Viviamo
tempi davvero confusi. Potrei caratterizzarli come il tempo della estenuazione
di una estenuazione. Il senso della critica ha perso da lunghi decenni il
solido ancoraggio nelle dure condizioni materiali che il socialismo aveva
inteso dargli, per tradursi in una postura che cresce nel vuoto di progetto.
Questo slittamento non era avvenuto tanto per effetto di un superamento
effettivo, totale, della durezza del vivere, quanto per un estenuarsi della
fiducia sotto i colpi delle sconfitte.
Sconfitte,
non fallimenti.
La
durezza del vivere è sempre rimasta con noi. Ma è stata nascosta sotto il velo
della nebbiolina sottile che la cultura cosiddetta “postmoderna” ha lentamente
alzato da terra. La perdita di riferimento ha spostato tutta l’attenzione sul
medium e del significato sul significante.
Da
qualche anno, però, anche questa estenuazione sta giungendo al suo, proprio,
esaurirsi. Questa singolare condizione nasce dal tornare in primo piano della
durezza in forme non aggirabili. Un urlo che, alla fine, finisce per essere più
forte delle nebbie.
Diego
Melegari e Fabrizio Capoccetti (da qui a volte M&C) hanno fatto
l’importante sforzo di rispondere con un densissimo e a tratti molto chiaro
testo[1] al dibattito che era
scaturito dal loro primo articolo[2]. Per la verità la replica
è molto più larga, e si riferisce contemporaneamente alle obiezioni di Fabrizio
Marchi[3], su L’interferenza,
e di Alessandro Visalli (ovvero di chi scrive)[4], e quelle di Moreno
Pasquinelli[5],
su Sollevazione. Seguiranno sia la seconda parte del pezzo di
Pasquinelli[6]
e la replica di Alessandro Visalli[7].
L’intervento
che qui si riproduce è stato pubblicato[8] su La Fionda nella
rubrica “Egemonia e strategia socialista”, e da Sinistrainrete, pochi
giorni dopo[9].
I
nostri riassumono questo quadro in una posizione “A” e “B”. La prima vorrebbe
censurare la sottovalutazione dei rischi insiti nell’alleanza con quei ceti
sociali intermedi (tradizionalmente nominati come piccola e media borghesia)
che sarebbero attratti dal proprio desiderio individuale di distinzione che li
porta inesorabilmente a saldarsi con i ceti superiori e trovare comune
interesse nello schiacciare i ceti lavoratori. La seconda condivide la
designazione dei “bottegai” come “ultimo argine”, e quindi la prospettiva della
costruzione di un “blocco storico nazional-popolare”[10], ma lamenta che sia
istituita nel testo di M&C una gerarchia tra la conquista socialista dello
Stato e la rivendicazione della sovranità nazionale contro la Ue.
Con
riferimento al primo fronte (le obiezioni di Marchi e Visalli)
viene rivendicata una maggiore articolazione di discorso per cui, ad esempio,
tra piccola borghesia e lavoratori dipendenti non ci sarebbe tanto un’identità,
come a loro dire sostenuto nella critica, quanto propriamente un reciproco
“scompaginamento”. Un “mescolamento”, tanto sul piano materiale quanto su
quello “antropologico-simbolico”. Dunque, ci sarebbe da tracciare al più una
“mappa”, uno “spettro di figure”[11] per il quale si ricorre
ad una classificazione tra lavoratore, risparmiatore e consumatore. Tutti
variamente “traumatizzati”. Nella descrizione compare immediatamente l’elemento
progettuale, nel momento in cui al lavoro di “individuare differenze” si
associa quello di “disarticolarne la configurazione attuale”, ovvero,
specificamente, di “spezzare le alleanze con i gruppi effettivamente
dominanti”. Ma per farlo bisogna per M&C “rapportarsi a questa galassia
composita, sapendo di dover fare i conti anche con codici culturali – ad
esempio la diffidenza per il pubblico – in parte trasversali a gruppi
fortemente differenziati per il solo interesse materiale”.
Inoltre,
viene contrastata la critica, sollevata nell’articolo di Visalli il quale
censurava nel pezzo di M&C la tesi che vorrebbe la soggettivazione
imprenditoriale (con conseguente individualismo) in particolare concentrata
nella classe lavoratrice e in misura minore in quella della piccola e media
borghesia. Il punto di contrasto è in sostanza ribaltato. A parere dei nostri
la qualificazione del lavoro dipendente come “buono e continuo, se pur povero”
manifesterebbe un pregiudizio favorevole. Per sostenere il punto (ovvero che
sia in campo una sorta di marxismo ingenuo) viene evocato un sociologo eretico
come Bourdieu.
Come
seconda questione viene lamentato che non si sia mai trattato, nel loro
contributo, di far semplicemente coincidere potere e Stato. O, in altre parole,
di fare della presa del potere dello Stato l’intero campo di azione della
politica tramite la partecipazione, quale che sia il prezzo, al gioco
elettorale. La questione è piuttosto di calcare il terreno dello Stato (“anche
senza conquistarlo del tutto”), ovvero farsi eleggere, per cercare di
ridefinirne ed orientarne il capitale ‘simbolico’ e per questa via al termine conquistare
potere. Di qui l’importanza strategica della questione della nazione. Con le
parole di M&C: “il riferimento alla nazione è, tra le altre cose, questione
fondamentale – declinabile secondo diversi orientamenti – sulla quale fare leva
per disporre del potere simbolico dello Stato”[12]. Viene citato in questo
contesto un contributo di La Grassa[13] che radicalmente
sostituisce alla lotta tra ceti dominanti e dominati, intorno alla centralità
del modo di produzione capitalista, quella tra le diverse frazioni dei ceti
dominanti come intreccio di aspetti e cause economiche e geo-politiche. Queste
sarebbero, nella prospettiva dell’autore, le cause delle crisi e dei
rivolgimenti contemporanei. Ne deriva per i nostri la necessità di
“interrogarsi senza moralismi sulla stabilità e trasformabilità di quelle
alleanze”.
Da
questo spostamento, piuttosto radicale, di prospettiva ne deriva l’accusa di
fondo che M&C rivolgono alla prima batteria di critici (quella “A”): “tanto
l’attendismo quanto il purismo economicista contribuiscono, invece, non poco a
dare ossigeno, tempo e danaro a quei gruppi, che hanno così vita facile a
ricollocarsi in modo da giocare una ‘lotta di classe’ dall’alto, che si
continua a perdere, da un lato perché ci è stato tolto il terreno da gioco
sotto i piedi, dall’altro perché non si è disposti a giocare nel terreno
rimasto”.
Al
terzo livello i nostri vengono a rispondere alle obiezioni sollevate
all’approccio di Laclau, sia da “A” come da “B”, finendo tuttavia per
confermarne il tenore. Infatti, per essi il filosofo argentino ha inteso
centrare l’attenzione sul “discorso”, in quanto modo di “concettualizzare il
rapporto attraverso il quale si danno elemento e relazioni come coappartenenti
ad una totalità mai saturata, intimamente scissa, continuamente soggetta
a ridefinizione identitaria per via di un’inestinguibile opacità dovuta
al conflitto”. Non è molto chiaro cosa sarebbe una “totalità saturata”, né come
cade strategicamente il termine “identitaria”, in questa frase. Ma continua: “il
sociale è sempre tutto da fare e riconfigurare (politicamente), e
assumerà determinate sembianze piuttosto che altre, a seconda di quali
‘significanti vuoti’ saranno in grado di costruire ed esprimere simbolicamente
le catene equivalenziali più forti”.
In
effetti per i nostri ciò non significa “comunicazionismo”, ma ne è, invece,
un’ottima descrizione. La centralità della narrazione, in assenza di
riferimento, o nella possibilità di considerare contendibile ogni riferimento,
deriva profondamente e logicamente dalla comprensione del sociale come
interamente soggetto (“tutto”) a costruzione e riconfigurazione da parte del
linguaggio. O, con il gergo prescelto, di formule “vuote” e colonizzabili dalle
soggettività date. Un termine come “onesto”, che può, in base alle esperienze
di vita, interessi e sottofondi culturali di ognuno assumere diverso
significato senza essere per questo tematizzato. I significati, proprio
per il loro essere “vuoti”, in altre parole, si rendono disponibili a catturare
il consenso e creare apparenti equivalenze tra soggettività diverse, e relative
lotte ed ‘agende’, attraverso l’opportuna esibizione da parte di un leader
credibile. La cosa poi regge, e ciò si è visto, fino a che questo leader e la
sua stretta cerchia non vengono piegati dalla forza delle cose. Allora
l’assenza di tematizzazioni emerge con tutta la sua devastante potenza, ovvero
con il retro della potenza che ha espresso nella fase ascendente. Un’altra
retorica, altri significanti vuoti vengono avanzati, o quelli vengono
reinterpretati, e la politica muta di direzione.
Tutto
resta eguale[14].
La
cosa abbastanza sorprendente, anche nello stesso Laclau, è che questa
operazione di costruzione di superficiale consenso (come si è visto
proprio in Italia e proprio nel miglior caso di successo) del tutto
inutilizzabile per cambiare realmente le cose una volta che si giunga a
contatto con la durezza materiale del mondo (che non è fatto solo di parole),
viene etichettata come “costruzione di egemonia”. L’egemonia è ridotta, insomma,
a “operazione di riarticolazione interna ad una formazione sociale e
discorsiva” e quindi “costitutiva anche delle classi sociali in quanto
soggetti politici” (corsivo nel testo).
Sulla
base di queste premesse, mutuate da La Grassa e Laclau, i rapporti di
produzione non determinano più il perimetro e la stessa mobilità del campo
politico. Il quale non è solo rappresentazione di interessi.
Rispondendo
a “B”, invece, che accusa la prospettiva di Laclau di abbandonare il terreno
della concezione materialista della storia, i nostri affermano in modo del
tutto franco che per il filosofo argentino la politica è “ontologia del
sociale”. Ovvero essa è una costruzione egemonica che crea alleanze sociali e
continuamente le risignifica. Questo, “il politico”, è, con altri termini,
“l’essere stesso dei rapporti sociali colti sotto l’angolo prospettico della
congiuntura” e ciò consentirebbe di immaginare nuove vie per ripoliticizzare
l’esistente, dopo decenni di trasformazione neoliberiste.
In
sostanza, come accade spesso nella replica di M&C, ci troviamo davanti alla
conferma espressa di essere su una posizione che abbandona, ed interamente,
il terreno della concezione materialista della storia. E lo fa per una
acuta sensazione di sconfitta storica che, se può essere comprensibile in un
anziano teorico come La Grassa (e nello stesso Laclau), appare particolarmente
deludente nei “giovani” autori. La linea di frattura diventa antagonista solo
in funzione di una volontà di egemonia, ovvero da una costruzione discorsiva
fondata su “significanti vuoti” ben scelti e capaci di fratturare lo spazio
rappresentativo e sociale, creando, o ri-attivando “momenti populisti”. Un
pensiero che anche i nostri ammettono essere “debolista” e “postmoderno”, al
contempo negando, con curioso argomento, di essere tacciabile di
“indeterminismo”. Manca una determinazione fissa del sociale (ovvero un
ancoraggio a qualche materialità) ma ciò non sarebbe indeterminismo proprio
perché la sua assenza obbligherebbe “a determinarsi per esistere
politicamente”. Precisamente affermando con ciò quel che si intende normalmente
per “indeterminismo”, ovvero l’assenza di riferimento che sia esterno alla
volontà del singolo soggetto agente[15].
Non
aiutano frasi, o giochi di parole, come “la congiuntura non è tanto qualcosa di
effimero, quanto piuttosto la cifra politica della determinazione”.
Da
ultimo, scendendo dal livello elevato di astrazione al quale si è svolto il
testo, Melegari e Capoccetti negano di escludere che si possano ricompattare
classi dominanti e ceti medi intorno alla nuova fase aperta dalla crisi
europea, in particolare a seguito della spinta triplice della crisi economica,
dell’erogazione compensativa attesa e dell’austerità rilanciata (con i tempi e
i diversi bersagli di queste tre ‘gambe’[16]), ma ritengono che non
sia ancora un dato. Non ne derivano, in altre parole, sufficiente evidenza per
riconfermare una visione “dicotomica” della società che “ha mostrato tutta la
sua problematicità”. E confermano l’opinione che “allo stato attuale una forza
socialista di qualche portata potrebbe, forse, assumere consistenza
sedimentando relazioni, polarizzando e orientando forze all’interno di un
campo in sé non socialista”.
Da
ultimo si trova l’ultima formula: “la nostra ambizione, insomma, non è quella
di sottrarsi alla diagnosi delle contraddizioni in seno al popolo, e
soprattutto al compito di risolverle in modo non antagonistico, ma di costruire
un popolo in seno alle contraddizioni del presente, poiché al di fuori di esse
non si tratterà di un popolo”.
Una
formula altamente ambigua, “costruire un popolo in seno alle
contraddizioni del presente”, ovvero senza risolverle, restando nel loro
“seno”. E ciò per un motivo, essenzialmente, che “al di fuori di esse non si
tratterà di un popolo”. Un motivo oscuro. Al di fuori delle
contraddizioni del presente, fuori del loro seno, non si tratterebbe di avere
un popolo. Verrebbe da chiedere agli autori: “Che cosa è un popolo?”.
Ma
torniamo al testo, dopo averne brevemente fatto la sintesi.
Tra
chi scrive e M&C ci sono numerosi elementi di concordanza, ma anche di
differenza. In estrema sintesi la differenza deriva dall’adesione o meno ad
un’impostazione connessa con la letteratura e la postura teorica postmoderna. In
numerosi punti, sia negli interventi originari, sia nelle repliche, dai nostri
viene uno schema tradizionalmente replicato nella letteratura in oggetto, nata
per differenza e polemica con la versione strutturalista del marxismo: secondo
questa critica chi fa riferimento a contraddizioni fondate o ancorate a
questioni materiali è infarcito di determinismo metafisico. In risposta vengono
sollevate formulazioni vaghe, il cui scopo è far intendere che nulla può essere
detto di sostanziale e che, quindi, tutto può essere fatto ed ottenuto.
Tutto a condizione di creare la giusta rappresentazione. Ovvero a condizione di
attivare la “politica”.
Si
arriva al punto di non temere di fare affermazioni di esistenza “forti”, purché
abbiano esiti “deboli”. È il caso della affermazione chiave di M&C: la
politica è “ontologia del sociale”. Bisogna fare attenzione.
Un’affermazione metafisica, per la quale i rapporti sociali sono “il politico”
(o “il politico è l’essere dei rapporti sociali”), porta ad attribuire alla
creazione di una frontiera antagonista attraverso la scelta arbitraria (dal
menù disparato della contingenza) di “significati vuoti” e quindi di “catene
equivalenziali” la funzione centrale ed ineludibile niente di meno che di
creazione del sociale.
Pur
senza direttamente contrastare gli argomenti fattuali avanzati nell’articolo di
replica di Visalli, essi vengono incorniciati in un contesto del tutto opposto.
Non è decisivo il fatto che i ceti lavoratori (solo in parte ascrivibili alla
classe operaia, peraltro da considerare in modo molto esteso come risulta da
una nota in “Avanzate e ritirate”[17]) abbiano interessi
strutturalmente opposti a parte dei ceti medi, come risulta quotidianamente
dalla polemica pubblica. Ma è da valorizzare la circostanza che sia in campo
anche un conflitto tra ceti dominanti principali e secondari (la famosa
questione della borghesia dedita al mercato interno, probabilmente) e che la
lotta sia da spendere soprattutto sul piano simbolico.
Qui
l’utilizzo di una terna di autori certo non estranei al marxismo come La
Grassa, Bordieu e Laclau, ma da esso molto lontani con il tempo. Autori per
intero compresi nello spirito della sconfitta (e non già del fallimento[18]) e quindi della ritirata[19].
Non
si tratta affatto di non essere “disposti a giocare nel terreno rimasto”,
quanto di non giocare con armi che hanno dimostrato negli anni la propria
assoluta inutilità. Anzi, il loro essere state forgiate dal nemico per essere
inutili. Una cosa, e condivisibile, è non avere una rappresentazione rozza e
schematica di “struttura” e “sovrastruttura”, cadendo nelle forme più
metafisiche di economicismo e di determinismo storicista[20], un’altra, del tutto
diversa, dissolvere ogni rilevanza alla materialità dell’esistenza e dei
rapporti sociali che istituisce. Ancora, una cosa è ricondurre tutto alle forze
produttive ed ai rapporti di produzione, disconoscendo l’importanza della
decisione, della politica come apertura al possibile[21], altro far della
decisione politica l’ontologia del sociale.
Anche
per effetto della letteratura per lo più citata il campo dei nostri scivola su
quel tono così comune negli anni ottanta e novanta, nella sinistra radicale,
del rifiuto del lavoro[22], come razionalizzazione
di due fenomeni concomitanti, l’espulsione dei lavoratori dalle fabbriche e la
disgregazione di queste (uscita dal fordismo) e l’esaltazione del lavoro
autonomo ai diversi livelli. Questa mitologia del lavoro autonomo (che mi ha
biograficamente coinvolto, in quanto diplomato nel 1980) è in effetti una
potentissima arma ideologica nelle mani del liberismo, dissolvendo il sociale e
aprendo alle società variamente etichettate come “liquide” o “del rischio”[23]. Si è trattato di una
potentissima “controepica” che si è opposta direttamente all’epica del
“movimento operaio” portata avanti dal marxismo novecentesco. Questa “contro
epica” è del tutto evidente, e quasi rivendicata all’avvio dell’intervento dei
nostri (che, non a caso, prendono il “buon” lavoro enunciato per attaccare
l’epica del lavoro operaio[24]).
Come
dice Formenti, in altre parole, “alla base c’è la convinzione che il mondo
della necessità. Il mondo del bisogno, sia un residuo medioevale perché lo
sviluppo delle forze produttive, la conoscenza tecnologica e scientifica
incorporata nel sistema delle macchine (il general intellect) hanno di fatto
già risolto il problema”[25].
Attraverso
questa discussione, insomma, e attraverso la scelta che sottende, passa la
frontiera tra la prosecuzione della mascherata postmoderna, immagine propria
della sconfitta del socialismo riletta come fallimento, e delle sue infinite
versioni di pensiero adattivo, e l’assunzione della possibilità di una ripresa
della lotta. Ripresa determinata dal mutamento delle condizioni materiali e dal
rovesciamento e fallimento della non società liberale. La riaffermazione della
possibilità di ritrovare l’ancoraggio solido nelle dure condizioni materiali,
le uniche che possono dare piede al salto necessario.
La
nebbiolina si sta alzando.
Dovremmo
lasciare le vecchie parole e ritrovare le nostre.
[1] - Diego Melegari, Fabrizio
Capoccetti, “Il popolo in seno alle
contraddizioni. Una risposta ad alcune critiche”, La Fionda, 9 luglio 2020.
[2] - Diego Melegari, Fabrizio Capoccetti,
“I ‘bottegai’ l’ultimo argine?
Spunti per una politica oltre purismo e subalternità”, 27 maggio 2020.
[4] - Alessandro Visalli, “Delle contraddizioni in seno al
popolo: Stato e potere”,
La Fionda, 7 luglio 2020, ovvero, in forma più estesa, “Delle contraddizioni in seno al
popolo: Stato e potere”,
Nella fertilità cresce il tempo, 7 giugno 2020.
[7] - Alessandro Visalli, “Avanzate e ritirate. Blocco
sociale, egemonia e rivoluzione”,
Nella fertilità cresce il tempo, 11 luglio 2020.
[8] - “La
direzione dello sguardo”, La Fionda, 20 luglio 2020.
[10] - Formula, si faccia caso, che
riverbera toni gramsciani ma disancorandoli dalle condizioni storiche e sociali
nelle quali era stato pensato. Non è possibile espungere dalla prospettiva
gramsciana né il “Partito” né, soprattutto, l’egemonia della “classe operaia”.
Il processo che arriva all’organizzazione delle masse, la vera novità
irrompente nella politica dell’epoca di Gramsci, è di espansione dalla classe
operaia al blocco storico. “Partito”, “Stato [di nuovo tipo]”, classe
[operaia], popolo e nazione sono un’unità inscindibile nella riflessione di
Gramsci. Il problema nasce nel momento in cui “blocco storico
nazional-popolare”, perdendo il carattere processuale e l’ancoraggio
originario, viene opposto ad una visione di classe della società, e ricondotto
ad una sorta di visione organica della stessa. O, nei termini della Mouffe, ad
una visione agonica e non antagonista.
[11] - Qui viene citato un testo di
Riccardo Bellofiore, “La crisi globale. L’Europa, l’euro, la sinistra”,
Asterios, Trieste, 2012.
[12] - In questo passaggio gli autori
rimandano a Diego Melegari, “L’anatra-coniglio della nazione ‘a sinistra’”,
Senso Comune, 30 luglio 2019.
[13] - Gianfranco La Grassa, “Gli
strateghi del capitale: una teoria del conflitto oltre Marx e Lenin”, ManifestoLibri, Roma 2005.
[14]
- Una maggiore esplicazione
di questa vicenda e dei movimenti populisti storicamente presenti in Italia nel
2015-18 come “Contenitori d’ira”, si veda Alessandro Visalli, “Avanzate e ritirate. Blocco
sociale, egemonia e rivoluzione”,
Nella fertilità cresce il tempo, 11 luglio 2020.
[15] - La questione del riferimento è mal risolta dalla
sua semplice dissoluzione in una nuvola di parole, e di allusioni, come per lo
più si compie nella letteratura postmoderna. È chiaro che non è possibile
pensare senza contraddizione a modelli che catturino aspetti della società,
come se questa fosse, completa e formata, fuori del modello e questo gli
corrispondesse completamente. Ma è possibile immaginare, all’idoneo livello di
astrazione e concretezza, un modello che espliciti catene causali (create in
effetti nel modello stesso, ma a partire da riferimenti capaci di offrire una
qualche resistenza) come costrutti provvisori e rischiosi. Un simile modello
organizza la discussione ed anche il conflitto, e quindi si radica nelle forme
di riconoscimento intersoggettivo. È condivisa l’idea che la nozione di una
proprietà “intrinseca” delle cose “indipendente da ogni contributo proveniente
dal linguaggio o dalla mente” sia “vuota” (Ding an Sich), come sosteneva già
Kant nella prima critica. Ma se il mondo non è descrivibile come una “macchina”
(idea di Newton che influenza anche Marx), se dobbiamo vivere senza fondamenti,
purtuttavia dobbiamo riferirci per solide ragioni pragmatiche (cfr. Karl Otto
Apel e Jurgen Habermas, ma anche Hilary Putnam) ad un concetto di verità come
accettabilità razionale senza il quale nessuna frase assume senso e
capacità di coordinamento sociale. Se dico qualcosa e pretendo essere ascoltato
ho l’obbligo di riferirmi a qualcosa del mondo, o del mondo comune,
dichiarandone l’esistenza. Questa esistenza deve essere pretendibile.
Qui è in gioco, a ben vedere, la nozione kantiana di “autonomia” (opposta alla
“eteronomia”), fornendo le ragioni per scegliere autonomamente, e quelle
marxiane di “alienazione” e “falsa coscienza”. Ciò implica, per questo preciso motivo (il concetto di “autonomia” non è
fattuale ma estremamente esigente e normativo) l’impossibilità di
utilizzare il semplice fatto della felicità. Lo stato di felicità
è, infatti, compatibile sul piano materiale, fisiologico e psicologico, con
aspre forme di eteronomia, di soggezione e di sottodeterminazione
dell’individuo. Putnam ricorda la centralità dell’ideale di “pensare con la
propria testa” nella costruzione kantiana, in particolare in “La religione
nei limiti della semplice ragione”. In questa particolare versione di una
fondazione della verità sull’autonomia (che è sia individuale sia
intersoggettiva), il fatto che ogni fondazione più forte sia indisponibile non
è un disastro, è anzi un bene. È la condizione stessa
dell’autonomia. Ma di una fondazione abbiamo bisogno, per non cadere nella
forma di infantilizzazione che Huxley descrive ne “Il mondo nuovo”, nel
quale tutti sono felici ma non prendono responsabilità, fanno scelte
autentiche, dure, accettano e passano conflitti non redimibili.
[16] - Si veda “La mossa del cavallo. Francia e
Germania, Ue e cronache del crollo”,
Nella fertilità cresce il tempo, 31 maggio 2020.
[17] - Già Adam Smith attribuisce un
ruolo alle classi dedite alla riproduzione e circolazione del capitale e quindi
alla realizzazione del surplus (o, nel linguaggio marxiano, del plusvalore).
Marx individua le classi sociali non già in relazione al reddito, bensì alla relazione
con il modo di produzione che nel capitalismo è dominato dal possesso privato
dei mezzi di produzione. La prima tripartizione che è rilevante nell’analisi
marxista è quella tra i lavoratori che sono produttivi di plusvalore, ovvero
che vendono la propria forza-lavoro creando alle dipendenze di un possessore di
capitale (e dei mezzi di produzione quali che siano) un valore scambiabile
superiore a quello ottenuto come contropartita di essa, i lavoratori che non
entrano direttamente in tale produzione ed assorbono parte del plusvalore
estratto dai primi (impiegati alla contabilità, ai controlli di gestione,
manager, addetti al marketing, …) restando comunque necessaria al complessivo
circuito di produzione e realizzazione (ovvero di circolazione), e possessori
del capitale e dei mezzi di produzione. Bisogna notare che sono lavoratori
produttori di plusvalore non solo i classici operai manifatturieri, ma, già per
Marx (che, del resto si inserisce nella tradizione da Smith a Ricardo), anche
tutti i produttori di merci immateriali, ad esempio, un maestro di scuola (K.
Marx, “Il capitale”, Newton Compton Editori, Roma 1996, pag.
372-373), o i camerieri in un ristorante. Il caso di un impiegato pubblico,
invece, è quello di una figura intermedia che non produce in sé plusvalore ma
lo impiega ed assorbe dai produttori, tramite le tasse, essendo tuttavia
necessario alla riproduzione della forza-lavoro e quindi indirettamente
coinvolto nel processo di produzione e riproduzione. Anzi, una maggiore
valutazione dell’importanza della riproduzione (che non è specifica del sesso
femminile, ma è una funzione di base della sussistenza sociale e naturale) è
una delle caratteristiche distintive del recente capitalismo, cfr. Nancy
Fraser, Rahel Jaeggi, “Capitalismo”, Meltemi 2019. Inoltre, Marx nei
suoi testi più maturi si è ben guardato dal sostenere che il capitalismo tende
allo schiacciamento tra lavoratori (come visto in senso allargato) e
capitalisti, bensì ha riconosciuto l’esistenza di una controtendenza alla crescita
delle classi intermedie, ovvero al: “costante accrescimento delle classi medie
che si trovano nel mezzo, fra gli operai da una parte e i capitalisti e i
proprietari fondiari dall’altra, in gran parte mantenute direttamente dal
reddito, e che gravano come un peso sulla sottostante classe lavoratrice e
accrescono la sicurezza e la potenza sociale dei diecimila soprastanti” (K.
Marx, “Storia delle teorie economiche II”, Giulio Einaudi editore,
Milano 1977, p. 634). Si parla, seguendo Adam Smith, delle burocrazie statali,
delle forze armate e delle classi professionali. Ma, sotto questo genere di
classificazione, bisogna prestare attenzione, non è in questione il reddito
(ovvero il ceto) bensì la posizione strutturale rispetto al capitale. È in
questione la formazione economico-sociale. In Alessandro Visalli, “Avanzate e ritirate. Blocco
sociale, egemonia e rivoluzione”,
Nella fertilità cresce il tempo, 11 luglio 2020.
[18] - Si veda per la stretta
connessione tra la denuncia di “fallimento” del marxismo, anziché “sconfitta”,
e lo spirito neoliberale, Domenico Losurdo, “Fuga dalla storia?” La
scuola di Pitagora editrice, 2012.
[19]
- Su questa diagnosi si veda
Andrea Zhok, “Critica della ragione liberale”, Meltemi 2020, p.235 e
seg.
[20]
- Nelle quali non caddero
neppure i ‘fondatori’. Ad esempio, Engels, in una lettera a Bloch nel 1890,
spiegava: “secondo la concezione materialistica della storia la produzione e
riproduzione della vita reale è nella storia il momento in ultima istanza
determinante. Di più né io né Marx abbiamo mai affermato. Se ora qualcuno
distorce quell'affermazione in modo che il momento economico risulti essere
l'unico determinante, trasforma quel principio in una frase fatta
insignificante, astratta e assurda. La situazione economica è la base, ma i
diversi momenti della sovrastruttura - le forme politiche della lotta di classe
e i risultati di questa - costituzioni stabilite dalla classe vittoriosa dopo
una battaglia vinta, ecc. - le forme giuridiche, anzi persino i riflessi di
tutte queste lotte reali nel cervello di coloro che vi prendono parte, le
teorie politiche, giuridiche, filosofiche, le visioni religiose ed il loro
successivo sviluppo in sistemi dogmatici, esercitano altresì la loro influenza
sul decorso delle lotte storiche e in molti casi ne determinano in modo
preponderante la forma. È un'azione reciproca tutti questi momenti, in cui alla
fine il movimento economico si impone come fattore necessario attraverso
un'enorme quantità di fatti casuali (cioè di cose e di eventi il cui interno
nesso è così vago e così poco dimostrabile che noi possiamo fare come se non ci
fosse e trascurarlo). In caso contrario, applicare la teoria a un qualsiasi periodo
storico sarebbe certo più facile che risolvere una semplice equazione di primo
grado”.
[21] - Si veda, ad esempio, Carlo
Formenti, Onofrio Romano, “Tagliare i rami secchi”, Derive e Approdi
2019, p. 43.
[22] - Si veda, ad esempio, per
l’ambiente francese l’opera di André Gorz.
[23] - E’ il tema con il quale si apre
il contributo Alessandro Visalli, “Avanzate e ritirate. Blocco
sociale, egemonia e rivoluzione”,
Nella fertilità cresce il tempo, 11 luglio 2020, al quale rimando.
[24] - Incidentalmente il “buon” si
riferiva all’essere stabile. Secondo la linea di critica di Sennett.
[25] - Carlo Formenti, Onofrio Romano,
“Tagliare i rami secchi”, Derive e Approdi 2019, p. 57.
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