Il
DPCM
22 marzo 2020 ha compiuto un ulteriore e forse decisivo passo verso il
blocco di ogni attività produttiva nel paese. Ancora una volta siamo un passo
avanti di ogni altro paese occidentale, un passo verso un baratro o verso la
soluzione della crisi. Dopo una lunga trattativa con i sindacati, che volevano
una chiusura molto più ampia, e le altre componenti del mondo industriale, che
la volevano minore, si è deciso di chiudere. Quindi saranno arrestate tutta la
filiera dei metalli, il noleggio automezzi, parte dell’industriale metalmeccanica,
parte del tessile, l’attività estrattiva (meno quella degli idrocarburi), il
settore delle costruzioni, la fabbricazione di mobili, etc. Tutti settori che
andranno ad aggiungersi al commercio che era stato già fermato.
Restano
aperti gli studi professionali, la stampa, i tabaccai, la filiera
agroindustriale, e la fabbricazione di macchine al suo servizio, parte del tessile,
la chimica e la farmaceutica, il settore elettrico e la relativa
componentistica, il settore della depurazione ed igiene, i contact center,
tutte le attività di trasporto connesse, le attività finanziarie, la ricerca,
riparazioni e manutenzioni, aerospazio e difesa.
Il
Presidente Conte ha detto, in sostanza, che resteranno chiuse le attività “non
necessarie” e che lo Stato fornirà tutto l’aiuto che serve.
Un
sistema produttivo ed economico altamente finanziarizzato e interconnesso, come
quello che ci ha lasciato in dote la mondializzazione degli ultimi trenta anni è
come un calice di cristallo. Esile, elegante, sottile, durissimo e fragile.
È stato lasciato crescere per decenni sulla base della ricerca costante, sotto
la spinta di una concorrenza più o meno manipolata e secondo il principio della
massima accumulazione a brevissimo termine. Il sistema di premi e punizioni che
il sistema ha elargito ai suoi attori (a partire dai manager fino all’ultimo
lavoratore) puntava parossisticamente sul rendimento a brevissimo termine, come
se mai potesse arrivare una crisi[1].
Ma
è arrivata.
Il
cigno nero di un’epidemia di media pericolosità, ma capace di mettere contemporaneamente
milioni di persone in condizioni di aver bisogno di soccorso (se non contenuta
in qualche modo) ha messo i sistemi sanitari e di assistenza dell’intero mondo “civile”
di fronte alla consapevolezza di non aver accumulato abbastanza scorte per l’inverno.
Nell’antico Egitto le ricorrenti carestie avevano insegnato ad una casta
sacerdotale e politica avveduta la necessità di mettere da parte, anno su anno,
ingenti scorte per affrontarle. Limitavano la crescita, certo, ma
rappresentavano l’assicurazione che la carestia, con il correlato di epidemie,
invasioni, sommosse, rivoluzioni, non sarebbe arrivata un brutto giorno a
distruggere tutto.
La
nostra furbissima economia neoliberale, e i governi di quegli Stati che per
decenni abbiamo descritto come residui di epoche passate e sostanzialmente
inutili e dannosi, ha pensato che pagare il costo assicurativo di avere una
robusta sanità ed efficienti servizi territoriali di prevenzione fosse uno
spreco. Li abbiamo quindi lentamente smantellati. Tenere ospedali di riserva
per quando sarebbe giunta una emergenza, formare più medici, potenziare la rete
dei medici di prossimità, creare ambulatori, avere industrie strategiche, anche
se leggermente meno competitive, che potessero garantire le forniture di ciò
che sarebbe stato necessario, è sembrato un lusso superfluo. Come in ogni altro
settore.
Ora
paghiamo il prezzo, insieme a tutto il resto del mondo occidentale.
Ed
il prezzo sarà la perdita di un’egemonia mondiale che non ci siamo meritati. Avanzeranno
altri che avranno meritato di più.
Il
governo italiano, dunque, ha chiuso buona parte del nostro sistema produttivo, lasciandone
aperta un’altra parte, forse immaginando che sia possibile farlo in una logica
di sistema capitalistico. Ma è da qualche decennio che la cultura del “just in
time” e quella del decentramento produttivo, figlia della svolta neoliberale e
della piattaforma tecnologica post-fordista, ha reso ogni stabilimento parte di
un ecosistema altamente interconnesso con scarsissima ridondanza. Il calice
di cristallo.
Insomma,
è da decenni che ogni fabbrica produce i suoi beni utilizzando prodotti
intermedi di terzi e appoggiandosi su una rete di servizi che è spesso estesa
su più nazioni e continenti, e che è condivisa con tante altre, di settori
merceologici del tutto diversi. Ogni azienda, inoltre, si appoggia su servizi
finanziari condivisi con tante altre. Non è sempre stato così, una volta le aziende
erano più integrate verticalmente, poi si è detto che dovevano concentrarsi sul
“core business”; una volta investivano con risorse proprie, poi si è detto che
la liquidità andava impiegata nella finanza che rendeva di più, e tanto per
tutto il resto c’era la “leva”; una volta si privilegiavano gli investimenti
sul territorio[2],
o comunque nella stessa area amministrativa, poi si è detto che la frontiera
era la delocalizzazione; una volta i lavoratori erano trattenuti e ci si
investiva, poi si è detto che l’organizzazione flessibile[3] ed il lavoro agile[4] erano il futuro. Tutta questa
interconnessione è servita a porre il mondo del lavoro sotto costante ricatto
di delocalizzazione, a cercare di ottenere ovunque le condizioni migliori, a
guadagnare sempre di più, inseguendo il più marginale sconto di prezzo ovunque
fosse.
Ma,
al contempo, tutta questa interconnessione fa sì che se oggi chiudessi un
settore economico (quello metallurgico come quello dei mobili) potrei assistere
all’imprevista chiusura anche di quelli che ho lasciato aperti, perché l’intero
ecosistema produttivo collasserebbe. Ad esempio, la fonderia che chiudo d’autorità
potrebbe essere indebitata con una banca la quale per reagire alla perdita potrebbe
stringere il credito anche alla fabbrica tessile che non ho chiuso, o potrebbe essere
il cliente fondamentale di un fornitore anche dell’impianto tessile. Quando questo
fornitore dovesse chiudere, costringerebbe il nostro tessile a sostituirlo d’urgenza,
in un momento in cui gli scambi internazionali sono crollati del 70% e l’intero
sistema Italia è in sofferenza. Quel che, anzi, accadrà ora è che, anticipando
l’esito di una drammatica crisi delle forniture, con relativa inflazione dei
prezzi, e di una colossale crisi di liquidità di sistema, anche le aziende che
non sono obbligate a chiudere lo faranno immediatamente. Per salvaguardare la
propria cassa per tempi migliori.
Chiuderanno
quindi anche le aziende che consideriamo strategiche, alcune perché hanno
chiuso i loro fornitori chiave, altri perché hanno chiuso i loro clienti, ed
altre perché il sistema finanziario gli stringe la cinghia.
Il
calice di cristallo si romperà in mille pezzi.
Cosa
avrebbe dovuto fare un governo pienamente sovrano? Intanto
una cosa semplicissima, garantire che qualunque esigenza economica sarebbe
stata coperta dallo Stato per l’intera durata della crisi. Che qualunque
fattura non pagata sarebbe stata scontata a vista dallo Stato (non con crediti
di imposta, in denaro sonante). Che per qualunque esigenza di cassa e liquidità
avrebbe potuto andare in Cassa depositi e prestiti (come ha fatto la Germania).
Garantire credibilmente che non c’erano limiti alla spesa perché garantiti
dalla Banca Centrale e dallo Stato. Assicurare che lo Stato stesso, per un
congruo tempo, avrebbe garantito di farsi acquirente di ultima istanza.
Ed
in cambio lo Stato avrebbe dovuto chiedere l’ingresso nel capitale delle aziende
strategiche (nella sanità, nelle infrastrutture, nella farmaceutica, nell’energia,
nell’ambiente, nell’agroindustria, l’informatica, la robotica, le
telecomunicazioni) proteggendole dalle scalate e garantendone la funzione di
interesse pubblico.
Garantire
quindi la circolazione e la distribuzione, se del caso precettando le aziende
che non volessero restare attive, se strategiche, garantendo la loro
operatività.
Estendere,
infine, le produzioni urgenti e strategiche, come tardivamente stiamo facendo
con i respiratori, fornendo ordini certi, capitali ed assistenza tecnica.
Prevenire
la disorganizzazione, insomma.
E
la riorganizzazione?
Quando
e mentre la fase più acuta della crisi epidemica sarà trascorsa, bisognerà
mettere mano a questo sistema e sostituire il calice di cristallo con una
coppa di ferro.
Ne
avremo bisogno nel mondo grande e terribile che si prepara. Noi allenteremo le
misure di distanziamento mentre altri paesi del blocco occidentale, che ora
sono un passo indietro, ci saranno ancora in pieno dentro. Dovremo contenere le
riprese di focolai e proteggerci dai contagi esterni piuttosto a lungo.
Avremo
imparato, spero, una lezione fondamentale. Quella che un sistema
economico deve avere una parziale indipendenza, per non subire le conseguenze
di interruzioni per i più diversi motivi di beni o servizi essenziali. L’organizzazione
a rete leggera delle imprese verrà vista come un lusso che non ci possiamo
sempre permettere. I magazzini semivuoti egualmente. La mondializzazione senza
limiti un errore di percorso (o meglio, un progetto sbagliato).
Le
attività produttive dovranno dunque essere irrobustite, le catene logistiche
radicalmente accorciate o comunque rese ridondanti, i magazzini rinforzati, le
tecnologie di controllo cosiddette “industria 4.0” e di sostituzione del
lavoro saranno enormemente potenziate, i servizi saranno sempre più prodotti ed
erogati in remoto, probabilmente anche la piccola distribuzione ne risentirà
con un allontanamento del classico servizio alla cassa e di assistenza, la
città ed il territorio saranno investite da un ciclo di ripensamenti e
riqualificazioni[5].
Abbiamo
già tutte le tecnologie disponibili, ma avremo bisogno di aggregatori nazionali
che le mettano insieme ed a disposizione:
-
la robotica avanzata,
-
la fabbricazione addizionale,
-
la IA,
-
i sensori evoluti e la IoT,
-
i device distribuiti,
-
le interfacce a realtà aumentata, etc.
-
il cloud computing e il software Saas,
-
le capacità di analisi dei dati (Big Data).
Questa
ristrutturazione è già in corso[6], ma potrebbe essere
radicalmente spinta dalla necessità di riavviare le produzioni in un contesto
nuovo. Ovvero in un contesto di riduzione dei mercati di sbocco (a meno che i
mercati orientali non ci vengano aperti dalla Cina), e di maggiori esigenze di
controllo[7] per ridurre i rischi dei
lavoratori. Inoltre, dalla necessità di avere un maggiore controllo e maggiore
consapevolezza delle interconnessioni produttive e delle catene di fornitura
input-output.
Nel
medio periodo tutto questo porterà cicli di investimento, ma anche un enorme
spiazzamento. E porterà ad un’ulteriore periferizzazione di tanti. Senza uno
sforzo collettivo erculeo per rendere disponibili le risorse necessarie alla
riproduzione individuale e sociale e la riconversione di uomini e territori le
tensioni saliranno in modo insostenibile.
La
via di uscita è una profonda razionalizzazione degli apparati produttivi,
riducendo l’inutile differenziazione dei prodotti e le tante fonti di lavoro
improduttivo, ampliando l’indipendenza del paese e la sua robustezza, garantendo
la partecipazione di tutti alla produzione, alla sua organizzazione, ai suoi
frutti.
Bisognerà
avviarsi.
[1] - Crisi che, invece, si vedeva
benissimo approssimarsi. Nel marzo 2016, ad esempio, si veda questo post: “Oltre
la globalizzazione: mondi responsabili, una utopia necessaria”.
[2] - Si veda: “Adriano
Olivetti, ‘dalla fabbrica alla comunità’”.
[3] - Richard Sennett, “Lavoro
flessibile”.
[5] - In questa direzione la Iot territoriale
e le smart cities, della cui ambiguità ho parlato in “Le
città intelligenti e la distopia del lavoro perduto”.
[6] - Ne abbiamo parlato in “Industria
4.0 e le sue conseguenze”.
[7] - Termine altamente ambivalente, si
veda “Cooperativa
sensibili alle foglie. Mal di lavoro”.
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