Il
noto filosofo Giorgio Agamben, reso molto noto ben oltre i lettori dei suoi
libri dalle sue radicali posizioni negazioniste sulla pandemia in corso, ha
nuovamente scritto una invettiva sul
tema. E’ una domanda, e dunque è cortesia rispondere.
Avvia
il suo testo con un pezzo di Tucidide (II, 53) che dalla mia traduzione di
Pietro Rosa suona assai diverso; diverso in modo indicativo: “e nessuno era
pronto a soffrire per ciò che veniva considerato degno, dal momento che
non poteva sapere se sarebbe morto prima di raggiungerlo”, recita il mio testo[1]. “Nessuno era più disposto
a perseverare in quello che prima giudicava essere il bene, perché
credeva che poteva forse morire prima di raggiungerlo”, dice la traduzione di
Agamben. Qui cambia il soggetto che esprime la forma verbale composta. Mentre
nella mia traduzione è un ente collettivo quello che considera “degno”, in
quella di Agamben è l’individuo che considera “il bene”.
L’individuo.
E’
più di un mese che, nella solitudine della sua casa che immagino confortevole,
il buon Agamben “non cessa di riflettere” su una domanda. La domanda è: “Com’è
potuto avvenire che un intero paese sia senza accorgersene eticamente e
politicamente crollato di fronte a una malattia?” Domanda soppesata,
dice, parola per parola. Il paese, è per lui ‘crollato eticamente e politicamente’,
e, segue spostando inavvertitamente, l’abdicazione ai principi etici e politici
è “propria”[2].
Si abdica, per come scrive, ai “propri” principi. E lo si fa precisamente
quando si supera il limite oltre il quale non vi si può rinunciare. Ovvero
oltre il quale, se vi si rinuncia, si è “barbari”.
Il
limite è duplice.
1) Come
si è potuto accettare che le persone morte siano state lasciate a morire da
sole e che i cadaveri siano stati bruciati senza funerale?
2) Come
è stato possibile limitare la libertà di movimento? Come è stato possibile
accettare di “sospendere di fatto” i nostri rapporti di amicizia ed
amore, “perché il prossimo era diventato una fonte di pericolo e di contagio”.
In
entrambe le formulazioni ricorre ossessivamente una formula, “soltanto in
nome di un rischio che non era possibile precisare”, che è la
cifra della sua negazione della sostanza della cosa. Agamben ritiene che la
malattia non sia certa e provata. E ritiene, mostrando limiti definitori ed
epistemologici non alla sua altezza, proprio che “il rischio” sia da “precisare”.
Non è molto chiaro come si renda esatto, ovvero “preciso” un “rischio”. Il “rischio”
è in effetti una ragionevole eventualità. Non può dunque essere “preciso”, ché,
altrimenti, non sarebbe rischio ma certezza. Purtroppo, nella logica
scientifica ci può essere consenso (maggioritario), non ci può essere, a rigore,
“certezza”. Ciò vale a maggior ragione per una scienza umana e sociale
complessa come la medicina. E vale per una materia antica ma drammaticamente incerta
come l’epidemiologia, nella quale si incontrano virologi, clinici,
epidemiologi, pneumatologi, esperti di medicina di emergenza, esperti di
medicina preventiva, e poi, pertinenti altri saperi come sociologi, urbanisti,
economisti, ingegneri dei trasporti, statistici, e via dicendo…
Dunque,
in sostanza, Agamben che si è espresso male, ritiene che tutte le misure fino
ad ora assunte siano prese siano in nome di un “rischio che non sussiste
ragionevolmente”. Ritiene, insomma, che i morti siano normali[3].
Ma
c’è di più. Compie nelle sue due elencazioni di limiti superati,
alcune affermazioni che chiedono, per essere accettate di essere vere: che i
poveri morti siano morti da soli, e che nessun funerale sia stato compiuto;
inoltre che mai, nella storia, ciò sia avvenuto, addirittura “da Antigone ad
oggi”[4]. La seconda è che la
limitazione degli spostamenti sia anche essa mai avvenuta nella storia d’Italia[5]. Sono vere? Don Luca Peyron,
sentendosi chiamato in causa, risponde di no[6], i poveri morti hanno
lasciato questa vita insieme ai conforti cristiani, e circondati dai medici,
anche se non dai parenti che avrebbero corso rischi personali molto gravi (del
resto non è del tutto insolito, mia nonna è stata nella sala di rianimazione
dell’ospedale venti anni fa mentre noi la potevamo guardare solo da un vetro e
da molto lontano). E i funerali sono stati celebrati, in forma privata e solo
con i parenti stretti, nelle cappelle dei cimiteri alla presenza dei sacerdoti
a ciò preposti. Inoltre, dire che mai ci sono stati morti senza funerali nella
storia è un’iperbole che si commenta da sola.
La
seconda poggia sul fatto che il rallentamento dei contatti, abbastanza tipico
di ogni epidemia dal 1300 in avanti (inclusa la Spagnola del 1900), sia
sospendere i rapporti di amicizia ed amore. Deve essere ben triste Agamben se
quaranta giorni senza vedere qualcuno per lui ne sospende i rapporti di amore.
Io non trovo che il mio amore per mia madre, per i miei fratelli, sia diminuito
dal non poterli incontrare (peraltro loro li vedo già di rado, dato che, come
capita a tantissimi, viviamo in città diverse). Insomma, è enfatico.
Gli
serve, questo, come artificio retorico per giungere al punto al quale voleva
tendere. Questo dispositivo di protezione del corpo sociale gli appare come una
scissione di un’unità indissolubile. Quaranta giorni di distanziamento a suo
parere scindono, niente di meno che “l’unità della nostra esperienza vitale”
che è “corporea e spirituale”. L’avrebbe scissa in una “entità puramente
biologica” e in una “affettività e vita culturale” dall’altra. La colpa di
questo sarebbe della medicina.
“La
più grande delle astrazioni”. Una cosa realizzata dalla possibilità di
rianimare i corpi (“So bene che questa astrazione è stata realizzata dalla
scienza moderna attraverso i dispositivi di rianimazione, che possono mantenere
un corpo in uno stato di pura vita vegetativa.”)
Dal
corpo in coma, condizione, è noto, passeggera, Agamben introduce un salto
vertiginoso. Se la medicina, con la capacità di prolungare la “nuda vita” (il mero
battere del cuore, senza coscienza) oltre la fine naturale della mente, è in
grado di separare l’unità dell’esperienza vitale, allora, la stessa medicina
nel momento in cui prescrive il distanziamento fa proprio lo stesso.
Indifferente al fatto che tale prescrizione la facevano anche i medici
premoderni, per Agamben non c’è altro che “una contraddizione da cui non vi è
via di uscita”[7].
Non vi è perché proseguirà (anche qui forza la realtà, è comunque “limitato nel
tempo”, anche se durasse due anni), in quanto, non si sa chi, a suo dire
avrebbe affermato che “il “distanziamento sociale”, come lo si è chiamato con
un significativo eufemismo, sarà il nuovo principio di organizzazione della
società”. E quindi non vi è via di uscita perché “non potrà essere cancellato”.
Dopo
questa apodittica affermazione (non abbiamo noi cancellato le draconiane misure
prese a Milano durante le pesti del 1300, 1400 e 1600[8], a Venezia nel 1347[9], e quelle delle città
americane del 1919? Neppure le ricordiamo) Giorgio Agamben passa all’attacco
della chiesa, provocando la risentita risposta del pastore che abbiamo prima
ricordato. La chiesa sarebbe ormai “ancella della scienza”. E poi attacca, con
insopportabile artificio retorico, i giuristi colpevoli di accettare che i decreti
di Giuseppe Conte siano come la parola di Hitler.
C’è
un inconfondibile segno di carenza di argomenti quando si ricorre alla reductio
ad hitlerum.
Noi
abbiamo oggi più o meno 3.000 malati al giorno in più (poi, per fortuna, contemporaneamente
quasi altrettanti guariscono), esattamente come nella fase più acuta in Italia
della Spagnola. Ma abbiamo “solo” qualche decina di migliaia di morti (più dei
25.000 ufficiali, probabilmente più del doppio) invece delle 300.000 della
spagnola che era più letale (circa il 10%). Ma, mi dimenticavo, il “rischio”
non è possibile da precisare.
Dopo
Hitler cita Eichmann. E termina con una frase lapidaria: “Una norma, che
affermi che si deve rinunciare al bene per salvare il bene, è altrettanto falsa
e contraddittoria di quella che, per proteggere la libertà, impone di
rinunciare alla libertà”.
Torniamoci,
ma un attimo di pausa. Alla fine, quale è la “barbarie”? Semplicemente che la “nostra”
libertà di movimento è stata limitata. I “nostri” rapporti sono stati sospesi. Come
nella citazione di Tucidide si sceglie il significato che è più coerente con l’idea
che la fonte della vita buona sia l’individuo. Che questo sia la fonte
della normatività e che questa sua originarietà non sia scalfibile da
nulla, neppure dalla morte degli altri (anche essi, peraltro, individui). La
traduzione è, in altre parole, “soffrire per ciò che viene considerato
degno” o per quel che io “giudico essere il bene”? Tutta la differenza del
mondo.
Corrisponde
al significato di vita degna sacrificare me stesso (anche ciò che in altre
circostanze giudicherei essere il bene) per amore del prossimo messo a rischio,
in quanto ciò è considerato degno dalla comunità in cui cresco e vivo, oppure
la vita degna si chiude nel mio giudizio? Corrisponde al concetto di politica
che la protezione comune prevalga sul mero benessere individuale, o no? Che significa
“politica” qui? Come avevo commentato[10] rispetto ad un pezzo di
Nadia Urbinati la libertà che entrambi rivendicano non è un attributo naturale
ed originario dell’uomo, come il respiro lo è del corpo nudamente vivo. La libertà
non è originariamente “mia”. Anche i rapporti non sono “nostri” nel senso di un
possesso. Io non possiedo affatto gli altri e non possiedo il loro amore.
Noi
non siamo completi e formati prima della società nella quale siamo nati e
cresciamo. Non siamo prima delle cose che sono considerate degne. È l’essere
immersi in un tessuto di impegni, di ciò che è considerato degno da un demos, e
da una cultura e società che ci fa umani. Sono uomo quando comprendo gli
impegni. E certo quando li accetto.
Essi
mi costituiscono.
Non
sono esteriori a me. Non posso “giudicare cosa sia il bene” senza riconoscere
la relazione. Posso giudicare perché sono libero, e sono libero perché in un
senso molto profondo la mia libertà è creata dal vincolo sociale e dalla
solidarietà necessaria che lo fonda. Solo se c’è l’uno e l’altro, posso
avere l’illusione di essere un’isola, ma quando ho questa illusione vivo nell’autoinganno.
Mi alieno. Proprio Tucidide in questo è maestro.
Allora
è proprio vero che “Una norma, che affermi che si deve rinunciare al bene
per salvare il bene, è altrettanto falsa e contraddittoria di quella che, per
proteggere la libertà, impone di rinunciare alla libertà”? E’ un bel gioco
di parole, ma è generalizzabile? Si fonda una società su questa o solo Robinson
Crusoe può vivere con essa?
Per
salvare il bene non rinunciamo mai ad altri beni? Chi è colui che mai
rinuncia a nulla per fare un bene più grande? Come lo giudichiamo? Ci
piacerebbe starvi accanto? Gli affideremmo noi stessi?
E
chi è colui che qualsiasi sua libertà considera insuperabile? Colui che
per la libertà, ad esempio, di tornare a Palermo con la febbre alta ed il virus
conclamato prende un treno, poi un aereo e infine un Taxi indifferente alla
strage che provoca in tutti quelli che tocca? E’ falso e contraddittorio
limitare la sua libertà per salvare quella di tutti? O, invece, non la consideriamo
inumana?
Non
è forse una “barbara”?
Triste
è l’umanità che si è persa fino a questo punto.
[1] - Tucidide, “La guerra del Peloponneso”,
Rl, 2016, p.223. Peraltro, anche in altre traduzioni, rintracciabili in rete la
forma è simile, es. “Nessuno si
sentiva trasportare dallo zelo di impegnare con anticipo energie in qualche impresa
ritenuta degna, nel dubbio che la morte giungesse a folgorarlo, a mezzo del
cammino”
[2] - “La misura dell’abdicazione ai
propri principi etici e politici è, infatti, molto semplice: si tratta di
chiedersi qual è il limite oltre il quale non si è disposti a rinunciarvi”.
[3]
- Qui, naturalmente, non
voglio entrare nella triste questione, dovremo attendere che i dati si
consolidino, ma quel poco che si vede, più o meno ovunque, è a mio parere
sufficiente per invitare alla prudenza.
[4] - “Il primo punto, forse il più
grave, concerne i corpi delle persone morte. Come abbiamo potuto accettare,
soltanto in nome di un rischio che non era possibile precisare, che
le persone che ci sono care e degli esseri umani in generale non soltanto
morissero da soli, ma che – cosa che non era mai avvenuta prima nella storia,
da Antigone a oggi – che i loro cadaveri fossero bruciati senza un funerale?”
[5] - “Abbiamo poi accettato senza
farci troppi problemi, soltanto in nome di un rischio che non
era possibile precisare, di limitare in misura che non era mai avvenuta prima
nella storia del paese, nemmeno durante le due guerre mondiali (il coprifuoco
durante la guerra era limitato a certe ore) la nostra libertà di movimento.
Abbiamo conseguentemente accettato, soltanto in nome di un rischio che
non era possibile precisare, di sospendere di fatto i nostri rapporti di amicizia
e di amore, perché il nostro prossimo era diventato una possibile fonte
di contagio”.
[6] - Don Luca Peyron, “Perché
non risponderò ad Agamben”.
[7] - “Ma se questa condizione si
estende al di là dei confini spaziali e temporali che le sono propri, come si
sta cercando oggi di fare, e diventa una sorta di principio di comportamento
sociale, si cade in contraddizioni da cui non vi è via di uscita”.
[8] - Per difendersi le città italiane
nominarono funzionari addetti alla salute pubblica, proprio come ora, e
ordinarono la chiusura dei mercati, proibirono i funerali (e sì), e isolarono i
malati, addirittura a Milano sprangando le case con i malati dentro. Chiudendo
i confini e i porti. Imponendo le “quarantene” (dall’insegnamento di
Ippocrate).
[9] - Il batterio fu probabilmente
portato dalle pulci dei topi, ma i veneziani reagirono imponendo la quarantena
a tutte le navi, isolò i malati in zone lontane, e si concentrarono sulla
gestione degli spostamenti e delle interazioni sociali, cercando di raccogliere,
nel 1300, dati sul sistema urbano. Praticarono in seguito la disinfezione delle
merci e costruirono ospedali pubblici specializzati “il nazaretum vecchio” sull’isola
di Santa Maria di Nazareth. E poi neo 1468 uno “nuovo”. Ogni viaggiatore doveva,
pena la morte, portare con sé una ‘patente’ su tutti i porti toccati. Si veda qui.
Ho letto il suo articolato intervento e mi trovo a dissentire. In primo luogo sull'analisi dei fatti pesa il citare i numeri in senso assoluto e non relativo. Giusto per avere qualche riferimento in italia si stimano 180.000 morti l'anno per tumori (al 95% dovuti a causa di inquinanti esogeni), 50.000 morti per malattie respiratoria (anche qui in larga parte dovuto ad inquinanti atmosferici) e altrettanti per infezioni antibiotico resistenti contratte in ospedale. Vi è poi da considerare che, anche grazie all'oms che ha sconsigliato le autopsie, nei primi mesi le cure degli ammalati sono state errate: si curava la polmonite intubando quando il problema è la trombosi che nei polmoni impedisce lo scambio co2 o2.
RispondiEliminaOggi sappiamo che la fascia realmente a rischio è quella degli over 70 ma, mentre ai bambini è negata la scuola, niente è stato fatto per tutelare la fascia più debole della popolazione ovvero i ricoverati nelle rsa. L'oms stima che il 50% dei decessi è avvenuto proprio in tali strutture e, come saprà, in lombardia si sono aperte delle indagini.
Sul piano del diritto lascio fare ai giuristi ma non posso fare a meno di farle notare che da tre mesi siamo commissariati da specialisti di aziende private che stanno approfittando del crollo (controllato?) dell'economia per imporre un'agenda (digitale) ben precisa.
In ultima istanza a mio avviso siamo in presenza di un ulteriore avanzamento del bio potere in un contesto di teologia scientista. Immagino non sia la sua materia di punta ma le garantisco che questo stato di emergenza (non prevista dalla costituzione) è ciò che serviva ai big data per sfondare l'ultima trincea riguardante i dati sanitari personali incluso quelli genomici.
Stiamo applaudendo alla creazione del panopticom spinti dal terrore dell'ignoto. La guerra del terrore 2.0.
https://www.ansa.it/canale_saluteebenessere/notizie/medicina/2020/04/14/coronavirus-ricerca-cagliari-provoca-trombosi-polmonare_2c043616-2572-4bce-b687-b003bf20cf0e.html
https://www.ilgiornale.it/news/politica/trombosi-che-uccide-mio-mix-farmaci-sconfiggere-covid-1856035.html
https://www.lastampa.it/cronaca/2020/04/24/news/allarme-oms-sugli-anziani-nelle-rsa-il-50-dei-morti-in-europa-situazione-grave-1.38754330
Dissento sia sui fatti sia sulle interpretazioni. Non è che basta citare il Panopticon di Jeremy Bentham (a proposito il libro di Foucault lo ho letto trenta anni fa), per avere necessariamente ragione. Alcune delle cose citate sono dei rischi, altre delle ipotesi (come quella sulla causa delle morti), altre delle contabilità piuttosto macabre e senza senso. La cosa esiste, nessuno la ha progettata, o voluta, come sempre capita qualcuno da varie parti ne approfitta o ci prova, nessuno è "commissariato da specialisti", è cattiva ma comunissima pratica dell'amministrazione nominare commissioni di esperti. E ordinariamente più commissioni. Tutto già visto, anche se in questo caso, data l'enorme scala e senza precedenti, tutto piuttosto esagerato. L'enfasi non aiuta a capire, solo ad aumentare la confusione. Mi soffermo un attimo su questa leggenda metropolitana secondo la quale in tutto il mondo si avrebbe sbagliato la cura e oggi è tutto a posto. Peccato che oggi siano morti 600 americani e 100 inglesi, forse potrebbe dare il geniale suggerimento alle cliniche a Londra e New York. Il punto (ne ho parlato con amici clinici universitari di livello internazionale) è che a volte il sistema immunitario reagisce in modo eccessivo all'infezione e provoca quell'effetto, ma la causa è sempre l'infezione. Cero, piano piano si mettono a punto interventi migliori, è normale, ma non c'è ancora la soluzione. Speriamo presto. Più si mantiene la calma e più facilmente si risolverà.
RispondiEliminaLe rispondo per punti iniziando da quella che lei chiama "contabilità senza senso". Lungi da me scimmiottare l'imbarazzante conta della protezione civile, volevo soltanto attirare la sua attenzione su altre circostanze tragiche per le quali difficilmente si mette anche solo in discussione l'economia. Basta l'esempio di Taranto per rendere l'idea?
RispondiEliminaQuesta volta, invece, dopo aver chiuso mezza Italia ma lasciando la borsa di Milano aperta, si è permesso alla speculazione di fare il suo sporchissimo lavoro senza nemmeno vietare le vendite allo scoperto.
La leggenda metropolitana, come la chiama lei, è un fatto appurato. Ci sono volute settimane prima che si inquadrassero nel giusto contesto le dinamiche di questa infezione. Ed anche dopo l'idea di trattare per tempo l'organismo somministrando eparina è stata osteggiata dal solito virolgo di stato con le solite modalità da bravo Manzoniano. Discorso analogo per l'utilizzo di vitamina c e d come immuno modulante e, ultimo cronologicamente, la vicenda riguardante la sperimentazione del plasma iperimmune. Parliamo degli stessi illustri luminari che non sono riusciti a dare indicazioni precise per la salvaguardia di quanti, già in condizioni critiche, si trovavano nelle R.S.A..
Ora trovo davvero velleitario dissertare filosoficamente prima ancora di aver inquadrato il contesto al di la della narrazione televisiva. Trovo preoccupante non si riesca a scorgere l'immenso potere che deriverà dal cedere in blocco i nostri dati a partire da quelli sanitari e che non desti allarme l'escusione del parlamento nella stesura di decreti che cambieranno faccia all'Italia.
Mi rendo conto che lo sviluppo dell'inteligenza artificiale e degli algoritmi predittivi quindi concludo consigliandole di leggere "il capitalismo della sorveglianza" della dott.ssa Shushana Zuboff dove la questione dei dati comportamentali viene chiarita anche ai profani.
Le auguro il meglio.
https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/05/20/plasma-iperimmune-il-ruolo-di-kedrion-la-societa-della-famiglia-del-senatore-marcucci-pd-lazienda-nessun-conflitto-dinteressi/5807558/
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