L’età
moderna nasce dalla paura, c’è paura sempre ed ovunque[1]. È questa la enorme forza dalla
quale scaturisce la soluzione liberale del “male minore”[2]. E dalla quale scaturisce
l’affidamento al sistema della tecnoscienza, la cui prima e più essenziale
incarnazione è il sanitario.
Dal
clima di paura del XVI secolo scaturisce anche la ragione d’essere dello Stato
nazionale, che esiste e pretende di avere il monopolio della forza in quanto e
per quanto protegge dalle minacce che turbano l’esistenza delle persone. Dei sudditi,
in una prima fase, dei cittadini, dopo. Viceversa, la scomparsa della
centralità dello Stato, o la narrazione di tale scomparsa (dato che questo al
massimo si ritira lontano dallo sguardo e dalle mani dei cittadini, divenuti
troppo esigenti, da retrocedere per questa via a sudditi[3]) fa venire meno questa
promessa.
Si
tratta di una minaccia esistenziale quindi, per l’ordine sociale e per la vita
organizzata. Una minaccia per qualunque ordine sociale, sia esso capitalista o
no, occidentale o orientale, del nord e del sud. Per riferirsi ad un esempio storico, anche durante
i processi di state-building del periodo della decolonizzazione (1945-75) è
attraverso l’estensione di servizi sanitari che è stata spesso cementata la
proposta di legittimazione del nuovo stato. Nell'attuale crisi mondiale derivante dalla pandemia da SARS-CoV-2 accade qualcosa di simile. Non è un caso che tutti i paesi del
mondo, in pratica, abbiano avuto, con maggiore o minore reattività, lo stesso ciclo
di risposta: scoperta-minimizzazione-attesa-allarme-misure di lock down. La
ragione è che la vera minaccia non è solo alla vita di migliaia di cittadini,
quanto alla funzione stessa dello stato di proteggerli. Non appena quindi la
minaccia è stata percepita come reale ed imminente lo stato ha reagito
enfatizzando, con misure drammatiche, la sua offerta di protezione. Ciò in
Cina, Corea, Singapore, Giappone, India, come in Italia, Francia, Germania,
Inghilterra, Stati Uniti. Si è trattato di una pura necessità di legittimazione.
La differenza tra le misure (con, al momento, più o meno la metà dei cittadini
del mondo in Lock Down, a vari gradi) deriva solo dal grado di allarme, e quindi,
precisamente, dal grado di minaccia alla legittimazione.
Misure di distanziamento nel mondo 27 marzo 2020 |
Il
fatto è che la cosa viene da lontano. Anche senza pandemia, l’offerta di
protezione dalla paura è spesso resa inesigibile a causa della natura
smaccatamente mercatocentrica della società che si afferma nel neoliberismo e
della natura globale dei relativi mercati. Abbiamo, infatti, assistito in
questi ultimi trenta anni a diversi ripiegamenti come effetto di questa inesigibilità.
In particolare, la “politica della vita”[4] e la società dei consumi,
che ne è il necessario ambiente[5], si sono affermati come la
forma specifica che prende nella modernità contemporanea la privatizzazione
della funzione di protezione in precedenza assunta dallo Stato “provvidenza”. Per
un famoso testo di Giddens, del 1991, la transizione dalla modernità alla
modernità contemporanea è effetto di profondi processi di “riorganizzazione del
tempo e dello spazio, insieme all’espansione di meccanismi di disancoraggio”. Ovvero
di dinamiche che “rendono i rapporti sociali liberi dalle influenze locali e li
ricostituiscono su grandi distanze spazio-temporali”. L’effetto di questa
trasformazione è la prevalenza del “rischio”, anzi della “cultura del rischio”[6].
Ciò
determina la fragilità, fisica, strutturale e politica, nella quale le nostre società
globalizzate sono state trovare dalla sfida del coronavirus.
Prendiamo
un caso limite. A Santiago de Guayaquil, in Ecuador, da una settimana sembra
che le funzioni più elementari del servizio sanitario del paese siano
collassate e scomparse[7]. In una città di tre
milioni e mezzo di abitanti, che fa parte di un paese di sedici, da diversi
giorni non si ritirano migliaia di cadaveri. Persone che sono morte a causa dell’epidemia
di coronavirus nelle loro case. La gente è quindi costretta ad abbandonare i
propri cari in mezzo alle strade, davanti agli ospedali, ovunque. Alcuni pietosamente
li accatastano e li bruciano alla meglio. Gli scantinati dei presidi
ospedalieri sono pieni di buste nere abbandonate con il loro triste contenuto. Il
paese dichiara tremilaseicento casi e solo centottanta morti, il governo teme
siano tremilacinquecento i morti, ma a tutta evidenza ha smesso di contare gli
uni e gli altri. Come è potuto accadere? Cosa resta di uno Stato quando neppure
questo riesce a fare? Perché il presidente Lenin Moreno non riesce che a
balbettare che rimedierà? Ci sono molte concause: il paese ha un’imponente
emigrazione, e questa è stata diretta verso tre paesi in particolare che evidentemente
svolgono la funzione di metropoli rispetto a loro, gli Usa, la Spagna e l’Italia.
Da tutti e tre gli immigrati senza effettivi diritti e con posizioni precarie sono
tornati precipitosamente alle loro famiglie, ma nel farlo hanno condotto il
virus. La seconda è l’espulsione delle migliaia di medici cubani che tenevano
in piedi la sanità ecuadoregna per dare un contentino alle richieste pressanti
di Trump. La terza è la svolta neoliberale dello stesso Moreno, il quale ha
accettato di smantellare il poco sistema pubblico esistente, per dare seguito a
misure di austerità. Tutte e tre le dimensioni si riconducono ad una: il
liberalismo globalizzato costringe a smantellare la protezione pubblica per
costringere tutti a ricorrere al mercato. La privatizzazione della protezione,
da ottenere con ogni mezzo, è un passaggio centrale e necessario della pretesa
obsolescenza dello Stato.
Attesa sotto un ospedale |
Altro
esempio, l’Italia del nord. La sanità è stata ristretta a poche macchine di
salute, abbandonando il presidio sociale e territoriale diffuso, ha lasciato
anche il modello pubblico che l’aveva caratterizzata ai suoi esordi come Sistema
Sanitario Nazionale. Creato nel 1978 come misura chiave della partecipazione
del Pci al “compromesso storico”[8], dagli anni novanta è
stato investito dal federalismo fiscale[9], ed a partire dagli anni
dieci, in seguito alla crisi, è stato investito dalle politiche di consolidamento
fiscale imposte dalla Unione Europea[10]. In particolare, la crescita
del saldo primario è sempre stata ottenuta anche a carico della spesa sanitaria
(e di quella dell’istruzione), circa nella misura di un terzo[11]. Gli ultimi anni hanno
visto tutte le regioni disinvestire nella sanità pubblica, in parte spostando
risorse sulla presunta più efficiente sanità privata, ottenendo
complessivamente un saldo negativo di posti letto, capacità di trattamento,
numero di addetti. Tutte queste condizioni, appena sufficienti in condizioni
normali sono repentinamente crollate nelle primissime settimane di una epidemia
severa, ma non certo riconducibile alle pesti che aprirono la modernità. Il risultato
è un’intera nazione bloccata, migliaia di morti non necessari, un crollo
verticale del sistema economico.
Per
ora si sta seguendo quella che sembra la strategia “del martello e della danza”[12] per la quale si alternano
fasi di duro contenimento, per abbassare il numero di contagi e far arretrare l’epidemia
a fasi nelle quali si compie una “danza” cercando di allentare e restringere le
misure per tenere sotto controllo la stessa. Ciò fino a che non saranno
disponibili affidabili vaccini o robuste terapie (ed infrastrutture nelle quali
erogarle). Naturalmente la capacità mutagena del virus, che è già cambiato in
almeno tre ceppi principali, e l’interconnessione non completamente arrestabile
del pianeta, renderanno la “danza” piuttosto lunga e complessa. Potrebbero
anche essere necessarie altre “martellate”.
Ci
torniamo tra poco.
L’età
moderna nasce dalla paura, e da questa scaturisce la soluzione di affidare al
politico la protezione, abbiamo detto. Ciò implica che la protezione è la
precondizione per l’esistenza stessa del politico ma anche del sociale. E ciò
da sempre.
Dunque
la soluzione moderna connette il contenimento, pratico e simbolico ad un tempo,
della paura tramite il politico alla forma-Stato. Nel farlo rende possibile la
socialità, ma, naturalmente comprime in qualche misura le individualità che, al
contempo, le forze sprigionate dalla rivoluzione borghese avevano liberato. Si tratta
di un processo grandioso che in Europa porterà il potere prima a concentrarsi
nelle mani del re (inaridendo tutte quelle piccole e grandi isole di potere
che caratterizzavano l'assetto medioevale e feudale), per quindi passare, in
seguito ad una profonda crisi rivoluzionaria, nelle mani della borghesia che
fonderà lo stato moderno[13]. Parte del processo è la
costruzione di macchine territoriali sempre più complesse ed interconnesse,
tecniche di controllo sempre più pervasive, strutture amministrative sempre più
capillari ed astratte[14]. Opere pubbliche sempre
più costose, e quindi sistemi di misurazione, identificazione, normalizzazione,
sempre più dettagliati. Controllo capillare dei luoghi previa loro
identificazione (catasto, fisco, polizia, strade regie, poste, ospedali,
asili, prigioni, manifatture ecc.).
Il
processo raggiunge un salto di scala molto significativo con l’insorgenza della
sanità moderna, al principio del XIX secolo, e trova una sua poderosa
rappresentazione nel ridisegno di Parigi alla metà del secolo[15]. La figura dell’ingegnere
sanitario e del medico igienista[16], insieme a quella del
moderno ospedale, nati tutti in un breve arco di decenni, incarna questa
funzione protettiva[17] che si estende insieme
allo Stato e ne definisce molto profondamente la legittimità. Non a caso
questo processo di estensione avviene come moto di reazione all’impatto del
capitalismo “manchesteriano”[18] che si era esteso come un
incendio nella steppa in tutta l’Europa moderna, per propagazione dai centri
britannici verso la Francia e l’Europa centrale. Al 1870 se ne vedono gli
effetti di potenza nella guerra franco-prussiana[19].
In
definitiva se si può dire che il processo di estensione della protezione e di
legittimazione dell’attivismo dello stato è l’effetto di un grandioso processo
che prende il secolo lungo tra il secondo quarto del XIX e il terzo del XX
secolo, la sanità ne è uno dei centri più rilevanti.
Questo
bastione è stato preso però, interamente, nella linea di attacco del post-moderno
e del neoliberismo. La riduzione del pubblico nella vita delle persone è passata
sistematicamente per una loro maggiore esposizione alla durezza della vita e
quindi anche al rischio, alla paura, alla generazione di fragilità individuale.
La sinistra ha contribuito fortemente a questo processo, peraltro, valorizzando
il lato libertario dell’indebolimento delle macchine protettive novecentesche,
reinterpretate come dispositivi di autorità, regimentazione, normazione e, in
ultima istanza, paternalismo e patriarcato. Abbiamo illustrato il caso di Giddens,
molti altri si potrebbero fare. È molto chiaro, per il sociologo inglese che la
modernità contemporanea è un “processo di ritrovamento di se stessi”. Un processo
che vive nella tensione tra pulsione all’autenticità e apertura al mondo
determinata dai sistemi astratti che ci circondano e definiscono. Chiaramente
questa esposizione è fonte di ansia, tuttavia essa in positivo è anche “stimolo
per risposte utili per l’adattamento ed anche per prendere delle nuove
iniziative”. Dunque, in sintesi, “la modernità è un ordine post-tradizionale in
cui la domanda ‘come vivrò’ deve ricevere una risposta attraverso le decisioni
quotidiane riguardanti come comportarsi, cosa indossare, cosa mangiare o altro”.
La vecchia modernità, ormai superata, e propria del mondo industrializzato e
capitalista, si sviluppava, invece, entro istituzioni di vigilanza come lo
Stato-nazione e determinava l’emergere ovunque di organizzazioni inclusive, le
quali nella stessa mossa proteggevano e limitavano. Mentre il passaggio a
quella “contemporanea” si è data attraverso alcune accentuazioni e rotture: un
estremo dinamismo; la separazione di tempo e spazio e il conseguente
disancoraggio delle istituzioni sociali, lo sradicamento dai contesti locali e
la riarticolazione in ambiti spazio-temporali definiti da segni simbolici (come
il denaro) e sistemi esperti (conoscenza tecnica). In conseguenza, nella
dialettica che si è istituita tra la trasformazione dell’identità personale e
la globalizzazione per Giddens la soluzione può ormai emergere solo a livello
individuale nel progetto del sé riflessivo e nella scelta del proprio “stile di
vita”. Una scelta che sia individuale, consapevole e per questo sostenuta
contro ogni stress e rischio. Naturalmente non sfugge che bisogna disporre
delle adeguate risorse.
Questa
è stata fino ad oggi l’antropologia neoliberale.
C’è
un effetto finale. L’attacco neoliberale, reso apparentemente necessario ed
irresistibile per effetto dello strumento principe della movimentazione di
capitali, uomini e quindi della mondializzazione, ha condotto necessariamente, date
le proprie premesse, al progressivo indebolimento della capacità della società
organizzata di far fronte ad eventi straordinari come quelli oggi in corso. Ma ciò
varrebbe anche per eventi come l’uragano Katrina, un terremoto importante, e via
dicendo.
Questo
è il significato più proprio dell’indebolimento dello stato.
Torniamo
al coronavirus.
Avevamo
parlato di “martello” e “danza”.
Del
primo stiamo vedendo gli effetti[20]. Parliamo ora della
seconda. Una volta rientrata la prima onda di piena dell’epidemia ci sarà da
sviluppare senza indugi alcuni interventi di natura strutturale[21].
Ma
se si tratta di danzare è necessario trovare il modo, mentre ancora l’emergenza
da coronavirus non è completamente passata nel paese e magari è in pieno
svolgimento in altre parti del mondo, di riattivare con la necessaria
gradualità la produzione e la socialità.
Ci
sono due possibilità, essenzialmente: la prima è di aprire selettivamente alcune
attività e non aprirne molte per un periodo che potrebbe essere anche di
diciotto mesi/due anni, durante i quali alternare periodi di Lock Down quando l’epidemia
inizia a mettere in difficoltà il sistema di risposta sanitario e più brevi periodi
di rilascio (il Mit stima periodi di contenimento di due mesi, intervallati da
un mese di pausa, per diciotto mesi[22]).
Naturalmente
si possono costruire in teoria quanti posti di ventilazione e soccorso
possibili, per “reggere” i picchi, ma quel che non è altrettanto facile fare è
istruire medici ed infermieri. Può darsi che idonee tecnologie possano aiutare,
ma per quelle è probabile ci voglia molto più tempo (ad esempio, per sviluppare
e implementare sistemi di automazione sanitaria[23]).
In
questo primo scenario chi ne fa le spese? I primi sono tutti
i luoghi nei quali si riuniscono molte persone contemporaneamente: ristoranti,
caffè, bar, discoteche, palestre, hotel, teatri, cinema, gallerie d'arte,
centri commerciali, fiere dell'artigianato, musei, musicisti e altri artisti,
luoghi sportivi (e squadre sportive), sedi di congressi (e produttori di
congressi), compagnie di crociera, compagnie aeree, trasporti pubblici, scuole
private, centri diurni. Parliamo di una quota molto importante della nostra
economia e della nostra vita. Se ciò si verifica ci abitueremo a fare a meno
per i prossimi due o tre anni (molti stimano in almeno questo periodo il tempo
nel quale sempre nuove mutazioni del virus torneranno, e torneranno, sempre
diverse) di trasporti pubblici, bar, centri commerciali, sport, congressi ed
eventi. In effetti sembra alquanto difficile. Vorrebbe dire tenere in animazione
sospesa la società per quasi due anni, è molto difficile possa sopravvivere
economicamente e socialmente. Faccio un esempio, Roma ha circa 13 milioni di
visite turistiche all’anno, di cui la metà di fascia alta. La spesa diretta di
questi turisti è stimata ufficialmente in 7 miliardi (più magari 1 altro miliardo
semisommerso dovuto ad Airbnb), il 12% del Pil della città. Complessivamente in
Italia sono 100 milioni di visite turistiche. Lavorano nel settore nella
capitale poco più di 30.000 persone su 1.700.000, ma c’è un consistente indotto
nei settori del commercio, della ristorazione, e ci sono 100 milioni di incassi
del Comune per tassa di soggiorno. Il saldo complessivo del turismo vede spese
in Italia per circa 40 miliardi e spese all’estero (dei turisti italiani) per
24 miliardi, è quindi una voce attiva della nostra bilancia commerciale.
Possiamo
a lungo termine farne a meno? Non sfuggirà che perdere introiti diretti, ma soprattutto
molti posti di lavoro diretti ed indiretti, moltissima integrazione del reddito
per “lavoretti” di vario genere, quota decisiva del fatturato di settori
importanti, commerciali e ristorativi, produce una dinamica cumulativa che
rischia di alimentarsi. La perdita di gettito fiscale induce riduzione dei servizi
e peggioramento della qualità della vita e dello stato di manutenzione, ciò
allontana ulteriori attività, e questo aumenta la perdita, così via.
La
seconda possibilità è che si attivi una mitigazione di questa prospettiva che può
derivare nel medio termine solo dal potenziamento di sistemi di controllo e
tracciamento.
È
abbastanza noto il menù di base:
a- Screening
approfondito, e per priorità, della popolazione per
rilevare chi è immune (se possibile), chi è malato asintomatico, ma contagioso,
chi non è entrato in contatto con il virus (a partire da settori cruciali, come
i medici, i poliziotti, gli addetti alla logistica, i gestori dei servizi locali,
gli addetti al trasporto pubblico), si parte pare con 100.000 rilevazioni;
b- Potenziamento
massivo della sorveglianza sanitaria attiva sul territorio,
e distribuzione di presidi di prossimità, in modo da ridurre il tempo tra la
segnalazione di soccorso o allarme e l’intervento qualificato, stiamo
cominciando;
c- Controllo
delle persone circolanti per identificare in tempo reale o
retrospettivo chi sia portatore del virus e tutti i suoi contatti;
d- Identificazione
delle aree potenzialmente contaminate;
e- Identificazione
delle merci potenziali veicoli di contagio e la loro
distribuzione;
f- Tempestiva
sanificazione delle aree e confinamento in quarantena delle
persone;
g- Controllo
molto più specifico nelle aree di affollamento
e di lavoro;
h- Misure
di confinamento e quarantena al confine delle aree in
sicurezza per merci e persone (in particolare al confine esterno del paese),
per farle entrare in esse;
i- Confinamento
e controlli approfonditi, eventualmente assistiti da
dispositivi di sanificazione, al confine delle aree in quarantena (in caso di aree
limitate) per uscire da esse.
Questa
semplice esigenza potrebbe portare a:
1- Controllare
gli spostamenti e la localizzazione di ogni cittadino fuori
del suo domicilio per l’intero percorso e tracciamento attivo di tutti quelli
che sono segnalati perché a rischio contagio attraverso il proprio dispositivo
di comunicazione (con o senza App specifica);
2- Individuare
tempestivamente tutti i contatti intercorsi, anche per
semplice incrocio fortuito, con tutte le persone che risultassero contagiate,
interrogando la banca dati che contiene i tracciati, per l’intero periodo di incubazione
e attività;
3- Incrociare
i dati ed i tracciati di movimento con punti di controllo
sul territorio, come telecamere con riconoscimento facciale, portali attivi in
grado di leggere l’identificativo del telefono, e, peraltro, di ogni oggetto
facendo anche uso di reti wireless pubbliche e pervasive;
4- Tracciare
completamente il ciclo di vita delle merci, fino a destinazione,
in modo da poter identificare qualsiasi oggetto che sia stato toccato da una
persona che risultasse infetta (tecnologia Rfid o simile).
Per
ottenere questi risultati serve:
I-
Un sistema dati
in grado di tracciare ogni persona e tutti i suoi spostamenti sull’intero
territorio e di essere interrogato rapidamente e con precisione;
II-
Una rete di sensori
nel territorio in grado di fornire riscontri della geolocalizzazione delle merci;
III-
Una rete di sensori nei luoghi di
affollamento, in grado di fornire una localizzazione
del movimento delle persone e l’identificazione di coloro i quali fossero entrati
nel raggio di influenza di una persona potenzialmente contaminata e/o positiva;
IV-
L’interfaccia delle telecamere
disponibili sul territorio con software di riconoscimento facciale, per fornire
punti di incrocio delle geolocalizzazioni;
V-
L’intensificazione dell’automazione,
per ridurre la presenza umana e certamente la sua densità, nei luoghi di lavoro
e produzione.
E’
chiaro che alcuni letterati, diversi filosofi, molti intellettuali al sicuro nelle
loro comode case, che non dovranno mai correre il rischio di stare otto ore al
giorno in una sudaticcia sala con centinaia di altri colleghi, diranno che
tutto questo è uccidere i diritti di libertà di tutti (come dice, ad esempio, Francesco
Benozzo[24]), in quanto radicalmente
in contrasto con la “politica della vita” alla quale sono abituati da qualche
decennio. Ovvero con l’oggettiva confluenza del neoliberismo, per chi se lo può
permettere, con l’estetica libertaria e la sua “critica artistica”[25].
Ma
è possibile che abbastanza inevitabilmente domani se vorrai prendere un aereo,
o forse anche un treno, dovrai poter dimostrare che non sei entrato in contatto
con persone potenzialmente infette, o aver attraversato aree a rischio, negli
ultimi venti giorni. Ciò per proteggere gli altri, ed in particolare i più
deboli di noi[26].
E una tale certificazione potrà essere prodotta solo dal sistema informatico
(peraltro in tempo reale). Certo si può certamente pretendere un’assoluta privacy,
e la distruzione dei dati trascorso un certo numero di giorni, ma l’alternativa
rischia di essere di passare venti giorni all’arrivo, o prima della partenza,
in un’area di quarantena[27]. Parimenti potrebbe darsi
che si debba avere un simile bollino per andare ad un concerto, entrare in luoghi
pubblici potenzialmente affollati. Noi potremmo anche non accorgercene,
potrebbe essere il nostro dispositivo di comunicazione (che diventerebbe
obbligatorio come la carta di identità e la cui assenza potrebbe essere
rilevata dai sensori[28]), a segnalarci ed
abilitarci.
Il
ritorno dello Stato alla sua funzione primaria di garanzia della
sicurezza della vita stessa, e quindi di garanzia sanitaria, potrebbe insomma comportare
qualcosa di simile all’immane trasformazione che le città europee subirono nel
corso dell’ottocento[29]. La medicina, come
dicevano gli igienisti nella prima parte del 1800, tornerà ad avere in modo
evidente “dei rapporti intimi con l’organizzazione sociale”; il tema tornerà, o
potrebbe tornare, ad essere quello di ridefinire gli spazi urbani e la sua
dotazione infrastrutturale[30] per “riorganizzare
contatti e transiti”.
Potrebbe
esserci però una nuova forma di digital divide[31], e questo aprirebbe
ulteriori dimensioni nella lotta alle ineguaglianze. Tutto ciò potrebbe accelerare
in modo decisivo la fuoriuscita dai residui ancora resistenti della società del
novecento, quella del lavoro sicuro e stabile, della protezione garantita per
grandi unità di senso, conducendoci ancora più velocemente, sulla spinta della
sicurezza e dell’igiene, verso un mondo in cui ad una minoranza di connessi e
vincenti, rapidi, flessibili, carichi di energia e di ottimismo, ma anche
apolidi, tendenzialmente refrattari alla responsabilità, si oppongono
maggioranze variegate e frammentate (in effetti una molteplicità di minoranze
anche esse) che utilizzano e sono usate nella grande macchina produttiva
diffusa, restando in posizione sostanzialmente passiva e subalterna e una
crescente area marginale degli esclusi a vario grado respinti[32]. I primi mobili, che
accettano i controlli tecnologici, i secondi ancora più vincolati e fermi.
Siamo
davanti ad un enorme punto di ambiguità e grandissimi rischi.
Come
avevamo già scritto, nel medio periodo tutto questo porterà probabilmente importanti
cicli di investimento, con la conseguente possibilità di essere parte della ripresa,
soprattutto se questi avvenissero con un importante protagonismo pubblico, come
è nella natura dell’impegno di re-estensione della protezione. Ma porterà anche
un enorme spiazzamento e la possibilità di amplificare le differenze centro-periferia.
E, se la cosa non viene gestita secondo un piano sotto stretto controllo
democratico, porterà anche ad un’ulteriore periferizzazione di tanti. Senza uno
sforzo collettivo erculeo per rendere disponibili le risorse necessarie alla
riproduzione individuale e sociale e la riconversione di uomini e territori le
tensioni saliranno, insomma, in modo insostenibile.
Questa
è dunque una delle arene di maggiore rilevanza e di più grande delicatezza che avremo
davanti a medio termine, nell’arco dei prossimi due o tre anni. La protezione
sociale è necessaria e sempre di più lo sarà, ma deve andare di pari passo alla
consapevole condivisione della propria produzione di informazione e nel
potenziamento e difesa del “diritto alla città”[33], ovvero il diritto di
ciascuno (diritto sociale, non civile, si potrebbe dire) a
disporre di un’esperienza spaziale adeguata a sostenerne la vita e non
segregante. Attraverso un’ampia discussione collettiva, cui il sapere
tecnico sarà abilitato a partecipare, ma senza avere l’unica parola, bisognerà
porre la questione decisiva del soggetto che è legittimato a chiedere
che tipo di territorio che vogliamo, che persone vogliamo essere, a quali
rapporti sociali aspiriamo, che rapporto intendiamo promuovere con la natura,
e, naturalmente, con le tecnologie che riteniamo convenienti. Dunque, il “diritto
alla città” non è un diritto individuale di accesso alle risorse
originariamente concentrate nella città stessa: piuttosto è il diritto a
cambiare insieme alla città, in modo da renderla conforme ai desideri,
insieme scoprendoli. Non è una cosa nuova: la visione originaria del socialismo
consisteva proprio in questa idea secondo la quale in futuro le società
potranno essere interamente ristrutturate secondo il modello di una spontanea
comunità solidale per impulso dei propri stessi membri. Cioè per una
capacità da essi stessi sviluppata a orientarsi spontaneamente gli uni verso
gli altri, superando l’egoismo e dedicandosi ognuno in modo disinteressato alla
autorealizzazione dell’altro.
La
creazione di informazione, e la consapevolezza insieme della comune
interdipendenza, cosa che può essere il frutto migliore di questa
esperienza tragica può essere anche occasione per comprendere, finalmente, che
gli esseri umani non possono essere liberi da soli, ma solo entro relazioni
sociali che li rendano tali, cioè entro la “libertà sociale” che il
socialismo intende istituire. Non si tratta solo di realizzare un sistema
distributivo più giusto (ottenendo l’uguaglianza, magari al prezzo di un
potenziamento dell’amministrazione, cosa che in certi limiti avverrà), ma anche
ed insieme di creare le condizioni di una nuova forma di vita comunitaria.
Consapevole della nostra comune compresenza. Una forma in cui la “libertà” sia
determinante sia sul piano dell’individuo, che si orienta verso la comunità per
la soddisfazione delle sue finalità (in primis quella di base della propria sicurezza),
sia su quello della comunità stessa, che è una creazione consensuale della
“fratellanza”, ovvero della “simpatia” reciproca (termine presente nei
moralisti settecenteschi, in particolare scozzesi).
La
cosa è abbastanza semplice da capire: noi stessi usiamo spesso il termine
comunità, intendendo una condivisione di finalità ed un senso di comunanza e
reciproca simpatia (che si manifesta automaticamente, ad esempio, quando due
connazionali si incontrano in un paese estero non familiare) che porta ad un
certo grado di disponibilità a farsi carico dei bisogni dell’altro, ovvero un
certo grado di essere-sé nell’altro (secondo una fulminante formula di Hegel) sia
pure nel quadro di unità anonime.
Però
la vera via di uscita, per evitare tutto ciò deve essere molto di più. Una
profonda razionalizzazione degli apparati produttivi e delle macchine
territoriali, riducendo l’inutile differenziazione dei prodotti e le tante
fonti di lavoro improduttivo, scegliendo quali attività sono in effetti superflue,
inutili, dannose, quali forma di solitudine nella folla sono da disincentivare.
Un grande lavoro collettivo, a regia pubblica, volto ad ampliare sia l’indipendenza
del paese sia la sua robustezza, garantendo la partecipazione di tutti alla
produzione, alla sua organizzazione, alla vita, ai suoi frutti.
Ma
questo è un discorso che bisognerà continuare.
[1] - Lucien Febvre, “Il problema
dell’incredulità nel secolo XVI. La religione di Rabelais”, Einaudi, 1978,
p.380.
[2] - Jean -Claude Michéa, “L’impero
del male minore”, 2007.
[3] - Mi riferisco ovviamente al
deficit di democrazia dell’Unione Europea. Deficit che è, si badi bene, del
tutto strutturale e non casuale. Ad esempio si può leggere Peter Mair, “Governare
il vuoto”, 2016.
[4] - Si veda Antony Giddens, “Identità
e società moderna”, 1991.
[5] - Scrive Zygmund Bauman, “lo Stato
‘sussidiarizza’ la battaglia contro le paure ‘abbassandola’ alla sfera della ‘politica
della vita’, gestita e condotta dagli individui, e al tempo stesso appalta ai
mercati dei consumi la fornitura delle armi per combatterla”, in “Paura
liquida”, Laterza 2006.
[6] - Il “rischio” al quale
l’autore inglese guarda come attivatore dell’individualizzazione e dei percorsi
di vita riflessivi, è in Inglehart presente (nel richiamo di Beck, che è autore
in comune) sotto il profilo della dimensione naturale, ma proprio perché ormai
escluso da quella economica. La revoca di questa condizione di relativa
eguaglianza e protezione farebbe semplicemente crollare la condizione
“postmoderna”. Non così per Giddens. Questi definisce, con un caratteristico
spostamento sul piano individuale, la sicurezza necessaria all’individuo per
affrontare la vita e confrontarsi con i “rischi attivanti” come “corazza
protettiva” che, formatasi nell’età infantile, fonda la “fiducia di base”
(cioè nella continuità dei comportamenti altrui e nella stabilità del mondo
concreto e reale), rende l’individuo capace di tenere sotto controllo la “sensazione
di caos” e la conseguente, altrimenti insorgente, “paralisi della volontà”. Allora
la modernità contemporanea è in sostanza una “cultura del rischio” in cui la
potenziale paralisi è tenuta sotto controllo dalla fiducia nella stabilità e
nell’inertizzazione dei possibili pericoli provenienti dal mondo esterno. Ciò
che l’uomo contemporaneo compie è un “salto di fede” (p.8), che attiva un
comportamento riflessivo del sé e il lavoro necessario per scegliere il proprio
stile di vita, creando ex post quella coerenza nella storia di vita che non è
più disponibile ex-ante. In qualche modo il
rischio prende il centro della scena e viene anche attivamente ricercato
entro certi limiti come parte di un “pacchetto complessivo”, ovvero di uno “stile
di vita” autoassunto riflessivamente. Si tratta in altre parole di
stabilire una traiettoria entro l’ambiente sociale e luoghi ormai invasi da
meccanismi di disancoraggio (p.194) che si estendono a tutte le dimensioni della
vita e della natura.
[7] - Si veda “Dramma
Ecuador”, Corriere della Sera.
[8] - Istituito con la legge 833/1978
in forma di un diritto universale, in attuazione del dettato costituzionale che
definisce la salute come “fondamentale diritto dell’individuo e interesse della
collettività”. La distribuzione delle risorse, al fine di garantire l’uniformità
del servizio, era affidata ad un Piano Sanitario Nazionale ed a livello locale
nelle Unità Sanitarie Locali.
[9] - Le riforme che stravolgono
questo sistema sono orientate alla riduzione ed efficientamento della spesa sanitaria
ai fini espressi ed espliciti di consentire al paese l’adesione all’Unione
Europea, costituita secondo parametri di tipo liberista. Ne fa espressione il
D.Lgs 502/1992, che trasforma le Usl in Asl, sottoponendole a criteri di mera
efficienza economica. Ma è stata anche investita dalle contemporanee e sinergiche
(nell’indebolimento dello stato centrale) spinte separatiste, fino alla riforma
del “titolo V” (legge costituzionale 3/2001) che ha portato alla definizione
regionale della sanità italiana. Svolge particolare rilevanza il D.Lgs 56/2000
che rende autonoma la fiscalità regionale
[10] - La spesa sanitaria italiana è
scesa in particolare nel periodo 2010-18, cumulando una riduzione di circa 37
miliardi (su circa 120) e rispetto al Pil attestandosi al 6,85% (rispetto al
massimo del 7,4%). Il numero di posti letto è di 3,18 posti per mille abitanti,
inferiore alla media Ocse (4,73) e persino alla povera Grecia (4,21). Per un
confronto, la Germania ne ha più del doppio (8) e la Francia poco meno del
doppio (5,96).
[11] - Si veda Matteo Samarani, “Sanità
pubblica: un diritto da preservare dalle logiche di mercato”, 2020.
[13] - “Lo stato che nel secolo XVII
sorse e si impose nel continente europeo è effettivamente un'opera dell'uomo
differente da tutti i precedenti sistemi di unità politica. Lo si può persino considerare il più
importante prodotto del secolo della tecnica, il primo meccanismo moderno in
grande stile e, secondo una centrata definizione di Hugo Fischer, la machina
machinarum” (C. Schmitt, Der leviathan in der Staatslehere des Thomas
Hobbes, Hamburg 1938. Citato nell'appendice di Stato e rivoluzione in Inghilterra di
Mario Tronti, Milano 1977, Pag.
322).
[14] - In questo periodo emerge la
concezione di stato apparato che non si riduce a nessuna persona particolare
(neanche il re, fatto salvo un periodo iniziale); una struttura che esige
l'uniformità, e che occupa tutto il corpo sociale senza lasciare alcuna zona
franca, “otturandone tutti i pori” (K.
Marx). Un simile livello di
pervasività e uniformità non era stato mai raggiunto in passato e nasce insieme
allo sviluppo delle forze produttive e all'emergere di una classe nuova aperta
e vivace tendenzialmente onnicomprensiva e generale. Nel suo testamento
politico il cardinale Richelieu scriveva: “Questa probità richiede che tutti coloro
che si occupano del governo dello Stato non solo camminino con il medesimo
passo, ma, poichè agiscono tutti per il medesimo fine, tengano anche un
linguaggio simile”.
[15] -
“La generazione presente non ha la minima idea di cosa fosse questa porzione di
Parigi (fra il Louvre e I’Hotel de Ville) prima della sua completa
trasformazione dal 1852 al 1854. Essa non sa che la prima sezione della rue de
Rivoli, che fiancheggia il giardino delle Tuileries, si arrestava di tronco
[...]; al di là si trovava un quartiere
immondo, composto di sordide abitazioni, solcato da stradine strette, che
dalla rue St.-Honoré si stendeva fino
alla place du Carrousel, che occupava
per la sua maggior parte. Questo
quartiere copriva quasi tutta la
superfice attuale della place du Palais Royal, poi continuava senza interruzione lungo il Louvre, che chiudeva a ovest e a nord, fino alla
cosiddetta place de la Colonnade, ostruita
anch’essa da costruzioni ignobili, e si
collegava ai quartieri, non meno impraticabili
alla circolazione, che si stendevano
fino alla misera place de Grève; [...] Davanti all’Hotel de Ville,
nell’intervallo che separava la vecchia place du Chatelet e lo spazio
irregolare chiamato place de Grève, l’occhio
era afflitto da orribili cloache chiamate rue de la Tannerie, della
Vielle-Tannerie, [...] E quale
popolazione vi abitava! No! quelli che non hanno come me, percorso la
vecchia Parigi di quest’epoca in ogni senso, non possono farsi un’idea giusta,
malgrado ciò che forzatamente ne resta; dal momento che non ho alcunché trascurato
per migliorarla, e che per quanto lenti siano i loro effetti, i vincoli della
Loi d’alignement e di quella dei
Batiments da un lato, e le esigenze di un pubblico che diviene sempre più esigente dall’altro, non
hanno potuto alla fine, nel corso di trent’anni, che produrvi alcuni
cambiamenti positivi. Tuttavia, è di moda, presso alcuni archeologi [...], ammirare sulla fiducia questa vecchia
Parigi[...] Che le vie strette e
tortuose soprattutto nel centro fossero quasi impenetrabili alla circolazione, sporche, puzzolenti, malsane, di questo non gliene importa nulla.
Che i nostri sventramenti abbiano dotato vecchi e nuovi quartieri di spazio, di aria, di luce, di verde e di
fiori, in una parola di ciò che dispensa
la salute, al tempo stesso rallegrando
la vista, bell’affare! ma, in tutti i casi, non è affar loro. Ma, brava
gente, che dal fondo delle vostre biblioteche sembrate non aver visto nulla,
citate almeno un vecchio monumento
degno di interesse, un edificio pregevole per l’arte, curioso per i suoi
ricordi, che la mia amministrazione abbia distrutto, e del quale invece non si
sia occupata per liberarlo e per
quanto possibile per valorizzarlo
visivamente!” (Haussmann, Memorie,
op.cit. corsivi nostri.)
[16] - In particolare, il medico
diventa “igienista” e dice, con esemplare chiarezza di intenti e di ruolo, di
voler servire la science du gouvernement.
Si legge, ad esempio, nel programma del primo numero delle ‘Annales d'hygiene publique et de mèdecine
legale’: “La medicina non può solamente porsi l'obiettivo di studiare e di
guarire le malattie, essa ha dei rapporti intimi con l'organizzazione sociale;
talvolta ella aiuta il legislatore nel confezionare le leggi, sovente ella
chiarisce ai magistrati la loro applicazione, e sempre veglia, con
l'amministrazione a mantenere la sanità pubblica... L'igiene pubblica, che è
l'arte di conservare la sanità agli uomini riuniti in società, è chiamata a
ricevere un grande sviluppo e a fornire numerose applicazioni al perfezionamento
delle nostre istituzioni... essa può, per la sua associazione alla filosofia e
alla legislazione, esercitare una grande influenza sul cammino dello spirito
umano. Essa chiarisce i moralisti e concorre al nobile compito di diminuire il
numero delle infermità sociali. Le penurie e i crimini sono le malattie della
società che il lavoro [dell'igienismo] deve guarire, o, almeno, ridurre...”
(Dal programma del primo numero delle ‘Annales d'hygiene publique et de
mèdecine legale’, 1829, p.V, VI, VII.) I rapporti con la organizzazione sociale
(già applicare il termine “organizzazione” alla società è interessante) sono
dunque “intimi”; la medicina, infatti, aiuta e più spesso “chiarisce” ai
magistrati la applicazione -si tratta dunque di un sapere eminentemente
pratico- e “sempre veglia” per mantenere la sanità pubblica. Vengono messe in luce il suo valore per il “cammino
dello spirito umano” e concetti teorici e pratici come “infermità sociali”; ma
anche una ulteriore capacità di “chiarire”; questa volta i moralisti. Importante, infine, la metafora di “penurieil
te,a tornerà" e “crimini” come malattie della società. Inteso in questo
senso l'igienismo dà una forma a politiche “che coniugano dimensione spaziale,
architettura dell'habitat e salute pubblica”.
[17] - Nel corso del XVIII secolo viene, infatti,
in evidenza il problema della qualità dell'aria. La importanza di argomenti
quali quelli collegati con l'igienizzazione é accentuata da un intreccio di
tempi lunghi ed eventi traumatici. In questo senso un evento che assume una
certa importanza é la “lunga marcia” del colera che arriverà a Parigi, partendo
dall'India e compiendo un viaggio durato quattordici anni, il 30 marzo 1832: un
fatto che produce la massima impressione sui contemporanei. L'evento produce o
favorisce mutamenti profondi nelle politiche: “davanti al pericolo di ‘ulcerazione
della città’ tutti concordano sull'urgenza di una ridefinizione degli spazi
urbani al fine di riorganizzare sia i
contatti tra i corpi che i transiti
all'interno della città”. (George Teyssot, “Introduzione”, “Città e utopia nell’illuminismo
inglese di George Dance il giovane”, Officina ed. p.XVII.) Inoltre, la
imponente crescita della città, soprattutto a seguito della inurbazione di
ingenti popolazioni economicamente deboli, rende ‘il quadro materiale non più
alla misura degli abitanti’ come dice Luis Chevalier. Ne consegue la necessità
di elaborare: “un'unica strategia che vuol arrestare il contagio, [e] si
ripromette insieme [sia] di riorganizzare i contatti [che] di istituire una
distanza fra i corpi: la paura del contagio é intimamente connessa agli
obiettivi di moralizzazione delle ‘classi laboriose e pericolose’ [(Balzac)]”
(idem, p. XVIII) In sintesi, quindi, il colera del 1832 sottolinea la gravità
delle patologie urbane: sia la miseria delle classi inferiori che la
insalubrità diffusa e, più in generale, la crisi dell'intero sistema-città. Il
colera, grazie al suo carattere di malattia epidemica rese attualissimo il
programma igienista, in quegli stessi anni elaborato dalla rivista medica ‘Annales d'hygiene publique et de mèdecine
legale’ e affermò, in via definitiva, la centralità della questione urbana
come anche la necessità di uno sguardo critico non più settoriale ma
contemporaneamente articolato ed unitario.
[18] - Così detto nel secolo. Il
capitalismo del laissez faire.
[19] - Nella quale svolge un grande
ruolo l’artiglieria e la maggiore capacità di spostamento ferroviario e quindi
di concentrare le forze prussiane.
[21] - Si veda “Il
discorso di Conte. Cronache del crollo”, e per un elenco più completo “Coronavirus
e economia di guerra”, di Nuova Direzione. Lo abbiamo già scritto, si
tratta di:
1.
Investire
con modalità di urgenza tutte le somme necessarie nella sanità, dando priorità
alle macchine salvavita, ai Dpi, al personale medico ed infermieristico, quindi
alle strutture, ai centri territoriali, ai servizi sociali di prevenzione;
2.
Requisire
tutte le strutture disponibili, se necessarie ad erogare servizi
indispensabili, soprattutto al sud;
3.
Precettare
tutto il personale necessario ad erogare i servizi di prima necessità;
4.
Garantire la protezione a coloro che devono continuare
a lavorare, minimizzandone
il numero, assicurando il più rigoroso rispetto delle norme e
contemporaneamente l’irrigidimento di queste;
5.
Integrare il reddito, con la Cig in deroga o Reddito di
Cittadinanza straordinario, di chiunque dichiari una riduzione tra il 30% ed il
100% del reddito, fino al massimo di 1.000 euro;
6.
Garantire
con mezzi pubblici la distribuzione, precettandola o sostituendola, se le
catene logistiche interne dovessero entrare in crisi;
7.
Garantire liquidità a tutte le imprese solvibili, ed ai servizi
professionali, cooperativi, del terzo settore, tramite linee di credito a
garanzia pubblica, interessi zero e tempi adeguatamente lunghi di rientro,
seguendo l’esempio tedesco, utilizzando Inps e Cassa Depositi e Prestiti;
8.
Imporre
alle industrie idonee, qualunque sia la nazionalità della proprietà, programmi
di fabbricazione, fornendogli specifiche, assistenza tecnica, mandati, per
rendere indipendente il paese delle principali forniture strategiche, partendo
da quelle mediche, in considerazione del possibile crollo delle supply chain
mondiali;
Nel
frattempo:
9.
Nazionalizzare
tutte le imprese, finanziarie o non, che dovessero entrare in crisi non
risolvibile per effetto della crisi e quindi creare un veicolo di gestione
delle imprese pubbliche e nazionalizzate, sul modello della vecchia Iri;
10.
Per
gestire tutto questo con il minimo dell’inefficienza, creare un centro di
pianificazione di emergenza, dotato dei necessari poteri;
11.
In
favore del sostegno del reddito, sospendere immediatamente il pagamento dei
mutui e degli affitti (provvedendo con risorse pubbliche ad attenuare l’impatto
sulle controparti), per chiunque dichiari una riduzione del reddito superiore
al 30%;
12.
Sospendere
per un anno in modo generalizzato i pagamenti fiscali a tutti i cittadini ed a
tutte le imprese con un fatturato inferiore a una soglia da definire;
13.
Sospendere
per un anno ogni rateizzazione, a qualsiasi titolo;
Misure
di lungo periodo e strutturali.
14.
Ribadire la priorità dell’interesse nazionale su
quello sovranazionale, dellaCostituzione sui Trattati Europei, dei cittadini
sulle istituzioni finanziarie;
15.
Sospendere,
e poi revocare, tutte le normative europee che fossero in conflitto con queste
misure di emergenze, necessarie per la sopravvivenza della nazione;
16.
Sospendere,
e poi revisionare profondamente, la normativa bancaria di Basilea;
17.
Sospendere,
e poi revocare, il Mes.
18.
Imporre
alla BCE di adempiere al suo mandato a garanzia della stabilità economica, e di
acquistare in ultima istanza tutte le emissioni di debito si rendessero
necessarie, se del caso impiegando un veicolo intermedio a controllo pubblico, anche
in deroga ai suoi regolamenti;
Riprendere
il controllo, italexit
19.
Se
questo non avviene riprendere immediatamente la piena sovranità.
[22] - Si veda “Non
torneremo più alla normalità”.
[23] - Si veda “Robotica
5G e le tecnologie del futuro”.
[24] - Francesco Benozzo, “Pandemia
dichiarata, soggiogamento delle popolazioni, soppressione della libertà di
parola”.
[25] - Luc Boltanski, Eve Chiappello, “Il nuovo spirito del
capitalismo”, Gallimard 1999.
[27] - “Naturalmente nessuno sa esattamente
come sarà questo nuovo futuro. Ma si può immaginare un mondo in cui, per salire
su un volo, forse si dovrà essere iscritti a un servizio che tracci i vostri
spostamenti attraverso il vostro telefono. La compagnia aerea non sarebbe in
grado di vedere dove siete andati, ma riceverebbe un avviso se foste stati
vicini a persone infette o a punti caldi della malattia“ (“Non
torneremo più alla normalità”).
[28] - Non è affatto impossibile,
basterebbe che una telecamera a riconoscimento facciale, unita ad un sensore con
tag attivo incroci la nostra presenza con l’assenza del terminale a noi
intestato.
[29] - Si veda, ad esempio, la
trasformazione della Parigi di Haussmann, “Parigi,
1840-1869. Haussmann e la reinvenzione della città”.
[30]
- La IOT territoriale, come
le cosiddette “smart cities”, sono, il grande progetto in cui tutte le più
grandi multinazionali e i governi più saggi sono impegnati grazie alla
disponibilità tecnologica di diffondere la sorveglianza a due vie tutto
intorno a noi. Un settore che, secondo Cisco, prima della crisi era stimato
della potenzialità ad espandersi fino a valere 408 miliardi di dollari nel 2020
e connettere almeno 40 miliardi di dispositivi. Attraverso sensori e
dispositivi di comunicazione inclusi su oggetti, persone e manufatti
(l”Internet delle cose”) potranno essere trasmessi nelle due direzioni dati su
consumi e desideri, richieste ed informazioni, e potranno essere ricordati che
cosa diciamo, con chi e quando. Sempre. “La rete” ricorderà tutto. Un
simile progetto ha l’ambiguo potenziale di servire insieme due scopi di
disciplinamento: verso il cittadino reso debole e marginale renderà possibile
erogare servizi, svaghi, e creare relazioni a basso costo (al limite nullo),
metterà in contatto, ma contemporaneamente, nello stesso esatto gesto,
sorveglierà ogni evento, desiderio, contatto e relazione, prevenendo (grazie
all’uso di software previsionali e capaci di interpretare i segnali
statisticamente più rilevanti) la formazione del dissenso, o meglio il suo
addensamento. Una simile infrastruttura potenzierebbe il controllo territoriale
attraverso la diffusione di software di riconoscimento facciale, e/o segnali
attivi dagli oggetti che abbiamo con noi, in grado di comunicare in tempo reale
intorno a noi ciò che di rilevante ci riguardi (a negozi, fornitori di servizi,
agenti di polizia). Insomma, l’internet delle cose e la smart city che ne è
l’estensione in una società “a coda lunga” può diventare indispensabile. Può
contenerci e circondarci.
[31] - Quella forma di ineguaglianza
che deriva dalla incapacità, o indisponibilità, a disporre di strumenti
digitali adeguati ad essere abilitati.
[32] - Si veda “Smart
cities e territorio zero”.
[33] - Cfr. Henry Lefebvre, “Il
diritto alla città”, 1968
Buongiorno,
RispondiEliminaLei quindi ritiene che si debba, sulla base dei dati epidemiologici disponibili e dunque per superare quella che si prospetterebbe come una lunga emergenza, correre il rischio di affidarci al potere che, attraverso l'impiego della tecnologia, ci controllerà, ed eventualmente limiterà i movimenti al fine di proteggerci, pur sapendo che tale potere non coincide esattamente e solo con lo Stato? Oppure quando Lei parla di "ritorno dello Stato alla sua funzione primaria di garanzia della sicurezza della vita stessa" si riferisce ad uno Stato che, proprio perché ricostituito dalla paura, è già riuscito a divincolarsi speditamente dalle varie prese "esterne"?
La ringrazio per le riflessioni che Lei usa pubblicare in rete.
Io ritengo che questa crisi, per ragioni che sono insieme stringenti e funzionalizzabili da volontà plurime e non tutte trasparenti, possa essere un acceleratore potente di tendenze che comunque sono in movimento. Tendenze che contengono una promessa di maggiore efficienza (e quindi in potenza ricchezza) e insieme anche di dominio. Cosa si realizzerà dipenderà dalla lotta. Come si vede dalla ultima parte. Ovviamente ci dovrò tornare, ma già così era molto lungo (peraltro sul tema del controllo attraverso la tecnologia e sul lato oscuro di Iot, smart cities, e industria 4.0, come la cosiddetta sharing economy e gig economy (o "piattaforma) tra il 2014 ed il 2016 avevo fatto parecchi post, alcuni richiamati in nota.
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