Giovanni
Arrighi, dopo essere stato tra gli animatori delle lotte operaie con il Gruppo
Gramsci nei primi anni settanta[1], si trasferisce nel 1973 all’Università
della Calabria, dove resta per sette anni. In Calabria fonda la rivista “Sviluppo”,
che sarà attiva dal 1974 al 1993 la quale tratta i temi della teoria e pratica
dello sviluppo, seguendo in qualche modo la traccia della Monthly Review americana.
Uno dei problemi che interessa il gruppo della redazione è l’enigma dei
migranti che si trasformano in avanguardie operaie una volta trapiantati nelle
fabbriche torinesi e milanesi.
Nello
svolgimento di una approfondita e interessantissima ricerca sul campo Arrighi e
i suoi collaboratori individuano, con il classico approccio modellista del
nostro (derivato dalla sua formazione neoclassica), un modello a tre percorsi
che incorpora diverse forme e traiettorie di conflitto sociale. La ricerca
produce alcuni risultati teorici originali ed avrà un largo seguito:
1- Il
caso Calabria dimostra che lo sviluppo capitalistico e l’ascesa a una posizione
di “centro” non poggia necessariamente sulla completa proletarizzazione,
contrariamente ad una volgarizzazione dello schema marxiano;
2- Il
caso del Crotonese, in particolare, definibile come “accumulazione per
spoliazione”, dimostra che la completa proletarizzazione, al contrario, può
essere un danno per il processo di accumulazione capitalistica;
3- L’ipotesi
di una stretta connessione tra l’emigrazione e la proletarizzazione non ha
validità generale;
4- Il
conflitto sociale è parte integrante dei processi di sviluppo e l’emigrazione
svolge una importante funzione strutturale, anche questa ambivalente.
L’analisi
si concentra su tre zone: il crotonese, per il quale individua la “via dei
Junker”, la Piana di Gioia Tauro, “la via degli agricoltori”, e il cosentino,
“la via svizzera”.
Queste
tre “vie” hanno prodotto delle strutture sociali completamente differenti.
-
Nel crotonese “la via dei Junker” ha creato
una borghesia terriera con rigido monopolio dei mezzi di produzione e un vasto
proletariato senza terra.
-
Nel cosentino, “la via svizzera” ha creato
un latifondo contadino che evolve verso un sistema di proprietà che produce per
l’autoconsumo e vende le eccedenze.
-
Nella Piana di Gioia Tauro il latifondo evolve
per il mercato e i piccoli capitalisti.
Le
tre trasformazioni generano strutture sociali differenti e conflitti diversi. Quindi
la classica rappresentazione per stadi (ad esempio di Rostow[2]) non funziona, né completamente
un modello semplice “centro/periferia”. Qui si mettono a fuoco forme di
periferizzazione diverse e creazione di attori sociali altamente differenziati.
Solo dopo la seconda guerra mondiale questi modelli, che avevano trovato
stabilità nell’ottocento vedono una certa convergenza.
Si
tratta dunque di “tre vie” al lavoro salariato:
-
Vediamo la prima. La “via svizzera”
dei contadini-migranti orientata alla sussistenza. In essa lo scambio di mercato
svolge un ruolo marginale e la cooperazione è tesa all’autosufficienza come
principio organizzativo che domina l’azione sociale ed economica. Questo principio
è imposto da un intreccio di rapporti di parentela, comparaggio e vicinato. Si è
trattato, quindi, di una via rigidamente regolata da norme consuetudinarie di
tipo comunitario. L’equilibrio viene raggiunto attraverso l’emigrazione di tre
tipi: stagionale, permanente (per i poveri ed i devianti), di lunga distanza
(per i ceti medi). La prassi era di sposarsi prima di partire e lasciare la
moglie a casa per 10-20 anni, tornando dopo aver raccolto abbastanza per una
vita da ceto medio in loco. In questo modello non ci sono apprezzabili conflitti
sociali, ma c’è all’opera una forma di patriarcato molto oppressivo.
-
Invece la “via degli Junker”, vede
uno spazio molto esiguo della produzione di sussistenza e una grande debolezza
delle norme consuetudinarie. Qui c’è il massimo del flusso migratorio e la
conseguente costante disintegrazione della comunità. Questo è l’ambiente del
latifondo capitalista, ma con bassi salari e bassi investimenti. Si tratta
quindi di un latifondo che è capitalista solo a metà, nel quale le energie dei
latifondisti sono interamente concentrate sull’ottenere benefici per via
politica, tenere bassi i salari ed alta l’intensità di lavoro. In un sistema
che esercitava una così brutale pressione sui lavoratori l’emigrazione
conseguente provocava una carenza strutturale di forza lavoro, e, al contempo
un profondo risentimento di classe. L’equilibrio viene raggiunto con la
creazione di un violento apparato repressivo interno di tipo mafioso. Ma dopo
la fine della prima guerra mondiale anche qui si scatena un forte conflitto di
classe, insieme al declino dei flussi di lunga emigrazione di lunga durata, ma
permanente.
-
Infine, la “via americana” degli
agricoltori della Piana di Gioia Tauro, è una sorta di via di mezzo. Qui troviamo
una struttura sociale stratificata: uno strato superiore di medi capitalisti;
uno strato medio-alto di coltivatori; uno strato medio di coltivatori
indipendenti; uno strato medio-basso semi-proletario; uno strato proletario. Si
crea così un mercato concorrenziale del lavoro, un’emigrazione di lunga durata sotto
la media della regione, una certa debolezza delle strutture di parentela e un
pervasivo dominio della concorrenza di mercato che fanno sì che in pratica chi
aveva i mezzi non aveva l’incentivo e viceversa. Qui le forze di mercato non
agivano nel vuoto sociale e politico, ma in un contesto di lotta tra i gruppi
clientelari rivali. Agiva da collante ed equilibratore un’autorità di stampo
mafioso che però esercitava un potere ambivalente, da una parte disciplinava i
lavoratori, ma dall’altra poneva dei limiti alla completa manifestazione delle
forze di mercato[3].
In altre parole “l’autorità di stampo mafioso tiene sotto controllo le tendenze
polarizzanti della produzione capitalistica, contribuendo alla preservazione
degli strati sociali intermedi”.
Su
questo schema di base si inseriscono, spostandolo e modificandolo, quelle che
Arrighi chiama in questo libro del 1987[4], “le interazioni con le
dinamiche dell’economia-mondo”, intendendo con ciò essenzialmente le ragioni di
scambio che l’agricoltura e le altre merci di esportazione locale incontrano
nei mercati mondiali[5] e le connesse ragioni dei
flussi di manodopera. Ma anche, e la cosa istituisce una relazione triangolare,
con lo Stato di cui i territori dal 1861 hanno preso a far parte. Si attivano
intorno a queste relazioni diversi modi di essere periferia.
Negli
anni sessanta del XIX secolo, appunto, si ebbe un boom al quale reagirono
diversamente i territori calabresi. Esso ebbe vita breve, ma anche la successiva
e ben più lunga recessione acuita durante gli anni ottanta non modificò la
tendenza ad una maggiore commercializzazione dei prodotti in parte favorita
dalla nuova unità politica nazionale ed in parte dalle opere infrastrutturali,
oltre ad altri fattori. Quando negli anni novanta la depressione mondiale di attenuò
e la domanda di prodotti agricoli nel mondo si ampliò fino alla prima guerra
mondiale, allora i tre percorsi si divaricarono ulteriormente. Perché tre zone
grosso modo caratterizzate dalle stesse condizioni posizione geopolitica e
struttura sociale si differenziarono in questo modo? Ci sono nelle tradizioni
in senso lato derivanti da un’impostazione materialista e marxista la posizione
della scuola dei sistemi-mondo, erede della “teoria della dipendenza”, che vede
differenze geografiche ed ecologiche come centrali nella spiegazione delle
traiettorie di sviluppo, ed altre tradizioni, esemplificate dalla polemica di
Robert Brenner, che vedono prevalere ragioni interne di tipo storico e
sociologico. Ovvero vedono che le relazioni tra i gruppi sociali, lungi dall’essere
determinate dagli schemi relazionali contingenti a base geografica, ed i conflitti
tra questo determinano dove possono presentarsi le opportunità e quindi l’azione
del capitale. Per Arrighi, questa polemica ha poco senso almeno per gli
ambienti agricoli. La storia della Calabria, vulnerabile per secoli agli attacchi
ostili e per questo soggetta a degrado sociologico ed ecologico, mostra invece che
si attiva nell’intreccio di condizioni storiche e geografiche “un circolo vizioso
che” nel caso della Calabria “ha prodotto l’intrattabilità sia fisica che
umana, dell’ambiente in questione”. La compenetrazione tra sociologia ed
ecologia può essere osservata anche nel processo di differenziazione interna
dove le difficoltà si erano sedimentate nel tempo. Quando si determinarono tra
ottocento e novecento nuove opportunità, nell’incrocio tra sistema-mondo e
sistema nazionale che si allargava, vennero affrontate e risolte in modo differenziato
dai diversi attori e territori, ovvero ambienti sociali. Quindi “la via degli
Junker, la via degli agricoltori e quella dei contadini-migranti hanno
rappresentato i diversi risultati della lotta di capitalisti e potenziali
capitalisti (in particolare i proprietari terrieri) per superare questi
ostacoli”[6]. Le zone montagnose dell’interno
offrivano più ostacoli, nel Cosentino, dove lo scontro di classe che si esprimeva
nel brigantaggio alla fine fu “vinto” dai contadini i quali mantennero il
controllo su buona parte loro surplus produttivo. Lungo le aree costiere invece,
socialmente più rade, la condizione era più favorevole ai proprietari terrieri,
in particolare nel crotonese e meno nella piana di Gioia Tauro, dove erano
necessari investimenti superiori.
Infine
i flussi migratori, in parte incrociati, determinarono sistemi di equilibrio
diversi anche se tutti e tre diversamente “periferici”. Arrighi definisce qui “periferizzazione”
come quel “processo attraversi cui alcuni attori o zone, che partecipano
direttamente o indirettamente alla divisione mondiale del lavoro, sono
progressivamente privati dei benefici di tale partecipazione, a vantaggio di
altri attori o zone”[7]. Ci sono tre meccanismi
essenziali che determinano la periferizzazione: il trasferimento di
surplus, lo scambio ineguale, l’appropriazione diretta del surplus. Il trasferimento
di surplus si ottiene nel Crotonese attraverso le tasse e investimenti
finanziari che espandono i mercati e le strutture produttive del Nord,
allargando il divario di sviluppo. Si tratta di parte di uno scambio politico
mediato dallo Stato tra i latifondisti del sud e i capitalisti del nord. Naturalmente
uno scambio politico che favorisce la riproduzione di un regime a bassi salari
ed investimenti.
Nella
Piana di Gioia Tauro prevale il meccanismo dello “scambio ineguale”. Ovvero
si instaura “una situazione nella quale i benefici della divisione
internazionale del lavoro sono trasferiti da alcune zone ad altre attraverso i
termini di scambio delle merci, quando le pressioni competitive sui prezzi di
vendita crescono più velocemente di quello dei prezzi di acquisto”. Un processo
che avviene nei tre stadi dell’espansione, della crescita della competizione e del
crollo del mercato finale.
Nel
cosentino si ha, invece, appropriazione diretta del surplus. Essenzialmente
attraverso l’emigrazione, in un certo senso è un caso particolare di scambio
ineguale.
La
periferizzazione e la centralizzazione sono da intendere come macroprocessi
dell’economia-mondo che hanno un legame solo indiretto con le microstrutture di
produzione e riproduzione. Questa è la tesi decisamente eretica
che fa dire a Brenner che si tratta di “marxismo neo-smithiano”. Ovvero, “la
periferizzazione è determinata in primo luogo dalle relazioni che si
instaurano, nel tempo e nello spazio, tra microstrutture e solo in secondo
luogo dalla natura delle stesse microstrutture”[8]. Queste, in altre parole, non
sono determinate dalla natura del rapporto in sé, ma dal contesto regionale,
nazionale e di tutte le regioni dell’economia-mondo in cui si colloca.
O,
per dirlo in altro modo, le attività economiche sono integrate nelle relazioni
sociali che formano una totalità culturale. Qui interviene anche per Arrighi un
richiamo al grande economista svedese Gunnar Myrdal ed il suo processo di “causazione
circolare e cumulativo”[9]. Vediamo come la mette: “le
attività economiche diventano imprescindibilmente integrate e radicate nelle
relazioni sociali che formano una totalità culturale e possono cambiare soltanto
nella loro totalità”. La vera differenza che si registra tra chi abita nelle
zone del “centro” (nella fattispecie del nord) e quelli che abitano nelle, sia
pur diverse, “periferie” è che la causazione ha diverso segno, più
specificamente che i primi riescono collettivamente ad esercitare un maggior
controllo sulle risorse dell’economia-mondo e ciò fornisce maggiori opportunità
per sostituire le attività di volta in volta calanti per effetto della
concorrenza accresciuta e, al contempo, riescono a superarle, grazie alla
densità e varietà le resistenze sociali alle innovazioni. Gli abitanti delle “periferie”,
invece, hanno maggiori difficoltà economiche e sociali di produrre quel
flusso di innovazione che temporaneamente, ma continuativamente (via via che se
ne propone un’altra, divenuta obsoleta la precedente), può “isolare” l’attore
dalle pressioni competitive mentre, al contempo, essendo connesso nell’economia-mondo
le intensifica nelle “periferie”. È un poco il concetto che si cerca di
catturare quando si dice che un’area è “più dinamica” dell’altra.
In
conseguenza di questo differenziale in un sistema globalmente interconnesso le
zone periferiche nel loro complesso non riescono ad appropriarsi del surplus
che potrebbero ricavare in astratto dalla loro partecipazione alla divisione internazionale
del lavoro. Ovvero sono “sfruttate”.
In
Calabria sarà la crisi derivante dalla fine della seconda guerra, con l’occupazione
angloamericana ed il governo provvisorio che portò a crisi il modello “degli Junker”.
La ragione è connessa con il suo successo nella fase finale del fascismo,
quando il latifondo superò la crisi appoggiandosi sulla capacità repressiva del
regime ma ne divenne dipendente, proprio in quanto l’aumentata repressione
accumulò riserve di risentimento sociale e distrusse la base egemonica
(divenuta mero dominio). Appena le forze armate alleate occuparono la Calabria
un’ondata di conflitti sociali repressi esplose, lo scontro con i latifondisti
assunse la forma anche di scontro tra i partiti dei lavoratori e la democrazia
cristiana che ebbe modo di svilupparsi entro lo schema di unità nazionale
espresso nel governo Badoglio[10] e che poi porterà con la
riforma agraria del 1950 alla fine del latifondo[11].
In
ogni caso è quella che Arrighi chiama “l’ecologia sociale” a determinare la
differenziazione territoriale al momento in cui, e nel modo e misura in cui, è
esposta alle spinte dell’economia-mondo. E in questa considerazione bisogna
tenere a mente che l’Italia, dal momento della sua unità ha avuto sempre, nel
suo complesso, un’oscillazione tra i livelli più bassi delle zone del centro e
quelli più alti delle zone della semiperiferia. Insomma, è sempre stata in una
posizione basso-centrale.
Nel
crotonese la fine del latifondo costrinse i proprietari terrieri a diventare
veri e propri capitalisti, usando a tal fine gli indennizzi ricevuti (e
generosi). Si formò alla fine una nuova gerarchia sociale più stratificata e il
modello sociale si avvicinò a quello della Piana di Gioia Tauro, incluso il
ruolo mafioso e la rete di clientele che la democrazia cristiana insediò
tramite il ruolo delle agenzie statali. Chi restava fuori di questo nuovo
meccanismo di controllo sociale fu incentivato a salire al nord del paese. Ci fu
perciò un’ondata di emigrazione interna dalla fine degli anni cinquanta alla
metà degli anni sessanta che sostituì il vecchio modello di emigrazione corta
(nella provincia vicina) e lunga (in altri continenti). Ma ci fu anche una
sostituzione sociale; mentre prima emigravano gli strati medi, ora lo fecero
quelli bassi, favoriti dalla unificazione del paese, dalla riduzione dei
vincoli introdotti dal fascismo e dall’espansione industriale del nord. Questo fenomeno
portò nelle regioni calabresi un importante cambiamento determinato da nuovi
modelli di consumo e maggiore istruzione, oltre alla riduzione di
disoccupazione e sottoccupazione locale. Con la terza ondata di emigrazione,
dopo il 1966, iniziarono infine intense lotte per la redistribuzione che
assunsero la forma di rivolte urbane e industriali. Ciò avvenne sia in Calabria,
ma anche nelle regioni del nord, dove i lavoratori meridionali divennero
protagonisti di un’importante ondata di agitazioni.
Questi
due fenomeni, il conflitto industriale al nord e la rivolta urbana (di Reggio Calabria)
al sud furono in definitiva le risposte complementari alle contraddizioni
aperte dall’emigrazione di massa e dalla trasformazione dei modelli
socioeconomici della regione.
La
ricerca di Arrighi giunge alla conclusione che in Calabria l’essere parte di
uno stato con grandi ed importanti regioni in posizione “centrale”, nelle
condizioni idonee derivanti dalle dinamiche dell’economia-mondo ed interne, ha
offerto delle opportunità individuali ma non ha impedito la periferizzazione della
regione. I vantaggi individuali sono stati l’accesso privilegiato ai mercati
del lavoro del centro, senza dover attraversare dei confini politici, la maggiore
e conseguente libertà di impegnarsi in lotte collettive (essendo cittadini a
pieno titolo), e l’obbligo per il sistema politico di prendere in carico le
lotte.
Il
punto di Arrighi è che lo “sviluppo economico”, definibile come mutamento
sociale e aumento del comando degli abitanti sulle risorse economiche prodotte,
non è determinato solo o principalmente dall’organizzazione della vita
economica interna a ciascun territorio, ma, piuttosto, “dal modo in cui le
parti sono combinate nello spazio e nel tempo” e dai relativi processi causali.
Ne consegue che i diversi modi di organizzare la vita economica non hanno una
relazione necessaria con il progresso economico, non sono “stadi”,
ma dipendono dal quadro generale dell’economia-mondo in evoluzione. Ad esempio,
contro una schematizzazione scolastica, la maggior parte della popolazione ha
visto un regresso economico più nella produzione di beni su larga scala del
crotonese che nell’economia di sussistenza del cosentino.
In
termini generali il conflitto sociale è parte integrante, a volte motrice, dei
processi di sviluppo come lo è la valvola dell’emigrazione la quale è un
fenomeno che può, secondo l’autore, sostituire e completare il conflitto
sociale nella definizione dei processi di sviluppo. Nel cosentino, ad esempio,
aiutò la vittoria dei contadini mentre nel crotonese funzionò nella direzione opposta.
Mentre nella Piana di Gioia favorì la riproduzione di un rapporto di forze
equilibrato. Nel dopoguerra, infine, fu una risposta alla sempre maggiore
divaricazione tra le regioni del centro italiane e la periferica Calabria, o dicendolo
con altre parole, si verificò che “andando al Nord gli emigrati cercavano
individualmente il progresso economico che nessuna azione individuale o
collettiva in Calabria avrebbe consentito loro di raggiungere”.
La
storia della Calabria, insomma, “può essere letta come metafora della periferia
dell’economia-mondo”. La sua analisi aiuta a comprenderlo.
[1] - Quando è uno dei principali
redattori della rivista “Rassegna comunista”, con la quale scrive i
saggi poi raccolti in Giovanni Arrighi, “Una
nuova crisi generale”, 1972.
[2] - Walt Whitman Rostow, “Gli
stadi dello sviluppo economico”, Cambridge 1960.
[3] - Giovanni Arrighi, op.cit. p.37
[4] - Libro che cade mentre l’autore
sta lavorando con Wallerstein e gli altri compagni della “scuola del
sistema-mondo” alla sistemazione teorica del quadro.
[5] - Per cui, ad esempio, spuntano un
ottimo prezzo durante la guerra civile americana, che aveva per ben sei anni
interrotto le forniture di cotone dalla Virginia, per poi subire il tracollo
quando riprendono.
[6] - Giovanni Arrighi, op.cit., p. 48.
[7] - Giovanni Arrighi, op.cit., p. 56
[8] - Giovanni Arrighi, op.cit., p. 65
[9] - Gunnar Myrdal, “Teoria
economica e paesi sottosviluppati”, 1957.
[10] - Il governo di Coalizione aveva
ministri socialisti e comunisti e non rispose con la tradizionale politica
repressiva. Il ministro comunista Gullo emise una serie di decreti che
attribuivano ai contadini la terra incolta se si riunivano in cooperativa.
[11] - Ma, al contempo, dissolsero le
cooperative rosse che si erano formate negli anni quaranta e con esse l’influenza
dei socialisti e comunisti in favore delle democrazia cristiana, nel Cosentino
la restaurazione della libertà di emigrazione aiutò l’affermazione del potere
democristiano, mentre nella Piana si ebbe una ripresa delle tradizionali lotte
claniche e della mafia come dispositivo di controllo sociale.
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