Intervista
di Jurii Colombo, sul “Il Manifesto”, al prof. Buzgalin sulla crisi bielorussa.
D.
Professore, quali sono i caratteri strutturali del sistema bielorusso? Parte
della sinistra in Italia ritiene che là esista una sorta di socialismo…
R. La radice
degli attuali problemi è la specificità del sistema socio-economico bielorusso.
Negli ultimi decenni nel paese si è sviluppato un modello di capitalismo semi-periferico
in cui il potere economico e politico non appartiene al capitale privato ma a
un apparato statal-burocratico paternalistico, di cui il simbolo è Lukashenko.
Di conseguenza, il capitale privato si trova in una posizione subordinata. È
significativo che questa subordinazione non sia solo economica, ma anche
amministrativa, politica e persino culturale e ideologica.
D. Quali sono
i motivi di fondo della crisi che sta attraversando la Bielorussia?
R. La classe
lavoratrice in Bielorussia fino a poco tempo viveva in condizioni relativamente
buone, ma si sentiva oppressa dal paternalismo burocratico, c’era una forte
senso di alienazione. Tuttavia questo “benessere” è andato in pezzi, lo
sviluppo economico è rallentato e le diseguaglianze sono aumentate. E tutto
questo ha condotto a una disposizione della maggioranza della Bielorussia
profonda a sostenere le protesta. Allo stesso tempo c’è però anche la paura di
perdere la relativa stabilità di un’esistenza assicurata dal paternalismo.
Quindi fino a poco tempo fa, all’esplosione della crisi del coronovirus, la
maggioranza aveva una posizione paradossale: erano favorevoli a dei cambiamenti
ma non al capitalismo liberale. Non vedendo un’alternativa pensavano “che resti
Lukashenko”.
D. Come mai
la protesta ha assunto così grandi dimensioni?
R. La reazione
di Lukashenko alle proteste dopo le accuse di brogli è stata di una violenza
inusitata e ciò ha fatto cambiare radicalmente la situazione negli ultimi
giorni. Il bielorusso medio – ma anche i tanti operai che iniziano a scioperare
in queste ore – si sveglia e comprende che il paternalismo non è solo stabilità
ma anche stagnazione. E che il capitalismo, anche quello
paternalistico-burocratico, è sfruttamento e subordinazione…La base sociale che
ancora sostiene Lukashenko è passiva e una parte di questa, ormai disorientata
da quanto avviene muove verso l’opposizione. Lukashenko avrebbe potuto aprire
un confronto con chi protestava ma ha preferito la strada della violenza. La
democrazia non è nelle sue corde.
D. Che peso
ha l’opposizione liberale nelle proteste?
R. Soprattutto
fra i giovani l’ideologia neoliberale fa presa. Nella Bielorussia
paternalista-capitalista le tendenze all’individualismo e al consumismo sono
alimentate e al contempo bloccate. Il risultato è una contraddizione che
conduce all’esplosione. Da qui la posizione “filo-occidentale” di una parte
significativa della piccola e media borghesia e di coloro che illusoriamente si
considerano proprietari di un considerevole «capitale umano». Una minoranza
sociale ma politicamente attiva e capace di usare gli strumenti di
comunicazione moderni. Vistasi sconfitta su questo terreno, la burocrazia ha
reagito con la forza bruta, peggiorando ancora di più la propria posizione.
D. Che
evoluzione della crisi prevede?
R. Ci sono dei
fattori “esterni” che sarebbe ingenuo non valutare. La Bielorussia è circondata
dai paesi dell’Ue (e gli Usa dietro di loro) e dall’Ucraina. L’Occidente
intende usare la lotta per la Bielorussia come punto d’appoggio economico, politico
e militare e utilizza non solo denaro e tecnologie politiche ma anche i metodi
moderni della manipolazione culturale e informativa. Gli operai, i contadini e
gli insegnanti bielorussi non otterranno la libertà politica dal sistema
neoliberista. Nella migliore delle ipotesi riceveranno diritti formali ma
saranno manipolati da parte del capitale aziendale globale e dei suoi politici.
Economicamente, dal neoliberismo, la classe lavoratrice non riceverà altro che
l’abolizione delle garanzie sociali già ridottissime: si trasformerà in un
popolo precario impoverito e politicamente disorganizzato. Dall’altra però c’è
Lukashenko, un potere repressivo – sostenuto probabilmente dalla Russia – che
potrebbe ancora puntare al bagno di sangue. E infine c’è anche una terza
ipotesi, purtroppo attualmente la meno realistica mancando oggi una vera
sinistra: quella che ci sia un’insorgenza degli operai, dei medici, degli
studenti che imponga una svolta in senso socialista. Una piccola speranza che
va coltivata. Anche perché qui non siamo in Ucraina, esiste una grande
tradizione antifascista. Non a caso la prima parata dopo la guerra di 30
brigate partigiane, che durò diverse ore il 16 luglio 1944, si svolse a Minsk
proprio nelle piazze dove oggi si svolgono gli scontri.
Alexander Buzgalin
è professore di economia all’università Lomanosov di Mosca, direttore del Centro
di ricerca del marxismo contemporaneo e della rivista «Alternative».
Quella che Jurii
Colombo ha realizzato è un’intervista di grande interesse ma che richiede anche
qualche decodifica. L’intervistatore ha una posizione libertaria non nascosta,
ma le sue domande sono abbastanza equilibrate, Il prof. Buzgalin opera ed
agisce in un ambiente culturale del tutto diverso dal nostro, e quindi alcuni
termini come ‘apparato statal-burocratico paternalistico’ possono suonare
diversamente da come forse intese. Data anche l’esperienza russa probabilmente
l’accento cade su “apparato”, e non su ‘statal-burocratico’ o ‘paternalismo’.
Alla luce della costante predicazione neoliberale che ha investito l’ambiente
culturale italiano ed occidentale qualsiasi forma politica organizzativa che
non lasci all’iniziativa privata ed ai relativi capitali l’espressione
dell’indirizzo sociale ed il potere è sempre per definizione ‘burocratica’ e
‘paternalista’. Lukashenko sarebbe quindi semplicemente illiberale e
autocratico. E lo sarebbe indipendentemente da quanto sia larga la base sociale
che lo sostiene e per la quale la forma statuale bielorussa lavora. In questa
ottica il fatto che il potere economico non sia nelle mani del capitale
privato, e soprattutto che questo si trovi in posizione subordinata (al potere
politico) è il focus critico. In questa direzione va l’attacco sui nostri
media.
Ma il professore
russo non tocca esattamente questo punto, per quanto possa piacere
all’intervistatore. Nessuna forma politico-organizzativa che tenga sotto
controllo l’autorganizzazione del capitale privato, e le forze che lo
esprimono, può evitare qualche grado di paternalismo (o meglio, di direzione
politica) e di burocrazia (ovvero di controllo ex ante). Il punto per Buzgalin è
più preciso: si è formato un “apparato” che mette in essere ed esprime una
forma di capitalismo semi-periferico. Un capitalismo senza controllo economico,
amministrativo, politico e culturale da parte del capitale privato. Quindi un
‘capitalismo’ fortemente sui generis. O, per come si dice spesso, un
‘capitalismo di Stato’.
In questa forma
la questione diventa “che Stato”, e “di chi”.
Nel seguito
dell’intervista ci sono delle tracce interpretative per provare ad illuminare
queste domande. Il professore utilizza uno schematismo che distingue tra
‘classe lavoratrice’ e ‘piccola e media borghesia’ e da un altro lato tra
‘sfruttamento e subordinazione’ e ‘socialismo’. Ciò che disegna è un quadro nel
quale lo scambio sociale proposto dal regime, su una linea di lunga tradizione
nel mondo ex sovietico, si definisce tra la soddisfazione dei bisogni di base con
qualche grado di protezione e stabilità, da una parte, e la passivazione sotto
controllo burocratico, dall’altra. Questo scambio ha determinato una condizione
di relativo successo economico, che ha fatto crescere classi medie via via più
insofferenti allo ‘scambio paternalista’ (in quanto a torto o ragione convinte
di poter avere di meglio nel contesto liberale). La crisi deriva dal saldarsi
di queste, orientate all’ideologia neoliberale per effetto del mito occidentale
e probabilmente della pressione dei suoi media, e sezioni importanti delle
‘classi lavoratrici’ a causa di una crisi economica che si è presentata in
questi ultimi tempi. Come accade anche nelle ‘primavere arabe’ la crisi
economica congiunturale (lì determinata soprattutto dalle oscillazioni dei
prezzi dei prodotti petroliferi, qui dagli effetti sistemici del coronavirus)
attiva delle faglie sociali silenti e scatena contraddizioni non risolte. In
questo caso la contraddizione è molto profonda e ben caratterizzata dal
professore: “Nella Bielorussia paternalista-capitalista le tendenze
all’individualismo e al consumismo sono alimentate e al contempo bloccate”. La
crescita economica e la distribuzione parzialmente egualitaria alimenta nel
tempo il desiderio individuale di promozione sociale e di distinzione,
separando piccoli gruppi favoriti dalla massa dei lavoratori. Ma qui interviene
il rovescio della stabilità, ovvero il controllo del capitale privato la cui
piena espressione è inibita. La posizione subordinata del capitale privato
determina necessariamente un surplus di controllo burocratico e quindi in
effetti l’ostacolo all’ulteriore crescita e distinzione individuale (ovvero
l’ostacolo a passare sul versante dello sfruttamento del lavoro altrui,
dimensione sulla quale vige il monopolio statale). Si tratta di questioni
basilari dell’equilibrio sociale dei poteri in ogni società. La soluzione
bielorussa è imperniata sulla posizione geostrategica del paese ed è racchiusa
nell’intervista nella formula dirimente ‘semi-periferico’. Il sistema statuale
controlla capitali a guida pubblica ed è inserito in un conflitto tra
l’occidente (ovvero Usa e Ue, principalmente) e la Russia. La quale sostiene
indirettamente la possibilità del regime di offrire garanzie sociali attraverso
l’intermediazione del gas, comprato a basso prezzo e rivenduto in occidente.
La situazione
potrebbe vedere poche vie di uscita, ed il regime di Lukashenko certamente ne
vede ancora meno. Reagisce quindi alla prospettiva che si saldino le minoranze
filoccidentali in cerca di promozione individuale (quelle che a suo tempo
provocarono il crollo sovietico) con il disamore dei ceti lavoratori favoriti
dalla distribuzione, ma al contempo compressi dal clima burocratico, ricorrendo
ad una decisa repressione che ne mostra la debolezza. D’altra parte l’apertura
al dialogo democratico potrebbe ridurre le tensioni, ma potrebbe anche
provocare un crollo di sistema (come, appunto, avvenne nella grande Urss). La
conseguenza potrebbe essere disastrosa, almeno nel medio termine, proprio per
coloro che lo desiderano di più. Potrebbe essere anche disastrosa per gli
equilibri geopolitici del mondo, obbligando la Russia a mosse ritorsive.
Non ci sono
soluzioni facili.
Da una parte
quello che il professore chiama ‘capitalismo semi-periferico’ determina una
forma di sfruttamento a vantaggio di troppo pochi. Infatti, in queste
condizioni la valorizzazione e riproduzione del capitale dipende dalla
posizione del paese nella catena distributiva connessa in modo subalterno al
centro semi-imperiale russo (ma aspirante ad un ruolo più grande) ed in
presenza di un apparato che lo controlla per i propri fini di potere.
Dall’altra,
proprio quando e perché la base sociale del regime si è fatta ristretta, sarebbe
necessario riattivare le energie sociali sopite ed inibite introducendo
elementi di democrazia sostanziale, contendendo credibilmente alle
retoriche filoccidentali ed al sogno neoliberale il monopolio della speranza di
‘cambiamento’. Opponendo insomma al sogno di una ‘rivoluzione arancione’ la
prospettiva di una rimobilitazione socialista. E di una riattivazione della
lotta di classe.
L'intervista rivela l'atteggiamento di molta sinistra che riconosce i limiti del liberismo ma non vuole rinunciare alla democrazia liberale, non capendo che la democrazia liberale è intrinseca al capitalismo (e quindi al liberismo, che ne è la vera autentica espressione).
RispondiEliminaCiao Alessandro.
Paolo Botta