La paura spagnola e l’Europa di
Maastricht come alternativa.
di Manolo Monereo Pérez
In memoria di Julio Anguita.
Elaborò ipotesi, definì progetti e
lottò con passione
Era mio amico
Preambolo
Vista da
una prospettiva storica, stupisce l’importanza del dibattito su Maastricht in
Izquierda Unida, e oltre, in tutta la sinistra spagnola. Si stava vivendo un
cambio di epoca e la fine di un ciclo storico. Oggi lo sappiamo con certezza:
si trattava dell’esaurimento della spinta del movimento operaio organizzato
attorno a un progetto alternativo di società e di Stato, impegnato a realizzare
l’emancipazione sociale e il socialismo. Come suole avvenire, c’erano molti
dibattiti nel dibattito e problemi congiunturali si intrecciavano con problemi
di fondo. Per una parte dei partecipanti si trattava di una fuga: smarcarsi dal
comunismo nel momento in cui questo entrava in una crisi finale. La parola
d’ordine era semplice: sciogliere il Partito Comunista Spagnolo, convertire in
partito Izquierda Unida e chiedere il nostro ingresso come osservatori nella
Internazionale Socialista. Il Partito Comunista Italiano era il modello,
indicava la strada. In questo contesto si svolse il dibattito su Maastricht.
La
posizione maggioritaria, difesa da Julio Anguita, aggregava un gruppo eterogeneo,
al cui interno si mescolavano a loro volta molte posizioni. Il fiasco di
Maastricht ci pose di fronte a problemi di difficile soluzione, che richiedano
tempo, analisi di fondo e decisioni meditate. La politica impone scenari,
scadenze: occorreva posizionarsi. Sapevamo che la questione era strategica, che
occorreva iniziare da ciò che era più urgente e proseguire approfondendo di
fronte a un futuro che imponeva inevitabili rotture storiche. Fin dal primo
momento fummo consapevoli della posta in gioco: accettare Maastricht
significava mettere in pericolo il nostro debole stato sociale, obbligarci ad
accettare le politiche neoliberali e rendere difficile il riformismo in tutte
le sue accezioni.
Cosa poi è
successo è noto: Julio Anguita fu sottoposto a un attacco brutale, sfruttando
appieno le “fogne” di Stato e i media vicini al potere, cappeggiati dal gruppo
Prisa. Le delegittimazioni si sommavano agli insulti e ai giudizi sprezzanti,
le menzogne divennero senso comune per molta gente e quelli che comandano
riuscirono a bloccare un progetto in crescita, a dividerlo e sconfiggerlo.
Maastricht non fu l’unica questione, ma fu la più importante. Le riflessioni
che seguono hanno a che fare con la eredità di Anguita. Il nostro dovere è
spingerci assieme a lui molto al di là.
1. Introduzione: la vendetta della
storia
Stiamo
transitando da una “crisi di Regime” a una “crisi nel Regime”. Come si era
iniziato a capire fin dall’inizio, il dilemma non era fra il Regime del 78 e la
rottura democratica. Il compromesso sociale è stato rotto dai poteri economici
dominanti con la collaborazione del PSOE e, soprattutto, del PP. Se volessimo
conservare le libertà e i diritti conquistati, dovremmo andare verso un nuovo
processo di cambiamento democratico attivando il potere costituente originario
del popolo. Quando i processi politici si bloccano e incontrano ostacoli,
imputridiscono e degenerano. Questa è la situazione. Di nuovo si parla di
“strategia della tensione”, di operazioni “alla Bolsonaro” e di scenari che
evocano quello del 23 Febbraio 81 (la data del tentato golpe neofranchista
N.d.T.): la pandemia sta agendo da acceleratore di un processo, che, in un modo
o nell’altro, era già in atto.
Non si
tratta qui di fare un’analisi accademica sul senso del termine “crisi nel Regime”.
Decisivo, a mio parere, è capire che l’iniziativa sta dalla parte del sistema e
dei suoi poteri di fatto. Superata la fase della mobilitazione popolare e della
messa in discussione delle politiche dominanti che era coincisa con il 15M, mirano
ora ad andare verso un Regime più autoritario, che minimizzi il nostro debole
stato sociale, che riduca i diritti sociali e limiti sostanzialmente le
libertà. Il segnale inequivoco di questa crisi nel regime sta
nell’autonomizzazione degli apparati di Stato e nel nascere al loro interno di
settori che assumono l’iniziativa e si preparano a uno scontro frontale. Tutto
ciò ha una data di inizio: il discorso del Re del 3 ottobre 2017, che non aveva
significato complementare ma alternativo a quello del governo di Mariano Rajoy.
Lo scenario
politico sta cambiando e ritornano i vecchi fantasmi di una Transizione
interminabile che in ogni momento ci mette davanti a limiti insuperabili e alla
necessità di accettare le regole di poteri che non nascondono le loro pretese.
La domanda: come si spiega un’opposizione così radicale, estrema a un governo
tanto moderato qual è l’attuale? Non parlo della propaganda e delle scomuniche
dei partiti. Voglio capire perché i big media, i poteri economici e
imprenditoriali, i grandi gruppi finanziari conducono un’opposizione del genere
e usano, senza alcuna precauzione, le tre destre come strumento di disturbo e
pressione.
L’autonomia
del politico esiste e ha che fare con il potere. Molti diranno che gli
interessi economici non si possono ignorare e che le politiche che si intendono
realizzare richiedono il consenso più ampio possibile, compreso quello dei
padroni e dei grandi poteri economici. Si potrebbe aggiungere che, oggi, la
mobilitazione sociale è problematica e che viene praticata solo da Vox e dai
suoi amici di estrema destra. Se le cose stanno così, se il governo non intende
attuare politiche che vadano molto aldilà di quelle adottate dalle
socialdemocrazie in Portogallo o in Grecia, la domanda di cui sopra continua a
chiedere risposta.
Ciò che si
vede sono dei gruppi di potere e delle élite politiche che pensano che è giunto
il momento, data la debolezza della sinistra sociale e politica e il nuovo
contesto internazionale (specialmente quello della Unione Europea), di andare
assai aldilà del consenso di una transizione che deve darsi per conclusa, certo
senza annullarne la funzione legittimante. Le tre destre lo stanno facendo da
mesi e occorre riconoscere che gli sta riuscendo piuttosto bene. Vale la pena
sottolinearlo: i poteri si preparano attivamente per lo scontro futuro,
dipingendo scenari e giocando d’anticipo per avvantaggiarsi. Il terreno di
scontro lo deciderà la Ue. L’obiettivo è piegare Pedro Sanchez, obbligarlo a
imporre politiche contrattate con le istituzioni europee, lo strumento è la
rottura dell’alleanza di governo con l’espulsione di Unidas Podemos.
Si parla in
questi giorni di alternative per la ricostruzione economica e sociale del
paese. Di fatto, si è istituita una commissione parlamentare dedicata a questi temi
che si sta convertendo – com’è inevitabile – in terreno di scontro fra governo
e opposizione. Sembrerebbe che ci siano due progetti – diversi solo sulla carta
– che riguardano i servizi pubblici essenziali, l’ampliamento dello Stato
sociale e dei diritti sindacali ed economici dei lavoratori. A mio giudizio
questa conclusione è sbagliata. La questione principale è piuttosto il ruolo
della Spagna, della sua struttura produttiva e sociale nella nuova divisione
del lavoro che si sta delineando nella Ue e che si identifica con il cosiddetto
Programma Europeo di Ricostruzione. Per dirlo con più precisione, se si va o
meno a un nuovo modello di sviluppo economico, sociale ed ecologicamente
sostenibile. Il che significa impiego sistematico delle nuove tecnologie,
reindustrializzazione, diritti sociali, salari dignitosi e pieno impiego,
Veniamo a questi argomenti.
2. La “fuga” dalla Spagna: una
strategia ricorrente
Prima ho
parlato di vecchi fantasmi che ritornano. Conviene restare sul pezzo. La classe
politica che arrivò al governo nel 1982 (il PSOE ma non solo) introiettò una
serie di assunti che si sono venuti perpetuando nel corso del tempo. Li si
potrebbe sintetizzare come delle “linee rosse”, risapute ma mai esplicitate del
tutto, che non si possono mai oltrepassare. Mi riferisco alla monarchia, alle
riforme strutturali della Costituzione come quelle attinenti alla “questione
territoriale”, alla Nato e al ruolo delle forze armate, alla nostra
appartenenza indiscussa e indiscutibile alla Ue. Queste linee evocano, va detto
con chiarezza, una “costituzione materiale” in senso stretto che, ove messa in
discussione, renderebbe impraticabile la democrazia spagnola. Le nostre
libertà, i nostri diritti acquisiti sarebbero sempre provvisori, concessioni
condizionate a un esercizio “responsabile” nel quadro di ciò che è tollerabile
dai poteri di fatto. La minaccia: insurrezione delle destre economiche e
politiche; strategia della tensione e colpo di Stato.
La
stabilità della nostra giovane democrazia dipendeva dalla integrazione nelle
strutture di potere occidentali egemonizzate dalla Amministrazione
Nordamericana. Detto altrimenti, il futuro del paese esigeva la tutela di
potenze straniere, cedere sovranità per uscire da una Spagna che faceva paura.
Meno sovranità, più democrazia. La “fuga” dalla Spagna come strategia nella
speranza che la Ue evolvesse in uno Stato Federale. I nazionalisti periferici
hanno coerentemente difeso questa strada: la dissoluzione dello stato spagnolo
nel quadro di una unità superiore che ci porterà all’Europa dei popoli
regionali. La rivendicazione di sovranità è sempre nei confronti della Spagna,
mai della Unione Europea. A più Europa meno Spagna.
L’europeismo
delle destre è singolare. Non hanno mai avuto difficoltà ad accettare un ruolo
dipendente e subordinato della Spagna nell’Europa a trazione tedesca. Lo
vedevano come inevitabile e necessario: perché il loro problema era lo stesso
di quello del PSOE: controllare il conflitto sociale, neutralizzare il
sindacalismo di classe, ridurre il peso politico del PCE e di Izquierda Unida.
Il trattato di Maastricht, l’Unione Economica e Monetaria, era la grande
opportunità per disciplinare l’economia, imporre la camicia di forza al
movimento operaio e delegare alla Ue le decisioni economiche fondamentali.
Cedere sovranità per conservare più potere sulle classi popolari del proprio
paese.
La Unione
Europea, diciamolo senza eufemismi, l’Europa tedesca, riscuote il consenso
totale del blocco di potere che domina la Spagna. Il suo carattere di classe è
chiarissimo. I tre grandi attori della vita politica spagnola, le destre, i
socialisti e i nazionalisti, condividono quella che Miguel Herrero ha definito
la “sindrome di Vichy”, vale a dire delegare a una terza parte (la Germania
hitleriana) la funzione di decidere un conflitto interno: “l’essenza di Vichy
non fu altro che la collaborazione con la potenza occupante perché questa
facesse il lavoro sporco che gran parte della destra francese (e anche gran
parte della sinistra) avrebbe desiderato fare, ma non osava fare da sé”.
Gli attori
sociali, basicamente i sindacati, seguono la stessa strategia delle forze
politiche dominanti. Il che attribuisce loro il compito delicato di
“inventarsi” periodicamente una “Europa sociale” sempre in procinto di
emergere. Il paradosso è notevole: a più Europa, meno solidarietà di classe,
meno convergenza sociale e minor peso dei sindacati in tutte le situazioni. La
gravità del problema è difficile da nascondere: il movimento operaio
organizzato non è stato capace di organizzare uno sciopero generale dei
lavoratori della Ue in un momento drammatico come la crisi del 2008. Oggi
langue fra varie commissioni, gruppi di lavoro e riunioni periodiche con le
istituzioni. Nella realtà dei conflitti e delle lotte, l’internazionalismo è
meno sviluppato che nella fase degli Stati-Nazione. L’accecamento volontario
cresce molto nel tempo delle sconfitte.
3. Dalla crisi del Covid19 al
“momento Hamilton”: le armi della critica.
L’europeismo
dominante nel paese esprime un fervore, una costanza e una testardaggine degne
di ammirazione. Certamente naviga in favore di corrente, chi comanda lo
appoggia e può contare su un apparto propagandistico di grandi dimensioni;
tuttavia stupisce il suo attivismo anche quando i fatti non lo sostengono; la
sua continua capacità di rilanciare nuovi slogan e, va sottolineato, di
inventare nemici che rendano accettabile un progetto che continua a vivere una
crisi esistenziale. L’ “altro” populismo europeista funziona alla grande grazie
alla denuncia spietata del “nazionalismo populista”, alla critica della
sinistra suppostamente nostalgica dello Stato-Nazione e alla delegittimazione
di coloro che si attardano a discutere sul tipo di integrazione, sulle
politiche e sul modello decisionale.
Non c’è
politica senza retorica; dopo gli accordi della Commissione sul programma di
ricostruzione europea, quelli che la tecnocrazia europea chiama Next Generation Ue, l’epica su è fatta
carne e programma: l’Europa passa all’offensiva; l’Europa contrattacca; Europa
potenza; l’asse franco- tedesco assume il comando. Aspettavano un segnale, una
congiunzione astrale e questa è arrivata per mano di Macron e della signora
Merkel: la ricostruzione europea 500 miliardi. Di più (congratulazioni!), la
potente Presidentessa della Commissione, anche lei tedesca, Ursula von der
Leyen, ha parlato di 750 miliardi di euro. Questa è l’unica strada: quella di
una Ue che si rimette in marcia con aiuti diretti, con solidarietà e senza
“uomini in nero”.
A colpirmi
particolarmente è questa storia del “momento Hamilton”. Non occorre essere
specialisti della storia degli Stati Uniti per sapere che Alexander Hamilton,
persona singolare, fu il più centralista, protezionista e militarista di tutti
i padri fondatori di una repubblica che nacque, è bene ricordarlo, fin
dall’inizio imperialista, unta da un manifesto destino egemonico e con
vocazione di grande potenza. Hamilton faceva paura a gente del calibro di
Madison o Jefferson per il suo umore autoritario, per il suo disprezzo nei
confronti del federalismo e la sua visione plutocratica della politica. Hamilton,
per molti aspetti, lanciò le sfide istituzionali e politiche che porteranno la
Nazione americana a essere una grande potenza, colui che rese possibile il
“colpo di timone” per passare da confederazione a Stato federale. Ciò cui si
vorrebbe alludere (evocandolo) è che la Next Generation Ue sarebbe questo passo
avanti verso gli Stati Uniti d’Europa, che si sta realizzando con l’impulso
erculeo dell’asse franco-tedesco. Una cosa da non dimenticare: Hamilton fu
l’autentico creatore del protezionismo moderno, il maestro di coloro che si
opposero alla libertà di commercio e che furono consci del fatto che la
condizione per industrializzarsi è proteggersi dalle grandi potenze e dotarsi
di poderosi strumenti per ottenere sovranità e indipendenza economica.
Comparare
il “momento Hamilton” al “momento Merkel” è qualcosa di più che una
scorrettezza storica, è una manipolazione che occulta la realtà dell’accordo.
Come si vedrà più avanti, le proposte di recupero economico e sociale che
arrivano dalla Commissione (ancora da approvare) c’entrano poco o nulla con
l’eredità storica di colui che fu una figura unica negli Stati Uniti che si
mettevano in marcia per realizzare il loro destino.
Il problema
andrebbe posto altrimenti: le misure che sta adottando la Ue sono all’altezza
delle sfide eccezionali poste da una inedita pandemia che lascerà profonde
tracce sociali, economiche e psicologiche? Credo di no; non solo perché sono
tardive, ma anche perché assai lontane dalle aspirazioni e dai bisogni di
popolazioni che stanno vivendo un autentico dramma. La prima questione ha a che
fare con qualcosa che si dà per scontato, ma che va ugualmente posta al centro
del dibattito. Giappone, Inghilterra e Stati Uniti non hanno avuto alcun
problema a iniettare quantità enormi di denaro nelle loro economie in poco
tempo. Questo avrebbe potuto farlo anche la Ue ma non lo ha fatto. Si dirà che
i Trattati lo vietano; certamente, tuttavia, di fatto, oggi la Ue vive uno
stato di eccezione; le regole basiche dei Trattati sono state sospese e le
misure che si stanno adottando sono al limite della legalità quando non la
violano. Come ha dimostrato William Mitchell, il divieto di monetizzare il
debito è strettamente politico e ideologico, non ha nulla a che fare con la
scienza economica. Si tratta di controllare la spesa pubblica e impedire
l’intervento statale. Obbligare le istituzioni pubbliche a sottostare al
controllo dei mercati finanziari serve a neutralizzare il conflitto sociale, a
imporre politiche neoliberali e a svalorizzare la democrazia come autogoverno
dei popoli.
Il fattore
tempo è essenziale. Non è lo stesso aiutare all’inizio della pandemia o quando
questa inizia a essere sotto controllo. Per essere efficace, cioè per evitare
la distruzione del tessuto produttivo, la rovina di migliaia di piccole medie
imprese e delle economie famigliari, gli aiuti avrebbero dovuto essere
immediati. La strategia delle istituzioni e della Germania è stata guadagnare
tempo e decidere, come al solito, a freddo, senza la pressione della necessità.
Sotto molti aspetti, il danno è già stato fatto ed è irreparabile. Di
conseguenza la crisi si è aggravata, le economie si sono indebitate ancora di
più e i margini di manovra per realizzare politiche pubbliche si sono molto
ridotti. La BCE sta facendo un lavoro positivo tentando di controllare i premi
di rischio; rafforzando il ruolo della banca e dei grandi fondi di investimento
che hanno potuto guadagnare molto senza rischiare nulla. L’economia politica
della rendita continua a dominare in questa fase di capitalismo di rapina.
4. L’Unione Europea: stato di
eccezione e sviluppo ineguale. Le armi della critica
Prosegue
intanto il dibattito sulla sentenza del Tribunale Costituzionale tedesco in
merito all’acquisto dei titoli di debito da parte della BCE. Gli attacchi sono stati
particolarmente duri, non a caso, da parte degli stessi che oggi appoggiano
entusiasticamente le iniziative delle istituzioni europee. Al fondo c’è un
problema giuridico-politico che viene sistematicamente eluso. Si può formulare
così: il trasferimento di sovranità dagli stati alla Ue è di tali dimensioni,
le mutazioni che provoca nei vari ordinamenti giuridico-costituzionali sono
talmente significative che c’è da chiedersi se non sia arrivato il momento di
convocare il soggetto che detiene il potere costituente originario, il popolo
tedesco. Il Tribunale non si oppone al fatto che si dia la possibilità di costruire
uno Stato sovranazionale, ciò che rifiuta è che lo si faccia di fatto, ai
margini dei meccanismi fondamentali prescritti dalla Legge Fondamentale della
Repubblica. Le istituzioni della Ue, specialmente il Tribunale di Giustizia,
sono anni che lavorano precisamente per eludere il “momento
democratico-costituente” dando per presupposto che l’ordinamento giuridico è
già una costituzione materiale, singolare, tuttavia costituzione di fatto.
Mischiare
democrazia e processo di integrazione è giustamente ciò che le élite europeiste
vogliono evitare a ogni costo. L’obiettivo è arduo ma promettente: smantellare
lo Stato sociale, limitare il controllo dei governi democratici sui grandi
monopoli finanziari e imprenditoriali, smontare la “costituzione del lavoro” e
– nodo cruciale – svalorizzare la democrazia come autogoverno dei popoli e
trasformarla in un insieme di procedure per selezionare governi e classe
politica; vale a dire, passare a democrazie (neo) liberali, perché agli Stati
Uniti d’Europa altro ruolo non spetta se non quello di Stati del nucleo
egemonizzato dalla Germania.
Il gran
problema delle proposte dell’asse franco-tedesco è che prospetta una
ricostruzione ineguale che approfondisce le asimmetrie fra centro e periferia,
viola la legalità della Ue e instaura un vero e proprio stato di eccezione;
vale a dire sospende il diritto e assicura il dominio dei poteri di fatto. È
successo nel 2008 e torna a succedere ora. Non è il luogo per analizzare i
mutamenti sostanziali che stanno avvenendo nell’economia-mondo capitalista e la
riapertura di un conflitto geopolitico di dimensioni sistemiche. Germania e
Francia vivono dilemmi strategici esistenziali. La Merkel vuole evitare di
scegliere il campo e Macron vuole capire cosa può guadagnare una volta capita la
posta in giuoco. I nostri timonieri esitano e la Germania, in quanto Stato, non
se lo può permettere.
La Germania
sa cosa è in gioco. Non ha problemi a cedere sugli aspetti secondari per
difendere prima di tutto i suoi interessi nazionali. Li tiene stretti e non li
dimentica mai. Al centro: l’ordoliberalismo inteso come posizione politica
assai più che economica. La Germania sta definendo il suo posto nel mondo che
viene. La Ue è la sua riserva strategica e, in parte, il mercato che controlla.
Guadagnare tempo e compiere mosse per preparare la sua struttura produttiva
economica e militare per un futuro di guerre economiche, conflitti geopolitici
e crisi di leadership. Lo Stato di eccezione per la Germania significa
intervenire a fondo e senza limiti nelle sue imprese, rafforzare il suo sistema
finanziario indebolito e investire nelle nuove tecnologie di domani. Il
capitalismo di Stato lo hanno scoperto loro; le relazioni fra monopoli, potere
politico e sindacati sono sempre stati lì. Adesso hanno di nuovo obiettivi
nazionali. Delle famose regole del mercato unico gli è sempre importato poco e
oggi men che nulla.
Lo Stato
tedesco sta intervenendo alla grande nell’economia. Degli 1,95 miliardi di euro
in aiuti pubblici di emergenza approvati dalla Commissione il 52% vanno alla
grande potenza tedesca. La cifra è impressionante soprattutto se la si compara
con quella della Francia: 1, 75%, 15,5% all’Italia, 2,54% alla Spagna. Secondo
uno studio del noto think tank europeo Bruegel le risorse fiscali e finanziarie
mobilitate dagli Stati europei riflettono a loro volta questa enorme disparità.
Quelle tedesche equivarrebbero al 10,1% del PIL, quelle della Francia al 2,4%,
quelle della Spagna all’1,1%, quelle dell’Italia allo 0,9%. Si potrebbe
continuare. Proseguendo con il documento di Bruegel vediamo che il paese della
signora Merkel ha rinviato tasse e imposte per un ammontare pari al 14,6% del
PIL, se aggiungiamo le iniezioni di liquidità e le garanzie finanziarie, il
27,7% del PIL, ci renderemo conto dell’enorme sforzo che questo paese sta
compiendo, paragonabile solo a quello di Stati Uniti, Inghilterra e Giappone.
La Ue non sta al livello delle grandi potenze, la Germania sì. Questo paese ha
capito assai bene il significato storico di Hamilton, a spiegarlo contribuì un
noto economista tedesco che ebbe molto a che fare con l’unità tedesca e la sua
industrializzazione, mi riferisco a Friedrich List.
Parto da
lontano. La Nuova Generazione Ue è una proposta che la Commissione sottopone al
Consiglio del 19 giugno di un fondo eccezionale - e temporaneo, va sottolineato
– per la ricostruzione economico-sociale della Unione che si aggiunge al quadro
finanziario pluriennale 2021-2027. Si tratta, si dice, di 750 miliardi di euro,
meno della proposta spagnola (1500 miliardi) e molto meno di quella del
Parlamento europeo (2000 miliardi). La novità più rilevante è che di questi 500
miliardi saranno sovvenzioni e 250 prestiti. Si dice che alla Spagna potrebbero
toccare intorno ai 140 miliardi, 77 di sussidi 63 di prestiti. L’Italia, la
prima beneficiaria, ne riceverebbe 80 di sussidi e 90 di prestiti. Il periodo
di erogazione sarà dal 2021 al 2024. In cifre globali, 35 miliardi all’anno.
Due novità importanti: il bilancio sfora del 2% il PIL e il finanziamento
avverrà tramite l’emissione di buoni garantiti dal bilancio della Unione.
Questo fondo si aggiunge al quadro finanziario pluriennale rafforzato 2021-2027
di 1,1 miliardi di euro. La questione della condizionalità non è casuale. Si
tratta di programmi decisi ed eseguiti dalla Commissione in base ai propri
criteri, lei decide e lei eroga. Questa è la parte sostanziale della proposta
sviluppata su tre grandi pilastri e attraverso iniziative ad hoc.
Non negherò
che esistono cambiamenti rispetto ai criteri precedenti. Tuttavia, sono
chiaramente insufficienti e, lo si è detto prima, non risolvono i gravi
problemi degli Stati e dei popoli a breve medio termine. Cosa avrebbe
comportato un vero “momento Hamilton” in circostanze eccezionali come le
attuali? Sommare tutti i debiti degli Stati, farne un fondo e rinegoziare
condizioni adeguate per il futuro. Punto. Otterrebbe di più, creerebbe un
bilancio realistico (il 2% è ridicolmente insufficiente) ed emetterebbe debiti
statali in quantità massive (il debito è un problema grave solo quando è in
moneta straniera, qual è l’euro). Non farebbe tremare i polsi monetizzare il
debito come hanno fatto i governi giapponese, inglese e americano e tanti
altri. Neoliberali sì ma non fanatici. Riassumendo: 1) la proposta dev’essere
approvata dal Consiglio Europeo, cosa non facilissima; 2) la Commissione ha
ottenuto ciò che voleva: guadagnare tempo per discuterla quando la pandemia
comincerà a essere sotto controllo; obbligare gli stati ad accettare le sue
condizioni relative ai gravi problemi economico-sociali, e soprattutto, un
debito che è enormemente cresciuto; 3) fino a gennaio i governi non riceveranno
fondi dalla Unione, aggravando la loro situazione finanziaria e di bilancio.
Le cifre
delle istituzioni della Ue vanno prese con prudenza; spesso si scambiano per
informazioni quelle che sono semplice propaganda. Se controllare quello che è
scritto in piccolo è sempre consigliabile, in questo caso è obbligatorio. Una
sana diffidenza aiuta molto. Thomas Fazi, giornalista ed economista di livello,
ha richiamato l’attenzione su un dato significativo. Commentando le cifre
assegnate all’Italia – 172 miliardi di euro – ha chiarito che i numeri della
Commissione erano diversi: 153 miliardi. Quando si sottrae il contributo
italiano al bilancio restano 56,7 miliardi. Lo stesso vale per le cifre
assegnate alla Spagna che sarebbero attorno agli 82,2 miliardi.
5. La Unione Europea e la NATO:
garanti delle nostre libertà pubbliche e dei nostri diritti sociali? Le armi
della critica
La crisi
della Unione Europea va situata, torno a insistere su questo punto, nel
contesto dei cambiamenti in corso nell’economia-mondo capitalista
caratterizzati da tre fatti, a mio giudizio, fondamentali. In primo luogo, la
grande transizione geopolitica definita come passaggio dal mondo unipolare a un
mondo multipolare. Al suo centro, una enorme ridistribuzione del potere e uno
scontro frontale per l’egemonia fra Stati Uniti e Cina. Ciò segnerà un’intera
epoca storica. In secondo luogo, la crisi della globalizzazione capitalista in
senso stretto e, più in là, quella di un capitalismo in decadenza. In terzo
luogo, l’aggravamento della crisi ecologico-sociale del pianeta, del
metabolismo fra società e natura che, come dimostra il Covid19, si rompe nel
suo fronte più complesso, la catena alimentare. Ci sarebbe un quarto aspetto,
secondo me il più radicale: l’Occidente e la sua modernità sta cessando di
essere la geocultura dominante. 500 anni in discussione.
Questo
mondo che cambia pone la Ue di fronte a dilemmi che non è in grado di
affrontare. La crisi che oggi sta vivendo lo dimostra chiaramente. L’ipotesi
che difendo è che il “momento Merkel” non solo non significa un’uscita dalla
crisi, ma è sintomo del suo aggravamento. Solo un radicato pregiudizio consente
di pensare che le misure adottate dalle istituzioni europee vadano in direzione
degli Stati Uniti d’Europa o di qualcosa di simile. La Germania, che è egemone
nella Ue, sta definendo il suo futuro geopolitico in un mondo che cambia.
Sottomessa a una forte pressione, ha ceduto su questioni secondarie e ha
puntato con decisione sui suoi interessi nazionali, che altro non sono se non
approfittare della pandemia per compiere una ristrutturazione radicale del suo
modello produttivo e un suo reinserimento nell’economia internazionale. Il
ciclo Merkel sta finendo e, assieme ad esso, tutta un’epoca storica. Che
relazioni intratterrà la Germania con gli Stati Uniti? Continuerà a essere un
loro fedele alleato e si convertirà in un loro strumento nello scontro con la
Cina? Le sue relazioni con la Russia continueranno a essere condizionate dalla
sua appartenenza alla NATO e dalla sua alleanza con i paesi del gruppo
Visegrad? Tutto è in discussione. La domanda di fondo: questa Ue a guida
tedesca giocherà un ruolo autonomo e differenziato nella transizione
geopolitica che stiamo vivendo?
Queste
domande sono pertinenti e ci pongono di fronte ai problemi esistenziali di una
Ue sottoposta alle sfide che pongono le grandi dimensioni. La politica del
“blocco di potere” in Spagna è consistita nell’incistarsi a qualsiasi prezzo –
questo è il consenso di base su cui si è fondata la transizione – in una Unione
Europea in costruzione. Non importa che questa integrazione ci converta in una
periferia economica dipendente e politicamente subalterna. I quattro grandi
attori della politica spagnola sono interni, nell’una o nell’altra forma, a
questo progetto: le destre, il Partito Socialista, i nazionalisti e i
sindacati. Unidas Podemos continua a sognare che questa Europa neoliberale
possa essere convertita in uno spazio di diritti sociali, di libertà e di
sviluppo economico inclusivo e giusto.
Considerato
tale livello, capisco bene quelli che, spesso enfaticamente, esprimono la
seguente posizione: solo l’Europa ci salverà da noi stessi, dalle nostre
contraddizioni sociali di base, dalla nostra oligarchia, dal golpismo. Dopo la
nascita di Vox, questo atteggiamento si è molto accentuato. Persone
rispettabili, storicamente critiche nei confronti della Ue, la definiscono ora
come il male minore. Questa Europa non gli piace; ma l’idea di una Spagna
sovrana e indipendente la vedono come problematica e negativa nelle condizioni
attuali.
La mia
interpretazione è diversa. Lo dirò con chiarezza: questo tipo di integrazione
europea indebolisce strutturalmente le nostre democrazie, limita il nostro
debole Stato sociale, destabilizza i rapporti di lavoro, “la Costituzione del
lavoro”, e neutralizza il conflitto sociale che è stato il vero motore delle
libertà e dei diritti. Si parla molto di “democrazie illiberali”, di
“democrazie autoritarie”, di democrazie recitative” e, evidentemente, dei
rischi dei populismi di destra. Ha molto a che fare questa costruzione europea
con la presenza, ogni volta più forte, delle destre estreme? Ha a che fare con
un tipo specifico di relazione fra politica e società, fra economia e Stato che
crea le condizioni oggettive e, in parte, soggettive, per il rinascere di
neofascismi più o meno espliciti?
Le risposte
a questi interrogativi sogliono essere di tipo controfattuale: (senza Ue) si
starebbe peggio punto e basta. A partire da qui, si inanella un discorso
interminabile che giustifica cedimenti, sacrifici (perdite di) diritti. Si può
capire che quelle persone e quei gruppi che credono nell’economia capitalista,
nello Stato minimo, nell’autoregolazione dei mercati, nella necessità di
limitare la sovranità popolare e costituzionalizzare le politiche neoliberali
ecc. puntino decisamente su questa Ue, la deifichino e la convertano
nell’orizzonte insuperabile della nostra epoca. Ciò che è difficile capire è
che socialdemocratici, gente di sinistra, socialisti e persino comunisti
continuino a difenderla e, nei momenti che stiamo vivendo, si convertano nei
suoi apologeti. Non inganniamoci, ciò che questo tipo di integrazione europea
impedisce è il riformismo in qualsiasi forma, le politiche economiche
democratiche e il costituzionalismo sociale. Se lo sappiamo perché tacere,
perché ingannarci e ingannare? Questo può solo produrre autoritarismo sociale e
involuzione politica.
Immaginiamo
- facciamo questo sforzo per favore – che nei prossimi dieci anni non esistano
gli Stati Uniti d’Europa; immaginiamo che le politiche neoliberali si
perpetuino ben al di là del “momento Merkel”; immaginiamo che gli Stati nazione
continuino a esistere; immaginiamo che le società si disarticolino, che
crescano le disuguaglianze e la precarietà aumenti; immaginiamo che le nuove
generazioni perdano contatto con il futuro e siano obbligati a convivere con
condizioni sociali basate sullo sfruttamento e l’insicurezza; immaginiamo
l’esigenza di un servizio sanitario forte e giusto. Che progetto di paese per
uno scenario del genere?
Le destre spagnole
vanno a questa sfida mentre sono all’offensiva e senza complessi. Sono riuscite
a fare di questa costituzione la loro costituzione; i simboli patriottici,
inclusa la bandiera, sono suoi. La monarchia è pure sua, assieme alle forze
armate e di sicurezza. Non hanno problemi, al contrario, con le politiche
austeritarie e con i tagli sociali e dell’occupazione. Unire il proprio futuro
a una grande Germania è un vecchio sogno comune ai nazionalisti baschi e
catalani. La nazione spagnola è cosa loro; continueranno a difendere il
“nazionalismo spagnolo” contro la Ue e gli “altri” nazionalismi, non gli costa
nulla. Hanno optato per la NATO e la sudditanza totale all’ “amico americano”.
Considerano la controrivoluzione preventiva un’opzione adeguata e la limitazione
delle libertà una necessità di fronte a un “comunismo” che ritorna in ogni
manifestazione, in ogni rivolta sociale.
Questo tipo
di integrazione tenta di imporre, né lo nascondono, un’americanizzazione della
vita pubblica europea; tende a rafforzare il potere giudiziario e riequilibrare
in suo favore le istituzioni statali; punta su una democrazia procedurale che
neghi i fondamenti dell’autogoverno popolare. Il nodo: disconnettere la
democrazia dalla sovranità. In sostanza, il modello politico che la Ue propone
mira a rompere con la democrazia così come l’abbiamo conosciuta dopo la II
Guerra Mondiale. Un sistema politico fondato sul conflitto di classe, lo Stato
sociale, diritti sindacali e del lavoro forti, governo democratico
dell’economia a cominciare dalla finanza. ”Più Europa” significa in questo
contesto passare a sistemi politici in cui le plutocrazie detengano tutto il
potere, i diritti sociali vadano scomparendo; i partiti convertiti in “slogan
elettorali” e l’opposizione nell’altra faccia del potere; il bipartitismo nella
forma del potere e la politica in attività retribuita per chi di politica campa.
“Potere dei giudici” e “autonomizzazione” di determinate istituzioni statali
offrono assaggi di un domani che è già qui. La domanda è obbligata: Chi, quali
forze stanno messe meglio nella congiuntura storica? Chi gode di un contesto
politico più favorevole? E questa Ue: chi rafforza? Detto altrimenti: il
modello economico e sociale neoliberale chi favorisce? Che tipo di democrazia,
che forma Stato toccano ai paesi periferici nell’ordine neoliberale che si
impone nella Ue?
6. Per non concludere: la
centralità del progetto nazional-popolare. Critica delle armi?
Restituire all’opposizione
destra/sinistra un valore fondamentale serve poco. In una certa misura confonde
le idee più che chiarirle. Il segno dei tempi è che tutta la terminologia che
il movimento operaio organizzato ha utilizzato è divenuta problematica e
costringe a un faticoso sforzo di ridefinizione. Quello che da molto tempo
cerco di dire è che, o ci sarà un rinnovato incontro fra le forze
democratico-socialiste con la realtà storico-sociale della Spagna o saremo
nuovamente sconfitti. Una forza politica è grande quando è capace di promuovere
un progetto nazional popolare all’altezza delle sfide della sua epoca. La
costruzione di un blocco politico sociale alternativo non sarà facile, non lo è
mai stato. La fase che inizia continuerà a essere di resistenza, di
accumulazione di forze e di inserimento attivo nel conflitto sociale. Ciò significa
anche fare politica, approfittare della congiuntura storica per migliorare le
condizioni di vita e di lavoro delle classi subalterne: difendere energicamente
diritti e libertà e rinforzare i servizi pubblici che oggi assumono importanza
eccezionale. Oggi, come ieri, la discriminante è dire la verità, fare
un’analisi realista dei rapporti di forza e difendere principi chiari,
possibili, appaganti e in quanto tali rivoluzionari.
Possiamo
girarci attorno finché si vuole. I problemi non possono più essere elusi: gli
Stati nazione esistono e usciranno rafforzati da questa crisi. La
globalizzazione capitalista retrocede ovunque. Il mondo che abbiamo conosciuto
sta cambiando completamente. La tendenza storica va in direzione di guerre
economiche assai dure, di conflitti politico-militari permanenti, crisi sociali
prolungate e mutazioni socio-ecologiche di grandezza inedita. Gli Stati devono
essere trasformati in un ampio e sinuoso processo di costruzione del
socialismo; sono sempre stati necessari ma insufficienti per cui occorre
inventare nuove forme di solidarietà e internazionalismo. Abbiamo poco tempo.
Questo
articolo è apparso sul numero 390-391 (luglio/agosto 2020) della rivista “El
Viejo Topo”. Traduzione dallo spagnolo di Carlo Formenti
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