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lunedì 23 marzo 2020

Disorganizzazione e riorganizzazione. Coronavirus e cronache del crollo.





Il DPCM 22 marzo 2020 ha compiuto un ulteriore e forse decisivo passo verso il blocco di ogni attività produttiva nel paese. Ancora una volta siamo un passo avanti di ogni altro paese occidentale, un passo verso un baratro o verso la soluzione della crisi. Dopo una lunga trattativa con i sindacati, che volevano una chiusura molto più ampia, e le altre componenti del mondo industriale, che la volevano minore, si è deciso di chiudere. Quindi saranno arrestate tutta la filiera dei metalli, il noleggio automezzi, parte dell’industriale metalmeccanica, parte del tessile, l’attività estrattiva (meno quella degli idrocarburi), il settore delle costruzioni, la fabbricazione di mobili, etc. Tutti settori che andranno ad aggiungersi al commercio che era stato già fermato.
Restano aperti gli studi professionali, la stampa, i tabaccai, la filiera agroindustriale, e la fabbricazione di macchine al suo servizio, parte del tessile, la chimica e la farmaceutica, il settore elettrico e la relativa componentistica, il settore della depurazione ed igiene, i contact center, tutte le attività di trasporto connesse, le attività finanziarie, la ricerca, riparazioni e manutenzioni, aerospazio e difesa.

Il Presidente Conte ha detto, in sostanza, che resteranno chiuse le attività “non necessarie” e che lo Stato fornirà tutto l’aiuto che serve.




Un sistema produttivo ed economico altamente finanziarizzato e interconnesso, come quello che ci ha lasciato in dote la mondializzazione degli ultimi trenta anni è come un calice di cristallo. Esile, elegante, sottile, durissimo e fragile. È stato lasciato crescere per decenni sulla base della ricerca costante, sotto la spinta di una concorrenza più o meno manipolata e secondo il principio della massima accumulazione a brevissimo termine. Il sistema di premi e punizioni che il sistema ha elargito ai suoi attori (a partire dai manager fino all’ultimo lavoratore) puntava parossisticamente sul rendimento a brevissimo termine, come se mai potesse arrivare una crisi[1].
Ma è arrivata.
Il cigno nero di un’epidemia di media pericolosità, ma capace di mettere contemporaneamente milioni di persone in condizioni di aver bisogno di soccorso (se non contenuta in qualche modo) ha messo i sistemi sanitari e di assistenza dell’intero mondo “civile” di fronte alla consapevolezza di non aver accumulato abbastanza scorte per l’inverno. Nell’antico Egitto le ricorrenti carestie avevano insegnato ad una casta sacerdotale e politica avveduta la necessità di mettere da parte, anno su anno, ingenti scorte per affrontarle. Limitavano la crescita, certo, ma rappresentavano l’assicurazione che la carestia, con il correlato di epidemie, invasioni, sommosse, rivoluzioni, non sarebbe arrivata un brutto giorno a distruggere tutto.
La nostra furbissima economia neoliberale, e i governi di quegli Stati che per decenni abbiamo descritto come residui di epoche passate e sostanzialmente inutili e dannosi, ha pensato che pagare il costo assicurativo di avere una robusta sanità ed efficienti servizi territoriali di prevenzione fosse uno spreco. Li abbiamo quindi lentamente smantellati. Tenere ospedali di riserva per quando sarebbe giunta una emergenza, formare più medici, potenziare la rete dei medici di prossimità, creare ambulatori, avere industrie strategiche, anche se leggermente meno competitive, che potessero garantire le forniture di ciò che sarebbe stato necessario, è sembrato un lusso superfluo. Come in ogni altro settore.

Ora paghiamo il prezzo, insieme a tutto il resto del mondo occidentale.
Ed il prezzo sarà la perdita di un’egemonia mondiale che non ci siamo meritati. Avanzeranno altri che avranno meritato di più.




Il governo italiano, dunque, ha chiuso buona parte del nostro sistema produttivo, lasciandone aperta un’altra parte, forse immaginando che sia possibile farlo in una logica di sistema capitalistico. Ma è da qualche decennio che la cultura del “just in time” e quella del decentramento produttivo, figlia della svolta neoliberale e della piattaforma tecnologica post-fordista, ha reso ogni stabilimento parte di un ecosistema altamente interconnesso con scarsissima ridondanza. Il calice di cristallo.
Insomma, è da decenni che ogni fabbrica produce i suoi beni utilizzando prodotti intermedi di terzi e appoggiandosi su una rete di servizi che è spesso estesa su più nazioni e continenti, e che è condivisa con tante altre, di settori merceologici del tutto diversi. Ogni azienda, inoltre, si appoggia su servizi finanziari condivisi con tante altre. Non è sempre stato così, una volta le aziende erano più integrate verticalmente, poi si è detto che dovevano concentrarsi sul “core business”; una volta investivano con risorse proprie, poi si è detto che la liquidità andava impiegata nella finanza che rendeva di più, e tanto per tutto il resto c’era la “leva”; una volta si privilegiavano gli investimenti sul territorio[2], o comunque nella stessa area amministrativa, poi si è detto che la frontiera era la delocalizzazione; una volta i lavoratori erano trattenuti e ci si investiva, poi si è detto che l’organizzazione flessibile[3] ed il lavoro agile[4] erano il futuro. Tutta questa interconnessione è servita a porre il mondo del lavoro sotto costante ricatto di delocalizzazione, a cercare di ottenere ovunque le condizioni migliori, a guadagnare sempre di più, inseguendo il più marginale sconto di prezzo ovunque fosse.
Ma, al contempo, tutta questa interconnessione fa sì che se oggi chiudessi un settore economico (quello metallurgico come quello dei mobili) potrei assistere all’imprevista chiusura anche di quelli che ho lasciato aperti, perché l’intero ecosistema produttivo collasserebbe. Ad esempio, la fonderia che chiudo d’autorità potrebbe essere indebitata con una banca la quale per reagire alla perdita potrebbe stringere il credito anche alla fabbrica tessile che non ho chiuso, o potrebbe essere il cliente fondamentale di un fornitore anche dell’impianto tessile. Quando questo fornitore dovesse chiudere, costringerebbe il nostro tessile a sostituirlo d’urgenza, in un momento in cui gli scambi internazionali sono crollati del 70% e l’intero sistema Italia è in sofferenza. Quel che, anzi, accadrà ora è che, anticipando l’esito di una drammatica crisi delle forniture, con relativa inflazione dei prezzi, e di una colossale crisi di liquidità di sistema, anche le aziende che non sono obbligate a chiudere lo faranno immediatamente. Per salvaguardare la propria cassa per tempi migliori.
Chiuderanno quindi anche le aziende che consideriamo strategiche, alcune perché hanno chiuso i loro fornitori chiave, altri perché hanno chiuso i loro clienti, ed altre perché il sistema finanziario gli stringe la cinghia.

Il calice di cristallo si romperà in mille pezzi.



Cosa avrebbe dovuto fare un governo pienamente sovrano? Intanto una cosa semplicissima, garantire che qualunque esigenza economica sarebbe stata coperta dallo Stato per l’intera durata della crisi. Che qualunque fattura non pagata sarebbe stata scontata a vista dallo Stato (non con crediti di imposta, in denaro sonante). Che per qualunque esigenza di cassa e liquidità avrebbe potuto andare in Cassa depositi e prestiti (come ha fatto la Germania). Garantire credibilmente che non c’erano limiti alla spesa perché garantiti dalla Banca Centrale e dallo Stato. Assicurare che lo Stato stesso, per un congruo tempo, avrebbe garantito di farsi acquirente di ultima istanza.
Ed in cambio lo Stato avrebbe dovuto chiedere l’ingresso nel capitale delle aziende strategiche (nella sanità, nelle infrastrutture, nella farmaceutica, nell’energia, nell’ambiente, nell’agroindustria, l’informatica, la robotica, le telecomunicazioni) proteggendole dalle scalate e garantendone la funzione di interesse pubblico.
Garantire quindi la circolazione e la distribuzione, se del caso precettando le aziende che non volessero restare attive, se strategiche, garantendo la loro operatività.
Estendere, infine, le produzioni urgenti e strategiche, come tardivamente stiamo facendo con i respiratori, fornendo ordini certi, capitali ed assistenza tecnica.


Prevenire la disorganizzazione, insomma.

E la riorganizzazione?
Quando e mentre la fase più acuta della crisi epidemica sarà trascorsa, bisognerà mettere mano a questo sistema e sostituire il calice di cristallo con una coppa di ferro.

Ne avremo bisogno nel mondo grande e terribile che si prepara. Noi allenteremo le misure di distanziamento mentre altri paesi del blocco occidentale, che ora sono un passo indietro, ci saranno ancora in pieno dentro. Dovremo contenere le riprese di focolai e proteggerci dai contagi esterni piuttosto a lungo.

Avremo imparato, spero, una lezione fondamentale. Quella che un sistema economico deve avere una parziale indipendenza, per non subire le conseguenze di interruzioni per i più diversi motivi di beni o servizi essenziali. L’organizzazione a rete leggera delle imprese verrà vista come un lusso che non ci possiamo sempre permettere. I magazzini semivuoti egualmente. La mondializzazione senza limiti un errore di percorso (o meglio, un progetto sbagliato).
Le attività produttive dovranno dunque essere irrobustite, le catene logistiche radicalmente accorciate o comunque rese ridondanti, i magazzini rinforzati, le tecnologie di controllo cosiddette “industria 4.0” e di sostituzione del lavoro saranno enormemente potenziate, i servizi saranno sempre più prodotti ed erogati in remoto, probabilmente anche la piccola distribuzione ne risentirà con un allontanamento del classico servizio alla cassa e di assistenza, la città ed il territorio saranno investite da un ciclo di ripensamenti e riqualificazioni[5].



Abbiamo già tutte le tecnologie disponibili, ma avremo bisogno di aggregatori nazionali che le mettano insieme ed a disposizione:
-          la robotica avanzata,
-          la fabbricazione addizionale,
-          la IA,
-          i sensori evoluti e la IoT,
-          i device distribuiti,
-          le interfacce a realtà aumentata, etc.
-          il cloud computing e il software Saas,
-          le capacità di analisi dei dati (Big Data).
Questa ristrutturazione è già in corso[6], ma potrebbe essere radicalmente spinta dalla necessità di riavviare le produzioni in un contesto nuovo. Ovvero in un contesto di riduzione dei mercati di sbocco (a meno che i mercati orientali non ci vengano aperti dalla Cina), e di maggiori esigenze di controllo[7] per ridurre i rischi dei lavoratori. Inoltre, dalla necessità di avere un maggiore controllo e maggiore consapevolezza delle interconnessioni produttive e delle catene di fornitura input-output.

Nel medio periodo tutto questo porterà cicli di investimento, ma anche un enorme spiazzamento. E porterà ad un’ulteriore periferizzazione di tanti. Senza uno sforzo collettivo erculeo per rendere disponibili le risorse necessarie alla riproduzione individuale e sociale e la riconversione di uomini e territori le tensioni saliranno in modo insostenibile.

La via di uscita è una profonda razionalizzazione degli apparati produttivi, riducendo l’inutile differenziazione dei prodotti e le tante fonti di lavoro improduttivo, ampliando l’indipendenza del paese e la sua robustezza, garantendo la partecipazione di tutti alla produzione, alla sua organizzazione, ai suoi frutti.

Bisognerà avviarsi.



[1] - Crisi che, invece, si vedeva benissimo approssimarsi. Nel marzo 2016, ad esempio, si veda questo post: “Oltre la globalizzazione: mondi responsabili, una utopia necessaria”.
[3] - Richard Sennett, “Lavoro flessibile”.
[5] - In questa direzione la Iot territoriale e le smart cities, della cui ambiguità ho parlato in “Le città intelligenti e la distopia del lavoro perduto”.
[6] - Ne abbiamo parlato in “Industria 4.0 e le sue conseguenze”.
[7] - Termine altamente ambivalente, si veda “Cooperativa sensibili alle foglie. Mal di lavoro”.

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