All’avvio
del secondo decennio del nuovo secolo il mondo si trova in una fase di caos
sistemico a fatica tenuto a freno dalle potenze
politico-militari declinanti e dai sistemi di ordine monetari del mondo
liberale. Ne sono segno la sempre maggiore fragilità della fase finanziaria del
capitalismo, costantemente sull’orlo di una crisi sistemica, che viene rinviata
utilizzando tecniche per loro natura insufficienti, mentre la dittatura del
pensiero di economisti morti da tempo e degli interessi che questi servivano, e
servono, impedisce azioni necessarie per allontanare l’amaro calice.
Mentre
tutti gli spazi residui, con i tassi da tempo sotto zero e i bilanci delle
Banche Centrali carichi di titoli “spazzatura” e malgrado ciò i principali
istituti di credito zavorrati da portafogli a dir poco dubbi (quello della
Deutsche Bank è valutato dai mercati ad un terzo del valore di libro), sembrano
esauriti, arriva puntuale il ‘cigno nero’ di un’epidemia che rischia di fermare
i luoghi più dinamici dell’economia mondiale, sovraccaricare i sistemi pubblici
di sicurezza sanitaria e imporre spese fiscali ingenti per evitare fallimenti a
catena, individuali ed aziendali. L’intera Europa, Germania in primis ma Italia
immediatamente dietro, entra in questa congiuntura nelle peggiori condizioni
possibili, resa fragile dall’ossessione per la crescita a mezzo di esportazioni,
ottenuta comprimendo selvaggiamente il mercato interno e per esso la capacità
di resilienza del sistema pubblico di sicurezza sociale (sanità, istruzione,
sistemi territoriali ed a rete, etc..). In un sistema economico mondiale che ha
scelto di sacrificare la stabilità sociale, e quindi politica, sull’altare del
profitto (ovvero della protezione dell’appropriazione privata del surplus), e
per ottenere questo risultato ha spinto sull’interconnessione guidata dalle
grandi aziende monopoliste e oligopoliste, il rallentamento del commercio
internazionale suona come una campana a morte.
Già
tra il 2018 ed il 2019 il progressivo raffreddamento prudenziale dell’economia
cinese (alle prese con la formazione di bolle creditizie non dissimili da
quelle verificatesi, e continuamente, nell’occidente capitalista), e poi lo
scontro con gli Usa in cerca di un modello di crescita meno esteroflesso, hanno
posto sotto stress il commercio mondiale, rallentandone la crescita dal 4%
annuo verso lo zero alla fine del primo anno e poi in area negativa in quello
successivo. Questo evento interviene immediatamente dopo l’annuncio
dell’accordo sui dazi tra Usa e Cina che avrebbe suonato la campana per
l’Europa ed il Giappone, deviando ingenti flussi tra i due partner, che si apprestavano
forse a riprodurre il duopolio Usa/Urss che organizzò la seconda metà del XX
secolo.
Ma
il ‘cigno nero’ viene a rompere lo schema. La Cina è il
nodo chiave della catena del valore aggiunto globale, decisivo centro di
produzione delle componenti di tutta l’industria meccanica ed elettrica e degli
ingredienti di base dell’industria farmaceutica (ma anche delle terre rare che
servono per moltissima elettronica). La crisi si propaga per questa via e già
sta facendo fermare le vicine fabbriche coreane di automotive, mentre le
fabbriche occidentali ed italiane stanno diversificando le forniture (persino
di cose come la carta) con sovrapprezzo e rischio di saturazione dei fornitori.
La propagazione del virus potrebbe far fermare, peraltro, direttamente i
principali centri produttivi in Corea del Sud (semiconduttori e componenti
elettroniche, smartphone, …) e in alcuni poli industriali europei (in Italia,
in Germania, in Francia).
Il
caos sistemico ha gambe lunghe; deriva dalla gestione
della transizione di sistema dalla crescita del dopoguerra, introflessa e
fondata anche sullo sfruttamento neo-coloniale, alla relativa stagnazione (in
realtà la dualizzazione, con stagnazione per la maggioranza e crescita
impetuosa per una sempre più esile minoranza) del modello neoliberale della
“accumulazione flessibile”. Ma ora giunge al limite della sua estensione.
E
con esso, per ragioni in parte diverse, giunge al dolore del parto anche il
dominio, ormai senza egemonia, geopolitico e financo militare anglosassone ed
europeo, lasciando spazio sia ai tentativi di riavanzata dei
centri d’ordine sub-imperiale antiliberali, sia ad ogni genere di mostro.
Mentre
tutto ciò avviene, e spesso preme alle nostre frontiere, appare terminata
una fase breve di rivendicazione dei diritti a partecipare al sogno di
benessere individualista del liberalismo del basso e del periferico. Una fase
che, inscritta entro un più ampio “momento Polanyi” di rivolta della
società alla costrizione dell’economico, abbiamo chiamato spesso “momento
populista”. Bisogna fare attenzione alla nomenclatura:
-
il “momento Polanyi” è la più ampia
fase storica di rovesciamento della legittimazione e dei poteri ormai non più
in grado di contrastare o minimizzare la propria tendenza alla disgregazione
del sociale.
-
Il “momento populista” è la forma
politica, che vive della caduta di legittimazione, ma necessita di un’espressione
specifica per addensarsi, dunque ne dipende.
Il
primo permane, e guadagna sempre maggiore forza entro il caos sistemico. Il
secondo appare terminato nella forma attuale. Naturalmente
la permanenza, ed anzi l’esasperazione delle condizioni attivanti, magari con
l’aggiunta del “cigno nero”, apre, come diremo, la possibilità di ripresentarlo
in nuova forma, per la quale sono disponibili esempi storici.
Gli
strumenti organizzativi che hanno raccolto e dato forma alla rivolta che costituisce
il “momento Polanyi”, dandogli veste politica, sono stati declinati secondo
diverse sensibilità. Da una parte, con molte variazioni nazionali, come
chiusura nazionalistica, ricerca di purezza identitaria se non etnica,
plebeismo ostentato, vitalismo e protezionismo individuale. Dall’altra, anche
qui con variazioni importanti, come modernismo, risentimento e competitività,
ambigua protezione selettiva, disintermediazione e rifiuto dei “contenitori di
potere” e delle loro forme istituzionali. Una descrizione idealtipica, questa,
che passa normalmente come “populismo di destra” e “di sinistra”, e trova
espressione in forze politiche di largo seguito in Francia e Italia, il primo,
e più esili ma non irrilevanti in Spagna, Francia e Italia, il secondo.
Da
entrambe le parti erano comuni alcune caratteristiche proprie della lunga fase
neoliberale e della disgregazione sociale dalla quale nasce la rivolta.
Chiamiamo tutto questo “primopopulismo” (o “neopopulismo”, per
distinguerlo dalle forme populiste completamente inserite nella fase
precedente, nella quale era ancora presente una qualche stabilità, in Italia la
prima Lega, Forza Italia e via dicendo). Si trattava di un adattamento, per
certi versi in continuità, che si nutriva ambiguamente dello stesso veleno
che genera il “momento Polanyi”, ovvero della disgregazione e
iperindividualismo. Ma se ne nutriva in larga misura inconsapevolmente, quindi
senza essere in grado di dosarlo in modo da farlo divenire farmaco.
Il
veleno è la disgregazione sociale, individualismo ‘post-materialista’, dominio
dei nuovi media disintermedianti, discredito delle élite, snellezza, leaderismo.
Sono
stati veicoli dell’espressione politica del “momento populista” in Italia il Movimento
5 Stelle e, più di recente, la Lega sotto la direzione di Matteo
Salvini, ma ne sono stati espressione anche le brevi parabole segnate da Matteo
Renzi, in coda al ciclo berlusconiano e parallelo, ma con diversi referenti
sociali, alla prima insorgenza della proposta Grillo-Casaleggio. Ci sono molti
modi di giudicare questa fase da poco trascorsa:
-
ha interpretato
la tensione di fondo del “momento Polanyi”, rompendo lo schema destra/sinistra
polarizzato al centro;
-
ha politicizzato,
almeno in una prima fase, un attivismo tipicamente liberale del self-help e
della “sorveglianza” che sembrava essere l’ultimo rifugio del dissenso e del
disagio;
-
ha fornito espressione
allo spiazzamento di ceti e sezioni di classi sociali che erano state illuse di
essere vincenti nel modello “flessibile”, ma che l’avanzare della tecnica ha
lasciato sul bagnasciuga;
-
ha utilizzato
una tecnica mimetica che interpreta la domanda sociale come domanda
individualista di affermazione, intrinsecamente neoliberale, pur senza averne
consapevolezza.
Tutti
questi veicoli di politicizzazione sono stati “contenitori dell’ira”.
Ma
in tutta Europa, in Italia come in Spagna, in Francia, Germania o Inghilterra,
con le differenze di situazione e cultura, quando i “contenitori dell’ira” sono
stati sfidati di avvicinarsi e diventare “contenitori di potere” le
contraddizioni che li costituivano sono esplose. Queste contraddizioni sono su vari
piani:
-
di egemonia di classe
e posizione nel processo di riproduzione sociale, troppo fondati, come erano,
sulle frazioni “riflessive” della piccola borghesia urbana; frazioni vicine e
respinte, ma ancora egemonizzate, dalle classi alte e mobili vincenti;
-
di incoerenza programmatica,
nascosta molto male da una superficiale retorica “ne di destra, né di
sinistra”, che sottende una costruzione di non-discorso per aggregazione
incoerente di scelte;
-
di debolezza culturale
dei vertici e soprattutto dei quadri, nella quasi totale assenza di una
dinamica interna solida;
Ciò
ha portato ad alcune caratteristiche, e caratterizzanti, mosse politiche:
-
nell’indicazione di un “nemico” (essenziale
per produrre dal “momento Polanyi” un “momento populista”) tradotta in quel che
si aveva “sottomano” nella cultura neoliberale dominante, invece di fornire una
rappresentazione degli scontri sociali ed economici realmente attivi nel paese si
è prodotta la loro sostituzione con nemici esterni al “popolo” (identificandoli
genericamente nelle “caste”);
-
inoltre, per produrre l’offerta ideologica
questi movimenti hanno pescato nel bidone della storia la traccia di un moralismo
di antico conio tipicamente latino (identificando l’”onestà” come elemento
distintivo e caratterizzante, elevandolo a discriminante politica)
-
e, infine, hanno fatto sistema di una vaga
idea di disintermediazione individualista (tramite la retorica della “rete”
e della “direttezza”, poi rovesciata nella sua espressione tecnica nel suo
contrario).
In
Italia abbiamo assistito in questa forma ad una vicenda che si è dipanata tra
il 2016 ed il 2018 (fase ascendente del “Momento populista”, avviato nel
2012-3) ed il 2018-19 (fase di fallimento nel compito di tradursi in
“contenitore di potere”).
Molto
sinteticamente, il voto del 4 marzo del 2018 ha rappresentato la prima
espressione elettorale maggioritaria della reazione alle politiche di
austerità. Rappresentava non solo l’alleanza tra i due partiti antisistema
presenti, ma anche tra i ceti e i frammenti di classe marginali delle due parti
del paese. Ma giunti al governo i due partiti hanno avuto entrambi, seppur in
tempi diversi, una torsione trasformista. Già nel primo mese, con
l’accettazione del veto presidenziale alla nomina di Savona e con
l’accettazione della presenza di Tria si è vista la debolezza strategica della
strana alleanza. L’asse europeista tra Conte, Tria e Moavero, con i potenti
mezzi del Partito dell’Estero, dominante in Italia da un trentennio, ha poi
imposto una finanziaria di continuità, il voto alla Von del Leyen, ed i
balletti sull’immigrazione. La vittoria della Lega alle europee, che nel
frattempo portava avanti la sua agenda reazionaria, flat tax, regionalismo
differenziato, xenofobia, ha fatto il resto.
A
questo punto, il M5S ha formato un governo con il nemico storico mentre la Lega,
sotto la spinta della sua base sociale e del corpo del partito, sta rinnegando
tutte le politiche antieuro.
Sul
piano politico-elettorale milioni di persone che avevano creduto nel M5S e nel
cambiamento in parte tendono a rifluire nell’ambito del centrosinistra avendo
accettato la campagna che fa di Salvini (come al tempo Berlusconi) il nemico
principale, il male assoluto, altre sono già andate verso una Lega che però sta
ricambiando pelle, oppure vagano deluse o sono alla ricerca di qualcosa di
nuovo e di credibile. Il campo politico che aveva trovato rappresentazione il 4
marzo si è quindi destrutturato, lasciando spazio ad una ripolarizzazione a
destra e sinistra che, entrambi, integrano elementi di populismo.
La
normalizzazione è in corso.
Questa
normalizzazione, in Italia come in Spagna, passa per un’intelligenza dei
“contenitori di potere” che hanno compreso come sfruttare la debolezza
strategica e programmatica dei “contenitori dell’ira” per ridurli al ruolo
ancillare di distrazione sistemica. Tutti i fattori di debolezza sono stati
messi al lavoro in questa direzione:
-
la composizione di classe,
già per natura facilmente riegemonizzabile dall’alto (almeno nel breve
termine), è stata permeabile al richiamo alle famiglie politiche conformate
sulla vecchia “società dei due terzi” ed ai toni del neoliberismo di destra e
sinistra;
-
l’incoerenza programmatica
ha consentito di scegliere dal menu quel che appare meno rischioso, silenziando
gli elementi più incompatibili con l’accumulazione flessibile;
-
la debolezza culturale,
ma soprattutto l’isolamento dei vertici, ha prodotto un facile riassorbimento
trasformista;
-
i “nemici” designati,
essendo costruzione ideologica, si sono prestati da una parte ad un disastroso
rovesciamento (nella transizione da “contenitore dell’ira” a “contenitore di potere”,
non avendo fatto i conti con quest’ultimo), dall’altra moralismo e
disintermediazione hanno creato una miscela tossica di inibizione all’azione e
creato oggettivamente le condizioni per essere ostacolo al cambiamento reale di
sistema.
Il
riassorbimento in corso prende forma in Spagna nella partecipazione di Podemos
al nuovo governo con il Ps e in Italia sia nella partecipazione subalterna del
M5S al governo, sia nell’evoluzione della Lega. Ma è radicato profondamente,
quindi non è congiunturale, nel fallimento strategico sfruttato dai
“contenitori di potere” nazionali ed internazionali che hanno compreso come
incorporare frammenti “populisti” innocui.
Dunque,
mentre il “momento Polanyi” è sempre più forte, e il caos sistemico si
accresce, il “momento populista” è in una fase di ripiegamento e di interludio.
Il primo è sempre più forte in quanto le sue condizioni strutturali (che non
sono le cause, dato che queste appoggiano sul modo di produzione “flessibile” e
la fase finanziaria di questo), sono la distruzione delle classi medie e la
polarizzazione sociale e spaziale presa in irresistibili processi di causazione
circolare e cumulativa estesa alla scala del sistema-mondo. Il secondo è in
ripiegamento avendone fallito la rappresentazione politica.
Se
non si fanno i conti con questa dinamica e non la si comprende, il rischio è di
muoversi sempre nello stesso circolo, ma in forma minore.
Andando a produrre piccoli “contenitori d’ira” che possono essere resi innocui
e incorporati molto facilmente per assoluta assenza di prospettiva strategica.
Questa strada accetta nelle premesse quel che vuole combattere e finisce per rafforzare
l’antipolitica ed allontanare le possibilità di una soluzione di sistema. In un
certo senso le Sardine sono l’esempio perfetto.
Quale
la soluzione?
Detto
che questa fase, cessato il “primopopulismo” come forza antisistemica (se pure
lo è mai stata), è più correttamente definibile come “lotta di posizione”,
che non come “lotta di movimento”, si tratta di sforzarsi di identificare
i luoghi ed i temi nei quali, intorno agli assi ordinatori centro/periferia ed
alto/basso si stanno comunque polarizzando estetiche, linguaggi, priorità e
valori, quindi soggettività di gruppo incompatibili con lo stato delle cose
presenti. Bisogna trovare il modo di essere politici, materialisti e
populisti al contempo (il modo di essere populisti del primo socialismo,
del resto). Sul piano profondo bisogna oltrepassare l’impolitico neoliberale e
tutti i suoi travestimenti e recepire il nuovo bisogno di collettivo e di
umanità, dandogli forma.
Quindi
non farsi ingolosire da immediate traduzioni elettorali, ma lavorare alla cultura
politica, ovvero alla creazione di una struttura sociale densa ed una rete di
impegni e riconoscimenti con la necessaria decisione e passo. Ciò non
significa produrre infinite versioni ‘socialiste’ dei think thank neoliberali
che hanno fatto da base alla svolta neoliberale (quando per loro si è trattato
di passare, tra gli anni sessanta e settanta, dalla “guerra di posizione” a
quella “di movimento”), perché è diversissima la base di potere e l’attivazione
di risorse. Ma deve significare svolgere, con il passo determinato e paziente di
chi sa che le case si costruiscono un giorno dopo l’altro, due lavori insieme,
sia diversi sia complementari, entrambi indispensabili: l’autochiarificazione
teorica e la discussione, seria, decisa, onesta, sulle diverse ipotesi
analitiche e meccaniche causali e funzionali, da una parte, e l’immersione
nelle lotte, nelle contraddizioni materiali, nei luoghi come via privilegiata
della stessa formulazione teorica, dall’altra. Riflessione in azione, dunque, e
costruzione di sintesi e narrazioni rivolte alla manifestazione della proposta
teorica e pratica (indissolubilmente teorica e pratica). Ciò deve
significare lavorare sulle manifestazioni del conflitto, dove si identifica la
contraddizione figlia del caos sistemico, e renderle occasione di formazione ed
autoformazione anche teorica.
Inchiesta,
mobilitazione, lotta sui temi e nei conflitti nella sfera pubblica, tesseramento,
militanza, creazione di collettivo e di comunità, divisione del lavoro ed
organizzazione, e poi, discussioni sulla fase, sulle opzioni, sulle idee, messa
alla prova reciproca, creazione di lealtà. Tutto questo è “lotta di
posizione”, mentre si cerca di produrre collettivamente influenza,
caposaldo per caposaldo, giorno per giorno. Ovunque.
Sapendo
che, prima o dopo, probabilmente presto, la permanenza delle condizioni
strutturali di attivazione, ovvero del “Momento Polanyi” ricreerà altre
occasioni. Allora si dovrà passare alla “guerra di movimento”.
Sociopopulisti.
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