Pochi
appunti parziali in corso d’opera. La Repubblica Popolare
Cinese è stata investita per prima, o almeno al momento così pare, dal nuovo
virus che potrebbe essere una mutazione della Sars, probabilmente più virulenta
ma meno pericolosa. La cosa dovrebbe essere iniziata a novembre 2019 nella
provincia dell’Hubei, il primo caso accertato per l’Oms è a dicembre e l’allarme
le autorità cinesi lo lanciano all’inizio di gennaio.
In
questo momento ci sono 159.000 casi confermati, di cui 81.000 in Cina e 27.000
in Italia, seguono a distanza l’Iran, con 12.000 casi e la Corea con 8.000.
Ma
in Cina l’epidemia sembra sotto controllo, solo 4 casi nell’Hubei oggi.
L’epicentro
era Wuhan, uno dei quattro forni (四大火炉) della Cina sia
per le sue estati torride sia perché è il cuore dell’industria dell’acciaio,
del cemento e delle altre industrie connesse con le costruzioni. Ferriere ed
acciaierie di Stato sono peraltro in crisi da sovrapproduzione e da cinque anni
al centro di ristrutturazioni, privatizzazioni riduzioni di personale e quindi
di proteste, scioperi generali[1]. Quando in occidente si è
avuta la crisi del 2008, l’accelerazione della crescita cinese, decisiva per l’attuale
ruolo del gigante orientale nel mondo, è stata trainata dalla spesa pubblica e
semiprivata (ovvero decentrata) su progetti infrastrutturali ed edilizi nella
quale la città di Wuhan ha rivestito un ruolo centrale.
Questa
città, che era quindi già in crisi, è stata interamente fermata dall’autorità
che ha disposto misure di “distanziamento sociale” assolutamente draconiane. Per
un mese e mezzo quasi tutta la Cina si è fermata, gli stabilimenti occidentali
si sono fermati, i porti hanno smesso di caricare e scaricare merci, tutte le
catene logistiche che dipendono, in Corea, come in Indonesia, in Francia come
in Canada, o negli Usa, in Iran, in sudamerica, come in Africa da qualche componente,
o merce proveniente dalle fabbriche cinesi hanno dovuto aspettare, svuotare i
magazzini, cercare altri fornitori.
Poi
l’epidemia si è allargata[2]. E’ arrivata in Europa, e
negli Stati Uniti (1600), ha colpito duramente in Corea (8100), sia sta avviando
in Giappone (780 casi), lambisce l’Australia, la Malaysia, impatta
violentemente sulla Spagna (5700 casi), la Francia (4400), la Germania (3700)
tocca il Regno Unito (1100). In molti di questi paesi si avvia la risposta di
chiusura reciproca (la Germania ha oggi chiuso le frontiere e ieri aveva
invitato i Lander a chiudere le scuole), o attua il “pacchetto italiano” (ora
anche la Spagna). Qualcuno, britannici e forse tedeschi, cercano un altro
approccio che sceglie di lasciare in piedi le infrastrutture economiche,
rischiando la diffusione del contagio accelerata e punta solo a isolare gli
anziani. New York oggi ha chiuso le scuole e la Fed ha lanciato un enorme piano
di espansione monetaria.
Insomma,
con tempi diversi, avanti nella curva del contagio di una o due settimane o
meno, quasi tutti i paesi del mondo si avviano a rallentare drasticamente le
loro economie per cercare di non far cadere improvvisamente su sistemi sanitari
resi fragili ovunque da decenni di incuria e criminali tagli il peso di decine
o centinaia di migliaia di malati bisognosi di urgente assistenza. Il tempo è
cruciale perché si muore in poche ore senza assistenza, e perché i posti letto
in terapia di urgenza non si possono improvvisare, sono il punto focale di una
complessissima tecnostruttura, il terminale di un intelletto generale altamente
sofisticato, che richiede risorse umane, investimenti cospicui, tempi di approntamento
e messa in marcia incompatibili con quelli di un tetto che ti cade sulla testa.
Ma
si presenta un trade-off, ovvero un dilemma: si muore certamente se si
soffoca con i polmoni incapaci di catturare l’aria, ma si può morire più
lentamente anche di anoressia e asfissia economico-sociale se il sistema
economico, ovvero se il sistema dell’economia-mondo si inceppa e non può più garantire
la socialità produttiva di un miliardo di persone in occidente. In altre parole,
se tutto si ferma.
Peraltro,
mentre il mondo si ferma, un pezzo alla volta (che è anche peggio per gli
impulsi disordinanti che trasmetterà), la Cina sembra aver superato il suo
picco epidemico, avere messo sotto controllo e monitoraggio i focolai, e
riavviarsi. Ma non è facilissimo. I controlli del governo e le restrizioni alla
circolazione hanno ridotto consumi e produzione. In una economia nella quale
ormai, dopo la politica di incremento del reddito e della domanda di Xi, circa
il 60% del Pil è rappresentato da domanda interna, e quella esterna si sta
fermando, l’assetto industriale sta funzionando a mezza potenza[3]. Il governo sta spingendo
per la ripresa, ma contemporaneamente cerca di non trascurare il controllo del
virus. Anche qui si tratta di un equilibrio difficile. Le stime sul consumo di
carbone vedono una leggera ripresa, e i dati sul trasporto dei passeggeri, i
volumi di scambi di valuta estera e le pubblicazioni locali indicherebbero una
ripresa al 60, 70%, in crescita rispetto alla settimana precedente. Il governo della
sola Shangai ha emesso dei pacchetti di stimoli, sgravi fiscali e prestiti
agevolati in particolare diretti verso imprese e Pmi per circa 15 miliardi di
dollari. Come accade nel resto del mondo il periodo di “distanziamento” è stato
occasione per sperimentare a scala di massa sistemi di telepresenza, smart
working e di riconoscimento facciale.
A
Pechino tutte le fabbriche sono riaperte e la città funziona a pieno regime, i
negozi riaprono, ma ci sono problemi diffusi derivanti in particolare dalla
domanda di merci sulla linea di esportazione, dato che i terminali delle catene
produttive americane, giapponesi, europee e sudcoreane stanno progressivamente
arrestando la loro operatività. Inoltre, circa 50 milioni di lavoratori non
sono rientrati dalle loro città dell’interno dopo le quarantene, e ci potrebbe
volere ancora un mese per rivederli, i trasporti pubblici non sono ancora
ripresi o devono avere dei permessi dalle autorità. La domanda interna ha subito
contrazioni notevoli, nel settore automobilistico la domanda di auto è calata
del 80%, le acciaierie di Qian’an hanno ripreso, ma agli operai viene misurata
di continuo la temperatura, e possono avere contatti soltanto con altri
lavoratori degli stabilimenti. Ci sono province come lo Guangong che
sono state poco colpite, ma potrebbero essere coinvolte da spostamenti di
persone troppo rapidi e fuori controllo.
Osservando
la metropolitana di Canton[4] si vede solo una leggera
ripresa degli spostamenti. La Cma-Cgm francese ha annunciato che riprenderà ad
attraccare con le sue portacontainer ai porti cinesi entro la fine di marzo.
Un
rischio con la generosità degli incentivi previsti è che la componente “di
mercato” dell’economia cinese, che è oltre la metà, tenti di speculare fingendo
aperture opportunistiche, pur non avendo ordini e clienti, solo per accaparrarseli.
Come noto ogni economia è una catena, io lavoro se lo fai anche tu, se quel che
produco ti serve e mi serve quel che tu fai. Ma per attivarla serve la
liquidità e dopo due mesi di stop tende a scarseggiare. Certo un’economia con
importanti funzioni di comando e controllo può tentare di spingere i creditori
ad aspettare, può telefonare alle compagnie assicurative intimandogli di essere
pazienti, lo stesso con gli istituti di credito. La ferrovia statale può ridurre
le sue tariffe (e le hanno dimezzate) e il ministero dell’istruzione,
aspettandosi una certa disoccupazione quest’anno prepararsi ad allungare i
curriculum. Ma l’enorme macchina cinese non era senza problemi neppure prima
della crisi, le bolle immobiliari e creditizie, l’insieme dei debiti privati,
avevano raggiunto valori davvero alti. La settimana scorsa è stato salvato il
gruppo HNA[5], carico di debiti e
coinvolto negli effetti sistemici della contrazione.
Probabilmente
risolveranno questi problemi, analoghi a quelli che incontreremo noi quando
dovremo riavviare la nostra produzione e vita economica, ma ci vorrà qualche
tempo. Si può immaginare che avremo la macchina produttiva cinese a regime, o
vicina al suo potenziale, ad aprile o maggio.
Se
riesce, la Cina sarà uscita per prima dalla crisi, abbastanza velocemente e con
poche perdite umane (il nostro tasso di mortalità è più del doppio di quello
cinese e non potrà che andare peggio, quello degli altri lo vedremo), e si
troverà nelle condizioni di sostituire le forniture dei suoi concorrenti ancora
fermi. Se si trattasse davvero solo di commercio è probabile che ci
riuscirebbe.
Dato
che il commercio è invece una componente necessaria e cruciale del confronto
politico delle aree egemoniche del mondo, e la manipolazione
della competizione è il suo strumento, ci si può aspettare che nascano notevoli
tensioni e resistenze, ulteriori chiusure regolatorie e tariffarie, intimidazioni
di ogni genere.
La
Cina cercherà di cogliere l’occasione per mostrare la sua faccia migliore e più
amichevole, lo sta già facendo, e di sviluppare intorno a questa performance il
suo “soft power”. In ciò sarà enormemente aiutata da comportamenti cinici e mal
comunicati come quelli del governo britannico, americano, tedesco, sia nella
protezione dei propri cittadini sia per la condivisione delle risorse.
I
paesi leader dell’occidente replicheranno cercando di ostacolare la penetrazione cinese,
mentre tentano contraddittoriamente di tenere in piedi la propria capacità
industriale strategica, proteggere le proprie aree di fornitura e gli sbocchi
commerciali, e di proteggere i propri cittadini ed elettori.
Questo
è il grande gioco che si prepara.
Mi
aspetto un trimestre di grandissima tensione, pieno di provocazioni anche
militari, di tensioni prodotte a fini intimidatori, di dazi e barriere, di
nuove normative in violazione delle norme del Wto (che, del resto, Trump ha
rigettato). E, malgrado questo un trimestre nel quale, almeno nell’area estremo
orientale, dal Giappone all’Australia, passando per l’Indonesia, Malesia, Vietnam,
fino all’India, le catene logistiche e produttive cinesi si estenderanno, spiazzando
quelle occidentali e quelle stesse locali. Gli sbocchi commerciali che tutta l’immensa
macchina produttiva estremo-orientale faticherà a trovare in un occidente
obiettivamente impedito di acquistare perché “chiuso in casa”, potrebbero
trovarli in Cina, se questa riuscirà a mettersi in una traiettoria ascendente (aumento
simmetrico di esportazioni ed importazioni).
Se
va così, passato un semestre potremmo avere un mondo diviso, molto più di ora,
in sfere di influenza.
E
saremo tornati anche alla guerra fredda.
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