Un
breve
post su Huffpost, quindi di larga diffusione, del politologo (sì, uso il
neutro) Nadia Urbinati che mi è più volte capitato di commentare, spesso con
apprezzamento per le sue tesi sempre dense ed interessanti.
In
questo breve post ci sono molti strati di lettura, alcuni condivisibili, ma c’è
un nucleo duro questionabile e c’è una struttura retorica tanto forte quanto
irresponsabile.
Parto
dal condivisibile.
Le
istituzioni sono colpevoli, collettivamente ed individualmente. Senza dubbio.
Sono colpevoli di aver smantellato per anni le capacità di reazione e
prevenzione del nostro sistema sanitario nazionale, in parte demandandole al privato
e, in misura maggiore, semplicemente riducendone i finanziamenti e l’efficacia.
Questo è quel che sostiene la Urbinati e io lo credo vero. Il nostro sistema è
stato, come dice, “maltrattato e indebolito”. La regione Lombardia aveva ormai
un ventilatore ogni quattromila abitanti, negli anni di austerità sono stati
tagliati venticinquemila posti letto, l’Italia per posti in terapia intensiva è
al diciannovesimo posto tra i paesi Ocse, ma per Pil è al nono, la Germania ne
ha il triplo per abitante. Più di noi l’Irlanda, la Finlandia, l’Olanda, la
Francia, il Portogallo, la Lettonia, l’Estonia, la Grecia, il Lussemburgo, la
Repubblica Ceca, la Slovenia, l’Ungheria, la Polonia, la Slovacchia, il Belgio,
l’Austria, la Lituania e la Germania (in ordine ascendente). Meno di noi solo
la Spagna, la Danimarca, il Regno Unito e la Svezia (in ordine discendente).
Quindi
l’amnesia per le scelte, che lamenta nel suo post Urbinati, c’è. E si ascrive a
tutti i governi della prima e seconda repubblica, che, crescentemente, hanno
fatto venire in primo piano le ragioni della stabilità monetaria, i timori per ‘i
mercati’, la paura del debito pubblico, dimenticando la simmetrica crescita di
quello privato, che hanno difeso a spada tratta i “vincoli esterni”, il sogno
europeo anche quando si manifestava come incubo per troppi.
Peraltro,
una qualche responsabilità un giorno bisognerà anche rintracciarla nel modo
abbastanza confuso, esitante, contraddittorio, con il quale il nostro
complessivo sistema istituzionale ha trattato la cosa al suo esordio, prima di
decidersi e per il modo in cui poi lo ha fatto. Intendo che il governo,
avendo informazioni almeno da gennaio, se non prima, ha aspettato oltre un mese
ad agire, e nel frattempo è sembrato abbastanza inerte. Probabilmente ci sono due
spiegazioni, che però, davanti all’enormità della cosa non fanno adeguato
argine: la prima è che ogni organizzazione agisce principalmente per
sopravvivere, quando la sua esistenza è in gioco; la seconda è che l’inerzia
amministrativa, con i tantissimi centri di potere politici e istituzionali e il
cattivo disegno di competenze ereditato dalle pasticciate riforme costituzionali
degli ultimi anni, hanno determinato una serie di conflitti di attribuzione che
ad un certo punto sono stati “forzati”, ma per forzare ci vuole l’assoluta
emergenza, dunque si è dovuto attendere. Questo tempo perso ora pesa in termini
di contagiati, morti e di allarme sociale.
Dovremmo
sentire autocritiche come vorrebbe la Urbinati? Magari,
ma per la stessa ragione, sopravvivere, per la quale hanno agito male ed in
ritardo, non le faranno. Quel compito dunque spetta a noi. Anche a Nadia
Urbinati, che bene fa in generale ad esercitarlo, e potrebbe anche cominciare
dai suoi decennali appoggi ai governi euroentusiasti e quindi filo austerità. Ma
diciamo pure che chi è senza peccato scagli la prima pietra, e asteniamoci.
Ma
qui ed ora dovremmo temere l’espansione della “mentalità dispotica”,
come dice? E la dovremmo temere più delle norme emergenziali, come sostiene? Anche
qui si può certo concordare, dove si cerca di far passare una mentalità
dispotica, come il Presidente della Regione Lombardia (e della Campania, se è
per questo) a tratti fanno, in alcuni toni di politici sopra le righe, bisogna avere
alta l’attenzione. Del resto cercano di superare Conte nel ruolo del protettore
pubblico, puntano ad investirsi della funzione simbolica della sovranità, si
potrebbe dire di incarnare il corpo del Re. In questa brutta gara, anche essa frutto
avvelenato del cattivo disegno istituzionale che mette in competizione le
diverse regioni e queste con il governo nazionale, perdiamo tutti. E perde
anche e soprattutto l’autorità pubblica, che assume un tono stridulo che Nadia
Urbinati fa bene a sottolineare.
Si
smetta questa stupida gara, si graduino meglio le misure e si evitino misure
eccessive e controproducenti (ad esempio è molto incerta l’utilità sistemica, e
certa l’inutilità sanitaria, di impedire anche le brevi passeggiate solitarie,
almeno nei luoghi nei quali la diffusione è ancora bassa e la densità abitativa
non è eccessiva[1]).
Fin
qui dunque tutto bene.
Dove
non sono in accordo con lei.
In
primo luogo per la veste retorica con la quale presenta il suo argomento.
Parte
da un brusco intervento del Presidente lombardo che in effetti la mette molto
male: “Sì è vero, lo stato di diritto sta saltando; sì è vero, le nostre
libertà sono decurtate al massimo. Ma si tratta di scegliere: o la vita o la
libertà; e ancora più, o il sacrificio per gli altri o la nostra libertà”. Tuttavia
la nostra politologa potrebbe appuntare l’attenzione sulla prima parte della
frase, invero grave e anche eccessiva (lo stato di diritto non sta saltando,
esso è tutelato se gli organi costituzionali prendono decisioni secondo le
procedure, o quanto vicini alle procedure consente la situazione), invece si
concentra sulla seconda “o la vita o la libertà”, che è chiaramente da
intendere in senso debole e come artificio retorico e non in senso letterale e
come minaccia (“o la borsa o la vita”). Qui si tratta solo di mettere a
confronto la vita di alcuni con la limitazione temporanea di alcune
libertà esteriori di tutti. Una limitazione prevista dalla Costituzione per
casi simili[2].
Ma
la Urbinati sceglie invece, diagonalmente, di sovrapporre alla comunicazione
del Presidente l’autoritarismo di suo padre, quando era bambina. Ovvero
identifica la comunicazione della regione Lombardia con una forma di patriarcato.
Il fatto è che, magari con termini sbagliati, la regione teme il crollo
verticale delle sue capacità di cura, peraltro abbondantemente in corso[3], e quindi spinge per
proporre misure più stringenti dopo aver riempito di malati le regioni vicine. Ieri
Angela Merkel, che uomo non è, ha fatto un duro e deciso discorso alla nazione
annunciando progressive misure protettive[4]. È patriarcato? No, è
semplice logica di autodifesa. Le istituzioni cercano di sopravvivere e
temono l’arrivo di un’onda di piena per la quale i loro argini, di cui possono
misurare l’altezza, non sono sufficienti. Alcuni modelli che ho visto stimano
fino alla fine di questa crisi, stando così le cose, quarantamila morti e duecentocinquantamila
contagiati. Magari, anzi sicuramente, esagerano, ma la dinamica dell’emersione
della malattia è distanziata di almeno due, se non tre, settimane dal momento
del contatto con l’agente, quindi come facciamo a sapere cosa sta arrivando? Quale
élite politica e quale struttura amministrativa sopravviverebbe se non avesse almeno
fatto e detto il massimo? Intendiamoci, questa struttura politica e questa
amministrazione della sanità non merita di sopravvivere. Ma deve cadere adesso?
Questo è più problematico dirlo. Faremo i conti a tempo debito.
Ma
comunque il patriarcato non c’entra, lei lo sa e usa solo un’entrata retorica
ad effetto. Che le serve per spostare l’attenzione sulla responsabilità delle istituzioni
in modo da poter dire che il rischio finale è “la repressione militare e lo
Stato di polizia”. L’allargarsi, cioè, di una “mentalità dispotica”.
Anche
qui chiariamo subito: questo rischio potrebbe anche esserci, se c’è va
combattuto. Ma quel che potrebbe portarci a questo punto estremo non sono tanto
le improvvide parole di un politicante che farebbe bene a non essere lì, come
quello campano. Non misure severe che sacrificano l’economico alla salvezza
dell’ordine e alla sopravvivenza del sociale. Non i sacrifici individuali ai
quali sono chiamati i cittadini, per garantirlo. È proprio l’allargarsi
della paura quando si dovesse percepire che siamo abbandonati a noi stessi dal
sociale e dal nostro comune incarnato in istituzioni e macchine tecniche
specializzate (come l’enorme macchina del SSN). In queste condizioni l’ordine
sociale si dissolve, alcuni casi a noi molto vicini nel tempo e nello
spazio, dall’altra parte dell’Adriatico[5], mostrano cosa accadrebbe
quando i territori cominciano ad organizzarsi ognuno per proprio conto, a
contendersi le risorse, a frammentarsi per bande. Quando il SSN dell’arco
alpino dovesse respingere i malati locali in imminente pericolo di vita per
salvare solo i locali, o quando fosse il contrario. Quando i medici siciliani
distaccati fossero richiamati. Quando mio figlio fosse a casa in preda a crisi
respiratorie forse fatali, mentre alcuni vicini sono già morti, e l’ospedale
pieno di anziani magari milanesi lo rifiutasse. Quando mia madre stesse per
morire e l’ospedale pieno di giovanotti a minore rischio la rifiutasse. Quando
da casa mia sentissi solo ambulanze e campane dei funerali. Quando ciò
accadesse a migliaia di persone, a decine di migliaia.
L’ordine
sociale è il nostro principale bene comune. Lo consideriamo ovvio, ci siamo nati
dentro e ci pare parte della natura, ma non lo è. E’ un costrutto complesso e
delicato. Studiamo al liceo Tucidide, che si ricorda cosa succede quando crolla[6].
Qui
c’è il punto più profondo di dissenso, in realtà qui c’è il vero dissenso
con la posizione di Nadia Urbinati: se è vero che la responsabilità delle
istituzioni c’è, e se è vero che devono rispondere, tuttavia la “libertà” non è
un attributo naturale ed originario, dei cittadini, come il respiro lo è dei
viventi. Scrive la politologa della Columbia University in due punti dirimenti:
“Sembra di capire che la responsabilità di tutto ricada sui cittadini –
abituati alla loro libertà, che reclamano il bisogno di fare un po’ di
moto”, e “Se la nostra libertà è il problema, allora c’è poco altro da
dire”. Questa è una chiara formulazione del non detto liberale per il quale l’individuo
è completo e formato prima della società, e che quindi questa è qualcosa
di esteriore rispetto ad esso, una sorta di utensile nelle sue mani[7]. Il diritto antecede al
sociale, come scrive John Rawls nella sua opera maggiore[8], “i diritti assicurati
dalla giustizia non sono soggetti al calcolo degli interessi sociali, ma
in effetti essi funzionano come briscole nelle mani degli individui”.
La libertà, del cittadino (che è l’unica che conosciamo e probabilmente
l’unica possibile[9]),
non precede i vincoli sociali e la reciproca solidarietà, il comune e l’essere
insieme gli-uni-per-gli-altri, ma ne è creata. Non è dunque “nostra”, i
cittadini non sono effettivamente abituati alla “loro” libertà, ma sono
abituati, anche se spesso non se ne accorgono fino a che l’ordine sociale permane,
a darsela gli uni con gli altri la libertà. Al reciproco riconoscersela. Nel riconoscersela
la creano.
Insomma.
è questo che non condivido, si usa una retorica pericolosa e fuorviante. Lo si
fa per proteggere la “libertà”, forzando le parole del Presidente, lo si fa per
proteggere “l’economia”, temendo conseguenze dure, lo si fa per proteggere “il
diritto e la democrazia”, temendo il dispotismo. Ma si rischia di provocare
quel che si teme. L’effetto non voluto di una protezione di libertà,
economia e diritto se mal intesi può essere il crollo, sotto la spinta della
paura, del discredito e del tradimento subito, del patto di protezione sociale.
Quindi l’effetto può essere l’insorgere dello stato di caos, del disordine di
tutti contro tutti, il crollo delle infrastrutture (anche quelle più ovvie) e a
causa di ciò la reazione. Davanti al baratro che si spalanca sotto i loro piedi
saranno gli stessi “liberi” a chiedere quel che Nadia Urbinati teme. È davanti
alla disgregazione ed alla putrefazione degli ordini sociali e politici che
chiesero in Germania l’uomo forte.
Non
lo chiesero perché si sentivano troppo protetti, ma perché avevano paura di
essere abbandonati al caos[10].
Il
rischio esiste. Ma questo testo lo accentua.
[1] - Alcune norme
hanno la ragione che il comportamento di un singolo può non essere pericoloso,
ma se lo fanno tutti diventa dannosissimo eccedendo le capacità di sostegno dei
nostri sistemi. Altre per l’effetto di allentamento e le difficoltà a rilevare
gli abusi, quando diventano di massa. Due ragioni che militano in favore dell’Ordinanza
con la quale il Presidente della regione Campania ha proibito per tutti ed
indifferentemente, a Napoli centro come nell’ultimo paesino agricolo
beneventano, le passeggiate per motivi sportivi. Tuttavia è del tutto pacifico
che se io passeggio sul lungomare di Napoli, che è bellissimo, in una bella giornata
di sole da solo e poi torno a casa non metto in pericolo nessuno. Dato che
abito a breve distanza posso attestare che è una abitudine consolidata, anche
se non di massa. Una pratica che produce solo effetti positivi, sull’umore, sulla
tenuta sociale, sulla salute, particolarmente rilevanti se si deve conservare a
lungo la condizione di “distanziamento sociale”. Ma c’è un altro lato della
cosa, se la passeggiata sul lungomare la fanno tutti gli abitanti del quartiere
Chiaia (40.000 residenti) avremo una densità di, più o meno, diecimila persone
per miglio e chiaramente questo è abbastanza vicino alla definizione di assembramento.
Allora diventa veicolo di contagio. Il secondo argomento con cui ho iniziato,
la difficoltà a reprimere gli abusi, diventa cruciale. Per cui ci vogliono dei
criteri e ci vuole un minimo di disciplina, cosa che implica anche di autorità.
[2] - Si veda l’art
16: “Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in
qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge
stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza.
Nessuna restrizione può essere determinata da ragioni
politiche. Ogni cittadino è libero di uscire dal territorio della
Repubblica e di rientrarvi, salvo gli obblighi di legge.”
[3] - Come mostra la
tragica progressione dei morti che accelerano giorno su giorno ben più dei
nuovi casi.
[5] - Ovviamente mi
riferisco alle guerre jugoslave degli anni novanta.
[6] - Il III libro
delle “Storie” di Tucidide racconta la guerra civile a Corcira, ma può essere
ricordata anche la narrazione della peste di Atene nel II libro. Si veda per un’attualizzazione
applicata al caso inglese, questo intervento del medico e dirigente della
sanità lombarda fino alla pensione Giuseppe Imbalzato “I
costi del non fare o del non fare bene”.
[7] - La particolare
mentalità liberale non vede alternativa in questa relazione tra soggetto ed
oggetto, anzi tra oggetti: o la società è uno strumento nelle mani dell’individuo
o questo lo è nelle sue mani. O libertà o dispotismo.
[9] - La libertà
nello stato di natura idealizzato, al di là delle robinsonate care alla
tradizione liberale, è puramente necessità, e quindi è totalmente priva di
libertà. Quella nello stato di natura storicamente dato è sempre cultura.
[10] - Si veda questo
documento, Werner Sombart, “L’avvenire
del capitalismo”, conferenza del 1932.
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