Il
libro di McAfee e Brynjolfsson[1] è stato pubblicato nel
2017 e segue di tre anni il best seller di cui abbiamo già parlato[2], “La nuova rivoluzione
delle macchine”[3].
Ne è in qualche modo un aggiornamento. Se il testo del 2014 impostava il suo
discorso sulla base di una sorta di determinismo tecnologico (le tendenze economiche
e sociali, per esse l’ineguaglianza di cui in quegli anni si parla molto[4], sarebbero determinate
dall’evoluzione tecnologica, anziché, ad esempio, dalla stagnazione secolare
derivante da deficit di domanda e dinamiche demografiche[5], o da dinamiche del
sovraindebitamento[6]),
in questo segue implicitamente la stessa strada e ne esplora le conseguenze più
recenti. In modo ancora più pronunciato, in questo testo gli autori prendono
posizione per l’esaltazione, sopra ogni rischio tecnologico di
disintermediazione del lavoro e della mente umana, della “genialità del libero
mercato” e per la sua capacità di “inventare” soluzioni ai problemi che esso
stesso crea.
Siamo
da tempo in una sorta di compromesso sociale, fondato su un consenso che si
ripresenta spesso anche in forme apparentemente imprevedibili[7], che fa leva sul consumo anziché
sull’integrazione sociale ed il lavoro. A causa di questa condizione l’insieme
di determinanti e di nessi nei quali siamo immersi erode costantemente le condizioni
della riproduzione della vita e rende instabili le nostre società. La lettura
di libri come quello di Brynjolfsson e McAfee aiuta a focalizzare una delle più
potenti di queste determinanti: la tecnologia (informatica, Ia,
meccanizzazione/automazione) e le nuove modalità di comunicazione, creazione,
distribuzione ed accumulo di informazione. E, precisamente, consente di misurare
il grado di spiazzamento (in rapidità e magnitudine) del lavoro in tutte le sue
dimensioni.
Nel
testo del 2014 gli autori ritenevano che l’umanità fosse sulla soglia di un
grande salto in avanti paragonabile all’introduzione della macchina a vapore
(prima rivoluzione industriale), o all’elettrificazione (seconda), due periodi
di grandi sconvolgimenti sociali e politici. Oggi ritengono che la soglia sia
stata attraversata.
Se
allora nelle conclusioni finivano per produrre solo soluzioni “liberali”, come
il reddito di cittadinanza e le imposte negative, per attenuare lo scalino
dello spiazzamento massivo di milioni di lavoratori, oggi enfatizzano
ulteriormente questa linea affidandosi ancora più al mercato fino a immaginare
soluzioni interamente decentralizzate (affidate, cioè, alla “moltitudine”). Da una
parte citano studi che prevedono fino al 50% di perdita di lavoro, dall’altra,
affidandosi ad Hayek, enfatizzano le eccitanti possibilità di “creare ed
ottenere un valore” da questa massiva disintermediazione. Rivolgendosi al vero
cliente del loro libro (nel frattempo, evidentemente, si sono trasformati in
conferenzieri di grande successo), nell’ultima pagina ricordano che “le persone
con abilità, talento o fortuna” in grado di produrre una “merce” e distribuirla
nell’infrastruttura digitale globale possono raggiungere milioni o miliardi di
potenziali clienti. Appunto ottenendo “un valore” senza precedenti (ovvero un
prezzo).
Purtroppo
chi guarda all’economia con le lenti del feticismo della merce e del denaro (facendo
di quel che è un rapporto sociale una cosa) non è neppure in grado di percepire
il gigante dai piedi di sabbia che sta evocando. Vendere “merci” prodotte senza
lavoro, ovvero senza distribuire, a mercati lontani è un modo di sollevarsi per
i propri capelli, per qualche secondo può dare l’impressione di salire, ma ne
mancano le condizioni. Chi comprerà una merce come otterrà le risorse scambiabili
con le quali farlo? Né la recita del mantra voodoo delle decisioni decentrate
aiuta più di tanto. Se è vero che milioni di persone lavorano in settori che
una volta non esistevano, e miliardi lavoreranno in futuro in altri che non
conosciamo, la transizione è sempre stata creata dalla decisione politica. Creando
scuole pubbliche, lavori di ultima istanza, ricerca pubblica, settori nuovi fortemente
sovvenzionati al loro esordio, forme di integrazione di reddito a volte per
anni e per milioni di persone, …
La
visione degli autori emerge invece dalle ultime parole:
“In
definitiva abbiamo una visione ottimista del futuro. I prossimi decenni
potranno e dovranno essere migliori di tutti quelli vissuti finora dagli esseri
umani. Non è una previsione; è una possibilità ed un obiettivo. Nessun futuro è
mai determinato in anticipo. Come gli individui tracciano la propria strada,
così lo fanno le aziende, e così può farlo la società.
Speriamo
che questo libro vi abbia aiutato a tracciare il vostro percorso”.
Con
queste posizioni siamo fuori strada, quel che serve non è un percorso che sia
scelto dalle aziende, e neppure dai singoli individui, se non vogliamo che quasi
tutti restino indietro. Quel che serve è una decisione collettiva, contrariamente
a quel che gli autori pensano dovremmo essere ricci anziché volpi[8]. Scegliere cosa vogliamo
essere. E ricordare che significa effettivamente essere liberi[9].
Su
cosa?
La
sfida che si sta presentando sulla scena deriva dal successo improvviso (divenuto
evidente nel periodo tra i due libri) dell’approccio detto dell’apprendimento
automatico, in vece di quello basato su regole ed algoritmi, nella Ia. Si tratta
della capacità di individuare modelli e strategie da esempi e non da algoritmi,
potenziato dalla confluenza contemporanea di due fattori: l’enorme potenza di
calcolo resa disponibile e l’immensa disponibilità di informazioni digitalizzate
(che continua a crescere esponenzialmente). Quel che accade è che, ed ogni
giorno di più, la capacità di estrarre pattern da insiemi di dati eterogenei, il
riconoscimento del linguaggio umano e la sua traduzione come la costruzione di
nuove soluzioni, sono eseguibili da software ad un livello che sta diventando
sempre più simile al lavoro realmente umano. Le macchine, insomma, si fanno più
simili alle menti (nei prodotti, non nel modo di funzionare) e cominciano anche
ad imparare da sole.
Al
contempo moltissimi processi, nelle aziende in particolare, stanno per essere
virtualizzati, ovvero avranno sempre meno bisogno di effettiva presenza umana. E
questa potrebbe essere recuperata ovunque al prezzo minore. La stessa
robotizzazione sta vivendo quella che gli autori chiamano una “esplosione
cambriana”[10],
diventando ogni giorno di più meno costosa, più facilmente reperibile,
diversificata e performante. Si tratta del risultato di una serie di cause:
disponibilità di dati, di algoritmi, di networks, miglioramenti esponenziali
del software. Ormai ci sono casi di sistemi di software (anche associati a
tecniche produttive come la stampa addittiva) che sono in grado di progettare
oggetti, comporre musica, formulare ipotesi, interpretare gli stati emotivi, fornire
prodotti professionali (come articoli di giornale, pareri legali, diagnosi
mediche di base, etc.).
Certo,
al momento tutta la tecnologia non riesce a incontrare le nostre esigenze più
evolute, soddisfare le nostre pulsioni sociali, simulare empatia, leadership,
capacità di lavoro comune. Questo è uno spazio che ancora per molti anni per
gli autori resterà a disposizione del contributo umano, ed è l’idea della “alleanza
di base” da costruire. Le attività automatizzabili lo dovranno essere e il
lavoro umano affiancarsi in modo complementare dove non può arrivare il sistema
delle macchine.
Ma
c’è un’altra dimensione da considerare, perché lavora insieme e si potenzia
enormemente. Il contributo delle tecnologie di messa
in contatto e comunicazione nella potentissima disintermediazione e squilibrio
dei sistemi economici e sociali. La nuova economia della digitalizzazione (e
quindi della riproducibilità a costo marginale quasi zero) e della rete si
potenzia man mano che si estende, creando piattaforme[11] sempre più potenti. Dispositivi
fondati su meccaniche di aggregazione di offerte nelle quali l’intermediario è
in posizione di forza spesso generata dall’aggiramento delle regolazioni (cui
altri devono sottostare). Si appropriano, in altre parole, di qualche genere di
bene collettivo.
Scrive
su questo qualcosa di interessante Nick Srnicek nel 2017[12].
Infine,
per gli autori sono da considerare quelle nuove tecnologie basate sulla
cosiddetta blockchain, la base del bitcoin[13]. Una valuta criptata che
è in sostanza controllata direttamente da tutti i membri del circuito in modo
decentralizzato. Questa tecnica consentirebbe di essere estesa a “contratti
intelligenti”, o “smart contract”, a controllo decentralizzato e innumerevoli
altre applicazioni (incluso uno schema per rendere superfluo lo schema
aziendale, creando contratti “globali” e distribuiti)[14]. Di recente anche la Federal
Reserve, insieme al Mit, ha messo in campo lo studio di una forma di
criptovaluta[15],
una CBDC (Central Bank Digital Currency) da utilizzare in caso di crisi
ed in affiancamento alle politiche di espansione monetaria tradizionale (che
producono moneta bancaria). La cosa potrebbe essere connessa con l’idea,
lanciata da due ex alti dirigenti della Fed di New York ad una tavola rotonda[16] di creare un Recession
insurance bond da utilizzare per erogare monete immediatamente disponibili
in caso di caduta occupazionale drastica (come quella provocata dal Covid),
accreditando denaro agli utenti tramite un’app dello smartphone. L’idea è di
distribuire in automatico una data frazione del Pil, su autorizzazione del
Congresso, ai cittadini al darsi di alcune condizioni macroeconomiche.
Anche da queste disperate proposte, che cercano di tamponare una nave che ormai affonda, nonché dalla fede altrettanto disperata degli autori nelle capacità taumaturgiche del re mercato, contro ogni evidenza, emerge la tragedia incombente[17].
[1] - Andrew McAfee,
Erik Brynjolfsson, “La macchina e la folla.
Come dominare il nostro futuro digitale”, Feltrinelli 2020 (ed. or.
2017).
[2] - In questo post del 2015, “La
nuova rivoluzione delle macchine”.
[3] - Andrew McAfee, Erik
Brynjolfsson, “La nuova rivoluzione delle
macchine”, Feltrinelli 2015 (ed. or. 2014).
[4] - Ad esempio, il famoso libro di
Piketty, “Il
capitale del XXI secolo”, è del 2013.
[5] - Ipotesi in quegli anni portata
avanti da Summers e in parte Krugman (si veda “Discussioni
sulla stagnazione secolare”).
[6] - Secondo l’ipotesi di Rogoff, ma
anche di altri.
[7] - In molti di quelli che pensano,
in perfetta buona fede, di mobilitarsi contro la società esistente e il “neoliberismo”,
ma a ben vedere reagiscono solo al tradimento del “compromesso”. Ovvero alla
impossibilità di accedere ai consumi.
[8] - Il riferimento è alla famosa
metafora di Berlin in “La volpe ed il riccio”, ma ripresa da Tetlock per
definire la differenza tra chi adotta molti punti di vista e chi ha una visione
e la segue, cfr. p.60.
[9] - L’inganno più atroce è che le necessità
dell’accumulazione del capitale, a vantaggio dei suoi possessori pro tempore, è
stata venduta per anni come una conquista di libertà, e spesso anche come
espansione dei diritti. Ma di una libertà e di diritti rigorosamente
individuali e da fruire da soli, mentre ogni autentica libertà presuppone non
già l’assenza di impedimento, ma l’abilitazione nella
costitutiva connessione tra individuo e cornice normativa della società. Dunque
nessuno è libero da solo, crederlo è una forma estremamente grave di sociopatia
di cui soffre chi crede, normalmente a partire dai suoi privilegi erroneamente
considerati naturali, di essere al sicuro dalla necessità del sostegno e non
riconosce che questo gli viene in effetti solo dalla società nel suo complesso,
che lo ha concesso Il vero scopo, per essere ‘liberi’, deve essere di garantire
che nella realtà sociale tutta, istituzioni incluse, sia possibile dispiegare delle socialità nelle quali
gli individui possano scegliere senza coazione e disponendo delle necessarie
risorse materiali. La libertà si deve dare, cioè, nella sfera dell’oggettività
o non essere. Questo era lo scopo del socialismo che abbiamo del tutto
dimenticato nel 1989: la libertà, insomma, è generata dalla cooperazione
sociale.
[10] - Quando, circa 530 milioni di anni
fa, sono improvvisamente comparsi la maggior parte degli animali complessi.
[11] - Circa l’economia delle
piattaforme si può leggere una enorme letteratura. Ad esempio, Benedetto Vecchi,
“Il
capitalismo delle piattaforme”, 2017; Nick Srnicek, “Capitalismo
digitale”, 2017, e “Inventare il futuro”; Jason Lanier, “La
dignità ai tempi di internet”, 2014; AAVV, “Platform
capitalism”, 2017; Riccardo Staglianò, “Lavoretti”,
2018; Marta Fana, “Non
è lavoro, è sfruttamento”, 2017.
[12] - In “Capitalismo
digitale”.
[13] - Partita dall’articolo di Satoshi
Nakamoto, “Bitcoin: a peer-to-peer electronic
cash system”, del 2008.
[14] - Ivi, p. 277
[15] - FED, “A
update on digital currencies”, 13 agosto 2020.
[16] - cfr. “Two
ex-Fed Officials have a fester way ti distribuite money in recession”,
Bloomberg, 1 agosto 2020.
[17] - Come si legge in documenti come
questo, “Lettera
di un condannato”.
Nessun commento:
Posta un commento