Il
libro[1] di Richard Baldwin, che
reca come sottotitolo “globalizzazione, robotica e futuro del lavoro”, è del
2019 e si concentra su quella che definisce “rivoluzione globotica”. Per
Baldwin si tratta di una grande trasformazione in avvio che deriva dalla
convergenza sul mondo del lavoro di due potenti forze: la globalizzazione (con la
concorrenza globale che porta con sé) e la robotica.
In
particolare il suo testo non ha di mira la rivoluzione avviata durante gli anni
novanta e dispiegata negli anni zero, quando l’insorgere della mondializzazione
delle merci e il decentramento dei processi produttivi iniziato negli anni
settanta produsse un enorme impatto progressivo sul “colletti blu”, ovvero sugli
operai delle fabbriche. Ha invece di mira una nuova che sta arrivando e inizia
a mordere le nostre società da qualche anno: l’aggressione che i “robot
colletti bianchi” sta producendo proprio ai lavoratori della conoscenza e
dei servizi che avevano “vinto” nella precedente trasformazione. Una
aggressione che ha due aspetti strettamente interconnessi e reciprocamente
potenzianti: da una parte alcuni e sempre più lavori potranno, e di fatto sono,
automatizzati da processi di intelligenza artificiale di nuovo tipo sempre più potenti[2]; dall’altra sempre più “telemigranti”
entreranno in competizione con le mansioni direttive e da analisti di simboli
che pensavamo al sicuro dalla rivoluzione tecnologica.
Una
cosa del genere è spesso accaduta in passato ed è stato sempre superata. Ma per
l’economista inglese “questa volta è diverso”. La ragione è che sta arrivando
con velocità inaspettata un radicale disallineamento che supererà di
molto la normale capacità del mercato di trovare nuovi lavori sostitutivi. Insomma,
non possiamo aspettarci che la cosa si risolva da sé, come un mantra
ostinatamente ripetuto e fondato su una autentica teologia[3] recita da anni. In effetti
sta già accadendo ed è una delle ragioni più profonde delle tensioni sociali e
politiche che abbiamo sotto i piedi.
La
ragione della tensione non è solo l’impoverimento tendenziale, ma il suo tono
morale. Quella che si sta producendo, in particolare con il “telelavoro” è infatti
una concorrenza “sfrontatamente sleale”, come sottolinea l’autore. Dal punto di
vista del lavoratore che si trova improvvisamente un ‘collega’ connesso in
teleconferenza dall’altra parte del mondo (e che, di fatto compete ad abbassare
il suo proprio stipendio) non ci sono difese. Infatti, questi potrà anche
essere competente e formato, ma il punto essenziale è che non è costretto a
sopportare gli stessi costi per vivere. Non deve pagare un alto affitto, non ha
il ristorante sotto casa che costa l’equivalente di un giorno di lavoro, e via
dicendo. Non vive al centro di una grande città, anche se è classe media nel
suo paese questo implica standard del tutto diversi. Adattarsi ad essi,
restando a Roma, a Parigi, a Londra implica per il nostro “colletto bianco”
diventare in effetti povero.
Questa
rivoluzione farà proprio questo: lo renderà povero. E produrrà un colossale
ridislocamento delle nostre stesse città, vivere nei luoghi centrali e densi, e
per questo più cari, perde il suo vantaggio competitivo principale.
Anzi,
lo sta rendendo povero e ne vediamo sempre più gli effetti.
E
questo, Baldwin non si illude, romperà del tutto il consenso che le classi
medie “riflessive” (nelle quali si è rifugiata anche la nostra sinistra e
quella europea tutta) prestavano al sistema. Quindi anche gli abitanti delle
zone “Ztl” cominceranno a farsi sentire. Per questo secondo l’economista
liberale è necessario che i governi si attivino, rallentino il processo e
favoriscano la sostituzione dei lavoratori e il loro adattamento.
Rispetto
a quella di Brynjolfsson e McAfee[4], o quella di Cowen[5] o di Kaplan[6], la soluzione di Baldwin è
più imperniata sull’azione pubblica e riconosce che bisogna rallentare.
La questione cruciale è infatti che il mercato nel suo complesso potrà anche
inventare nuovi lavori, ma lo farà sempre ad un ritmo inferiore a quello con il
quale esso stesso li distrugge. La verità è molto semplice: dal punto di vista
di ogni singolo operatore di mercato il guadagno si ottiene distruggendo il
lavoro e non creandolo (ovvero facendo un prodotto con meno lavoro
possibile, ed al prezzo più basso possibile ed in questo modo sostituendo il
prodotto di un concorrente abbassando il prezzo o attirando più capitale). E la
verità è che ora lo può fare come non mai. Se si presta attenzione alla
retorica dominante negli ambienti dell’innovazione si trovano solo lodi entusiaste
per la potenzialità di tecnologie “distruttive” (in senso schumpeteriano) e per
schemi di disintermediazione.
Da
un certo punto di vista, come invariabilmente ricordano tutti gli autori che se
ne occupano, la tecnologia, ovvero l’introduzione di nuove tecnologie, ha
sempre determinato trasformazioni, è accaduto nel settecento quando il controllo
del vapore mise a disposizione una potenza concentrata e controllabile di molto
superiore a quella muscolare fin allora usata, lo è stato dopo. La cosa si
avviò nel 1712 con la macchina di Newcomen applicata alle miniere, un edificio
di tre piani che consumava una quantità straordinaria di carbone, ma che
eliminò centinaia di cavalli e permise scavi a maggiore profondità e sicurezza.
Da quella alle complete conseguenze, lungo la relazione tra innovazione ed
industrializzazione, passarono decenni e si svilupparono interi e nuovi settori
industriali che spiazzarono interamente il tipo di forza lavoro dell’epoca. Da artigiani
altamente specializzati, che producevano ogni pezzo si passò a macchine utensili
che li facevano tutti eguali a minor prezzo e in maggiore quantità. Si attivarono
potentissimi effetti di attrazione e di espulsione. Nel tempo e con le
necessarie tensioni e ridislocazioni (anche geografiche, con intere aree urbane
che esplosero, come Manchester, ed altre che declinarono) si attivò una rincorsa
tra produttività e produzione. Aumentando la quantità, nelle fasi espansive,
molti più lavoratori (nel frattempo espulsi dalle campagne dalle “enclosure” e
dalle leggi sulla povertà) si insediavano intorno alle industrie. Ma nelle fasi
di crisi la ricerca di innovazione per ridurre il costo del lavoro e vincere l’accresciuta
concorrenza li espelleva, aumentando l’esercito di riserva. La competizione
lavorava nelle due direzioni mostrate da Engels nel suo studio del 1844[7], tra le imprese per attirare
i lavoratori nelle fasi di espansione e tra i lavoratori in quelle di crisi,
quando la disoccupazione cresceva. A partire dal primo viaggio del piroscafo,
nel 1819, e dal potenziamento delle ferrovie, entrò in campo inoltre un
potentissimo fattore di messa in contatto. I commerci ci sono sempre stati,
dall’età della pietra, ma la scala era enormemente diversa. Come ricorda
Baldwin in tutto un secolo, nel 1600, solo 3.000 navi europee andarono in Asia
e il doppio nel 1700. Considerato il carico si trattava rispettivamente di
circa 3 e 6 milioni di tonnellate in un secolo. Per dare un’idea nel solo 2017
sono state trasportate via mare 10 miliardi di tonnellate di merci.
La
prima globalizzazione si avviò intorno al 1820, quando il prezzo del grano in
Inghilterra cominciò per la prima volta ad essere sensibile alle condizioni di
domanda ed offerta internazionale. Ma è solo dalla metà dell’ottocento che l’importazione
di generi alimentari diventò un fattore decisivo. Ciò che accadde allora fu che
l’occupazione abbandonò i settori in concorrenza con le importazioni e si
spostò in quelli che esportavano. La stessa cosa accade ogni volta.
Chiaramente
Baldwin legge tutti questi fenomeni sotto gli occhiali liberali e della teoria
economica neoclassica: “legge di Say”, “teoria dei vantaggi comparati”, e
crescita trainata dalle innovazioni. Valorizza anche il “capitale cognitivo”
come forma cruciale di investimento, in quanto non soggetto alla “legge dei
rendimenti decrescenti”. Criticare questa linea ci porterebbe lontano, ma lo
stesso autore riconosce con franchezza in questo libro che ogni cambiamento
porta sofferenze che sono in relazione diretta con la sua velocità. Infatti, nei
modelli matematici ed astratti può darsi benissimo che le “risorse” liberate da
un settore si impieghino in un altro, ma nel mondo non accade se non in parte,
lentamente e normalmente in modo meno efficace[8]. Le persone sono
semplicemente abbandonate ed obsolete, le strutture arrugginiscono,
ineguaglianza cresce. Ogni fase di trasformazione accelerata è quindi una fase
di acuti conflitti.
Ovvero,
lo sconvolgimento della vita di troppi produce una reazione. Ne è espressione
piuttosto evidente la seconda parte dell’ottocento, e fu anticipata in
Inghilterra dal movimento luddista (circa 1810) e poi esplose per una serie di
concause in tutta Europa nel 1848. La fase di crescita del disordine e della
disgregazione arrivò al suo culmine nei primi anni del novecento, e provocò la
reazione che passa sotto il nome di New Deal[9] (e tutte le versioni
simili nei diversi paesi). La stabilizzazione della situazione fu provocata
dalla crescita della classe media e da una potente linea di controtendenza che
abbassò in tutti i paesi centrali l’ineguaglianza (lasciandola alta nei paesi
periferici).
Un’altra
fase di trasformazione si aprì, nel racconto tecnocentrico del nostro, in
seguito ad un nuovo impulso tecnologico la cui natura fu, però, molto differente.
Seguendo una direzione causale che si potrebbe tranquillamente invertire (non è
la tecnologia a sostituire le braccia, ma è l’esigenza di farlo che stimola
questa direzione di investimento tecnologico), viene descritta la solida relazione
interna tra trasformazione post-industriale (o, per dirla meglio,
ridislocazione e riorganizzazione industriale) e Ict. La cosa accelera a
partire dalla brevettazione del primo computer con un chip (da parte di Texas
Instruments) e inizialmente produce effetti sensibili nell’automazione dei
lavori industriali. Partendo dai lavori più pericolosi ed insani[10], e standardizzabili, come
i reparti di verniciatura, le saldature, ma poi lentamente estendendosi. Dagli anni
novanta in molte fabbriche si invertì l’ordine, non erano più le macchine
utensili ad aiutare l’uomo, ma questi ad aiutare le macchine che producevano. Questo
impulso produsse una gigantesca disoccupazione operaia, che passò in alcuni
anni dal 30% e più della forza lavoro a meno del 10% (il doppio in Germania). Per
essere più precisi produsse una riduzione della forza lavoro umana nei processi
produttivi ad alta intensità di investimenti e la ridislocazione dei processi a
basso investimento nei luoghi e nelle circostanze nelle quali il lavoro costava
meno. O, in altro modo, mise in competizione l’uomo produttore con la macchina
e costrinse il primo, per vincere, ad abbassare le proprie richieste salariali
o restare disoccupato.
Viceversa,
il settore dei servizi ebbe una notevole espansione. Qui la tecnologia era più
complementare e favoriva una maggiore produttività del lavoro umano, senza
sostituirlo integralmente. Inoltre, questa trasformazione del modo di
produzione fu sincrono con l’espansione della mondializzazione, man mano che il
mondo si riorganizzava sotto il sistema di governo occidentale. E con l’espansione
della organizzazione a rete delle imprese. Seguì una massiccia
deindustrializzazione che prese l’avvio già negli anni ottanta e accelerò in
tutti i novanta.
Tutto
questo processo si accompagnò ad un imponente trasferimento di conoscenze e ad
un altrettanto importante rallentamento della crescita a partire dagli anni
settanta. Rallentamento che seguì ad una sorta di “svuotamento” del mercato del
lavoro americano, europeo e giapponese (che negli anni settanta producevano il
70% dei beni industriali). Come è ormai evidente, infatti, “il cambiamento
favorì i lavoratori agli estremi della scala delle competenze, mentre inferse
un duro colpo a quelli collocati nei gradini intermedi”[11] e provocò una esplosione
delle disuguaglianze economiche.
Il
punto sostenuto dal libro è che questo processo ora sta ulteriormente
accelerando e subisce una trasformazione di tipo qualitativo. Siamo dentro un’ulteriore
‘grande trasformazione’ che produrrà e di fatto già produce una nuova reazione.
Ne sono espressione fenomeni imprevisti come il referendum sulla Brexit e l’elezione
di Trump.
Si
sta passando in sostanza dalla crescita lineare dello sviluppo tecnologico (e
quindi del relativo spiazzamento e sostituzione delle attività divenute
obsolete) ad un andamento esponenziale. Un andamento di questo tipo ci prende
sempre alla sprovvista perché siamo abituati a proiettare la crescita passata
sulla futura immaginando che ne segua l’andamento. La tecnologia digitale,
schematizzata dalle tre leggi di Moore[12], di Gilder[13], di Metcalfe[14] e di Varian[15], segue invece un
andamento di questo genere: cresce inavvertita fino ad un certo punto e poi
improvvisamente esplode.
L’insieme
di queste spinte è visibile nella svolta, che si colloca a metà del decennio
trascorso, dell’apprendimento automatico che rappresenta un “secondo
spartiacque computazionale”. Le nuove Ia ad “apprendimento automatico” sono
ormai in grado di prestazioni sorprendenti, come battere i giocatori di Go (un
gioco cinese molto più complesso degli scacchi) o imparare rapidamente nuove
lingue, sono alla base del funzionamento delle piattaforme social, come Facebook
e dei motori di ricerca come Google (apprendendo sempre meglio come metterci di
fronte a contenuti mirati a indurre in noi comportamenti che possano “vendere”).
Ma servono anche per realizzare programmi di “Auto Ml” che imparano da sé a
progettare algoritmi di apprendimento automatico. Si tratta di un progetto di
Google, che per risparmiare sui costosi programmatori di Machine Learning ha
messo a punto un programma di apprendimento automatico capace di “imparare” a
progettare altri programmi di apprendimento automatico. Ovvero se stesso.
Quale
è esattamente lo scopo? Esattamente lo stesso per il quale fu introdotta la
macchina filatrice automatica nel 1700: poter fare a meno dei lavoratori migliori,
e costosi, rendendo possibile a lavoratori mediocri e quindi abbondanti ed
economici di sviluppare nuove applicazioni di apprendimento automatico
economiche e numerose, in modo da invadere i mercati potenziali al momento
inesplorati. Ovvero di allargarsi a tutti quei processi produttivi che hanno
accumulato grandi quantità di dati ma che senza un programma di ultima
generazione non servono. Questo progetto, insomma, passerà come un incendio
nella steppa su tutto il settore dei servizi.
Come
accade? I programmi in sostanza sono “addestrati” a riconoscere schemi nei dati
e agire in base a quel che trovano e imparano dall’esperienza, mettendo a
frutto i feedback.
Ma
c’è un altro potente agente di cambiamento. Si tratta dell’estensione delle
piattaforme on line che mettono in contatto lavoratori remoti e occasioni di
lavoro, controllandole e sottoponendole ad una sorta di asta, sostanzialmente
portando ad un altro livello pratico la concorrenza retributiva. Non è più necessario
emigrare per entrare in competizione in un altro mercato del lavoro. Nel suo precedente
libro, “La grande convergenza”[16] era messo in evidenza
come la rivoluzione informatica avesse fatto leva sulle concentrazioni di
tecnologia ed expertise nelle “città globali”[17], per disseminare i cicli
produttivi nei luoghi di minore resistenza conservando il pieno controllo.
Si tratta di un ulteriore livello di controllo, nel quale il lavoro stesso è
separato dai sistemi locali di produzione per entrare, come merce scambiabile
(vera “forza lavoro” nella sua piena astrazione), nelle catene di
approvvigionamento che sono organizzate da pochi centri. Spostando il lavoro
senza la persona sposterebbe il “modello Wall Mart” dalle merci alle persone.
Si
può attuare una sorta di “telemigrazione”. I modelli sono “upwork”, “task
Rabbit”, “Mechanical Turk”, “Freelancer.com”, “Craiglist” e via dicendo. Sta per
entrare nel settore anche Linkedin con i servizi “ProFinder”. Si muovono anche
i cinesi, con “Zhubajie” che mette in contatto 16 milioni di freelance con 6
milioni di imprese. Dunque l’occidente rischia di perdere anche su questo
terreno cruciale il suo monopolio tecnologico (la lotta per il 5G trova anche
in questo una delle sue ragioni).
L’idea
è piuttosto semplice: attraverso la messa in contatto e la generalizzazione del
modello dell’asta, si tratta di estrarre il valore che era finora catturato
dallo strato intermedio di saperi esperti e di pratiche organizzate che hanno
guidato la differenziazione progressiva della modernità a partire dal
milleseicento ad oggi (in particolare accelerando nel XIX secolo). Questo
strato intermedio, formato da quelle che chiamiamo “professioni”, riduceva
l’incertezza attraverso la specializzazione e creava un diffuso dispositivo
sociale di natura disciplinare. In effetti è stato il fattore di
stabilizzazione della società probabilmente principale, durante il lungo
turbamento indotto dall’industrializzazione ed ha creato quella che chiamiamo “classe
media”, alimentando anche la sua polarizzazione geografica nei centri urbani e
nelle città globali.
La
tecnologia realmente distruttiva che renderà queste piattaforme capaci di sconvolgere
il mondo del lavoro professionale e manageriale è la traduzione simultanea
automatica insieme alle nuove tecniche e metodiche di conferenza. La prima
è mese per mese più performante, mentre le seconde si giovano di tecniche Vr
sempre più evolute ed efficaci, fino alla presenza olografica. Cose come “Holoportation”[18] di Microsoft. Ma anche di
veri e propri robot di telepresenza, in grado di dare un’esperienza di
immersione e interazione spaziale del tutto diversa al “lavoratore telemigrante”[19].
Insomma:
“tutto
ciò sta producendo effetti a valanga. A mano a mano che il lavoro a distanza
aumenta, le imprese adattano di conseguenza le pratiche operative e le
strutture dei gruppi di dipendenti, e questa maggiore facilità di utilizzo
determina a sua volta l’aumento di questo tipo di lavoratori. Ciò ha altresì
stimolato innovazioni digitali che facilitano il lavoro a distanza. L’effetto valanga
ha creato un volume di affari da 100 miliardi di dollari per la tecnologia e i
servizi che agevolano i lavori a distanza.
In
un certo senso, negli uffici è in atto l’equivalente di una ‘rivoluzione
industriale a rovescio’. Nella prima fase dell’industrializzazione il lavoro
tessile spostò dal cottage alla grande fabbrica. Ora il lavoro d’ufficio va
spostandosi dai grandi uffici all’equivalente del cottage”[20].
Moltissimi
lavoratori saranno sostituiti. Ma quanti e quali?
L’ipotesi
di Baldwin è che l’insieme di queste tecnologie, dei “lavoratori sintetici” e
di quelli umani ma a distanza, produrrà l’eliminazione di molti posti di lavoro
ma di poche professioni. Si faranno le stesse cose, ma con molte meno persone.
Lo
stato dell’arte è che:
-
Nella comprensione del linguaggio naturale
la Ia è ancora indietro,
-
Nella generazione di linguaggio naturale è
ormai al livello umano,
-
Nella creazione di prodotti non verbali è ormai
al livello umano,
-
Nella percezione sensoriale è ormai al
livello umano.
Invece
per le capacità cognitive:
-
Nella capacità di creare idee diverse e
nuove la Ia è ancora indietro,
-
Nella capacità di creare e riconoscere
nuovi schemi o categorie è indietro,
-
Nella ottimizzazione e pianificazione in
relazione ai vincoli è ormai migliore del livello umano,
-
Nella capacità di cercare e recuperare
informazioni per ampiezza, profondità e grado di interazione è migliore,
-
Nella capacità di riconoscere schemi e
categorie noti è superiore,
-
Nella capacità di ragionamento logico,
ovvero di risolvere problemi in modo organizzato usando informazioni
contestuali e input complessi è indietro.
Ovviamente
sono ancora nettamente inferiori nelle capacità sociali:
-
Ragionamento sociale ed emozionale,
-
Coordinamento con molte persone,
-
Agire secondo modi emozionalmente appropriati,
-
Sensibilità sociale.
Hanno
capacità fisiche uguali o superiori a quelle umane (salvo che su terreno molto
accidentati e sconosciuti).
Le
stime, considerando quanto sopra, è che nei prossimi anni ci sarà il potenziale
di sostituire da un lavoratore su dieci a circa la metà. E questa
trasformazione impatterà soprattutto sugli impiegati, seguiti dalle attività di
vendita, dalle attività connesse con la produzione di cibo, ma possono essere
automatizzati anche i lavori edili, e nei trasporti. Né sono al sicuro i
settori sanitario, nel quale robot-colletti bianchi possono sostituire
moltissime funzioni di analisi e diagnosi, o il settore della stampa e giornalismo
(dato che si possono automatizzare tutte le attività normali, incluso la
scrittura di articoli), gli studi legali, la finanza.
Insomma,
il potenziale è molto alto.
La
preoccupazione dell’autore è quindi che, se non è gestita e anche rallentata,
questa trasformazione possa erodere a tal punto il consenso e la coesione delle
nostre società (facendo dei vincitori di ieri i perdenti di domani) da
scatenare letteralmente una rivoluzione[21]. Il motivo essenziale lo
abbiamo già citato: in un mercato nel quale le azioni di tutti sono sconnesse e
rivolte a prevalere gli uni sugli altri (ovvero capitalista) in effetti “tutti
lavorano per sostituire o dislocare i posti di lavoro”, garantendosi lo stesso
output. È, infatti, molto più facile fare i soldi eliminando che creando posti
di lavoro.
Ma
non è difficile vedere che questo processo, per il quale tutti puntano a
produrre lo stesso pagando meno il lavoro, destabilizza se stesso e può tendere
ad accelerare. La previsione è che produrrà effetti altamente destabilizzanti da
qui a cinque o dieci anni.
Ciò
porterà in sostanza all’esplosione dei “globot”, in modi inaspettati e quindi alla
tendenza a creare delle reazioni. Le reazioni più naturali saranno la creazione
di legislazioni di contrasto (come nel caso di Uber[22]), e norme più stringenti
contro i licenziamenti ed a protezione dell’occupazione[23].
Qui
termina in sostanza il libro, non c’è una soluzione. È indicata solo la
necessità di gestire e rallentare quanto basta la trasformazione perché sia
gestibile, e di salvarsi individualmente con competenze “soft” e flessibili (e
quindi capaci sia di interagire con i “globot”, sia di spostarsi a secondo
della situazione) e collettivamente con nuove regolazioni del lavoro e
protezioni.
Ma
cerchiamo di aggiungere qualche concetto. Del resto non privo di una sua
attualità, dato che se verrà implementato (cosa non scontata) il meccanismo del
“Next Generation Eu”[24] che prevede erogazioni e
condizioni. Il problema è insito in entrambe per ragioni che possono
essere più chiare alla luce di questo libro.
Nel
nostro dibattito nazionale si levano voci[25] per le quali i capitali
che la Ue presterà a vario titolo all’Italia dovranno essere concentrati nella
transizione digitale (e ambientale), senza perdersi in altre direzioni e
soprattutto irrigidire le politiche del lavoro. Secondo loro solo “una più
avanzata innovazione potrà produrre nuove, e non precarie, prospettive di
lavoro”. In un certo senso è sicuramente vero, ma il prezzo sarà al termine
quello indicato da Baldwin: la distruzione della nostra società, lo svuotamento
completo dei ceti medi, il degrado irreversibile delle nostre città centrali, l’irrefrenabile
onda di rabbia che salirà da ogni parte. Avremo alcuni nuovi lavori e milioni
di non lavori, persi nell’abbandono. Sarà esattamente l’innovazione che li
distruggerà.
Come
scrive[26] su Facebook Fabio Falchi[27], è che non si dovrà rinunciare
a sviluppare ‘anche’ questi, ma che “il vero problema è come ‘incastrare’
questi settori in un sistema sociale”, senza presupporre, come tipico del
liberismo, che sia quest’ultimo a doversi adattare il più rapidamente possibile.
Qui nascono diversi temi, ed uno è utilmente ricordato dal nostro: “invero,
anche lo sviluppo tecnologico non è automatico poiché deve essere funzionale
agli interessi della classe capitalistica o, meglio, poiché vi è conflitto (la
cosiddetta ‘competizione’) all'interno della stessa capitalistica, agli
interessi di quella parte della classe capitalistica in grado di ‘moltiplicare’
la potenza dell'apparato capitalistico. In sostanza, si tratta della questione
di quel ‘salto qualitativo’ necessario al capitalismo per evitare una crisi
strutturale”.
Non
a caso è posto tra gli obiettivi irrinunciabili del “Next generation”, il cui
vero scopo è di ottenere quel salto di efficienza del grande capitale, combattendo
con la tendenza alla riduzione del saggio di profitto, necessario per competere
sulla scena dello scontro di potenza tra grandi blocchi.
La
questione della tecnologia va riportata al quadro della società nella quale si
sviluppa e degli interessi che serve. Qui c’è in effetti la traccia di un’antica
discussione che riguarda l’autonomia del lavoro scientifico, ovvero la sua
dipendenza dalla “committenza” (in senso largo)[28] anziché dalla evoluzione
interna di idee ed ideologie[29]. Non è una discussione
che si può chiudere, ma la relazione tra la creazione di qualcosa come merce
(sia essa materiale o immateriale) ha implicazioni piuttosto evidenti sia con l’ideologia
che vi viene costruita intorno (ad esempio con la giustificazione
implicitamente utilitarista con la quale si chiude il discorso), sia con l’insieme
di pratiche e di costruzione di soggettività che determina. La dissoluzione del
legame sociale è incorporata nella linea di sviluppo della scienza e tecnologia
moderna ad un livello piuttosto profondo e genetico (essendo diretto dall’inizio
contro la tradizione e le forme organiche di legame). Ma, contemporaneamente,
detto sviluppo segue linee di crescita, in quanto attrattori di risorse e “committenza”,
che hanno a che fare con la lotta per l’egemonia e lo scontro per il potere
(sulla scala sovranazionale come interna).
La
questione della tecnologia, uscendo dalla posizione ideologica che la vuole
neutra e naturale, è la questione posta dal suo “sentiero di sviluppo”, che ha
una fortissima dipendenza dal percorso[30]. È necessario porre senza
timidezza la questione del controllo democratico, ovvero pubblico e
regolamentato, di quali tecnologie sono sviluppate e per quali fini. Come si
giudicano i fini stessi, e come sono incorporate nel lavoro, nella produzione e
nell’organizzazione della vita stessa.
A
ben vedere il tema davvero centrale, dirimente, non è il potenziamento della “innovazione”
(ovvero dell’efficienza del tecnocapitalismo nel controllare il mondo ed il
sociale, al contempo mercificandolo e razionalizzandolo), e neppure la pur
importante transizione ecologica (che presa in sé è ancella dello stesso
obiettivo e quindi è contraddizione in se stessa), ma quello della costruzione
del sociale.
La
vera domanda dirimente, sulla quale si può passare il rasoio, è: la nostra società e quindi economia
arretra e perde anche efficienza perché non è abbastanza capace di concentrare
le risorse o perché lo fa troppo? La parte più dinamica e interconnessa deve
essere sostenuta, aumentando concentrazione, o forse lo deve essere quella meno,
sforzandosi di connettere e raccordare? Si pensa all'economico come qualcosa
che gocciola dall'altro o sorge dal basso?
[1] - Richard Baldwin, “Rivoluzione globotica”, Il Mulino
2019.
[2] - Ne parlano anche Andrew McAfee e
Erik Brynjolfsson in “La
macchina e la folla” del 2017, oltre il loro precedente, “La
nuova rivoluzione delle macchine”, e il libro del 2015 di Jerry Kaplan
“Le
persone non servono”, o del 2016 dello stesso autore “Intelligenza artificiale”. Ne parlava
anche Tyler Cowen in “La
media non conta più”.
[3] - Si veda in proposito la ristampa
di questo interessante libro scritto da un teologo della liberazione sudamericano,
Hugo Assmann, “Idolatria del mercato”, Castelvecchi 2020.
[4] - Andrew McAfee, Erik
Brynjolfsson, “La
macchina e la folla. Come dominare il nostro futuro digitale”, 2017.
[5] - Tyler Cowen, “La
media non conta più. Ipermeritocrazia e futuro del lavoro”, 2015.
[6] - Jerry Caplan, “Le
persone non servono”, 2015, si veda anche Jerry Kaplan, “Intelligenza
artificiale”, 2016.
[7] - Friedrich Engels, “La
situazione della classe operaia in Inghilterra”, 1844.
[8] - Uno dei punti sul quale insiste
sempre Dani Rodrik, si veda, ad esempio “Dirla tutta sul mercato globale”,
Einaudi 2019.
[9] - Per una descrizione si veda
Kiran Klaus Patel, “Il
New Deal. Una storia globale”, 2016.
[10] - Per una descrizione in Italia si
veda “Le
lotte operaie alla Fiat negli anni settanta: sicurezza sul lavoro e tecnologia”.
[11] - Baldwin, cit, p.83.
[12] - La cosiddetta “legge di Moore”
prevede che la potenza di calcolo raddoppi ogni 18 mesi, fino ad ora si è rivelata
abbastanza esatta.
[13] - La “legge di Gilder” riguarda la
velocità di trasmissione dei dati, che raddoppia ogni due anni.
[14] - La “legge di Metcalfe” sostiene
che essere connessi ad una rete aumenta il suo valore al crescere della rete ed
al diminuire del costo di adesione, dunque al doppio della velocità di uno dei
due fattori presi isolatamente e più velocemente del numero delle persone
connesse.
[15] - La “legge di Varian”, afferma
che i componenti digitali sono gratuiti, mentre i prodotti digitali che derivano
dal loro assemblaggio hanno un grande valore. Quindi è la ricombinazione a
conferire il valore.
[16] - Richard Baldwin, “La
grande convergenza”,
[17] - Titolo di un importante libro di
Saskia Sassen del 1991, “Le
città globali”. Questo
genere di servizi alla produzione sono, per Sassen, vere e proprie “produzioni
intermedie” (come la costruzione di una macchina utensile) e vanno prese per
tali (S., p. 106). Queste funzioni produttive tendono a concentrarsi e a
divenire una sorta di vertice di una rete dispersa di rango inferiore
(Castells, “La nascita della società di rete”, p.128). L’effetto sociale è
stato di polarizzazione e di concentrazione dei redditi in uno strato superiore
sempre minore (più o meno il 10% della popolazione) con progressivo
indebolimento degli strati inferiori e medi.
[19] - Baldwin, “Rivoluzione
globotica”, cit., p.153.
[20] - Baldwin, cit., p. 162
[21] - Baldwin, cit., p. 207
[23] - Baldwin, cit., p. 259
[24] - Si veda, ad esempio, “Bastone
e carota. L’audizione del Commissario Gentiloni sul Next Generation Eu”, e “Gabriele
Pastrello, Next Generation Fund: bastone e carota”.
[25] - Ad esempio quella di Gustavo
Ghidini e di Daniele Manca su “Corriere della sera”. Autori anche di “La
nuova civiltà digitale”, Solferino editore.
[26] - Il post è del 11 settembre, e recita: “Gustavo Ghidini e
Daniele Manca sul Corsera sostengono che i soldi che l'UE presterà all'Italia
dovranno essere investiti ‘solo’ nei settori del digitale, biotech,
nanotecnologie, intelligenza artificiale, robotica, ecc. Le politiche del
lavoro quindi, secondo Ghedini, e Manca non devono ‘annacquare’ la strategia
che punta sulla innovazione, poiché "proprio una più avanzata innovazione
potrà produrre nuove, e non precarie, prospettive di lavoro".
Ovviamente questo è falso, dacché è noto (basta leggere gli studi su questo
argomento) che proprio l'innovazione in questi settori genererà nei prossimi
decenni un'eccezionale riduzione di occupazione perfino negli altri settori
produttivi.
Chiaramente, ciò non significa che si debba rinunciare a sviluppare ‘anche’
questi settori, ma il vero problema è come ‘incastrare’ questi settori in un
sistema sociale.
Ghedini e Manca (ma questa ormai è la "norma" per gli economisti
e i tecnocrati) danno però per scontato che deve essere il sistema sociale ad
adeguarsi allo sviluppo tecnologico, non viceversa.
Invero, anche lo sviluppo tecnologico non è automatico poiché deve essere
funzionale agli interessi della classe capitalistica o, meglio, poiché vi è
conflitto (la cosiddetta ‘competizione’) all'interno della stessa capitalistica,
agli interessi di quella parte della classe capitalistica in grado di
"moltiplicare" la potenza dell'apparato capitalistico.
In sostanza, si tratta della questione di quel ‘salto qualitativo’
necessario al capitalismo per evitare una crisi strutturale.
Nondimeno, nello scorso secolo, il passaggio da una fase di stagnazione ad
una fase caratterizzata da forte innovazione causava non solo un progressivo
spostamento del capitale verso i settori che garantivano maggior profitto (dato
che il tasso di profitto tende ad essere il medesimo in tutti i settori) ma anche
durissime lotte sociali per ridefinire la distribuzione del sovrappiù tra
profitti e salari (al riguardo si vedano le considerazioni di C. Napoleoni nel ‘Discorso
sull’economia politica’).
Con la ‘rivoluzione tecnologica’ della informatica alla fine del secolo
scorso comunque si è verificato un mutamento decisivo - ma favorito (e questo è
di somma importanza perché conferma che la Tecnica in quanto tale non ‘decide’
alcunché) da un mutamento del paradigma politico e geopolitico.
In pratica è aumentata progressivamente la quota del sovrappiù spettante al
profitto a scapito di quella spettante ai salari, tanto che la domanda interna
è stata alimentata non dai salari ma dal ‘credito facile’ finché non è
scoppiata la ‘bolla finanziaria’ nel 2007-08, anche se da allora non è cambiato
nulla.
Sotto il profilo ideologico (perché di ideologia si tratta) questo nuovo
corso (geo)politico ed economico, che vede l’impoverimento (non solo economico
ma anche sociale e perfino culturale) della maggior parte dei membri della
comunità e concentrarsi la ricchezza nelle mani di circa il 20% della
popolazione (che ormai anche in Italia, secondo Oxfam e Bankitalia, possiede
oltre il 70% della ricchezza nazionale) si presenta come ‘determinato’ dal
progresso tecnologico.
Si tratta cioè di una concezione ideologica, anche se si presenta come una
concezione tecnocratica, che ‘ignora’ quindi sia il problema della dissoluzione
del legame sociale sia i problemi connessi alla lotta per l’egemonia, non solo
sul piano politico-sociale ma anche e soprattutto sul piano geopolitico.
Difatti, se è ‘ingenuo’ pensare di risolvere i problemi derivanti dalla
dissoluzione del legame sociale solo con la ‘tecnologia sociale’ (è palese a
chiunque che il sistema neoliberale non riesce più a risolvere i problemi che
esso stesso genera - e questo vale pure per quanto concerne la questione
dell’ambiente e del territorio, che in quanto ’risorse finite’ sono comunque ‘in
contrasto’ con la crescita illimitata che caratterizza il capitalismo), è
perfino assurdo pensare che pure il Politico debba ‘semplicemente’ adeguarsi
alla innovazione tecnologica (che è ben diverso dal fare fronte alle sfide
della tecnoscienza).
Non si spiegano certo con la tecnoscienza il conflitto tra gli Usa o la
Cina e l’ostilità del mondo occidentale nei confronti della Russia, né quanto
accade in Ucraina, né la cosiddetta ‘primavera araba’, né la guerra in Siria,
né la tensione fra Israele e l’Iran, né l’aggressività della Turchia, né lo ‘sfascio’
della Libia e così via. E si tratta di conflitti e tensioni che incidono
profondamente sui sistemi economici e i cosiddetti ‘mercati’.
Insomma, un conto è riconoscere che la tecnologia gioca un ruolo importante
in tutti gli ambiti vitali, un altro ‘ignorare’ come funziona l’apparato capitalistico,
la dimensione culturale in quanto costitutiva di qualunque sistema sociale ed
economico, i problemi posti dal territorio nonché quelli derivanti dal
conflitto sociale e dalla lotta per l’egemonia.
In altri termini, non si può ‘ignorare’, come aveva perfettamente compreso
Carl Schmitt, che la Tecnica, nonostante la sua innegabile ‘potenza’, è cieca.
Certo questo non esclude necessariamente che si possa essere dei ciechi guidati
da un cieco, ma se così fosse, anche questo sarebbe la conseguenza di scelte
politiche, benché folli, dato che sarebbe solo follia ‘ignorare’ che perfino la
guerra non è altro che la continuazione della politica con altri mezzi.“
[27] - Autore, tra l’altro, del
pregevole “La strada della vita. La grande
guerra patriottica e la questione socialista”, 2020.
[28] - Un esempio nel
lavoro, lungo l’intera esistenza, di Alfred Sohn-Rethel (si veda “Geistige
und körperliche Arbeit (2 Bd.): Theoretische Schriften (1947-1990)” o, in
italiano, “Lavoro intellettuale e
lavoro manuale. Per la teoria della sintesi sociale”).
[29] - Ad esempio i testi di Alexander
Koyrè.
[30] - Si veda su questo, Annette Bernhardt
“Governare
il sentiero di sviluppo tecnologico”.
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