Siamo
davvero in tempi strani. Davanti all’improvviso accelerare della storia, per
effetto del venire al pettine sotto l’impatto di un minuscolo organismo di
tutte le catastrofi del neoliberismo e della mondializzazione senza limiti e freni
di questo ultimo ventennio, tutti si sentono sollecitati. E capitano
posizionamenti inaspettati. E’ la quinta volta che parlo di un testo di Marco
Revelli[1], registrando via via un progressivo
arruolamento sul fronte di un antifascismo di maniera e piuttosto stridente. Una
posizione sempre più anti-popolare, man mano che l’abbandono della sinistra da
parte di questi si faceva più evidente (sotto l’etichetta di “populismo”). Nell’ultima
occasione ero stato piuttosto brusco.
Ma
in questo intervento, molto politico e come sempre schierato contro i suoi due
nemici preferiti, i due Matteo, ritrovo invece elementi più che condivisibili. Avevo
parlato già dell’intervento di Mario Draghi in un recente post[2] ed in quella occasione mi
ero soffermato su una lettura del testo dell’articolo sul Financial Times
concentrata sugli elementi di discontinuità, che sono numerosi e significativi,
e non sulle numerose ambiguità (che sono decisive).
Probabilmente
l’esatto significato di questa lettera sarà chiaro solo a posteriori, quando
gli eventi si saranno incaricati di definirla e la polvere della mischia si
sarà posata. Come accadde, peraltro, in occasione del suo famoso discorso a
Jackson Hall[3],
o del suo più famoso “Whatever it takes”, del luglio 2012[4]. Di entrambi qualcosa è
restato, qualcosa no.
Come
è capitato anche a Thomas Fazi[5], anche Marco Revelli
riassume, a beneficio dei distratti, l’imponente curriculum del banchiere italiano.
Ripercorrendo senza alcuno sconto, che del resto non merita, la sua carriera
post universitaria, dopo essere diventato ordinario ad appena 33 anni (come del
resto capita, anno più anno meno, anche a Mario Monti), segno inconfondibile di
una buona base di potere, il nostro dal 1991 è direttamente chiamato a
ricoprire il ruolo di Direttore Generale del Ministero del Tesoro da Guido
Carli[6], che era ministro del
governo Andreotti VII dopo una carriera importante. Viene quindi chiamato,
ripeto sempre a beneficio dei distratti, da uno dei ministri e futuri Governatori
della Banca d’Italia che contribuisce alla
costruzione del vincolo esterno e l’ingresso dell’Italia in Maastricht[7], direttamente in un ruolo
che altri raggiungono, se mai, dopo decenni di duro lavoro. Ha 43 anni. Ben sei
governi successivi lo confermeranno, incluso il governo di sinistra di Massimo
d’Alema. Ma Draghi di sinistra non è mai stato. Si tratta certamente della
figura più profondamente organica nella filiera di potere tecnocratica che ha concepito,
organizzato ed eseguito lo smantellamento in Italia delle strutture dell’economia
mista del dopoguerra, e per questo portato il paese dentro il “vincolo esterno”,
al fine di impedire che l’influenza politica dei lavoratori e delle loro
organizzazioni potesse mettere in discussione la cosa.
Bene
fa Revelli a ricordare. Come fa bene a ricordare che fu in questa veste che un
lucidissimo gran funzionario di stato, quale lui era, predispose, indirizzò,
ed eseguì la campagna di privatizzazioni, dirette da grandi banche di
affari estere a vantaggio del salotto buono dell’imprenditoria nazionale, (Iri,
Telecom, Comit, Credit, Eni, Enel, …) per 182,000 miliardi di lire. Un patrimonio
dal valore di gran lunga superiore, con ogni probabilità. Nel 1992 fu lui a
tenere il famoso discorso
sul Britannia. In esso, ricorda Revelli, dichiarò di sapere che avrebbe “indebolito
la capacità del Governo di perseguire alcuni obiettivi non di mercato, come la
riduzione della disoccupazione e la promozione dello sviluppo regionale”, ma lo
riteneva “inevitabile perché innescato dall’aumento dell’integrazione europea”. Compiuta
la missione, nel 2002 transitò in una grande banca d’Affari, la Goldman Sachs,
impegnandosi a vendere titoli derivati a stati sovrani (tra cui la Grecia). Nel
2005 questi meriti lo portarono alla carica decisiva di Governatore della Banca
d’Italia, per sei anni. Da qui alla Bce.
Quello
che Francesco Cossiga, come ricorderà Revelli, chiamerà un “vile affarista”,
cofirma la lettera con Trichet[8] che apre in Italia la
stagione dell’austerità selvaggia ed è tra i progettisti del Fiscal Compact,
idea peraltro lanciata formalmente da lui. In quella occasione disse che “Non
c’è alternativa al consolidamento fiscale, il modello sociale europeo
appartiene già al passato”. Assume un ruolo decisivo, insieme alle grandi
banche private tedesche e francesi, nel costringere alle dimissioni Berlusconi
quando interrompe l’acquisto dei titoli italiani nel bel mezzo di un attacco,
facendo schizzare in alto lo spread[9]. Nel 2015 la macchia
peggiore, rossa, sulla sua giacca. È Draghi che dirige, di sponda ai tedeschi e
con la complicità di tutti i governi europei, Italia di Matteo Renzi in testa, il
massacro greco[10].
Il momento della resa arrivò precisamente quando inopinatamente, tagliò l’Ela,
ovvero le linee di liquidità di emergenza al governo che aveva osato rivolgersi
agli elettori[11].
Come
capita a Thomas Fazi, anche Marco Revelli ricorda tutto ciò non per rubare il
mestiere agli storici, ma perché sente puzza di possibile governo tecnico di
unità nazionale. Non aiutano a liberare le nostre narici dichiarazioni come
quella di Renzi, Salvini, e persino Mariastella Gelmini.
Hanno
sicuramente buon naso.
Facendosi
guidare da questa intuizione, e dalla sicura guida del passato, entrambi seguono la
linea di leggere la lettera tra le righe. Revelli è leggermente più
generoso, e, un poco come avevo fatto anche io, individua anche gli elementi di
innovazione. Del resto, qui non siamo al cospetto di un esecutore, ma di uno
dei più creativi e consapevoli progettisti dell’ordine ordoliberale che ha
stretto l’Italia e l’Europa in questi anni. Se è vero che ci sono elementi di
innovazione nel testo ci sono anche ben calibrate ambiguità. Draghi dice
che i debiti, privati, vanno assorbiti nel bilancio pubblico, dunque lo Stato
soccorre, ma soprattutto aiuta il capitale. Dice che il debito pubblico
salirà, ed in modo “permanente”, ma non specifica esattamente come sarà
gestito. Dice che bisogna proteggere le persone dalla perdita di lavoro, ma non
dice che il lavoro stesso andrà reso più forte, meno fragile, anzi ha
sempre detto il contrario per i primi cinquanta anni della sua carriera. Dice,
ancora, che le banche potranno creare denaro istantaneamente e senza coperture,
aderendo alla teoria endogena della moneta, ma lo adopera per salvare le
imprese, non per potenziare l’azione pubblica diretta. Dice che il debito
andrebbe cancellato, eventualmente, e per questo assunto dal bilancio pubblico,
ma non che per questo servizio ci dovrà essere una contropartita pubblica.
Specifica che la salita del debito dovrà essere ottenuta senza aumentare i
costi del servizio, ma non dice come.
Quindi
lo schema è di richiedere, davanti alla mutata situazione, un maggiore livello
di debito pubblico, e come “caratteristica permanente delle economie”. E un
livello più alto di debito pubblico, è ovvio, implica l’assorbimento, in un
modo o nell’altro, del debito privato, spingendosi fino a indicarne proprio “la
cancellazione”. Ma tutto ciò resta aperto a diversi esiti e meccanismi.
L’indispensabile
soccorso che solo lo Stato può prestare per riparare i danni che le risposte
pubbliche al coronavirus stanno generando ovunque nel mondo in grandi linee può
avvenire tramite un’enorme espansione della spesa pubblica diretta ed un
processo di assorbimento degli assett privati (industrie, beni, aziende) nel
patrimonio pubblico o a partecipazione pubblica. Oppure può avvenire attraverso
la fornitura di garanzie pubbliche alle attività private, in modo da lasciarle
operare come prima.
Draghi
sceglie la seconda strada, che ha il pregio della semplicità e velocità, ma il
difetto della conservazione dell’ordine esistente (è chiaro che per il nostro è
un pregio).
Da
progettista dell’ordine neoliberale e da uomo della finanza l’agente di questo
salvataggio per lui sono le banche. Queste, scrive, devono prestare i soldi
rapidamente ed a tutti, senza verifiche, perché tale è l’urgenza del momento. Fondi
a costo zero e quindi necessariamente garantiti dallo Stato.
Nel
nuovo mondo che prefigura, insomma, lo Stato è centrale, ma sta dietro le
quinte.
Draghi
si propone di guidare una sorta di ritirata tattica dall’ordine neoliberale che
esso stesso ha concepito, progettato e costruito.
Questo
è giustamente il passaggio che fa saltare in piedi Marco Revelli. Tutte le perdite
private, attraverso le banche private, devono essere assorbite dal debito dello
Stato.
Cosa
ne conclude? Che:
“Nulla lascia intendere
– in questo ordine del discorso – che ci sia una sia pur minima possibilità per
l’apertura di canali di erogazione diretta di risorse dalle finanze pubbliche
al sociale. O per l’ipotesi – sia pur estrema – di una qualche riappropriazione
di risorse finanziarie, organizzative, operative da parte del settore pubblico
in forma di nazionalizzazione o di partecipazione societaria (tipo Iri delle
origini, o National Recovery Act roosweltiano). Il Capitale
rimane integralmente privato e mantiene appunto il monopolio della
distribuzione di risorse collettive. Per questo mi sento di dire che il ‘paradigma
liberista’ rimane alla fine intatto, pur nel passaggio d’epoca. E che il
vecchio motto proprietario: ‘privatizzare i benefici nei tempi di vacche grasse
e socializzare le perdite in tempi difficili’ finisce per rivelarsi – pur nella
metamorfosi del linguaggio – tutto sommato intatto”.
Decisamente
corretto. Casomai si potrebbe discutere se questo sia ancora “neoliberale”,
o solo “liberista”, ma sono sfumature, basta il “tutto sommato”.
Dello
stesso avviso è Thomas Fazi:
“Mi dispiace deludervi,
ma Draghi non è improvvisamente diventato un novello Keynes da un giorno
all’altro. Più banalmente, Draghi sta invocando quella che è la strategia
da manuale del buon liberista: privatizzare i profitti in tempo di “pace”
(attraverso politiche di austerità a vantaggio del grande capitale ecc.) e
socializzare le perdite in tempo di “guerra”, attraverso un’espansione della
spesa pubblica – ovviamente a debito – per tenere a galla il grande capitale
(istituti finanziari in primis), esattamente come è accaduto nel 2007-2009.
Passata la bufera si potrà poi tornare allegramente a privatizzare i profitti
con ancora più veemenza di prima, adducendo proprio l’aumento del debito come
scusa per implementare politiche di austerità ancora più severe,
esattamente come è accaduto del decennio post-2007”.
E’
vero che questa linea potrebbe per ora contare su un atteggiamento
accondiscendente (se lo sia lo scopriremo prestissimo) della Bce, nel cui Board
i nove firmatari della lettera di cui abbiamo parlato qualche giorno fa sono
maggioranza. Ma è pur vero che le maggioranze non durano in eterno, e un monte
enorme di debiti detenuti o comunque circolanti e nel perimetro regolatorio
della Bce possono sempre diventare un’arma. Lo Stato che assume maggiore
protagonismo resta comunque sempre sotto ricatto potenziale.
Questo
è il punto dirimente per Thomas Fazi, la spesa deve essere diretta e deve
essere monetizzata[12].
E’
assolutamente vero, ma, attenzione, nel breve termine questa alternativa,
nazionalizzazioni in una nuova Iri o erogazioni da parte di una banca pubblica,
creazione diretta di lavoro, investimenti diretti e massivi, ha due problemi. Tutto
questo è totalmente necessario ma contemporaneamente è obiettivamente più
complesso da implementare (ci vogliono mesi per concepirlo, progettarlo, eseguirlo)
e soprattutto nell’immediato è molto più costoso (mentre le garanzie diventano
spesa alla scadenza, poniamo 24 mesi, l’intervento diretto lo diventa subito).
Abbiamo
davanti un dilemma con forti implicazioni politiche e pratiche.
Le implicazioni politiche vanno in una direzione (valorizzando il potenziamento
dell’azione pubblica democratica e del ruolo dei lavoratori), le esigenze pratiche
in un’altra (la rapidità dell’azione nel quadro giuridico e di potere esistente).
Bisogna, in altre parole, prestare aiuto concreto ed immediato ed al contempo
non perdere l’occasione per cambiare effettivamente il quadro esistente. Senza il
quale cambiamento saremo sempre a ricadere negli stessi problemi. Un modo per quadrare
il cerchio, senza ricadere nell’errore dei “due tempi”[13], può essere di modificare
lo schema base in un punto decisivo, come piace dire ai neoliberali: nelle “condizionalità”.
Mentre si modificano le norme che, con grande accuratezza e pervasività,
ostacolano la creazione di una finanza realmente pubblica e un maggior protagonismo
diretto dello Stato, bisogna agire qui ed ora per fornire soccorso. Al
contempo, non in un secondo momento, bisogna modificare la struttura del mercato
(quel che in un mio post di qualche giorno fa ho chiamato “riorganizzazione”[14]) e i rapporti tra le
classi. Quasi tutti i paesi del mondo, Cina inclusa, hanno messo nella cassetta
degli attrezzi una notevole espansione del credito a garanzia pubblica. Perché
si fa prima ad usare quel che c'è. La differenza è nelle condizioni. Ad
esempio, se il prestito garantito dallo Stato fosse accompagnato (da una certa
soglia in su) da un pegno sulla proprietà, o su sua quota parte, da collocare
in un veicolo esistente (Cdp o Invitalia) potrebbe essere accettabile? In
questo modo quando lo Stato fosse chiamato ad onorare la garanzia, per
insolvenza della controparte, allo stesso tempo a fronte dell'erogazione
avrebbe la proprietà o un “golden share” con il quale avviare le politiche
industriali necessarie. A quel punto sarebbe utile, per implementarle, aver
preparato una banca pubblica e riguadagnato la sovranità monetaria (al contempo
retrocedendo la separazione tra Banca Centrale e Tesoro). Naturalmente questo
stesso meccanismo dovrebbe valere per le banche se fossero esse ad aver bisogno
di credito garantito dallo Stato.
Se
non affronta il tema indicato, però, Marco Revelli nel finale mi sorprende.
L’indefettibile difensore dell’Europa (certo “altra”) ora si accorge di cosa è
diventata, ed usa parole dure. Addirittura, qualifica i paladini nordici di
quella austerità che in altre vesti il nostro ha proprio progettato, come “infinitamente
peggiori di lui”.
“fautori dell’austerity
a oltranza, i difensori oltre tempo massino del fiscal compact e
dei suoi annessi, il Fronte del Nord, Cancellerie e Banchieri centrali
tedeschi, olandesi, finlandesi, austriaci, catafratti nella loro arcigna difesa
di un effimero rigore nei conti fatti senza osti. Un branco di lupi travestiti
da mezzemaniche: miopi, cinici, avari, privi di visione e di ragione, sempre
col regolo calcolatore a portata di mano come l’ “uomo senza qualità” di Musil,
incapaci di imparare da storia e filosofia chiusi come sono nelle
ragionieristiche piccole regole che un microscopico corpuscolo ha già travolto”.
Anche
questi sono riposizionamenti.
[1] - Si veda: Marco Revelli, “Poveri
noi”, 2010; “Dentro
e contro, quando il populismo è al governo”, 2016; “Populismo
2.0”, 2017; “Turbopopulismo”,
2019.
[3] - Il 22 agosto 2014, Mario Draghi,
Presidente della BCE, pronunciò a Jackson Hall, davanti ai banchieri centrali
di tutto il mondo, un discorso importante, che riaffermò e precisò la linea da
seguire. La mia prima reazione fu affidata al post “Il
pollo di Trilussa e Mario Draghi”. Ciò che fece Draghi in quella occasione
fu di riconoscere che la crisi si orientava verso la deflazione, che dipendeva
da una insufficienza cronica di domanda, dei fallimenti della politica
monetaria normale, e che a fianco delle politiche strutturali dell’offerta è
necessario trovare uno spazio a politiche fiscali di stimolo. Si può vedere
anche “Francesco
Saraceno, “Europa germanizzata”, ed il commento quasi in tempo reale di
Martin Wolf, “Come
salvare il capitalismo da se stesso”.
[4] - Le parole whatever it takes
furono pronunciate da Mario Draghi il 26 luglio 2012 durante un suo intervento
alla Global Investment Conference tenutasi a Londra, con una platea formata da
investitori e dirigenti d’azienda. La frase è “within our mandate, the ECB is
ready to do whatever it takes to preserve the euro. And believe me, it will be
enough”.
[5] - Thomas Fazi, “Draghi
contro Draghi”.
[6] - Guido Carli (1914-1993) è stato
una delle figure chiave della prima repubblica. Nella sua lunga carriera, il
figlio di una importante figura tecnica del fascismo sociologo ed autore del libro
che pose le basi teoriche dello stato corporativo, tenne sempre una posizione
di supporto convinto e determinante della trasformazione liberale della società
italiana. Iniziò la carriera sotto il fascismo stesso come funzionario dell’Iri,
poi nel Fondo Monetario Internazionale ai suoi esordi, nel 1953 è Presidente
del Mediocredito e subito, a 43 anni diventa Ministro del Commercio con l’Estero,
e dal 1959 Direttore generale della Banca d’Italia, dal 1960 Governatore. Resta
nella carica fino al 1975, l’anno successivo è Presidente di Confindustria
nella quale tiene rigorosamente una posizione di scontro con le rivendicazioni
operaie. Nel 1983 è senatore con la Dc e diventa Ministro del Tesoro con i
governi VI e VII di Andreotti. E’ ora che chiama Draghi. È a capo della
delegazione che negozia Maastricht. Si veda Giuseppe Berta, “Oligarchie.
Il mondo in mano a pochi”, 2014.
[7] - Come ricorda Berti nel libro citato nella nota
precedente, Carli conduce la trattativa nella convinzione,
maturata da lungo tempo, che l’Italia non potrà “riformarsi” da se stessa,
secondo le auspicate linee liberali, senza essere costretta a
ciò da vincoli istituzionali indisponibili alle pressioni sociali. Per questa
ragione è per lui assolutamente necessario creare “un vincolo giuridico
internazionale” per ripristinare una “sana finanza pubblica”. Secondo la sua
visione, ancora oggi fortemente condivisa, lo stato dei conti e la stessa
nazione ha bisogno di assoggettarsi ad un’autorità sovranazionale, “per
sottoporre a disciplina i comportamenti di partiti e società” (come scrive
Berti). La società italiana gli appare, infatti, in quegli anni “frammentata,
lacerata, disorganica”, con una vita politica bloccata e indifferente. Partendo
da questa analisi Carli vede nel Trattato di Maastricht lo
strumento per dare il necessario “scossone violento” che altrimenti solo un
regime autoritario, come quello fascista, potrebbe dare (risposta dello stesso
a chi lo invitava a maggiore azione nel suo ruolo di Ministro, p.100).
Lucidamente Carli vede quindi che la ‘posta in gioco’ del Trattato è ‘la
riforma del potere’; cioè “la drastica riduzione del potere dei governi
nazionali” alla quale, in una delle più incredibili e illuminanti affermazioni
riportate nell’utile libro di Berta, Carli fa corrispondere nella sua
valutazione “un accrescimento del potere decisionale dei singoli cittadini”.
Qui c’è il nodo
ideologico, ed operativo, della costruzione della nuova Europa. Carli intende esattamente che l’indebolimento del potere
dei Governi Nazionali (e dunque dei Partiti e dei Parlamenti democratici, ma
anche delle organizzazioni sociali che influenzano la sfera pubblica nazionale)
sia bilanciato da un maggiore ‘potere’ dei ‘singoli’ cittadini abilitati a ‘decidere’. Cosa? Cosa
possono ‘decidere’ i “singoli” che restano tali, cioè che non si organizzano o
associano, che non partecipano a processi politici? Lo dice lui stesso, con
impareggiabile chiarezza di pensiero e franchezza, il potere residuale è nel
diritto di investire i propri soldi nel debito pubblico o
altrove. È chiaro dunque cosa rende realmente ‘cittadino’ per il nostro, il
possesso di una significativa quantità di denaro e lo rende in modo proporzionale
ad esso. In altre parole, la democrazia che resta è quella “dei mercati” e
l'azionabilità è per censo. Con le sue parole: la “sintesi politica” è data dal
“permanere del debito pubblico nei portafogli delle famiglie italiane, per una
libera scelta, senza costrizioni, [cosa che] rappresenta la garanzia per la
continuazione della democrazia” (p. 100, da G.Carli, Cinquant’anni di
vita italiana, Laterza 1993, p. 386-7).
[8] - L’elenco, riportato da Fazi, è: “una
profonda revisione della pubblica amministrazione”, compresa “la piena liberalizzazione
dei servizi pubblici locali”, “privatizzazioni su larga scala”, “la riduzione
del costo dei dipendenti pubblici, se necessario attraverso la riduzione dei
salari”, “la riforma del sistema di contrattazione collettiva nazionale”,
“criteri più rigorosi per le pensioni di anzianità” e persino “riforme
costituzionali che inaspriscano le regole fiscali”. Tutto ciò, si sosteneva,
era necessario per “ripristinare la fiducia degli investitori”. Si veda “Mario
Draghi e Jean-Claude Trichet, Lettera al governo italiano, 5 agosto 2011”.
[9] - Per una sintetica descrizione,
ma di parte non sospettabile, di quel passaggio si vedano le dichiarazioni di
Hans-Werner Sinn in “Spirale
verso il basso dell’Italia”.
[10] - Per farsene un’idea si veda il
documentario Piigs. The Movie.
[11] - Si veda “L’accordo
cartaginese e la Grecia”.
[12] - Scrive: “Il senso
dell’intervento di Draghi sta tutto qui. Tra l’altro, l’invito di Draghi a
“fare tutto il debito di cui c’è bisogno” è ancora più inquietante nella misura
in cui l’Italia, come gli altri paesi dell’eurozona, si indebita in quella che di fatto è
una valuta estera,
il che significa che un domani i cittadini italiani saranno chiamati a compiere
sacrifici immani per ripagare ogni singolo centesimo, non potendo contare su una banca
centrale pronta a monetizzare una parte del debito all’occorrenza. Tutto ciò è
inaccettabile. Come sostenuto persino in un editoriale di qualche giorno fa
uscito sempre sul Financial Times, serve un radicale cambio di paradigma: tutte le
spese necessarie per fronteggiare l’emergenza COVID-19, invece di
essere finanziate a debito,
dovrebbero essere monetizzate direttamente dalle banche centrali dei rispettivi
Paesi, cioè non dovrebbero prevedere un rimborso futuro da parte degli Stati.
Il senso è chiaro: questa guerra i cittadini la stanno già combattendo in prima
linea, è inaccettabile che siano chiamati anche a pagarla di tasca propria.
Questa è la soluzione che dovremmo reclamare a gran
voce – traendone le dovute conclusioni nel caso in cui la BCE dovesse
rifiutarsi di farlo – invece di farci incantare dalle pericolosissime sirene di
Draghi”.
[13]
- La politica dei “due tempi”
fu scelta dal Pci nell’immediato dopoguerra. Prima ricostruire il paese, garantendo
che gli operai sarebbero stati responsabili e il processo di riproduzione del
capitale salvaguardato, in modo da poter avere investimenti, poi, avuta una
qualche ricchezza, procedere alla redistribuzione. Ovviamente il secondo tempo
non venne mai e furono necessari i cicli di lotta degli anni sessanta e
settanta per strappare qualcosa. Esattamente quei cicli che la coppia
Carli-Draghi ha provveduto a neutralizzare.
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