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domenica 16 agosto 2020

Circa la crisi bielorussa: commentando l’intervista ad Alexander Buzgalin.

 

Intervista di Jurii Colombo, sul “Il Manifesto”, al prof. Buzgalin sulla crisi bielorussa.

 

D. Professore, quali sono i caratteri strutturali del sistema bielorusso? Parte della sinistra in Italia ritiene che là esista una sorta di socialismo…

R. La radice degli attuali problemi è la specificità del sistema socio-economico bielorusso. Negli ultimi decenni nel paese si è sviluppato un modello di capitalismo semi-periferico in cui il potere economico e politico non appartiene al capitale privato ma a un apparato statal-burocratico paternalistico, di cui il simbolo è Lukashenko. Di conseguenza, il capitale privato si trova in una posizione subordinata. È significativo che questa subordinazione non sia solo economica, ma anche amministrativa, politica e persino culturale e ideologica.

D. Quali sono i motivi di fondo della crisi che sta attraversando la Bielorussia?

R. La classe lavoratrice in Bielorussia fino a poco tempo viveva in condizioni relativamente buone, ma si sentiva oppressa dal paternalismo burocratico, c’era una forte senso di alienazione. Tuttavia questo “benessere” è andato in pezzi, lo sviluppo economico è rallentato e le diseguaglianze sono aumentate. E tutto questo ha condotto a una disposizione della maggioranza della Bielorussia profonda a sostenere le protesta. Allo stesso tempo c’è però anche la paura di perdere la relativa stabilità di un’esistenza assicurata dal paternalismo. Quindi fino a poco tempo fa, all’esplosione della crisi del coronovirus, la maggioranza aveva una posizione paradossale: erano favorevoli a dei cambiamenti ma non al capitalismo liberale. Non vedendo un’alternativa pensavano “che resti Lukashenko”.

D. Come mai la protesta ha assunto così grandi dimensioni?

R. La reazione di Lukashenko alle proteste dopo le accuse di brogli è stata di una violenza inusitata e ciò ha fatto cambiare radicalmente la situazione negli ultimi giorni. Il bielorusso medio – ma anche i tanti operai che iniziano a scioperare in queste ore – si sveglia e comprende che il paternalismo non è solo stabilità ma anche stagnazione. E che il capitalismo, anche quello paternalistico-burocratico, è sfruttamento e subordinazione…La base sociale che ancora sostiene Lukashenko è passiva e una parte di questa, ormai disorientata da quanto avviene muove verso l’opposizione. Lukashenko avrebbe potuto aprire un confronto con chi protestava ma ha preferito la strada della violenza. La democrazia non è nelle sue corde.

D. Che peso ha l’opposizione liberale nelle proteste?

R. Soprattutto fra i giovani l’ideologia neoliberale fa presa. Nella Bielorussia paternalista-capitalista le tendenze all’individualismo e al consumismo sono alimentate e al contempo bloccate. Il risultato è una contraddizione che conduce all’esplosione. Da qui la posizione “filo-occidentale” di una parte significativa della piccola e media borghesia e di coloro che illusoriamente si considerano proprietari di un considerevole «capitale umano». Una minoranza sociale ma politicamente attiva e capace di usare gli strumenti di comunicazione moderni. Vistasi sconfitta su questo terreno, la burocrazia ha reagito con la forza bruta, peggiorando ancora di più la propria posizione.

D. Che evoluzione della crisi prevede?

R. Ci sono dei fattori “esterni” che sarebbe ingenuo non valutare. La Bielorussia è circondata dai paesi dell’Ue (e gli Usa dietro di loro) e dall’Ucraina. L’Occidente intende usare la lotta per la Bielorussia come punto d’appoggio economico, politico e militare e utilizza non solo denaro e tecnologie politiche ma anche i metodi moderni della manipolazione culturale e informativa. Gli operai, i contadini e gli insegnanti bielorussi non otterranno la libertà politica dal sistema neoliberista. Nella migliore delle ipotesi riceveranno diritti formali ma saranno manipolati da parte del capitale aziendale globale e dei suoi politici. Economicamente, dal neoliberismo, la classe lavoratrice non riceverà altro che l’abolizione delle garanzie sociali già ridottissime: si trasformerà in un popolo precario impoverito e politicamente disorganizzato. Dall’altra però c’è Lukashenko, un potere repressivo – sostenuto probabilmente dalla Russia – che potrebbe ancora puntare al bagno di sangue. E infine c’è anche una terza ipotesi, purtroppo attualmente la meno realistica mancando oggi una vera sinistra: quella che ci sia un’insorgenza degli operai, dei medici, degli studenti che imponga una svolta in senso socialista. Una piccola speranza che va coltivata. Anche perché qui non siamo in Ucraina, esiste una grande tradizione antifascista. Non a caso la prima parata dopo la guerra di 30 brigate partigiane, che durò diverse ore il 16 luglio 1944, si svolse a Minsk proprio nelle piazze dove oggi si svolgono gli scontri.

 

Alexander Buzgalin è professore di economia all’università Lomanosov di Mosca, direttore del Centro di ricerca del marxismo contemporaneo e della rivista «Alternative».

  

 

Quella che Jurii Colombo ha realizzato è un’intervista di grande interesse ma che richiede anche qualche decodifica. L’intervistatore ha una posizione libertaria non nascosta, ma le sue domande sono abbastanza equilibrate, Il prof. Buzgalin opera ed agisce in un ambiente culturale del tutto diverso dal nostro, e quindi alcuni termini come ‘apparato statal-burocratico paternalistico’ possono suonare diversamente da come forse intese. Data anche l’esperienza russa probabilmente l’accento cade su “apparato”, e non su ‘statal-burocratico’ o ‘paternalismo’. Alla luce della costante predicazione neoliberale che ha investito l’ambiente culturale italiano ed occidentale qualsiasi forma politica organizzativa che non lasci all’iniziativa privata ed ai relativi capitali l’espressione dell’indirizzo sociale ed il potere è sempre per definizione ‘burocratica’ e ‘paternalista’. Lukashenko sarebbe quindi semplicemente illiberale e autocratico. E lo sarebbe indipendentemente da quanto sia larga la base sociale che lo sostiene e per la quale la forma statuale bielorussa lavora. In questa ottica il fatto che il potere economico non sia nelle mani del capitale privato, e soprattutto che questo si trovi in posizione subordinata (al potere politico) è il focus critico. In questa direzione va l’attacco sui nostri media.

Ma il professore russo non tocca esattamente questo punto, per quanto possa piacere all’intervistatore. Nessuna forma politico-organizzativa che tenga sotto controllo l’autorganizzazione del capitale privato, e le forze che lo esprimono, può evitare qualche grado di paternalismo (o meglio, di direzione politica) e di burocrazia (ovvero di controllo ex ante). Il punto per Buzgalin è più preciso: si è formato un “apparato” che mette in essere ed esprime una forma di capitalismo semi-periferico. Un capitalismo senza controllo economico, amministrativo, politico e culturale da parte del capitale privato. Quindi un ‘capitalismo’ fortemente sui generis. O, per come si dice spesso, un ‘capitalismo di Stato’.

In questa forma la questione diventa “che Stato”, e “di chi”.

Nel seguito dell’intervista ci sono delle tracce interpretative per provare ad illuminare queste domande. Il professore utilizza uno schematismo che distingue tra ‘classe lavoratrice’ e ‘piccola e media borghesia’ e da un altro lato tra ‘sfruttamento e subordinazione’ e ‘socialismo’. Ciò che disegna è un quadro nel quale lo scambio sociale proposto dal regime, su una linea di lunga tradizione nel mondo ex sovietico, si definisce tra la soddisfazione dei bisogni di base con qualche grado di protezione e stabilità, da una parte, e la passivazione sotto controllo burocratico, dall’altra. Questo scambio ha determinato una condizione di relativo successo economico, che ha fatto crescere classi medie via via più insofferenti allo ‘scambio paternalista’ (in quanto a torto o ragione convinte di poter avere di meglio nel contesto liberale). La crisi deriva dal saldarsi di queste, orientate all’ideologia neoliberale per effetto del mito occidentale e probabilmente della pressione dei suoi media, e sezioni importanti delle ‘classi lavoratrici’ a causa di una crisi economica che si è presentata in questi ultimi tempi. Come accade anche nelle ‘primavere arabe’ la crisi economica congiunturale (lì determinata soprattutto dalle oscillazioni dei prezzi dei prodotti petroliferi, qui dagli effetti sistemici del coronavirus) attiva delle faglie sociali silenti e scatena contraddizioni non risolte. In questo caso la contraddizione è molto profonda e ben caratterizzata dal professore: “Nella Bielorussia paternalista-capitalista le tendenze all’individualismo e al consumismo sono alimentate e al contempo bloccate”. La crescita economica e la distribuzione parzialmente egualitaria alimenta nel tempo il desiderio individuale di promozione sociale e di distinzione, separando piccoli gruppi favoriti dalla massa dei lavoratori. Ma qui interviene il rovescio della stabilità, ovvero il controllo del capitale privato la cui piena espressione è inibita. La posizione subordinata del capitale privato determina necessariamente un surplus di controllo burocratico e quindi in effetti l’ostacolo all’ulteriore crescita e distinzione individuale (ovvero l’ostacolo a passare sul versante dello sfruttamento del lavoro altrui, dimensione sulla quale vige il monopolio statale). Si tratta di questioni basilari dell’equilibrio sociale dei poteri in ogni società. La soluzione bielorussa è imperniata sulla posizione geostrategica del paese ed è racchiusa nell’intervista nella formula dirimente ‘semi-periferico’. Il sistema statuale controlla capitali a guida pubblica ed è inserito in un conflitto tra l’occidente (ovvero Usa e Ue, principalmente) e la Russia. La quale sostiene indirettamente la possibilità del regime di offrire garanzie sociali attraverso l’intermediazione del gas, comprato a basso prezzo e rivenduto in occidente.

La situazione potrebbe vedere poche vie di uscita, ed il regime di Lukashenko certamente ne vede ancora meno. Reagisce quindi alla prospettiva che si saldino le minoranze filoccidentali in cerca di promozione individuale (quelle che a suo tempo provocarono il crollo sovietico) con il disamore dei ceti lavoratori favoriti dalla distribuzione, ma al contempo compressi dal clima burocratico, ricorrendo ad una decisa repressione che ne mostra la debolezza. D’altra parte l’apertura al dialogo democratico potrebbe ridurre le tensioni, ma potrebbe anche provocare un crollo di sistema (come, appunto, avvenne nella grande Urss). La conseguenza potrebbe essere disastrosa, almeno nel medio termine, proprio per coloro che lo desiderano di più. Potrebbe essere anche disastrosa per gli equilibri geopolitici del mondo, obbligando la Russia a mosse ritorsive.

Non ci sono soluzioni facili.

Da una parte quello che il professore chiama ‘capitalismo semi-periferico’ determina una forma di sfruttamento a vantaggio di troppo pochi. Infatti, in queste condizioni la valorizzazione e riproduzione del capitale dipende dalla posizione del paese nella catena distributiva connessa in modo subalterno al centro semi-imperiale russo (ma aspirante ad un ruolo più grande) ed in presenza di un apparato che lo controlla per i propri fini di potere.

Dall’altra, proprio quando e perché la base sociale del regime si è fatta ristretta, sarebbe necessario riattivare le energie sociali sopite ed inibite introducendo elementi di democrazia sostanziale, contendendo credibilmente alle retoriche filoccidentali ed al sogno neoliberale il monopolio della speranza di ‘cambiamento’. Opponendo insomma al sogno di una ‘rivoluzione arancione’ la prospettiva di una rimobilitazione socialista. E di una riattivazione della lotta di classe.

 

 

1 commento:

  1. L'intervista rivela l'atteggiamento di molta sinistra che riconosce i limiti del liberismo ma non vuole rinunciare alla democrazia liberale, non capendo che la democrazia liberale è intrinseca al capitalismo (e quindi al liberismo, che ne è la vera autentica espressione).
    Ciao Alessandro.
    Paolo Botta

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