracce della storia. In fondo, e la lettura del libro lo mostra molto bene,
i due marxisti indiani si sentono parte di una storia di oppressione e hanno
qualcosa da chiedere come risarcimento.
È
vero, l’India è una potenza regionale con grande proiezione di potenza
economica, commerciale, tecnologica e persino militare, e Harvey di passaggio
lo ricorderà. È un paese di oltre un miliardo e trecento milioni di persone e
la dodicesima potenza economica mondiale. Ma è anche un paese nel quale
permangono enormi differenze tra i diversi gruppi sociali, le regioni, le aree
rurali ed urbane. Un quarto della popolazione vive sotto la soglia di povertà,
secondo i canoni indiani, mentre secondo quelli internazionali è oltre la metà.
In
india il governo Modi è sfidato dalla mobilitazione dei contadini che impegna a
fondo il Partito Comunista Indiano chiedendo la cancellazione dei debiti, la possibilità
di accedere alla proprietà delle terre e l’aumento del prezzo dei prodotti
agricoli. Del resto era una promessa elettorale disattesa dello stesso Bharatiya
Janata Party al potere: raddoppiare il reddito degli agricoltori entro il 2022.
Oggi il settore copre il 17 per cento del Pil a causa della crescita del settore
dei servizi, ma tra il 50 ed il 70 per cento della popolazione dipende dal
settore agricolo. E questa situazione pone, appunto, oltre la metà della
popolazione in condizioni di povertà, in quanto i prezzi al consumo dei
prodotti agricoli continuano a scendere e in venticinque anni si sono suicidati
oltre trecentomila contadini a causa dell’endemica condizione di estrema
povertà.
La
All India Kisan Sangharsh Coordination Committee (AIKSCC)[2], organizzazione che unisce
duecento organizzazioni contadine in tutto il paese lamenta il mancato rispetto
delle indicazioni della Swaminathan Commission (aumentare della remunerazione
agricola oltre il costo di produzione) ma soprattutto denuncia il degrado delle
condizioni degli agricoltori da quando, negli anni novanta, furono introdotte
le riforme neoliberali. Dal 2014, infatti, una tenaglia strangola le famiglie
contadine, da una parte gli aumenti del prezzo del carburante e dei
fertilizzanti, dall’altro la riduzione dei prezzi agricoli. Inoltre sta calando
la terra adibita all’agricoltura, a causa della competizione delle sempre
maggiori infrastrutture e ormai il 40 per cento dei contadini sono senza terra;
si parla di circa sessanta milioni di persone che sono state espropriate,
spesso senza nessun risarcimento, da società internazionali concessionarie
dello stato.
Tutto
questo mostra la rilevanza della sovrappopolazione relativa (ovvero dell’esercito
di riserva) nel settore: circa duecentocinquanta milioni direttamente impiegati
nei lavori della terra e, appunto, altri cinquecento milioni comunque connessi
e dipendenti dal settore.
David
Harvey è una notissima e rispettabile personalità, uno studioso di grande
valore e sensibilità, una guida per molta parte del pensiero critico
occidentale. Ma è britannico, laureato a Cambridge in geografia, sin dagli anni
settanta si converte al materialismo dialettico ed al marxismo, se pur letto in
chiave autonoma ed originale.
Utsa
Patnaki e suo marito, Prabhat Patnaki, sono due economisti che hanno studiato
in India, e che hanno lavorato per lo più al Center of Economic Studies and
Planning nella School of Social Sciences dell’Università Jawaharlal Nehru di Nuova
Delhi, dall’inizio degli anni settanta. Il loro perfezionamento è tuttavia
avvenuto in Inghilterra, entrambi ad Oxford ma Utsa in economia e Prabhat in
filosofia, da cui ha passato un periodo a Cambridge.
Per
quando David Harvey abbia dieci anni più di loro si tratta di studiosi esperti
e stimati, con decine di libri e centinaia di articoli alle spalle. Ma questo confronto,
riportato in calce al libro dei Patnaik, è insolitamente aspro. L’uno parla di
leggerezza, imprecisione e infondatezza e di “ossessione”, gli altri di
subalternità ad una cultura che oscura la verità perché scomoda, quasi di complicità.
La
durezza dello scontro dice qualcosa. Parla del portato degli scontri di classe
e di radicamento che attraversano i secoli per riproporsi. Sono di fronte, in
effetti, colonizzatori e colonizzati. I secondi non lo hanno dimenticato.
Veniamo
prima alle obiezioni del britannico.
Come
detto un sottile filo polemico li distanzia. La tesi avanzata in “Una teoria
dell’imperialismo”, dai due coniugi Patnaki non convince Harvey su diversi
piani che si possono ridurre fondamentalmente ad uno: si tratta di una tesi
strettamente centrata sull’India e non generalizzabile. Per gli economisti
indiani l’imperialismo è definito come la pratica di mantenere artificialmente
bassi, con una serie di tecniche e pratiche, i prezzi agricoli e delle altre
materie prime a beneficio delle metropoli che, quindi, ricevono un flusso di
valore reale che non pagano. Il capitalismo globalizzato contemporaneo
dipenderebbe da questi flussi, come è sempre avvenuto. Senza questi continui
impulsi deflazionari si innescherebbe infatti una dinamica di inseguimento dei
prezzi che di fatto farebbe cessare l’accumulazione capitalista ed in
particolare la forma globalizzata di questa. Scheletricamente questa è la tesi
per Harvey.
Uno
dei punti di divergenza è disciplinare: il geografo nega che gli economisti abbiano
ragione nella caratterizzazione del suolo agricolo tropicale come limitato sia
fisicamente sia come produttività, e nel far discendere da questa caratteristica
“fisica”, conseguenze determinate. L’argomento gli sembra basato essenzialmente
su alcune caratteristiche molto specifiche della massa continentale tropicale e
solo indebitamente esteso anche alle materie prime minerarie (come il
petrolio). Più profondamente, registra una certa incertezza nell’uso dei
termini ed un certo affiorante determinismo climatico. Per contrastarlo si
impegna a moltiplicare le eccezioni: Cina, Brasile, Argentina, Messico, Stati
Uniti, estesi a cavallo di più zone climatiche. Oppure il Mediterraneo, con i
suoi monopoli di prodotti agricoli di valore. E, ancora “l’incredibile
produttività dell’agricoltura californiana”. O, la disponibilità di terra “aperta”,
ovvero espandibile, in Africa e altrove.
Attraverso
questi esempi Harvey propone di considerare non significativa, se non appunto
in India e nel Sahel, la dipendenza del capitalismo metropolitano dallo
sfruttamento di terra tropicale o subtropicale coltivata in modo non
capitalistico, e quindi da prodotti di piccoli produttori di materie prime che
possono essere abbastanza facilmente tenuti sotto costante pressione. Questa situazione
esiste, ma non ha il volume per tenere sotto pressione potenziale il
capitalismo. Se i prezzi aumentassero, ad esempio, si potrebbero sostituire
molti prodotti, come in passato è avvenuto (ad esempio durante le guerre
napoleoniche). In altre parole, è vero che molti prodotti hanno i prezzi tenuti
artificialmente bassi dalle sovvenzioni occidentali ai propri agricoltori (in
particolare in Usa ed Europa), come accade al cotone, ma l’impatto è
complessivo e globale.
Insomma, l’accusa che Harvey produce alla
linea argomentativa dei Patnaki è di determinismo ambientale e di “cattivo
materialismo”. Ovvero di identificazione del materialismo con la fisicità e
quindi con le scienze naturali. Al geografo britannico sembra che i due
studiosi indiani seguano una visione economica semplificata delle determinanti
geografiche in termini puramente naturali e fisiche, “come se la produzione sociale
dello spazio e della lunga storia delle modifiche umane degli ambienti non
abbia importanza”. Del resto le scienze economiche sono talvolta impegnate in
questo esercizio di scoprire “il colpevole unico” dei fenomeni: per Jeffrey
Sachs è l’ambiente fisico e climatico, per Acemoglu le istituzioni. Sembra che per
l’economia si debba sempre scegliere, cartesianamente, tra “natura” e “cultura”.
Il punto di vista marxista è dialettico è invece che “possiamo cambiare noi stessi solo cambiando il mondo e quando cambiamo il
mondo e il nostro ambiente attraverso il lavoro umano, noi cambiamo noi
stessi. La relazione metabolica dialettica con la natura è in continua evoluzione
e gran parte di tale evoluzione è stata dettata dall'azione dell’essere umano in
modo che ora viviamo in un mondo profondamente modificato da quell'azione umana
in generale e dal capitalismo in particolare”. Quel che è accaduto in questa
relazione dialettica è che si è avuto attraverso il capitalismo “l’annientamento
dello spazio attraverso il tempo” e una radicale compressione spazio-temporale
che ha assorbito anche la massa tropicale continentale: “guarda una mappa del
sistema di trasporto dell'Africa occidentale e vedi un orientamento nord-sud nel
sistema ferroviario e stradale progettato per drenare ricchezza dagli interni
fino alle città portuali che poi spediscono quella ricchezza alla metropoli”.
L’insieme di queste condizioni produce
economie di agglomerazione altamente complesse, che riescono a sopravanzare,
e di molto, alcuni svantaggi settoriali climatici o naturali. O, per dirlo con
le sue parole: “il capitalismo metropolitano ha accumulato potere monopolistico
fondato sulla produzione di conoscenza, capacità di ricerca e sviluppo tecnologico,
forme organizzative e infrastrutture sociali (per non parlare di potere
militare). Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna potrebbero anche non essere
in grado di produrre olio di cacao e di palma, ma gli apparati statali presenti
nella la massa terrestre tropicale non possono facilmente produrre qualcosa di
equivalente alle infrastrutture fisiche e sociali disponibili al capitale nelle
regioni metropolitane temperate”.
La
prima eccezione a questa regola l’ha prodotta a Singapore Lee Kuan Yew, poi il
Brasile, l’India, la Cina. Se anche le regioni tropicali avessero davvero una
supremazia non sanabile nei prodotti agricoli specifici, restano in svantaggio
sui prodotti avanzati più decisivi per l’attuale economia.
L’altro
argomento dei Patnaik, il migliore, però concerne l’esercito di riserva del
lavoro. Come diceva Samir Amin qui ci sono effettivamente enormi riserve (anche
se si riferiva all’Africa).
“I Patnaik notano
correttamente che la teoria della produzione di Marx dell’esercito di riserva
industriale e di conseguenza l’immiserimento crescente il proletariato nel
volume I del Capitale assume uno spazio chiuso economico (non
presuppone inoltre problemi di domanda effettiva e non impatti della divisione
dell'eccedenza tra affitto, interessi, imposte e profitto del capitale del
commerciante). L'esistenza di una vasta riserva di lavoro nelle colonie e
nelle formazioni sociali non capitaliste non è considerata nella teoria di Marx
in parte perché a quel tempo era troppo difficile da sfruttare quella riserva
se non nel lavoro nelle piantagioni. Essi anche sostengo, a mio avviso,
correttamente, che la distinzione tra la riserva in questione nel centro
metropolitano e nella periferia è stata molto ridotta dalla globalizzazione negli
ultimi tempi, per cui possiamo ragionevolmente pensare che il confronto
capitale-lavoro è ora più unificato in tutto lo spazio dell'economia
globale. Deflazione del reddito (e elaborazione delle zone di esportazioni)
nella periferia ora esercitano una notevole resistenza alle condizioni di
travaglio nella metropoli. Una delle complicazioni che ne derivano è che mentre
la deflazione del reddito si diffonde nelle regioni metropolitane, una tendenza
verso il sottoconsumo diventa un problema (in parte mitigato da tensioni nel
sistema creditizio). Sfortunatamente, i Patnaik in gran parte ignorano l'industrializzazione
che si verifica sulla terraferma tropicale a causa della loro ossessione per la
produzione agricola”.
Ma
ciò, se pur vero, non esclude la necessità di avere una valutazione dinamica
delle caratteristiche geografiche. Myrdal faceva notare la tendenza delle
regioni ricche a diventarlo sempre di più a causa delle economie di
agglomerazione e delle sinergie cumulative in grado di generare infrastrutture
sociali e fisiche decisive[3]. Questo processo, scrive
Harvey, “può accadere a livello locale (il contrasto di Detroit
con San Francisco o Londra con Newcastle), ma succede anche su scala mondiale e
ciò può o meno essere rafforzato da ciò che viene convenzionalmente definito ‘Pratiche
imperialiste’.”
Se per i due studiosi indiani l’imperialismo non è mai stato compreso dagli
economisti come “un sistema di sfruttamento spaziale”, Harvey ha buon gioco nel
ricordare che invece la sua disciplina di formazione non lo ha mai dimenticato[4]. E che i fenomeni di dominazione
geografica, di land grabbing, o di ‘estrattivismo’ non sono certo monopolio
americano. La Cina in Zambia per il rame, il Brasile con i produttori di soia in
Paraguay, sono forme di imperialismo? Harvey preferirebbe non essere costretto
a doverlo dichiarare. E che dire dei processi di industrializzazione ampiamente
in corso?
“Quelli di noi che
pensano che le vecchie categorie dell'imperialismo non funzionino troppo bene
in questi tempi non negano affatto i complessi flussi di valore che espandono
l'accumulo di ricchezza e potere in una parte del mondo a spese di un altro. Pensiamo
semplicemente che i flussi siano più complessi di quelli citati e in costante
cambiamento di direzione. Il drenaggio storico della ricchezza da est a
ovest per più di due secoli è, per esempio, stato ampiamente invertito negli ultimi
trenta anni.
Per tenere traccia delle correnti
trasversali di sfruttamento, abbiamo bisogno di vedere dove vengono prodotti i
surplus di capitale, come sono geograficamente dispersi e alla ricerca di cosa.”
Si
può dire in modo semplice: se tutto ciò è imperialismo non lo è nel senso
antico, ma, al più, una forma di “sub-imperialismo”. Quindi è precisamente lo sviluppo geografico irregolare di questi schemi di
sfruttamento e super-sfruttamento che, per Harvey, dovrebbero essere il focus
degli studi, piuttosto che stipare ogni cosa in una teoria semplicistica
dell'imperialismo.
Non è solo che “è più complicato di così”,
ma che bisogna, per Harvey, comprendere le “forze di base” che sono “al lavoro”
e che spiegano lo schema dei flussi di capitale in movimento vorticoso nel
mondo in cerca iperattiva di sempre nuove opportunità di estrazione di plusvalore.
Ci sono due intuizioni, rispettivamente di Marx e Lenin, che soccorrono: quella
che il capitale ha un movimento espansivo che alla fine lo porta ad estendersi
al mondo intero e quella che la pratica imperialista più importante è l’esportazione
di capitale. L’ipotesi che le tiene insieme è che il capitale è
costantemente e crescentemente alla ricerca di soluzioni alla sua tendenza alla
sovraccumulazione (che è come dire al sottoinvestimento) attraverso la “correzione
spaziale”. Ovvero della costante espansione geografica o “ricostruzione
geografica”[5]
(una forma di espansione per intensificazione). Quel che accade è che parte del
capitale a rischio di sovraccumulazione (ovvero di svalutazione) si impiega
nello spazio attraverso la traduzione in capitale “fisso” (infrastrutture fisiche)
“per facilitare il flusso libero e continuo del capitale attraverso lo spazio”[6]. I due impieghi del
capitale si rafforzano a vicenda. Tuttavia si tratta di dinamiche molto diverse
a seconda si tratti di muovere per valorizzare il capitale sotto la forma di merce,
denaro liquido o investendolo in mezzi di produzione fisici. L’intera dinamica
spaziale dell’accumulo del capitale è dunque stata radicalmente cambiata dalla
decisione assunta dopo gli anni settanta di abbattere tutte le barriere alle
due mobilità del denaro e delle merci, questo ha aperto la strada all’impiego
di capitali mobili ovunque ci fossero condizioni marginalmente più adatte alla
creazione di surplus ed alla sua traduzione in profitto. Dunque è questo che
ha prodotto i due fenomeni gemelli della deindustrializzazione nei centri e l’industrializzazione
nelle periferie. Come effetto non secondario ha disciplinato l’azione degli
stati, impedendogli di attivare politiche compensative.
Questo è il contesto generale nel quale
si esercitano le pratiche “quasi-imperialiste” che passano anche per la
gestione dei flussi finanziari, l’azione delle banche centrali, il dominio
delle politiche del Fmi e Omc, e l’estensione del proprio regime normativo (ad
esempio, imponendo i diritti di brevetto).
Una visione che fa propendere David Harvey
per la posizione a suo tempo tenuta da Giovanni Arrighi, che ricorda, per “abbandonare
l’idea dell’imperialismo (insieme alle rigidità dell’approccio nuclei-periferie
come modello del sistema mondiale) a favore di una comprensione più fluida
delle egemonie concorrenti e mutevoli all’interno del sistema statale mondiale”[7]. La contraddizione tra la
logica territorialista e quella “capitalista” (che chiama “logica molecolare dei
flussi di capitale”) però è molto più difficile da ricondurre e molto più
pervasiva di quanto risulti dalla rappresentazione dei Patnaik, di uno spazio
fisso e morto agricolo che si estende nel territorio tropicale, nel quale
contadini non capitalisti sono sfruttati dal capitale metropolitano.
Replica degli indiani
La risposta dei coniugi Patnaik a questa
critica che suona radicale e finanche leggermente offensiva (in sostanza è come
se un docente di un’università prestigiosa stesse rimproverando dei colleghi un
poco provinciali, segnalando la corretta bibliografia), è altrettanto forte. È evidente,
dal loro punto, che Harvey non ha capito: “l’imperialismo è legato al
capitalismo come sistema sociale; non è un prodotto inevitabile della
geografia. Detto in altre parole, il capitalismo come un sistema civile supera
la sua privazione di determinate risorse naturali, che sorgono non
esclusivamente ma, tra l’altro, per motivi climatici (geograficamente noi
diciamo), in un modo specifico che comporta la deflazione del reddito, e questo
è il segno dell’imperialismo”[8].
Dire, come provocatoriamente ha fatto
Harvey, che il capitalismo crollerebbe se le spezie non fossero importate è quindi
una caricatura.
Ma subito di seguito spendono una
ventina di pagine per presentare la propria letteratura e visione dei fatti, e
per dire che “c’è una significativa mancanza di conoscenza e offuscamento dei
fatti materiali”, nella rappresentazione dell’inglese e della letteratura
teorica anglosassone. Questo passaggio, come altri, tanto più perché condotto
tra studiosi che appartengono allo stesso campo politico e, almeno in parte,
alla stessa corrente di questo, mostra una circostanza spesso soggiaciuta ma
operante: non è simmetrica, e non è vissuta per tale, la posizione tra gli
eredi degli sfruttatori e degli sfruttati. Il colonialismo, nelle aree di
maggiore e più violento suo impiego (ovvero India, nella fattispecie, ma
varrebbe anche per l’Africa, la Cina e parte del Sud America), lascia
memoria di sé. Non si capirebbe nulla della posizione dei Patnaik senza
questa considerazione.
Ovviamente non vale per tutti gli
indiani, come per gli altri popoli vittimizzati, perché si interseca con la
provenienza di classe ed in particolare con l’adesione allo strato sociale “compradoro”
che nello sviluppo ineguale ha fatto da tramite e (parziale) beneficiario o con
quello che ne ha portato interamente il peso. In altre parole, non tutto gli
indiani sono altrettanto ostili allo sfruttamento asimmetrico messo in essere
dai centri “imperiali” (ovunque siano).
Si parte dall’orgogliosa rivendicazione
della piena autonomia alimentare (almeno potenziale) che è per lo più provocata
dalla destinazione di grande parte dei terreni migliori alle colture da esportazione,
spesso sotto condizione di “land grabbing” o comunque su concessione ad aziende
internazionali. Queste esportazioni non riguardano solo le colture tropicali,
ma spesso anche quelle temperate che sono coltivate su terreni tropicali per ovviare
all’assenza stagionale (ovvero per avere nei nostri supermercati frutta “fuori
stagione” tutto l’anno). Per comprendere la connessione di questa circostanza
con la crescita dell’occidente, oltre alla meccanica dell’occupazione
coloniale, bisogna ricordare che l’Europa fino al medioevo era catturata in una
trappola “malthusiana” essenzialmente prodotta dallo scarso rendimento
agricolo. L’accumulazione inglese, in particolare, avvenne quando le
importazioni dall’Asia, dalle Indie occidentali e dall’Irlanda furono rese
disponibili, spesso in sostanza senza contropartite[9]. Le eccedenze non pagate
sono arrivate fino a 6 per cento del Pil britannico e si sono tradotte in
tasse, rendite estratte dalle popolazioni soggiogate. Un enorme flusso di
prodotti alimentari e materie prime estratti completamente gratis, “un fatto
che continua ad essere non solo ignorato ma attivamente offuscato fino ad oggi
dagli storici residenti della Gran Bretagna, che cercano di proiettare un
aspetto interno dinamico per la prima capitalizzazione dell’industrializzazione”[10].
Questa realtà è nascosta in tre modi:
fingendo che la produttività del territorio era più sviluppata; immaginando che
lo scambio fosse “a mutuo vantaggio”; e presupponendo che la dipendenza del
Nord dal Sud non avesse alla fine una grande rilevanza, né storicamente né al
momento.
I Patnaik contrastano tutti e tre gli
argomenti.
Il primo è stato chiaramente
sottoscritto anche da Harvey, quando ha richiamato la “superefficienza” dell’agricoltura
nordica, in particolare californiana. Un errore che fa anche Arthur Lewis dal
1979, manipolando i dati e oscurando il semplice fatto della dominazione
militare. Dalla tabella 3 dimostrano che ancora oggi la produttività fisica per
ettaro (non in termini di valore di mercato) di tutte le culture alimentari in
Cina è secondo loro, due volte e mezzo il livello degli Stati Uniti, ed anche in
India è superiore del cinquantadue per cento. Il delta del Mekong produce
undici raccolti in quattro anni, e, del resto, basterebbe la considerazione
dell’alto livello di sovvenzione che le agricolture temperate (in Usa ed
Europa) devono avere necessariamente per essere competitive per riportare l’affermazione
di Harvey alla sua realtà. Secondo l’argomento prodotto una coltivazione non
può essere contemporaneamente super-efficiente e fortemente sovvenzionata a
lungo, perché una delle due non sarebbe necessaria (se fosse naturalmente efficiente
e sovvenzionata calerebbero gli investimenti, se fosse super-efficiente
cesserebbe di essere sovvenzionata). Il punto sotto attacco è specificamente che
la definizione di “efficienza” che si usa in economia è calcolata in termini di
costo unitario della produzione rispetto all’unità di valore in uscita. Una parte
del problema è che nell’agricoltura occidentale gli alti costi sono legati agli
input energetici incorporati.
Inoltre:
“Gli agricoltori
cinesi, indiani ed egiziani producono con unità molto di costo molto più basse e
potrebbe decimare in modo competitivo gli Stati Uniti a livello dei mercati globali
di cereali, cotone e praticamente di qualsiasi altro prodotto (diverso forse dallo
sciroppo d'acero), se solo gli agricoltori statunitensi non fossero sostenuti
dallo stato con sussidi incredibilmente grandi. Il sussidio per il cotone
americano è noto a livello globale ed è pari a oltre $ 110.000 all'anno per
agricoltore a tempo pieno durante il periodo 1997–2012, ed è accuratamente
calibrato sulle oscillazioni globali delle condizioni di produzione, con la
maggior parte dei sussidi che vanno al massimo ad un decimo delle imprese
agricole. Nello stesso periodo il risultato di questo prezzo volutamente
abbassato e volatile del cotone ha contribuito al media annua di quasi 18.000
suicidi di agricoltori in India e ha messo i redditi degli agricoltori di cotone
a sottosquadro nei paesi africani. Harvey può trarre conforto dal fatto
che l’agricoltura europea e giapponese richiede sussidi persino più elevati
rispetto all'agricoltura statunitense ed è la più ‘super-inefficiente’ di tutte. Da
quando la meccanizzazione ha aumentato la produttività del lavoro a tal punto
che meno del 5 percento dei loro lavoratori e una quota ancora inferiore del
loro PIL è attribuibile all'agricoltura e alle attività alleate, i paesi industriali
avanzati possono permettersi di dare come sovvenzione del budget fino a metà o
più dell'intero valore della loro produzione agricola, e quindi possono dominare
i mercati globali nonostante la loro inefficienza”.
Questo
piano di critica è, da entrambe le parti, troppo scheletrico per giungere ad
una definizione certa. È ad esempio evidente che l’agricoltura occidentale, se
pure è svantaggiata dal clima, si giova di alcuni secoli di maggiori
investimenti in miglioramenti agrari e di maggiori input energetici e
tecnologici, due fattori che se da una parte pesano sui costi (rispettivamente
di investimento e di esercizio) dall’altra incrementano il prodotto, in termini
sia quantitativi sia qualitativi. D’altra parte il costo del lavoro è di gran
lunga maggiore, per effetto della produttività generale del sistema economico e
quindi del tenore di vita (in parte quest’ultimo fattore è compensato dall’importazione
di lavoratori del terzo mondo e dal loro selvaggio sfruttamento in condizioni
semi-servili). Quel che è certo è che gli incentivi, invero massivi, quale
integrazione del reddito agricolo e quindi abbassamento del prezzo di
equilibrio sul mercato, svolgono la funzione di comprimere per via dell’alterazione
delle relative ragioni di scambio il prezzo praticabile dalle merci da
esportazione del terzo mondo, e indirettamente anche di quelle consumate in
loco (che si trovano un tetto non superabile, pena essere sostituite dalle
importazioni). Dunque, al netto del discorso sulla produttività, difficile da
decidere in astratto (perché può essere alterato da ulteriori investimenti
diretti o indiretti), la presenza di incentivi estratti da altre parti del
budget pubblico obiettivamente comprime il prezzo di equilibrio che l’agricoltura
del terzo mondo riesce a spuntare e anche i prezzi interni.
Che
questo sia “imperialismo” può essere una disputa nominalistica, che sia
concorrenza sleale e quindi estrazione di ricchezza (costringendo di fatto le
nazioni subalterne a vendere le proprie materie prime e il loro lavoro a prezzi
inferiori) sembra più solido.
Il
secondo errore criticato dai Patnaki è invece l’affidamento alla legge dei
vantaggi comparati di Ricardo. Un modello che presuppone troppe cose, tra
queste che entrambi i paesi possano produrre tutti i beni. Si tratta dell’errore
di trarre da una premessa molto limitata una conclusione troppo estesa che non
è autorizzata da questa.
Il
terzo errore deriva dalla ignoranza profonda e “quasi coltivata” del mondo accademico
del nord circa le specifiche condizioni del commercio globale e degli investimenti
in base alle quali i paesi si sono sviluppati dall’ultimo quarto del
diciannovesimo secolo. La tesi è forte, e rivolta quindi anche all’interlocutore
marxista, “scelgono di non avere la minima idea che la loro superiorità
sviluppata dipendeva sostanzialmente dallo sfruttamento coloniale anche quando
i loro paesi non avevano colonie”. L’Inghilterra ha esportato capitali in America
settentrionale e in alcune regioni di recente insediamento come l’Argentina, il
SudAfrica e l’Australia (oltre che, naturalmente, nel resto d’Europa), innalzando
il loro livello di attività. Questo surplus esportato ha portato in deficit il
conto corrente ed in conto capitale con loro. La somma dei due deficit sarebbe
stata insostenibile se non avesse strappato un costante deflusso di oro dalle
colonie tropicali. Come controprova si può ricordare che dal 1880 al 1928 l’India
aveva il secondo maggiore surplus di esportazioni al mondo (gli Usa il primo), e
che il picco fu di mezzo miliardo di dollari. Ma il punto è che non fu l’india ad
arricchirsi, perché non era autonoma, “tutti i suoi guadagni in valuta estera
erano sistematicamente stanziati dalla Gran Bretagna ogni anno per pagare il
deficit della bilancia dei pagamenti [della “madrepatria”]”, i contadini ed i
produttori artigianali sono stati pagati con moneta che era immediatamente
recuperata fiscalmente, quindi non sono stati pagati. In sostanza la valuta
estera era trasferita in Inghilterra e il lavoro locale era pagato con moneta
locale che, però, era subito recuperata evidentemente salvo il minimo di sussistenza,
fiscalmente e non era reinvestito in loco, se non in minima parte (anche i celebrati
investimenti in ferrovie ed altre infrastrutture si traducevano sempre in forniture
inglesi, lavoro inglese, se pregiato, ed indiano, se servile[11]).
Quindi
la rapida estensione del capitalismo in Europa e Nord America indirettamente si
fonda su questa estrazione costante di surplus dalle colonie tropicali.
Entrando
direttamente nelle obiezioni di Harvey quindi i Patnaik accettano “volentieri”
l’accusa di essere “ossessionati dall’agricoltura”, ma ne rivendicano la
ragione: “è il passato e l’implacabile ossessione del capitalismo globale per
l’accesso alle terre ed alle risorse primarie del sud, a costo di
infliggere carestia in passato, fame oggi, e denudando le terre delle loro
risorse minerarie”.
Questa
osservazione è chiaramente il centro emotivo dell’intero libro.
Seguono
alcune questioni di dettaglio, come la dipendenza del nord temperato dalle
importazioni del sud per quanto attiene alla varietà dei prodotti disponibili,
il fatto che i paesi in questione non siano indipendenti sotto il profilo
alimentare (l’Europa non lo è da secoli), la situazione di Usa e Giappone, di
dipendenza parziale e l’India, che importa solo oli vegetali e noci
(soprattutto olio di palma dal sud-est asiatico), e via dicendo. Prevedibilmente
la ricognizione porta alla conclusione che la dipendenza dalle importazioni alimentari
dei paesi avanzati è molto più alta che per i paesi in via di sviluppo.
Questo
è, insomma, il contesto nel quale è inserita la teoria dell’imperialismo dei Patnaki
(che se limitata in questo modo avrebbe una dimensione settoriale). La domanda
di sempre maggiori importazioni dalle terre tropicali e subtropicali potrebbe
essere soddisfatta senza inflazione dei prezzi solo se la produzione crescesse
progressivamente. Ma questa soluzione ragionevole è ostacolata dalla inibizione
dell’attivismo dello Stato nell’epoca neoliberista (ad esempio il governo Modi
dovrebbe investire in irrigazioni e miglioramenti fondiari, sostegno al credito,
infrastrutture di trasporto e sostegno alla meccanizzazione e alla chimica verde).
Se
non avviene una deflazione del reddito dei consumatori occidentali (che, però,
è in parte in corso), la tendenza all’aumento dei prezzi per effetto della
crescita normale dell’economia porterà un aumento dei prezzi (“come accadde una
volta nei primi anni settanta”) e questo minaccerà la stabilità del denaro. Allora
la soluzione disponibile resta l’imposizione della deflazione all’esterno
(ovvero quel che accade in india agli agricoltori).
Questa
è quella che chiamano “la soluzione imperialista”, e che Harvey non riesce a
considerare tale (pur riconoscendo che la meccanica esiste).
Insomma,
come dicono, “la nostra teoria dell’imperialismo riguarda il capitalismo per
come si comporta nel contesto di alcuni fatti innegabili, relativi alle
possibilità di produzione delle diverse regioni. Riguarda dunque il
capitalismo e non la geografia”.
Riguardo
all’argomento tutto sommato cruciale avanzato da Harvey, della dinamica di
sviluppo e sottosviluppo sulla base della modellistica di Myrdal e della “teoria
della dipendenza”, in sostanza i Patnaki sottolineano che per avviare poli
di sviluppo industriali, che si contrappongano ad aree di deindustrializzazione
(si può pensare alle “tigri asiatiche” o alla Cina, ma anche ad alcune aree della
stessa India) è necessaria l’adeguata dotazione di infrastrutture. Infrastrutture
“fisiche e sociali”, come sottolinea lo stesso geografo inglese. Ma questa via
di “sviluppo” è comunque subalterna, ci sono numerosi esempi di tensione a
rendersi indipendenti e industrializzarsi da parte di governi “dirigisti”
post-coloniali che sono stati schiacciati.
Comunque
l’intero argomento sollevato da Harvey è “accettato pienamente” dai Patnaki. Ed
è accettato che questo sia avvenuto (lo “sviluppo-sottosviluppo”) in modo accelerato
quando i capitali si sono fatti più mobili, per sfruttare i differenziali salariali.
Ma, dicono, “se anche ciò avviene non viene superato l’imperialismo, perché non
importa dove si trova il capitale, il problema dell’aumento del prezzo di
fornitura resta”. Ed il capitale affronta sempre questo problema imponendo la
deflazione del reddito.
Per
evidenziare questo si concentrano sulle continuità tra il vecchio colonialismo
e l’epoca moderna. Anzi, “la mancata percezione degli impatti temporanei
dell’imperialismo è, in sostanza, un fallimento nel percepire il colonialismo”.
Ovvero l’incapacità di capire che la differenza essenziale tra la situazione
odierna (ad esempio le relazioni tra Cina ed Africa) e quella di allora era che
i flussi avvenivano senza contropartita, oggi non è più così, almeno nella
misura in cui il confronto è tra paesi reciprocamente indipendenti. Il tema, a ben
vedere, è allora questo lo scambio non è sempre a “vantaggio reciproco”, non
sempre è equilibrato. Spesso nella relazione sonno presenti residui di
colonialismo, ad esempio sotto forma di salvaguardia esasperata del “diritto di
proprietà”, e altre strutture normative imposte.
Questo
è il piano sul quale i Patnaki ed Harvey sarebbero in accordo, il disaccordo
dipende da ciò che hanno nel campo visivo: lo sfruttamento concreto, subito e
reiterato, qui ed ora, del subcontinente indiano e dei suoi contadini o le
dinamiche globali rispetto alle quali, come scrive il secondo, “le vecchie categorie
dell’imperialismo non funzionano troppo bene”, perché la situazione dello
sfruttamento si è fatta più fluida, pur permanendone la meccanica.
Come
scritto nel commento ad un articolo[12] che è la prova generale
di questo libro, e quindi di questo dialogo e scontro, oggi la divisione del
lavoro a scala mondiale vede la base produttiva sparpagliata in tutte le aree
di minore resistenza nelle quali può essere estratto il surplus con il minimo
di attrito, fidando su un “esercito di riserva mondiale” che è costantemente coltivato
ed accresciuto, con relativo disinteresse al problema del realizzo, in quanto
la domanda alla quale fare affidamento si è fatta fluida e mondiale (ma tende
comunque ad essere scarsa) e in quanto il meccanismo di creazione delle bolle e
gli “schemi ponzi” possono appianare le asperità, almeno temporaneamente, e
creare domanda senza base produttiva. Questo è il senso dell’obiezione di
Harvey alla “fissazione” dei Patnaki sul problema della deflazione imposta ai
prezzi dei prodotti di base e, per essi, ai suoi produttori nella parte debole
del mondo.
Entrambi
sanno che l’espansione del debito surroga la chiusura stabile del ciclo
keynesiano, surrogandola ed appoggiandosi su “cicli Minsky” sempre più ampi e
quindi sempre più veloci ed instabili[13]. Sanno che la
circolazione del valore muove dalla produzione, decentrata, divisa in catene di
approvvigionamento e montaggio sempre più lunghe ed intrecciate, quindi sempre
più fragili e costose da proteggere, e dal suo rimontaggio, amplificazione e
ricircolo nel sistema mondiale ed interconnesso di intermediazione finanziaria.
Individuano un sistema interamente fondato sulla liquidità apparente, altamente
vulnerabile alla potenziale perdita di valore del denaro che potrebbe essere
trasmessa da un’inflazione dei valori ‘reali’.
La
questione della tendenziale sovraccumulazione del capitale in forma liquida
(ovvero come denaro, come titoli, crediti e diritti di proprietà scambiabili)
è, a ben vedere, al centro dell’attenzione di entrambi. Ma è interessante come
la differenza di posizione individuale, e di memoria storica costituente,
ovvero di radici del sé, produca il reciproco accusarsi di “ossessioni”.
La
stabilità del valore, condizione per l’accumulazione capitalista, nelle
condizioni di estrema mobilità proprie della fase finanziaria, è servita dalla
meccanica messa in luce dai Patnaki, ed imperniata sulla creazione nelle
periferie (e nei centri) di un “esercito di riserva” del lavoro, che contiene i
prezzi delle materie prime e di tutti i prodotti intermedi che alimentano le catene
logistiche mondiali. Garantendo in tal modo la creazione di surplus e di
profitti. Questo “sifonamento” di ricchezza, che viene trasferita dalle
periferie e dal lavoro subalterno (nella catena di produzione) attraverso la
partecipazione minoritaria alla catena del valore (che quindi è trattenuto, con
vari espedienti, nelle mani di chi detiene i titoli di proprietà e controllo) è
quel che in fondo questi chiamano “imperialismo”.
Questo
genere di “imperialismo” è proprio del modo di produzione capitalista e non è
cessato con la globalizzazione, anzi è cresciuto.
Ma
questa linea di argomentazione, astrattamente avrebbe ragione Harvey, sarebbe
servita meglio da una minore concentrazione sul caso particolare della sottovalorizzazione
dei beni alimentari e delle materie prime del sud del mondo.
Tuttavia
quel di cui parlano davvero gli autori non è dello sfruttamento intrecciato nella
catena del valore della Samsung, ad esempio, ma dello scontro concreto, attuale
ed in corso, tra i contadini organizzati dal Partito Comunista Indiano e dalla
piattaforma All India Kisan Sangharsh Coordination Committee, contro il
governo Modi. È questo che garantisce la conservazione dell’esercito di riserva
giunto a sessanta milioni di persone private dei mezzi di sussistenza e quasi
cinquecento in condizioni di grave povertà. È il governo neoliberale indiano,
esprimendo ed interpretando una logica propria di tutte le élite globaliste
mondiali, che per garantire la stabilità del modo di produzione capitalista e l’accumulazione
del capitale nelle mani delle borghesie ‘compradore’ indiane, oltre che delle
élite imperialiste presenti in India (che ha indubbiamente nella divisione del
lavoro mondiale anche una funzione sub-imperialista), impedisce che il
surplus di capitale transiti attraverso la funzione pubblica e sia impiegato
nel “potenziamento territoriale”. Ovvero in quegli investimenti, richiesti a
gran voce, che possano aumentare la produttività, ridurre i costi di esercizio
(anche e soprattutto finanziari, stabilizzando i debiti), e liberare i
lavoratori dallo stato di deprivazione e soggezione che spinge quindicimila di
loro ogni anno a togliersi la vita.
Quando
gli autori attaccano la propensione del capitalismo nella fase neoliberale per
la “sana finanza” e l’inibizione della strada di crescita per ridurre e controllare
la sovraccumulazione e quindi la tendenza all’inflazione e destabilizzazione
del valore, stanno attaccando non un generico, astratto, modello[14], ma politiche concrete
che producono effetti concreti.
Utsa
e Prabhat sono dei militanti, prima di essere dei teorici. Prima di essere
degli economisti. Prima di essere dei tecnici.
Per
capire qualcosa del mondo bisogna essere entrambi, bisogna volerlo cambiare.
[1] - Utsa Patnaik e Prabhat Patnaik, “Una
teoria dell’imperialismo”, Columbia University Press, 2017
[2] - Questa è la sua piattaforma on
line: http://aikscc.com/
[3] - Gunnar Myrdal, “Economic
Theory and underdeveloped regions”, London, 1957, ed it. Feltrinelli 1959.
[4] - In questo passaggio cita la
principale letteratura della dipendenza: Samir Amin, “Accumulation on a World
scale”, Monthly Review Press, 1974; Immanuel Wallerstein, “The modern world
system”, Academic Press, 1974; Argiriss Emmanuel, “Unequal exchange: a
study of the imperialism of trade”, Monthly Review Press, 1972; Andre
Frank, “Capitalism and Underdevelopment in Latin America”, Monthly Review
Press, 1969.
[5] - Si veda, ad esempio, i fenomeni
di ricostruzione urbana per grandi progetti essenzialmente fondati sull’attrazione
di flussi di capitali mobili e riconfezionamenti per distribuzione altrimenti
che sulla domanda endogena. Un esempio, certo non unico, è la costante
ricostruzione di Londra, si veda “Saskia
Sassen, ‘Londra si autodistrugge’: del ciclo edilizio al tempo della finanza
estrattiva” e “Laurie
MacFarlaine, La ricchezza è generata dalla rendita”.
[6] - David Harvey, “The geography of
capitalis accumulation: a recostruction of the marxian theory”, Antipode 7,
1975; David Harvey, “Space of capital”, Routledge, 2001; David a Harvey,
“The limits of capital”, Blackwell, 1982.
[7] - Harvey cita due opere di
Arrighi: Giovanni Arrighi, “The geometry of imperialism”, New left Book,
1978; “Il
lungo XX secolo”, Verso 1994, ed it. 1996.
[8] - Utsa Patnaik e Prabhat Patnaik, “Una
teoria dell’imperialismo”, cit, p.173
[9][9] - Si veda, per una visione occidentale del tema, coerente
con alcune descrizioni storiche, Paul Roberts, “La fine del cibo”, Codice
2009
[10] - Idem, p. 177
[11] - Si veda Hosea Jaffe, “Era
necessario il capitalismo?”, Jaca Book, 2008
[12]
- Utsa Patnaik, Prabhat Patnaik, “L’imperialismo
nell’era della globalizzazione”, Monthly Review, vol. 67, n. 3 luglio 2015
[13] - Si veda Hyman Minsky, “Keynes
e l’instabilità del capitalismo”, 1975.
[14] - Il modello si
presta ad essere generalizzato, ma va descritto e smontato in ogni luogo concreto.
Si presta ad essere applicato anche ai margini diradati del capitalismo “centrale”.
Dove stazionano frazioni di classe anche esse spazialmente distinte ma contigue
ai centri metropolitani. Non solo nel ‘terzo mondo’, quindi, ma nel
“semi-primo”. Dove si allargano gli ambienti vasti nei quali prevalgono
condizioni di marginalità e i relativi atteggiamenti esistenziali e politici,
dove scoppia l’ira delle periferie. Il fenomeno mostrato nel caso indiano, della
deflazione provocata per conservare stabilità all’accumulazione capitalistica e
le relative gerarchie sociali, limitando al minimo i terreni nei quali si può
tollerare l’inflazione dei prezzi e dei salari che provocherebbe un
assorbimento di ricchezza e riduzione del potere di acquisto del capitale, si
manifesta anche qui pienamente. Questi fenomeni accadono perché la dipendenza
non è un gioco tra blocchi omogenei, ma è un rapporto dinamico reso dai
differenziali di potere (nelle forme in cui questo si manifesta). Questo
differenziale, che è necessario per proteggere il surplus e la sua
appropriazione, creando centri dominanti nei quali si concentra e periferie
dalle quali si estrae, si manifesta nelle grandi città, nelle aree “dell’osso”
delle regioni sviluppate, nella divaricazione macroregionale (ad esempio quella
italiana), nella tendenziale stagnazione relativa o perdita di spinta dei
sistemi-paese spinti ai margini. Queste dinamiche accadono nel nord inglese,
nella regione della ruggine americana, nelle periferie urbane praticamente
ovunque, nelle regioni appenniniche (o alpine) italiane, nei sud (in termini
relativi). Ovvero nelle “cinture” nelle quali peraltro vince, non per caso, il
“populismo”.
Non
bisogna prendere questo modello concettuale come una descrizione omogenea od
organica, luogo contro luogo. Anche in ogni periferia, in ogni ambiente
periferico, ovunque esso sia, permane in posizione d’ordine, un segmento di
borghesia che si nutre dell’intermediazione e quindi cresce. Un segmento che è
a cavallo ed in contatto con il capitale metropolitano e produce alcuni, se
pure limitati, ‘effetti alone’. In conseguenza ci sono zone e paesi che hanno
registrato un’elevata “crescita”. Normalmente ottenuta, data la posizione di
intermediazione, a spese della trasmissione di surplus e quindi spingendo
ancora più in basso i ceti produttivi subalterni. Ovunque bisogna identificare
i propri Modi, e coloro che li appoggiano perché ne traggono beneficio.
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