§ 1. Premessa.
Maastricht e il Trilemma di Rodrik
Il trilemma di
Rodrik[1] suona:
non puoi avere democrazia, globalizzazione e sovranità nazionale tutti assieme.
Affermazione che riecheggia il trilemma di Triffin, che non puoi avere
contemporaneamente tre opzioni: cambi fissi, movimenti incontrollati di
capitali e politiche espansive, ma solo due.[2] Il che
rinvia direttamente all’impostazione data dai Trattati di Maastricht al
rapporto tra stati nazionali, mercati globali e politiche economiche europee.
Il trilemma di
Triffin[3] fu
enunciato in riferimento agli accordi di Bretton Woods come anticipazione di
un loro finale fallimento, come fu. Ma gli accordi di Maastricht seguono
un’impostazione opposta a quelli di Bretton Woods. E se i primi sono storicamente
collegati al nome di Keynes i secondi lo sono - anche se in modo meno pubblicamente
esplicito - al nome dell’arci-antagonista di Keynes, Friedrich von Hayek. E, di
fatto, a questi Trattati si applica maggiormente, come si è visto dopo la crisi
del 2008-09 (e anche adesso) il Trilemma di Rodrik.
Quindi, se il
Trilemma di Triffin rinvia a Bretton Woods e a Keynes. Il Trilemma di Rodrik
rinvia piuttosto ad Hayek e alle sue idee sul federalismo.
§ 2. Hayek
& la Teoria Generale. Una recensione in maschera.
Sappiamo che alla
base dei Trattati di Maastricht ci fossero idee elaborate da Hayek.
L’economista Issing, - che fu tra gli estensori - ne era un seguace e lo
dichiara in una conferenza all’Institute of Economic Affairs di Londra.[4] Inoltre, grazie a Bagnai,
Barra Caracciolo e Cesaratto,[5] conosciamo in dettaglio le
idee di Hayek sul fine che, secondo lui, deve essere perseguito da uno Stato
federale. Idee esposte a partire da un saggio del 1939 (e ribadite nel cap. XV
della Road to Serfdom)[6]: impedire agli Stati
nazionali di fare politiche economiche espansive.
E ci sono pochi
dubbi che questa sia l’impostazione dei Trattati. Riconfermata nel documento
dei 5 Saggi del governo tedesco nel luglio 2015, che attacca la politica della
BCE di Draghi in quanto violerebbe l’impostazione dei Trattati che il paese
fiscalmente indisciplinato deve essere lasciato alla mercé dei mercati
finanziari internazionali.
Ma per trovare
un’argomentazione teorica a sostegno delle tesi del saggio del 1939 dobbiamo
fare un passo indietro, al 1937. Il 1937 è un anno particolare. La Teoria
Generale è stata pubblicata nel 1936. Ci si sarebbe potuto aspettare una
recensione di Hayek. Ma lui sostenne che, siccome Keynes cambiava sempre
opinione, era inutile recensire un suo lavoro, col rischio di trovarsi
spiazzato.[7] Ma nel 1937 Hayek pubblica
il testo di cinque conferenze, sul funzionamento dei sistemi monetari
internazionali, tenute al Graduate Institute of International Studies con il
titolo: Monetary Nationalism, ‘monetarismo nazionalista’.[8] Dato il tema e i suoi
sviluppi nel testo,[9]
il titolo colpisce un po’. Titolo che, evidentemente, come dice lui stesso
nella Prefazione, individua l’avversario teorico, e politico, del testo.
Che il testo sia
riferito a Keynes lo dice Hayek stesso, quando afferma che il principale
esponente teorico di questa corrente di politiche ‘monetarie’ è proprio Keynes,
anche se ammette subito che non considera affatto Keynes un ‘nazionalista.’
Evidentemente sono le politiche ‘nazionali’ l’obbiettivo.
Certo, Keynes
poteva essere ritenuto fautore di quelle politiche abborrite da Hayek anche
prima della TG, ma che Hayek si volesse riferire alla TG lo fa capire da un obiter
dictum riferito alla ‘preferenza per la liquidità’,[10] termine che compare negli
scritti di Keynes solo a partire dalla TG.[11]
Ovviamente Hayek
fraintende il senso della teoria elaborata da Keynes nella TG, collocandolo
nel gruppo dei ‘teorici’ dediti a manipolazioni monetarie per affrontare depressioni[12] ma, ciononostante, ha
intuito la conseguenza in termini di politiche economiche nazionali. Cioè, ha
capito che la teoria di Keynes dà un forte sostegno teorico a politiche
nazionali espansive. Ricordiamo che la prima reazione di molti governi alla
crisi del ’29 fu di politiche economiche di sound finance.[13] E che le teorie di Keynes
del Trattato sulla Moneta, del 1930, avevano ricevuto un’accoglienza tiepida.
Si poteva cioè pensare che la Teoria Generale, del 1936, avrebbe potuto essere
davvero teoricamente pathbreaking per quelle politiche.
Ma la cosa davvero
curiosa è che il ‘completamento’ della Teoria Generale, nel senso di fornire un
quadro internazionali a quelle politiche nazionali, Keynes lo effettua solo a
Bretton Woods; ovviamente basandosi sull’ampia elaborazione del Trattato.[14] Perché solo a Bretton
Woods Keynes getta le basi, per quanto non del tutto soddisfacenti per lui, di
un sistema monetario internazionale che permetta le politiche espansive dei
singoli Stati, di cui la Teoria Generale è la fondazione teorica, e che Hayek
fraintende con la definizione di Monetary Nationalism.
A Hayek va
riconosciuta un intuito politico notevole. Mentre, da un lato, non capisce
veramente la struttura concettuale della rivoluzione keynesiana, dall’altro, ne
coglie lucidamente la potenziale direzione politica. Direzione che lo preoccupa
enormemente. Perché se, dopo il crollo del Gold standard, nel 1931, che
l’aveva traumatizzato, adesso si affermasse una teoria che desse una base
teorica a politiche nazionali espansive, fuori del controllo esercitato da un
sistema di pagamenti internazionali basato su uno standard fisico, l’oro,
allora bisognava correre ai ripari riscrivendo la teoria dei sistemi monetari
internazionali in modo da costruire una barriera che impedisca lo sviluppo di
queste politiche.
Perché c’è
un’invarianza incredibile nella contrapposizione nelle due ricerche parallele
dei due autori.
Fin dal Tract del
1923, dedicato a criticare il ritorno della sterlina alla parità pre-bellica,
Keynes mette in luce la contraddizione, come lui dice, tra equilibrio interno
ed esterno. Cioè, per mantenere la posizione inglese sui mercati finanziari
mondiali si devono alzare i saggi d’interesse e il tasso di cambio a livelli
tali da ridurre gli investimenti interni e le esportazioni, provocando
disoccupazione. Di questo conflitto gli economisti pre-bellici non si erano
neppure accorti, perché il gold (exchange) standard funzionava in modo da
imporre l’aggiustamento interno rispetto all’equilibrio esterno. Cosa a cui
Hayek vuole tornare, e da cui Keynes vuole uscire.
Dal 1923 in poi, e
in modo molto articolato nel Trattato, Keynes cerca tutti i modi in cui (agendo
su interessi e cambi soprattutto, ma non necessariamente flessibili, grazie
alla Banca centrale) cui si possa riuscire a impedire che le variazioni negli
equilibri internazionali, potenzialmente negative per l’equilibrio l’interno,
si possano trasmettere all’interno. Solo durante la guerra Keynes si imbatterà
nello strumento di un sistema di clearing - insieme al controllo dei movimenti
di capitali - come mezzi per impedire crisi di bilance di pagamenti. Gli
accordi di Breton Woods saranno il compimento di quella ricerca.
E infatti Hayek
elabora nel suo testo, un sistema monetario internazionale il cui esito sia
quello di re-imporre controlli esterni ai sistemi economici nazionali. Agendo
per così dire con largo anticipo rispetto a quelle che, forse implicitamente,
ma giustamente, pensava sarebbe stato l’esito finale della Teoria Generale,
che infatti Keynes conclude solo a Bretton Woods.
Non lo capiva
davvero, ma lo intuiva. Non può stupire che questa intuizione sottenda
l’impostazione dei Trattati di Maastricht.
§ 3. L’uso ordo-liberista
di Keynes.
No, non c’è stato
nessun momento Hamiltoniano. Gli eurobond saranno emessi per investimenti
futuri e i debiti sovrani pregressi resteranno in testa agli Stati emittenti.[15] E non c’è stata neppure
nessuna svolta Rooseveltiana. Non c’è stata, infatti, nessuna vera autocritica
rispetto alle politiche di austerità post-recessione 2008-09. Per non parlare
di autocritiche agli assetti ordo-liberisti.[16] Tutt’altro.
Ma una svolta c’è stata. Che sarebbe sembrata negli anni passati affatto impossibile.[17] Si potrebbe dire in
estrema sintesi che, con il Next Generation, stavolta si è visto in Europa un uso
ordoliberista di Keynes.
L’uso
neo-liberista di Keynes si era già visto altre volte. Aveva incominciato, già
dagli inizi della contro-rivoluzione anti-keynesiana, lo stesso Reagan quando,
al culmine della depressione 1980-82, aveva fatto ripartire quello che sarà
noto come il ‘ciclo reaganiano’.[18] Poi, dopo che Clinton
aveva inaugurato il primo vero ciclo economico di crescita USA non-keynesiano,
portando il bilancio dello Stato in pareggio verso la fine dei ’90,[19] l’unico strumento
legittimo di contrasto anti-ciclico era stata la politica di ‘prestatore di
ultima istanza’[20]
della Banca centrale; intervento che dal 2000 fu nominato il ‘Greenspan put’,
messo in opera per contrastare la crisi dovuta allo scoppio della bolla dot.com.[21] Ma, quando la crisi,
partita nel 2007,[22] si sviluppò negli anni
2008-09, si capì che stesse assumendo dimensioni paragonabili solo a quelle
della Grande Depressione. Di conseguenza, la ‘modica quantità’[23] di politiche keynesiane
di stimolo fiscale fu tirata nuovamente fuori dal cassetto dalla dirigenza
statunitense. Ovviamente insieme a una decisa politica della FED di espansione
della liquidità, in congiunzione con accordi di swap con altre banche centrali,
per impedire il collasso dei mercati finanziari mondiali.
Ma gli
ordo-liberisti si erano mostrati molto più tetragoni.
Basta vedere la
differenza tra le politiche monetarie della FED e della BCE ‘prima’ della
‘svolta’ Draghi del 2015. Come si vede bene dal grafico, la BCE ha fatto un intervento
molto limitato durante l’emergenza. Il board della BCE accettò l’OMT di Draghi
a fine 2012, ma solo come intervento legato a condizionalità punitive. Niente
di paragonabile al ‘Greespan put’ della FED di Bernanke nella crisi. Il
whatever di Draghi era formalmente una sconfessione di principio dell’impostazione
che i Trattati avevano dato al ruolo della BCE, in quanto ne affermava il ruolo
di lender of last resort. Ma di fatto poteva convivere con la politica di non
intervento della BCE.
Infatti, il
whatever it takes serviva solo, e ‘bastava’ come disse Draghi (‘I promise you,
it will be enough’), a inibire le vendite, con la mera minaccia del
riacquisto, e quindi poté avere successo senza bisogno di espandere la base
monetaria.
Mentre quando dopo
lo stimolo fiscale del 2009 diventa evidente che lo stimolo abbia impedito un
crollo dell’economia USA, senza però lanciare una ripresa a V, e la disoccupazione
resti alta, allora Bernanke, e la Yellen seguirà, inizia la politica monetaria
espansiva nota come quantitive easing (con varianti).
Invece, in Europa,
gli anni 2011 e 2012 segnano il trionfo politico della linea di austerità
fiscale come politica di fuoriuscita dalla crisi. Quasi una rivincita di Hayek
rispetto a quel - diventato famoso - seminario a Cambridge nel 1931, quando Kahn
l’aveva preso in giro chiedendogli se scendere in strada a comprare un
impermeabile avrebbe peggiorato la situazione, e lui rispose di sì.
Il punto di
partenza era che la politica monetaria è distorsiva e che deficit e debito sono
fenomeni esclusivamente reali che vanno risolti fiscalmente, escludendo strumenti
monetari, che non possono che essere distorsivi. Da cui il fiscal compact e la
rinnovata, e più cogente, prescrizione della riduzione del rapporto debito/PIL.
Coerentemente con la diagnosi che gli squilibri tra tassi d’interesse (gli
spread) fossero solo l’effetto di differenziali fiscali che andavano chiusi. E
fu così che l’Europa hayekiana fu sull’orlo della catastrofe finanziaria nel
2012.
Bloccata solo dal
whatever di Draghi. Non doma, perseverò nella politica del Fiscal Compact,
provocando la seconda recessione italiana e una bassa ripresa del PIL europeo.
A questo punto Draghi portò fino in fondo la violazione del postulato della neutralità’
della politica monetaria, con il quantitative easing, inaugurando una politica
espansiva che puntasse al sostegno dei corsi degli asset e, riducendo i tassi
di interesse, creasse le condizioni per maggiori investimenti, una crescita
dell’attività economica, e quindi facesse anche aumentare il tasso
d’inflazione che la perdurante scarsa ripresa teneva bassi.[24]
Già l’OMT aveva
suscitato in Germania non solo malumore ma anche azioni giuridiche di
contrato, con ricorsi alla Corte costituzionale tedesca, ma il quantitive
easing suscitò ricorsi che, come abbiamo visto, hanno evocato la durissima
sentenza del 5 maggio 2020, mentre, per quanto riguarda l’OMT, la Corte si era
dichiarata d’accordo con la sentenza favorevole alla BCE della CJUE. Ma la
differenza è lampante rispetto all’OMT.
Ed è difficile
pensare che la data scelta per la sentenza (in piena epidemia COVID-19) non
avesse nulla a che fare né con la riconferma del programma espansivo della BCE,
nonostante l’opinione contraria alla linea Draghi espressa dalla rappresentante
tedesca nel Board della BCE, Schnabel, né con le proposte di cui si discuteva
animatamente, possibilmente ancor più indigeste alla Corte, oltre che ai paesi
‘frugali’, come si vedrà, di massicci finanziamenti ai paesi maggiormente in
difficoltà per l’epidemia.[25]
Solo due settimane
più tardi, infatti, la coppia Macron-Merkel annuncerà la seconda rottura dei
tabù fondativi dell’Unione: uno stimolo fiscale che, rispetto alle economie cui
viene concesso, è di dimensioni tutt’altro che modeste; stimolo che
aggiungendosi quelli rilevanti decisi internamente, di Francia e Germania,
costituisce un mutamento radicale rispetto alla risposta alla crisi del
2008-09, centrata in modo classicamente ortodosso, sulla domanda estera e
austerità interna. Una novità, inoltre, che non è stata colta appieno nei
commenti al Next Generation Fund è che si tratta di un intervento in deficit
spending.
Stavolta Keynes è
stato riesumato perfino nell’ordo-liberale Unione europea. Nei due lati
esorcizzati in precedenza: politica monetaria espansiva e stimolo fiscale.
§ 4. Regola
ordo-liberale e stato d’eccezione keynesiano. Uno stop & go?
È impensabile che
una simile svolta sia accettata dai gruppi dirigenti europei come svolta
permanente di regime politico economico. Le ripetute dichiarazioni di Dombrowskis
sul rientro nelle regole del patto di Stabilità e della Merkel sulla necessità
di continuare ad osservare i principi di sound governance confermano del
contrario.
Ma dall’altro lato
vanno registrate le dichiarazioni di Draghi al Meeting di CL a Rimini: “È
probabile che le nostre regole europee non vengano riattivate per molto tempo
e certamente non lo saranno nella loro forma attuale”. Concetto ribadito oltre:
“…non si potrà più, come sostenuto da molti, dire che i mutamenti avvenuti a
causa della pandemia sono temporanei”. Non dimenticando quello che ha detto in
apertura: “Ma non dimentichiamo i nostri principi. Dalla politica economica ci
si aspetta che non aggiunga incertezza.” Quest’ultima frase forse pretenderebbe
di essere le Colonne d’Ercole dei cambiamenti e delle misure dell’emergenza,
ma è sicuramente il segno di un conflitto.
Infatti, queste
affermazioni sono state immediatamente contrate dalle recentissime dichiarazioni
del Presidente della Bundesbank, Weidmann, che riprendono a loro volta quelle
di Dombrowskis,[26]
e poi ribadite con riferimento diretto all’Italia dal Presidente del consiglio
austriaco, Sebastian Kurz (“questa”, del NG, “è l’unica occasione per
l’Italia”).
Dalla durezza
dello scontro prima sugli eurobond, poi sul Recovery Fund e poi sul Next
Generation Fund ci si poteva aspettare che una linea di resistenza dei
‘frugali’ sarebbe stato il ripristino più rapido possibile delle regole del
Patto di Stabilità, seguendo il modello d’azione del 2010-11. Ma il rischio
che si sarebbe corso sarebbe stato quello di vanificare non solo gli obbiettivi
economici dello stimolo, ma perfino di quelli politici come enunciati
nell’articolo Dell’Handelsblatt su ‘bastone & carota’, cioè della necessità
di venire incontro alle necessità italiane di un sollievo economico per poter
far passare le tanto premute ‘riforme’. Se il ripristino del Patto avesse vanificato
il ‘sollievo’, anche l’attuabilità delle riforme sarebbe stata in discussione,
mettendo in gioco una specie di stop & go politico.
Ma resta il
vincolo di fondo della costruzione europea, i ‘principi’. Che quindi ‘obbligano’
a una ‘temporaneità’ delle violazioni dei tabù hayekiani della costruzione europea.
Certo, l’altolà di Draghi (il ‘molto tempo’, il ‘si sbagliano’) sembrerebbe
indicare che ci sono forze che non intendono più correre i rischi corsi per
l’ostinazione ideologico-politica iperliberista dei ‘frugali’, e forse neppure
correre più i rischi corsi nel biennio 2011-12 per le avventurose strategie
sottotraccia di settori di dirigenza tedesca di andare verso un’Europa a
settori concentrici.
Ma tutto ciò non
promette una navigazione più tranquilla; piuttosto mette lo stop & go,
quantomeno politico e, forsanche, economico, come piatto fisso nel menù, europeo
e italiano.
Bibliografia
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addendum.” Orizzonte48, 26 luglio.
Barra
Caracciolo, 2016, “Hayek, Monnet, Robbins: le ragioni incomprese di un successo e la (non) modificabilità
dei trattati,” sinistrainrete.it, 5 agosto.
Cesaratto, S., 2015, “Il “più Europa” (è)
liberista,” politicaeconomiablog.blogspot.it, 13 luglio.
Hayek von, F., 1931, The Paradox of Saving, Economica, May
[1929: “Gibt es einen Widersinn des Sparens? Zeitschrift für
Nationalökonomie, Bd. I, Heft III].
Hayek von, F., 1937, Monetary Nationalism and International
Stability, London: Longmans, Green, The Graduate Institute of International
Studies, Geneva: Publication N° 18.
Hayek von, F., 1939, “The Economic Conditions of Interstate
Federalism,” in: Individualism and Economic Order, Chicago: Chicago University
Press, 1948, p. 255.
F. Von Hayek, 1944, Ch. XV, “The Prospect of
International Order”, The Road to Serfdom, London: Routledge Classics.
Issing, O., 1999, “Hayek
- currency competition and European Monetary Union,” Speech at the Annual
Hayek Memorial Lecture hosted by the Institute of Economics affairs, London,
27 May 1999.
Pastrello, G,
2015, Germania, problema d’Europa? Trieste: Asterios Editore.
Rodrik,
D., 2011, La globalizzazione intelligente, Bari: Laterza editore.
Triffin, R., 1960, Gold and the dollar
crisis: the future of convertibility, New Haven, CT: Yale University Press.
[1] Il trilemma è enunciato nel lavoro
di Rodrik, (Rodrik 2011).
[2] Ed infatti si possono fare delle equivalenze
(per quanto in prima istanza): democrazia = politiche economiche espansive,
globalizzazione = movimenti incontrollati di capitali, sovranità = controllo
dei cambi.
[3] Triffin (1960).
[4] Issing (1999). Anche se,
paradossalmente Hayek era contro l’euro, in quanto moneta emessa da banca
centrale. Ma non certo, come vedremo, contro l’idea di uno Stato federale.
[5] Bagnai (2013), Cesaratto (2015),
Barra Caracciolo (2016),
[6] Hayek, (1939) e Hayek (1944).
[7] Nel 1931, però, aveva pur
pubblicato una recensione al Trattato sulla Moneta, uscito nel
1930, che aveva suscitato due risposte brucianti di Keynes e Sraffa.
[8] Hayek (1937).
[9] I, National Monetary Systems, II, The
Function and Mechanism of International Flows of Money, III, Independent
Currencies, IV, International Capital Movements, V, The Problems
of a Really International Standard.
[10] Monetary Nationalism, p.
56.
[11] Nel Trattato Keynes parla
di ‘bearishness’ e, peraltro, la teoria del TM presenta differenze fondamentali
rispetto alla LP.
[12] Del tipo di Ludwig Albert Hahn
sulla Teoria del Credito poi ritrattata, Foster e Catching, Major Douglas. Autori
che lo stesso Keynes definiva come monetary cranks e, in particolare Foster e
Catching, severamente criticati da Hayek nel suo The Paradox of Saving (Hayek,
1931).
[13] Sound finance che ha
caratterizzato tutti grandi paesi all’epoca, negli USA con Hoover, Presidente,
e Mellon, Segretario al Tesoro, in Inghilterra con il Cancelliere dello Scacchiere
Snowden, laburista, e la sua politica di austerità, in Germania con il
Cancelliere Brüning.
[14] Dove aveva sviluppato la tesi avanzata nel Tract del 1923 sul conflitto tra equilibrio interno ed esterno. Cioè che per mantenere il tasso di cambio al livello che l’equilibrio dei flussi di capitali richiede devi tenere il tasso di interessa a livelli che danneggiano investimenti e occupazione interni.
[15] Né vi è alcun segnale di un
possibile cambiamento a breve.
[16] Il New Deal rooseveltiano oltre a rovesciare
l’austerità immediatamente post-1929, cambia gli assetti liberali con la
centralizzazione della FED e il Wagner Act che apre una grande stagione
sindacale. Niente di tutto ciò qui.
[17] Discutendo, dopo il 2015, il mio
saggio sulla Germania (Pastrello, 2015) in cui delineavo il binario
ordo-liberista dell’approccio ai problemi economici della dirigenza tedesca, e
quindi europea, avevo chiesto ripetutamente a interlocutori tedeschi se
pensavano possibile che un gesto politico avesse potuto spezzare il
corto-circuito tra conservatorismo ortodosso dell’opinione pubblica (con il suo
orrore per ‘die Schuld’: debito & colpa in tedesco) e ordo-liberismo delle
élites. La risposta fu un ripetuto e categorico no.
[18] Il lungo ciclo che durò fin verso
la fine degli ’80, caratterizzato da ‘deficit gemelli’: bilancio dello Stato e
bilancia commerciale; un ciclo ‘keynesiano’ di fatto, nonostante la retorica
anti-keynesiana e supply side di Amministrazione e mass-media.
[19] Come Blair peraltro da questa
parte dell’Atlantico.
[20] Lender of last resort (LOLR),
secondo la formulazione di Bagehot.
[21] Comportamento che
Marcello De Cecco battezzò ironicamente come ‘prestatore di prima istanza’.
[22] Con la crisi dei prestiti
sub-prime sul mercato edilizio, e di tutti i titoli derivati.
[23] Cosa criticata ripetutamente da
Krugman che avrebbe voluto uno stimolo fiscale ben superiore al 6% deciso
dall’Amministrazione Obama (che nell’occasione seguì soprattutto il parere dei
consiglieri clintoniani anti-keynesiani).
[24] Com’è noto, questa crescita
dell’inflazione era stata dichiarata come un obbiettivo, creando
fraintendimenti. Infatti, era la crescita dell’attività, passaggio intermedio
rispetto alla crescita dell’inflazione, ad essere il vero obbiettivo. Non è il
caso qui di discutere i diversi esiti delle politiche di quantitive easing in
Europa e negli Usa, dove l’obbiettivo del rilancio dell’attività e della
riduzione della disoccupazione fu perseguito con determinazione e anche con un
discreto successo, cosa che non si può dire per l’analoga politica europea.
[25] Finanziamenti di cui all’epoca si
discuteva sotto l’etichetta del Recovery Fund.
[26] Di cui è stato proposto il
dirottamento dalla supervisione degli Affari finanziari a Commissario per il
commercio. Un segnale di indebolimento dei ‘frugali’?
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