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venerdì 18 settembre 2020

Hugo Assmann, Franz Hinkelammert, “Idolatria del mercato. Saggio su economia e teologia”.

 

Il libro[1] del teologo Hugo Assmann, con il contrappunto puntuale fornito dall’economista Franz Hinkelammert, è una ristampa di un testo che è uscito probabilmente tra il 1989 ed il 1990. Si tratta di un libro davvero notevole per interesse e profondità. Documenta indirettamente una fase molto importante della svolta neoliberale durante gli anni ottanta, vista dal decisivo punto di vista dell’ambiente sudamericano.

 

Il tema di cui si occupa il libro è il modo in cui la particolare forma della razionalità economica ha, come dicono gli autori, “sequestrato e reso funzionale certi aspetti essenziali del cristianesimo” creando una sorta di “religione economica” la quale in effetti ha una stretta relazione con processi di “idolatria”[2]. Dal punto di vista cristiano è, cioè, una forma di adorazione di falsi dei. Si tratta di una adorazione di dei sotto forma mascherata, soprattutto per il carattere di “buona novella” che vi riveste la promessa di un’autoregolazione senza intervento umano, attribuita agli interventi di mercato. Questa idolatria è connessa strettamente ed internamente ad una sorta di “ideologia sacrificale”, ovvero al fabbisogno continuo di sacrifici umani. In altre parole, nella forma di vita sociale creata dalla ‘religione economica’ neoclassica, quando vince e prevale, la vita concreta è sacrificata sistematicamente.

Le interconnessioni tra economia e teologia si radicherebbero quindi proprio nell’ideale di scientificità dell’economia, nascondendo una sorta di “discorso su Dio”. A partire dai neoclassici[3] è sempre stato un punto assolutamente centrale quello di svincolarsi dai chiari presupposti teologici dei classici[4], ma il vero nocciolo teologico è rimasto inalterato, se non rafforzato. La posizione della “Teologia della liberazione”[5] si forma connettendo critica della teologia conservatrice e, contemporaneamente, quella all’economia (nascostamente) teologica:


la teologia degli ultimi quattro secoli ha pagato pesanti tributi di inconscio asservimento a modelli profondamente disumani di concezione della vita umana nella società. Su larga scala, la teologia si è rivelata impotente ad analizzare, in contemporaneità con il succedersi degli avvenimenti sociali, la metamorfosi di determinate dottrine teologiche inscritte nelle teorie e nelle pratiche dell’ambito economico, politico e sociale. […]

In altre parole, i teologi quasi non si sono resi conto che le teologie più importanti non erano più quelle dei loro compendi, ma quelle degli economisti e dei sociologi in generale[6].

 

Per posizionare correttamente la lettura bisogna partire da un punto inaggirabile. Il testo e la critica cadono in uno spazio non astratto, ma attraversato da drammatici conflitti: il sudamerica negli anni ottanta e settanta. Conflitti che sono spesso evocati nelle prime pagine e poi nel resto del testo. Ad esempio, posizionandosi esattamente nella fase di insorgenza ed affermazione della ripresa neoliberale gli autori denunciano in apertura il nesso e l’interpenetrazione tra una teologia mascherata e l’economia. Ovvero l’innesto sistematico di “perverse teologie economiche” nella mentalità dei popoli attraverso una potente, pervasiva ed insistita catechesi. Questa è in qualche modo endogena, si infiltra nel linguaggio comune ed entra nell’universo mitico del senso comune senza essere propriamente pianificata. Si tratta infatti di un modo di pensare agli avvenimenti sociali che emerge naturalmente dalla realtà oggettiva delle istituzioni. La stessa universalizzazione delle relazioni mercantili, in potente espansione negli anni di avvio della mondializzazione da cui parlano, genera spontaneamente un consenso sulle “virtù del mercato”. O, in altri termini, “gli oggetti ‘devozionali’ e le relazioni ‘devozionali’ si quotidianizzano nel seno della stessa istituzionalità economica”.

Ma c’è anche un livello pianificato. Questo si manifesta nelle élite organiche dell’imprenditorialità transnazionale, nelle loro organizzazioni, think thanks, intellettuali organici, mezzi di comunicazione e pubblicità, innumerevoli simposi e congressi che normalmente promuovono strategie di intervento catechistico “freddo”. Si tratta di “una specie di pedagogia permanente, integrata in una lotta di classe che deflagra dall’alto verso il basso”. Normalmente va in questo modo, ma non sempre: “quando però sorgono situazioni di crisi acute o minacce di sommovimenti sociali, tali élites – come abbiamo potuto constatare spesso, nei decenni passati, in America Latina – passano aggressivamente all’offensiva. Si utilizzano allora strategie più energiche, di intervento ‘caldo’, cioè, con bersagli (target) più selettivamente definiti, e generalmente con maggiore presenza dell’elemento religioso nella trasmissione di valori ‘congiunturali’”[7].



Questo libro si colloca in un punto ben preciso. Dagli anni sessanta, e poi nella vicenda cilena, la Teologia della liberazione era stata un centro di elaborazione ed irradiazione di un autentico spirito di ribellione al dominio imperialista e alla logica della dipendenza sudamericana, ponendosi con nettezza e coraggio dalla parte dei secondi, e degli ultimi. I settori conservatori della chiesa cattolica, e le organizzazioni della destra, come i settori borghesi più legati al dominio oligarchico e contemporaneamente subalterno alle relazioni di dipendenza internazionali, si schierarono immediatamente contro questa insorgenza, facendogli pagare un pesantissimo tributo. Fino al versamento del sangue di molti esponenti, grandi e piccoli. Negli anni ottanta l’opposizione giunse fino ai diretti pronunciamenti censori della gerarchia centrale; con l’ordine da Roma di emarginare, con i mezzi più brutali, migliaia di sacerdoti, religiosi e laici legati alla “teologia”. E giunse alle azioni più violente del braccio armato del capitalismo internazionale. Ad esempio, nel 1980 molti gesuiti che militavano in essa furono uccisi dagli spietati “squadroni della morte” salvadoregni, che non si fermarono neppure davanti al primate salvadoregno. Nel 1980 viene ucciso sull’altare l’arcivescovo Romero[8], preceduta dall’omicidio del gesuita Rutilio Grande[9], e seguita, pochi anni dopo, da quello dell’attivista e collaboratrice Marianella Garcia Villas[10]. Sfortunatamente la lista è molto lunga.

Il 1989, immediato sfondo di questo libro[11], cadde come un terremoto in questa vicenda. La riduzione della possibilità stessa di disporre di un’alternativa al capitalismo mise la sordina a tutto ciò, inducendo a lungo una sorta di affondamento della sua visibilità esterna.

La cosa non accadde senza essere intenzionale. La Teologia della liberazione aveva raggiunto la massima estensione tra il 1970 ed il 1973, in concomitanza con l’esperienza di successo del governo di Allende in Cile. Nell’Unità Popolare che sostenne il presidente socialista era allora forte il movimento dei Cristiani per il Socialismo, che allarmò Nelson Rockfeller nel suo viaggio in America Latina già nel 1968. Come racconta Hinkelammert, la risposta statunitense fu imperniata sul fondamentalismo protestante, radicalmente antipolitico ed antistatale. Per esso, infatti, ogni genere di attivismo politico è mondano, estraneo alla preoccupazione religiosa e suo ostacolo. Invece l’attivismo economico è giusto ed appropriato per un cristiano. Una religione per abbienti, che ne giustifica le azioni e legittima l’arroganza. Questa linea spinse al potere Reagan. Questo fondamentalismo cristiano negli Usa, di cui furono esponenti in vista il predicatore Jerry Falwell[12] ed la sua Moral Majority, creò una sorta di teologia antiliberatrice e una vera e propria “teologia dell’impero”. Questa nuova teologia politica era scettica verso l’interventismo e tentativi di riformismo forte come quello di Frey in Cile o Goulard in Brasile, il Fronte Ampio in Uruguay, e il peronismo in Argentina. Tutti movimenti non socialisti, ma che sembravano ai conservatori spingere in quella direzione.

La risposta fu l’abbandono di ogni tentativo di riforma in direzione sociale e la riaffermazione di un capitalismo intransigente. Il neoliberalismo è quindi antiriformista e antinterventista, mentre il mercato è trattato come l’unica istanza capace di risolvere i problemi. Ormai, anzi, lo Stato resta solo nella sua funzione repressiva.

 

Dalla posizione esattamente opposta a quella il testo accusa i “cattivi infiniti” che lavorano a ridurre al silenzio il riferimento ai valori delle istituzioni umane e cercano di sopprimere la “radicalità degli orizzonti utopici”. Ovvero, e questo è un punto assolutamente centrale, “accusano di essere utopici coloro che si ispirano a un orizzonte al di là del possibile-ora, per sostenere i mutamenti necessari”. In realtà per Assmann chi, sulla base di un malinteso scientismo, sviluppa queste posizioni anti-utopiche sta solo procedendo a sacralizzare lo status quo. In questo senso i “cattivi infiniti” del capitale, del mercato, sono utopie rovesciate il cui scopo è imprigionare le speranze dell’esistente. Lavorano con “modelli di apprendimento della realtà dove ciò che è storico è nuovamente ridotto a ‘natura’, con leggi che non si possono infrangere”. La mossa è questa: si naturalizza la storia, dissimulandosi e proteggendosi con una pretesa di scientificità avalutativa e neutrale, operando con valori assoluti che si pretendono già contenuti nel reale stesso. Ma “i valori assoluti non sono altro che un assolutizzazione banale di valori concreti che corrispondono ad interessi concreti”.

Il problema è di stabilire come ci si allontana da una mossa come questa, dichiarandone il carattere comunque teologico (sia pure “perverso”)? O, come si qualifica come “perversa” questa fondazione teologica per sostenerne un’altra? La risposta di Assmann è: “per le sue conseguenze disastrose per molti esseri umani”. Alla fine la discriminazione tra opposte teologie è possibile. Ma si tratta, appunto, esattamente di questo, di mettere in conflitto “teologie”, ovvero combattere “una lotta degli dei”. La Teologia della Liberazione pretende di essere scelta in questa lotta con le teologie conservatrici e la perversa e nascosta teologia economica (neoclassica) sulla base del suo mettere la riproduzione reale e concreta della vita umana al centro dei suoi criteri. Combatte la gran parte della sua battaglia sul terreno del feticismo e dell’alienazione. E contesta radicalmente la pretesa che l’impostane neoclassica sia più coerente con il cristianesimo.

Ma si impegna anche nello sforzo di sfuggire, proprio per restare fedele a tale compito, alla “danza di divinità”[13] che si manifesta nella logologica nella quale ricade, autoneutralizzandosi e separandosi dal mondo reale, la teologia classica. Nello stesso modo in cui la “danza di divinità” dell’economia di realizza attraverso il formalismo matematico estraneo ad ogni relazione specifica e concreta.

 

Il dibattito economico è ricostruito in alcune efficaci pagine a partire dai meandri metafisici di Adam Smith che fecero dire a Joan Robinson, nel tentativo di sfuggirvi, che “l’economia non è solo un ramo della teologia”[14], a Galbraith di “qualità teologica” del mercato, che lo esime da ogni verifica empirica[15], o a Paul Samuelson che la disciplina è piena di “fanatici religiosi la cui religione è il mercato del laissez faire”[16]. Negli anni più vicini si registra un irrigidimento, una “religione coercitiva da parte dello Stato per mantenere il funzionamento del sistema”[17], una interconnessione reale tra le forti esplosioni di neoconservatorismo della teologia (negli anni ottanta) e l’aumento dei dogmatismi economici.

Questo fenomeno avviene insieme alla potente estensione dell’influenza dei centri neoliberali, che si rifanno espressamente a teorie ed autori degli anni antecedenti alla rivoluzione keynesiana ed a questa opposti, come Von Mises, Hayek, alla scuola della scelta pubblica di James Buchanan, alla riflessione sul “capitale umano”, di Gary Becker. Questa nuova scuola trova un punto di condensazione nel testo di George Gilder “Ricchezza e povertà[18], libro di testo dell’amministrazione Reagan. La mossa, facendo leva sulle “passioni ed interessi”[19] e la rivitalizzazione della “industry”, ovvero su temi classici, dichiara che occorre accettare che i progressi nella storia non sono mai stati intenzionali e programmati. Quindi occorre scommettere sull’interesse privato degli individui per recuperare le mete collettive, altrimenti irraggiungibili. Ma è qui che si manifesta una sorta di “salto trascendentale”. Come scrive Assmann, “una così grande scommessa sugli interessi dell’iniziativa privata conserva un minimo di razionalità solo perché include un presupposto tacito, cioè che questa è la condizione necessaria e sufficiente per garantire un orientamento benefico delle attività umane a vantaggio di tutti. È in questo presupposto che noi localizziamo la fede in una divinità provvidenziale[20].

Scriverà infatti Gilder, come anche Novak, che la virtù essenziale dell’uomo è la creatività. Cosa che nella loro logica significa rischiare, avere il coraggio di confidare nella sorte, non temere ostacoli, avventurarsi nell’imprevedibile, e, infine, avere una fede illimitata nella provvidenza. O, con le sue parole, “il rischio e la concorrenza, la morte e il mutamento sono la vera essenza della condizione umana”.

Dunque, come scrive J. Passmore:

l’eroismo, il desiderio di lanciarsi nell’ignoto sono eminentemente le qualità umane del capitalismo. Il tentativo dello stato benefattore di impedire, sopprimere ed eliminare i rischi e le incertezze della nostra vita – per addomesticare il fattore inevitabile dell’ignoto – viola non solo lo spirito del capitalismo ma anche la natura umana.

Abbiamo però una speranza, una fede nella Provvidenza, un ‘mito’. Abbiamo bisogno di credenze religiose, che nonostante la loro ambigua ‘irrazionalità’, possiedono nelle loro profondità simboliche la più grande delle verità storiche e pragmatiche. Esse ci dicono che gli uomini liberi, con fede nel futuro e impegnati per esso, avranno successo.”[21]

 

Anche in Novak, che cerca esplicitamente di produrre una teologia dell’economia, ci si trova di fronte ad una mossa simile. Una impostazione che parte dalla teologizzazione della creatività competitiva trasformata in una “virtù teologale”. Insomma, con un rovesciamento sorprendente, la competizione diventa l’unica via possibile per l’amore per il prossimo. Per come si esprime: “la dura lotta di persone capaci e spinte dal coraggio creativo, sotto lo stimolo della relazione competitiva, porta alle più ricche manifestazioni dell’amore fraterno. La competitività creativa è l’unica via realistica verso la fraternità, perché sa valorizzare la capacità dell’altro e di non lasciarsi schiacciare, giacché la creatività e il rispetto si stimolano l’un l’altro”. In altro termine, la concorrenza del mercato competitivo è la miglior forma di carità cristiana. Il sistema capitalista, e le istituzioni americane in primis, ne vengono sacralizzate, anche se riconosciute imperfette.

 

Di opposto tenore è il lavoro di Arend Th. Van Leeuween che lavora sulla storia intellettuale del pensiero economico per estrarne e renderne evidente il fondamento teologico. Fino a giungere nella maturità a spendere anni in un profondo scavo nell’opera di Adam Smith. Nei testi del grande filosofo ed economista scozzese viene rintracciato un potente sfondo teologico che si articola nella identificazione della quintessenza, una e indivisibile, del “capitale”. Una essenza che rimane nascosta, invisibile, nell’oscurità, senza venire alla luce delle teorie economiche. Ma proprio in quanto opera in una regione invisibile – una sfera sacralizzata – il capitale integra nella sua propria essenza ed occulta al contempo tutti i fattori della produzione, trasformandosi fantasmagoricamente nell’unico Soggetto che governa la produzione, la circolazione ed il consumo[22]. Il capitale quindi come deus absconditus che chiede un rapporto devozionale. Non è più il deus otiosus greco e romano, né il motor immobilis aristotelico o tomista. Qui si è in presenza di un dio sommamente attivo ed espansivo, un God who Acts (che agisce) e trasforma il lavoro concreto in lavoro astratto, creando di fatto potenzialità illimitate.

Come ricorda Assmann, Marx ricordò che “il capitalismo trova nel cristianesimo, con il suo culto dell’uomo astratto, e soprattutto nelle sue espressioni borghesi del protestantesimo, del deismo, ecc. la più adeguata forma di religione”[23]. Dunque, reciprocamente, il feticismo del capitale è, per il cristianesimo moderno, la più adeguata forma di religione.

Il capitalismo si appoggia insomma, come sottolinea Franz Hinkelammert, su una spiritualità necrofila, contraria alla vita, e riconosce solo un essere umano astratto. Si manifesta, nell’annullamento dell’umano concreto nell’essere astratto preso nel circolo dell’azione del deus absconditus, il “capitale”. Si tratta di una vera e propria logica di morte. Una logica che è anche, al contempo, una logica idolatrica. Per comprendere la quale bisogna fare centro anche sulla teoria del feticismo presente in Marx. La logica del sistema dominante è invisibile e il visibile non è quel che sembra essere.

L’inversione della realtà si produce mediante inversioni all’interno della ‘logica spirituale’ del sistema, alla quale non sono estranee profonde inversioni del e nel cristianesimo; si tratta di una logica che svuota la corporeità umana concreta e adopera una concezione astratta dell’umano (il che rende possibile legami con tutte le forme di culto dell’uomo astratto nel cristianesimo); una rilettura della storia del feticismo ci permette di penetrare nelle inversioni spirituali che sostengono lo svuotamento dei legami corporali fra gli uomini; solo dopo che si sia portato alla luce il carattere necrofilo e di antivita del sistema, diventa possibile ricostituire il nucleo di riferimento: la produzione sociale della vita umana reale e concreta, come ultima istanza e fonte di criteri di decisione sul piano economico e politico.”[24]

 

È sistematicamente su queste inversioni che si radicano i salti trascendentali nel pensiero neoconservatore e negli economisti neoliberali come Hayek e Friedman, ma anche, sostiene l’autore, nel pensiero anarchico e nell’ortodossia sovietica di taglio stalinista.

 

L’intera impresa dell’economia classica e neoclassica (e neoliberale) alla fine è questo: “la naturalizzazione della storia. Fare apparire come naturale (natura) quello che è prodotto storico dell’azione umana (storia).”[25]

 

Come sottolinea Assmann la cosa può anche essere semplificata in questo modo: per liberarsi dell’impostazione neoclassica bisogna recuperare la nozione che fra tutte le decisioni dei consumatori o dei produttori sono praticabili solo quelle che non distruggono la riproduzione del processo e della vita umana. La stessa riproduzione della vita umana che è l’ultima istanza della libertà[26]. Cosa che è chiaramente letta come una versione dell’identità dell’amore per Dio con l’amore per il prossimo che caratterizza il cristianesimo.

Al contrario la religione economica neoliberale, mostrandosi come idolatra, rovescia questa posizione e identifica come mezzo per fare del bene ai propri simili un diverso “paradigma articolante”. O, in altre parole, annuncia un altro vangelo. In effetti tutte le teorie economiche dominanti sono “una specie di danza in circolo attorno a un paradigma articolante, i cui presupposti sono raramente enunciati e praticamente mai analizzati nelle loro implicazioni. Il pensiero economico borghese opera con ridefinizioni molto serie e molto profonde della natura degli esseri umani e dei modi di relazione interumani più e promettenti per creare la felicità. Solo che tale credo metafisico e religioso non traspare con chiarezza nell’apparato strumentale delle teorie economiche”[27].

Questo “paradigma articolante” si forma all’alba della modernità stessa, quando i limiti del mondo esplodono trascinando con sé le vecchie fonti di senso[28] e fanno da sfondo alla traduzione in chiave economica del comandamento dell’amore. La potente accumulazione e lo sfaldamento della vecchia società non trova una risposta teologica adeguata. Si apre, cioè, un vuoto.

Un vuoto che viene colmato da un “effettivo magistero teologico del pensiero economico”. Identificano in qualche modo questo passaggio sia Max Weber[29], che propone niente di meno che una versione funzionale del sentimento religioso pietista, e Schumpeter, che loda gli sforzi della scolastica nel secondare il capitalismo mercantile e liberarlo in qualche modo da preoccupazioni morali non più adeguate. La cosa avviene in più passaggi: all’inizio si comincia a rifiutare le antropologie essenzialiste e moralizzanti che parlano dell’uomo “come dovrebbe essere”, in favore di concezioni dell’uomo “come è”. I passaggi citati sono Machiavelli e Hobbes, o lo stesso Spinoza o Vico[30]. In questo clima intellettuale Giovanbattista Vico ci parla della “scoperta”:

dalla ferocia, dall’avarizia e dall’ambizione – i tre vizi che hanno portato tanti uomini alla perdizione – la società forma la difesa nazionale, il commercio e la politica, e così produce la forza, la ricchezza e la saggezza delle repubbliche; da quei tre vizi che sicuramente finirebbero per distruggere l’uomo sulla terra, la società fa sorgere, in tal modo la felicità civile. Questo principio prova l’esistenza della Divina Provvidenza; per opera delle sue leggi intelligenti, le passioni degli uomini interamente occupati nella ricerca del proprio vantaggio privato sono trasformate in un ordine civile che permette agli uomini di vivere in una società umana[31].

 

Ma bisogna ricordare anche il best seller di questa letteratura per buona parte del XVIII secolo, la “Favola delle api[32] di Bernard de Mandeville. Per lui bisogna “abbandonare le vane utopie sociali radicate nel cervello”, le virtù basate sull’autonegazione, in favore della manipolazione politica dei vizi.

“Ciò che in questo mondo chiamiamo male […] è il grande principio che ci rende creature sociali, la base solida, la vita e il sostegno di tutti i commerci e gli impieghi senza eccezione”.

 

Con un altro piccolo slittamento alla fine prende il centro della scena (in effetti contro la Ragione della rivoluzione francese, il grande scandalo che muove il secolo) la “razionalità economica”. Ovvero una razionalità degli individui in quanto attori della scena economica. Una razionalità che sarà quindi attribuita all’homo oeconomicus, ovvero al consumatore. È l’interesse che governa il mondo.

È questa, dunque, la funzione articolante: l’interesse privato. Adam Smith lo impianta nel nocciolo stesso di una concezione ben precisa e determinata dell’economia. Diventa ora “libera iniziativa”, “libera concorrenza”, “libero mercato”. Insomma, “la razionalità economica su insedia nel seno della ‘libertà’”. E “profitto” diventa per la prima volta un termine del tutto pulito, in quanto legato al regno della libera creatività. Di qui passa il bene di tutti.

La “’via migliore’ viene progettata, insomma, per un mondo ‘realista’. Dove gli uomini non sono perfetti ma al contrario, essendo peccatori, tengono conto di questa loro condizione per fare di essa la propria ‘incarnazione’ dell’amore possibile”. Altro non sarebbe realistico.

Insomma:

L’iniziativa economica degli individui, come tutte le altre forme di iniziativa e di partecipazione, è parte essenziale di una piena valorizzazione del soggetto umano. Quel che è accaduto però con l’insediamento del paradigma economico borghese è stato un riduzionismo escludente: la riduzione dell’iniziativa economica all’iniziativa privata di quelli che già sono proprietari, con il conseguente impedimento dell’iniziativa economica, o dell’accesso ad essa, di tutti gli altri. Questa sinonimia perfetta tra iniziativa economica e iniziativa privata, con l’esclusione di ogni interferenza proveniente da criteri sociali che oltrepassino il mero interesse privato di individui, è il nucleo duro del paradigma istituito a partire dalla totale identificazione della libertà con l’interesse personale. Vie è stata una ridefinizione totale del soggetto umano e della sua libertà. Questa ridefinizione ha chiaramente un carattere riduzionista ed escludente. […] l’accento, quindi, non è posto tanto sull’accettazione di interessi particolari – difendibili nella misura in cui riguardano l’identità dell’individuo nel contesto sociale – quanto sul dogma della natura benefica, universale, dell’interesse di un numero limitato di proprietari. Il vangelo della carità è rimasto totalmente affidato alla passione dell’interesse individuale. Deriva da qui la possibilità di proclamare, nel modo più enfatico, una mistica del servizio al prossimo incorporata nelle peggiori forme di dominazione e di sfruttamento”[33].


Naturalmente questa logica si appoggia strettamente ad alcune promesse. Tra queste quella centrale è che il pieno appoggio all’interesse individuale genera la crescita più rapida e quindi produce la maggiore ricchezza. Ma con un singolare slittamento la promessa di maggiore efficienza produttivistica totale slitta nella promessa (che, altrimenti, la prima resterebbe vuota) di efficienza sociale. La “torta cresce”, poi si distribuirà a beneficio di tutti[34].

Scrive Smith:

è così che gli interessi privati e le passioni degli individui inducono naturalmente a usare le loro risorse verso impieghi che, salvo eccezioni, sono i più vantaggiosi per la società. Però, se a causa di tale preferenza naturale essi dovessero indirizzare verso tali impieghi gran parte delle risorse, la caduta del profitto in questi settori e l’aumento del profitto in tutti gli altri ci disporrebbero immediatamente ad alterare quella distribuzione difettosa, senza alcun intervento della legge. Dunque, gli interessi privati e le passioni degli uomini ci portano naturalmente a dividere e a distribuire l’insieme delle risorse di ogni società fra tutte le diverse imprese che in essa esistono, e per quanto possibile nella proporzione che è più favorevole all’interesse di tutta la società[35].

 

Altra promessa, di poco successiva, è che tale ancoraggio all’interesse privato è la migliore garanzia di una società democratica. Anzi coincide con essa.

Con l’utilitarismo di John Stuart Mill e seguaci, la cosa assume anche un altro significato. La “industry” (essere industrioso, intraprendente, diligente) consente di godere dei relativi vantaggi senza alcuno scrupolo. Convinti di irradiare felicità nel mondo.

 

In questi meccanismi c’è per gli autori una vera e propria teoria sacrificale nella teoria economica neoclassica. Il sacrificio dei lavoratori vale solo in quanto è necessario per produrre. Il resto è solo una teoria ‘edonistica’ del valore, centrata sul ‘piacere’ e al quale interessa solo l’affermazione della ‘vita’ (individuale ed isolata).

 

L’intera espulsione dalla teoria economica dei “valori”, per ancorarsi ad una “razionalità economica” depurata, deriva da questa profonda inclusione surrettizia di criteri valutativi di valore che, però, sono considerati “naturali” e in quanto tali autovalidanti. Anche quando, di rado, sono riconosciuti come “valori” restano schermati con una mossa molto sottile: “sono il risultato dell’azione umana, senza essere frutto della concezione umana” (Hayek). Sono, in altre parole, “razionali” e quindi possono essere fondati scientificamente in quanto radicati nella natura umana stessa e da essa provenienti.

Non riconoscere i valori naturali, ma voler andare oltre essi, sospendendoli, significa quindi essere “costruttivisti” (ancora Hayek) ed essere preda di una sorta di superbia, di orgoglio, di eccesso e di hybris. Di più, farlo è anche illusorio.

La rappresentazione dell’uomo come un essere che, grazie alla sua ragione, si possa elevare al di sopra dei valori della civiltà per giudicarli dal di fuori, o da un punto di vista più elevato, è solo un’illusione. In tal modo è possibile dimostrare che l’accettazione di valori che non si presentano come mete coscientemente perseguite dagli individui o da gruppo, è il vero fondamento dell’ordine reale, la cui esistenza noi presupponiamo in tutti i nostri sforzi individuali”[36].

 

Anche la rilettura di Marx, per Assmann, avvalora quest’interpretazione. Nella sua critica viene messo in luce il carattere dinamico delle categorie feticizzanti del pensiero economico: il capitalismo è un regno di divinità attive dinamiche in continuo progresso. La caratteristica fondamentale dello stesso è la “cattiva infinità”, l’illimitatezza e l’inversione del precetto dell’amore per il prossimo. In questa teoria, fatta da proprietari per proprietari, i poveri diventano superbi ed invidiosi mentre i ricchi, i possidenti che però si sottopongono all’illimitatezza del capitalismo, diventano umili servitori del bene comune. I vizi privati diventano pubbliche virtù, mentre le virtù pubbliche sono vizio.

 

In definitiva l’insieme dei dogmi connessi con il “libero mercato” sono per i neoliberali il codice stesso della crescita. E in esso, quindi nel mercato, è presente un destino superiore al quale tutti i destini individuali devono adattarsi, al prezzo di qualunque sacrificio. Questo è il nucleo sacrificale del capitalismo.

Naturalmente per la teoria liberale neoclassica “libero mercato” non significa esistenza di singoli mercati, incorporati in sistemi di norme, compatibilità sociali e condizioni attivanti ed inibenti. Questi ci sono sempre stati ed è giusto restino sempre. No, si tratta di un vero e proprio, ed esteso ad ogni dimensione, in linea di principio illimitato, “sistema di mercato” unico. Un sistema di mercato verso il quale è coltivata accuratamente una fede illimitata.

Chiaramente ciò è in relazione esattamente inversa con la rilevanza delle questioni sociali e distributive. Ci pensa sempre il mercato, e per ogni cosa. Si tratta di un vero e proprio “comandamento”. Quello della “accettazione serena della nostra ignoranza”. Chi cerca di sapere, e peggio di agire, in materia sociale in realtà non ha capito nulla. Non ha compreso cosa sia l’economia di mercato, e quindi non ne coglie il carattere universalmente benefico. Si può dire in altro modo: “in un mondo nel quale ogni certezza è una farsa, l’unica via di uscita è confidare nel mercato”. Insomma, si tratta di forme estreme di irrazionalismo e di agnosticismo sociale, ricoperte di una fede religiosa in un meccanismo sovrapersonale e trascendente. Questa forma di fondamentalismo deriva direttamente dal vuoto di certezze. Noi non potremmo conoscere nulla, e quindi saremmo senza possibilità di azione razionale, se non fosse per l’anonimo meccanismo dei prezzi. Si tratta di un’idea consolante. In questo modo abbiamo nuovamente una funzione orientatrice, ma è sottratta alle influenze della politica (e dunque al rischio che la massa, vera novità del primo novecento, la sottragga al controllo).

Ma c’è qualcosa di più. In Hayek, uno degli apostoli più coerenti, non potremmo conoscere, letteralmente, niente se non fosse per il mercato che ci istruisce. Dobbiamo dunque assumere un atteggiamento umile, di discepoli del mercato. La funzione del mercato è di generare e fornire, al contempo, informazione; si tratta di un miracoloso processo che mette in moto le conoscenze, non le aggrega (non è un computer che segue un programma e calcola). È una sorta di educatore di discepoli che praticano molto attivamente l’arte di “stare all’erta” per captare i messaggi emessi dai meccanismi di mercato. Questi discepoli sono gli imprenditori. Il mercato è una dinamica di mobilitazione sociale di conoscenze (tramite il meccanismo dei prezzi) nella quale i chierici sono gli imprenditori.

Siamo in società ipercomplesse di miliardi di persone. Dunque è il mercato per Hayek che “è stata la grande forza che ha dato vita all’umanità” e quindi è anche l’unico modo di serbarlo in vita.

Se si vuole mantenere viva la popolazione mondiale e darle una possibilità di perfezionare in futuro il suo modo di vivere, si devono adottare i metodi di mercato, dato che è l’unico modo che l’uomo conosce per mezzo del quale può essere utilizzata quell’infinità di informazioni specifiche, esistenti appena in forma dispersa in mezzo a questi milioni di persone, e che possiamo utilizzare in pieno solo se alimentate nel sistema di mercato [37].


Naturalmente al centro di questa funzione di salvezza del genere umano, e quindi degno della massima protezione possibile, come un santo e profeta, è chi riesce a tradurre i segnali dei prezzi in azioni coerenti. Chi non ci riesce è escluso, e deve esserlo, in quanto in effetti minaccia niente di meno che la sopravvivenza umana. L’imprenditore è un santo, mentre il lavoratore è giustamente escluso, in quanto subisce, e talvolta ostacola (se si organizza) il messaggio salvifico dei prezzi.

Vediamo come la mette Assmann:

ora, in una visione dove rientrano solo agenti sommamente dinamici, non c’è più bisogno dell’equilibrio del mercato in actu: basa un equilibrio in fieri, ossia un processo equilibratore affermato come reale. All’improvviso, scopriamo che tutta questa bella tesi sul mercato come processo di comunicazione di conoscenze ha i suoi veri presupposti in una teoria della massimizzazione non più del lucro per sé (questo verrà come conseguenza), ma del potere. La teoria del mercato di Hayek è una singolare teoria circa la massimizzazione dell’uso del potere. Solo che egli non la presenta così. Forse nemmeno si rende conto che, invece di una teoria economica pura, ciò che egli ha celebrato è una teoria politica sulla massimizzazione dei poteri impositivi e della forza di pressione – un concetto molto peculiare della concorrenza – degli imprenditori”[38].

 

La teoria formulata da Hayek non prevede la concorrenza perfetta e l’equilibrio generale. Rispetto alla prima generazione dei Walras, Jevons e Menger, ma anche alla seconda di Marshall, qui c’è uno scarto. L’economia non è in costante equilibrio, ma in costante movimento verso questo se c’è competizione orientata alla dinamica dei prezzi. Per cui i monopoli sono ben accetti, se non sono creati deliberatamente per via politica, ma nella misura in cui derivano la loro forza dal mercato. In altre parole, vanno bene tutti i monopoli meno quelli dei lavoratori. L’essenza del mercato è la competizione, che resterebbe tale anche se le imprese del mondo fossero solo due, dunque il mercato di Hayek ha una sorta di anima guerriera, non incoerentemente l’economista austriaco fornì esplicito appoggio al fascismo sudamericano (a partire dal Cile)[39].

 

È nel complesso di questi significati che i teologi della liberazione qualificano la fiducia fanatica nel mercato come una forma di “idolatria”. Nel duplice senso che si aderisce a falsi dei (idoli) e che si partecipa a processi oppressivi che hanno dirette risonanze sul piano socioeconomico. Una idolatria del mercato è moderna, collegandosi con il vasto processo di secolarizzazione, e figlia dell’irrazionalismo post-moderno ad un tempo. Essa si afferma come riformulazione globale delle ‘devozioni religiose’ immesse e tradotte in un sistema socioeconomico che ha bisogno e pretende di legittimarsi in nome della scientificità. In essa sopravvivono frammenti primitivi di totemismo e magia, ma anche nuove forme di mitizzazione. È nel suo complesso “una religione del destino pre-determinato”, senza avere la fissità gerarchica dell’ordine tipico delle vecchie organizzazioni sociali. Questo è il senso nel quale Hayek sostiene che serva, come meccanismo equilibrante necessario (come dispositivo di potenza e quindi creatore di ordine), a conservare il livello di complessità raggiunto e migliorarlo e quindi a serbare in vita l’umanità.

Di fronte a questa missione (che, casualmente, prevede anche di investire dell’aura di salvatori i potenti attuali) è chiaro che dettagli come lo stadio di Santiago del Cile[40] sono prezzi modesti.

 

Il liberalismo è, dunque, una potente reazione alle dottrine precedenti che unisce in uno la passione per la scienza (e l’orientamento positivista di essa), l’ideologia del progresso (e la spinta di esso all’illimitatezza), e la fiducia nella ragione (ma incarnata nel mercato, e quindi trasfigurata). Ne fanno parte specifici meccanismi che lo convertono in un processo vittimizzante. Ma, a guardare bene, tutte queste dimensioni sono sempre presenti come Giano bifronte. Ogni elemento si sdoppia in due facce: il predominio inesorabile e vorace del profitto promette evangelicamente felicità e piacere. Un sacrificalismo spietato che si traveste da promessa di vita.

Ma c’è di più in questa logica. E si vede benissimo dal punto di osservazione sudamericano degli autori: il paradigma economico (in quanto idolo) non tollera trasgressioni, quindi “i difensori del mercato illimitato ricercheranno ogni aiuto necessario (protezionismo, intervento del denaro pubblico per salvare imprese, sussidi all’esportazione, esenzioni fiscali e, se necessario, golpe militare), per ristabilire il mercato e la ‘libertà’”. Tutto è illimitato in questo sistema: l’interesse, il capitale, l’autovalorizzazione del suo “lavoro”. In questo modo viene annullata la finitezza delle cose, la loro contingenza e ne viene distrutta la realtà. Tutto entra nel meccanismo valorizzante solo cessando come unità di valore in sé (o ‘valore d’uso’).

 

Il capitalismo è perciò, in un senso molto profondo, una religione della vita quotidiana, come scrisse Marx. Tutti coloro che sono immersi in esso devono partecipare al processo di feticizzazione necessaria, in relazioni astratte, facendo calcoli astratti, soppesando vantaggi e costi sotto la metrica che tutto confronta e tutto annulla del valore di mercato.

 

Questa è la natura della trappola nella quale siamo prigionieri (alcuni felici).



[1] - Hugo Assmann, Franz Hinkelammert, “Idolatria del mercato. Saggio su economia e teologia”, Castelvecchi, 2020.

[2] - Biblicamente gli “idoli” sono gli dei dell’oppressione che manipolano per i loro fini i simboli religiosi allo scopo di alimentare delle dipendenze, di legittimarsi come fonte di oppressione mascherata e di sostenere i poteri di fatto dominanti nell’organizzazione della convivenza umana.

[3] - Autori come Walras, Jevons, Menger, che operano nei primi anni settanta dell’ottocento e le cui opere fondative sono: W. Stanley Jevons, “Teoria dell’economia politica”, 1871; Leon Walras, “Elementi di economia politica”, 1874; Carl Menger, “Principi di economia politica”, 1871. La teoria neoclassica, che prende il posto di quella classica entro la fine dell’ottocento è una risposta diretta alle teorie socialiste, in particolare di Karl Marx. Il punto di attacco centrale è la teoria del valore-lavoro (Smith, Ricardo, e Marx) sostituito dalla teoria dell’utilità marginale. Per essa ognuno è sempre pagato per il contributo marginale che fornisce alla produzione, eliminando in radice (essenzialmente con un cambio di punto di vista dalla produzione alla circolazione) il concetto di sfruttamento e quindi una delle radici più forti della critica. Resta in piedi, comunque, la critica alla reificazione e al feticismo, che è anche il punto centrale del testo che si sta leggendo. Le altre due mosse fondative dell’approccio neoclassico, successivamente sistematizzato da Marshall, sono il rifiuto di ogni argomentazione politica o morale (e quindi il concetto di scientificità che ne promana), e il rifiuto di considerare la società divisa in classi in favore di un punto di vista individualista.

[4] - Basti pensare alla costruzione della teoria di Adam Smith, su cui il libro torna a più riprese.

[5] - La “Teologia della liberazione” prende le mosse dal Concilio Vaticano II, e trae ispirazione, calandola nella condizione concreta dello sfruttamento, dal tentativo di Giovanni XXIII di aggiornare il pensiero della chiesa nel mondo moderno, intorno al senso della giustizia e dell’amore, e come scrive in “Pacem in terris”, del riconoscimento ad ogni essere umano della dignità di “persona” (cioè “natura dotata di intelligenza e volontà”) che ha “Il diritto all’esistenza e a un tenore di vita dignitoso (alimentazione, vestiario, abitazione, riposo, cure mediche, servizi sociali necessari)”, alla libertà, alla famiglia, al lavoro (una retribuzione sufficiente a permettere al lavoratore e alla sua famiglia un tenore di vita conforme alla dignità umana), e doveri, tra i quali “il compito di ricomporre i rapporti della convivenza nella verità, nella giustizia, nell’amore, nella libertà … È un imperativo del dovere; è un’esigenza dell’amore. Ogni credente, in questo nostro mondo, deve essere una scintilla di luce, un centro di amore, un fermento vivificatore nella massa: e tanto più lo sarà quanto più, nella intimità di se stessa, vive in comunione con Dio”. La “Gaudium e spes” riprende questi elementi indicando (66) l’obbligo di impegnarsi con ogni sforzo perché “siano rimosse il più rapidamente possibile le ingenti disparità economiche che portano con sé discriminazioni nei diritti individuali e nelle condizioni sociali quali oggi si verificano e spesso si aggravano”. Subito dopo alcuni vescovi e teologi firmarono il “Patto delle catacombe”, che elencava 13 punti per porre in attuazione questi principi. In America Latina questo impulso fu particolarmente forte, grazie alla base data dal movimento anni cinquanta brasiliano delle “comunità di base”, intorno alla figura di Carlos Mesters e la Celam (Conferenza episcopale latino-americana). La Celam organizzò a Medellin un congresso per tradurre le indicazioni conciliari in America Latina. Il tema principale fu che era la dipendenza economica, e la povertà che ne derivava, a contrastare con la volontà di Dio, per cui è la liberazione da questa a dover interessare la chiesa. Ne seguiva il dovere di “difendere, secondo il mandato evangelico, i diritti dei poveri e degli oppressi”, e, quindi, “denunciare energicamente gli abusi e le ingiuste conseguenze delle eccessive disuguaglianze tra ricchi e poveri, tra potenti e deboli” (relazione del vescovo Pironio). La “Teologia della Liberazione” si sviluppa da questo impulso negli anni sessanta, mettendosi in connessione con la “Teoria della dipendenza”, neomarxista. Dall’altra parte, nell’insegnamento di Gustavo Gutierrez, il cui testo capitale è “Teologia della liberazione. Prospettive”, del 1971, la salvezza viene calata dentro la condizione concreta di povertà e miseria dei poveri e quindi tradotta in un appello di giustizia. Come scrive nel suo libro: “Da una prospettiva di fede ciò che, in ultima analisi, spinge i cristiani a partecipare alla liberazione dei popoli oppressi e delle classi sociali sfruttate, è il convincimento della totale incompatibilità delle esigenze evangeliche con una società ingiusta e alienante” (p.124). Seguono questa linea i fratelli Boff, Jon Sobrino, Enrique Dussel, e, appunto, Hugo Assmann. Durante gli ultimi anni settanta e gli anni ottanta la Teologia della Liberazione pagò un durissimo debito di sangue per la sua scelta di campo, con l’uccisione di tanti gesuiti, come padre Espinal Camps (“Lucho”) in Bolivia, ucciso il 21 marzo 1980, tre giorni prima di Romero in Salvador. Ma dovette subire anche la repressione incruenta della gerarchia cattolica, che partendo dalla Congregazione della Fede coordinata da Ratzinger, mise sotto accusa l’intera tendenza, destituendo padre Arrupe (superiore generale della Compagnia di Gesù) e sostituendo molti vescovi con esponenti dell’Opus dei. Cfr, https://books.fbk.eu/media/pubblicazioni/allegati/Rizzi_10.14598Annali_studi_relig_14201304.pdf

[6] - Assman, cit., p.25.

[7] - Cit., p. 30

[8] - Oscar Romero viene ucciso il 24 marzo 1980 nella capitale del San Salvador con un colpo di fucile da parte di un cecchino in auto. Eletto nel 1977 grazie all’appoggio dell’oligarchia locale, cambia progressivamente opinione grazie al contatto di teologi della liberazione come Rutilio Grande. Il 12 marzo 1977 padre Rutilio viene assassinato insieme a due catecumeni e l’arcivescovo inizia una battaglia che porterà a continue stragi per vendetta e intimidazione. Ad Aguillares furono uccisi 200 fedeli, e sempre più collaboratori di Romero ne seguirono le sorti. Alla fine, il maggiore Roberto D’Aubisson ordinò la sua stessa morte. Venti giorni prima in un discorso alla radio diocesana disse: “Il martirio è una grazia di Dio che non credo di meritare, ma se Dio accetta il sacrificio della mia vita che il mio sangue sia un seme di libertà e il segno che la speranza sarà presto realtà… Io parlo in prima persona perché questa settimana mi è arrivato un avviso che sto nella lista di coloro che stanno per essere eliminati la prossima settimana. Ma rimanga il punto fermo che la voce della giustizia nessuno mai potrà ammazzarla.” Aveva 63 anni.

[9] - Il gesuita Rutilio Grande, grande amico di Oscar Romero, viene ucciso il 12 marzo 1977 ad Aguilares. Nato da una famiglia povera e parroco di Aguillares, dal 1973 si impegna a creare Comunità Cristiane di Base nelle quali il messaggio religioso viene associato strettamente ad una inflessibile denuncia delle condizioni di sfruttamento economico e sociale. Ancorato alla “Teologia della Liberazione” si impegnò anche per far entrare il suo amico Romero in contatto con le reali condizioni del paese e del suo popolo. D’Aubisson ne ordinò la morte per mettere a tacere la sua voce, ma riuscì solo ad amplificarla. Al suo funerale parteciparono 100.000 persone. Aveva 49 anni.

[10] - L’avvocato Marianella Garcia Villas viene uccisa il 14 marzo 1983 a Suchitoto. Era una figlia della ricca borghesia locale, laureata in legge e filosofia nel 1970 si impegnò sin dall’inizio con le comunità contadine salvadoregne, condividendone la dura vita e impegnandosi nell’Azione Cattolica Universitaria prima poi nel Partito democratico Cristiano dal quale fu presto emarginata ed espulsa. Fuggita dal Salvador e rifugiata in Messico (come tanti in quegli anni) continua ad entrare nel paese per cercare prove delle repressioni e denunciarle all’Onu. Nel corso di una di queste incursioni, mentre nel 1983 cercava prove dell’utilizzo del fosforo bianco nelle repressioni della giunta militare, pura sapendo di essere in testa alla lista delle persone da uccidere (D’Aubisson l’aveva mostrata in televisione con tanto di foto), fu oggetto di un agguato, ferita, catturata, selvaggiamente torturata e abbandonata in una discarica in un cumulo di cadaveri. Aveva 39 anni.

[11] - Il libro è certamente antecedente al crollo finale dell’Unione Sovietica, dato che la nomina costantemente, ma dai rimandi e dalla bibliografia si deve collocare dopo il 1989. Presumibilmente è stato scritto tra il 1989 ed il 1990.

[12] - Jerry Falwell, che è morto nel 2007, è stato un pastore battista, del sud, televangelista di grandissimo successo. Nato da una famiglia benestante che aveva fatto fortuna distribuendo alcolici nel protezionismo, fonda la Liberty University che è uno dei principali punti di riferimento dell’estrema destra cristiana americana. La sua associazione, la Moral Majority sostenne efficacemente, mobilitando la rete delle congregazioni fondamentaliste della Bible Belt, la candidatura di Ronald Reagan.

[13] - Una “danza di divinità” è il modo attraverso il quale si rende omaggio all’idolo al contempo manipolando i destini umani.

[14] - Joan Robinson, “Filosofia economica”, 1979 ed. spagnola.

[15] - John Kenneth Galbraith, “Economics in perspective”, 1987 (ed it. 1990).

[16] - Paul Samuelson, “Economics”, 1980.

[17] - R. Heilbroner, “Business Civilization in decline”, 1976.

[18] - George Gilder “Ricchezza e povertà, Harvard, 1988.

[19] - Albert Hirschman, “Le passioni e gli interessi”, 1975.

[20] - Assmann, cit., p. 43.

[21] - Cit in. Assmann, cit., p. 44

[22] - Assmann, cit., p. 53.

[23] - Karl Marx, “Il capitale”, Libro I, cap. I, sezione IV.

[24] - Assmann, cit., p.74

[25] - Assmann, cit., p. 82

[26] - Gli esseri umani non possono essere liberi da soli, ma lo diventano solo entro relazioni sociali che li rendano tali, cioè entro una “libertà sociale” che va costruita e difesa. Non si tratta solo di realizzare un sistema distributivo più giusto, ma anche ed insieme di creare le condizioni di una nuova forma di vita comunitaria. Consapevole della nostra comune compresenza. Una forma in cui la “libertà” sia determinante sia sul piano dell’individuo, che si orienta verso la comunità per la soddisfazione delle sue finalità (in primis quella di base della propria sicurezza), sia su quello della comunità stessa, che è una creazione consensuale della “fratellanza”, ovvero della “simpatia” reciproca (termine presente nei moralisti settecenteschi, in particolare scozzesi e successivamente distorto ed eroso proprio dal legame sociale perverso istituito dall’economico). La cosa è abbastanza semplice da capire: noi stessi usiamo spesso il termine comunità, intendendo una condivisione di finalità ed un senso di comunanza e reciproca simpatia (che si manifesta automaticamente, ad esempio, quando due connazionali si incontrano in un paese estero non familiare) che porta ad un certo grado di disponibilità a farsi carico dei bisogni dell’altro, ovvero un certo grado di essere-sé nell’altro (secondo una fulminante formula di Hegel) sia pure nel quadro di unità anonime.

[27] - Assmann, p. 133.

[28] - L’autore richiama la straordinaria analisi di Alexander Koyrè, in particolare in “Dal mondo chiuso all’universo infinito”, della rivoluzione scientifica seicentesca nel percorso da Keplero e Copernico, via Galileo, fino a Newton. Da questo passo alla creazione dell’ideologia del progresso nel 1700 e alla formazione del primo capitalismo, quando il denaro inizia a “lavorare”, è un continuo sviluppo.

[29] - Max Weber,

[30] - La descrizione è in parte ripresa da Alfred Hischmann, “Le passioni e gli interessi”,

[31] - Vico, cit. in Assamann, p.141

[32] - Bernard de Mandeville, “La favola delle api”, 1705.

[33] - Assmann, cit., p. 149-50.

[34] - Questo è di gran lungo l’argomento più tipico che si ripete, in molte forme diverse, per sostenere l’economia esclusivamente regolata dal mercato. Alla fine bisogna crescere per poter distribuire; è vero che ci sono poveri, ma sono meno poveri di altri fuori del mercato; il più povero oggi è più ricco di un benestante medioevale; e via dicendo…

[35] - Adam Smith, “La ricchezza delle nazioni”, p.594

[36] - Hayek, citato in Assmann, p.160.

[37] - Hayek, cit. Aussmann, p.228.

[38] - Assmann, cit., p.230.

[39] - In una intervista rilasciata al quotidiano cileno El mercurio, il 19 aprile 1981 (il generale Augusto Pinochet resta al potere dal golpe dell’11 settembre 1973 al 11 marzo 1990), rispondendo all’intervistatore che gli ricordava la sua affermazione sulle dittature che possono essere più liberali di una ‘democrazia totalitaria’, disse: “è evidente che le dittature pongono gravi pericoli. Ma una dittatura può limitare se stessa, e se autolimitata può essere più liberale nelle sue politiche di un’assemblea che non conosce limiti. […] in un dato momento potrebbe essere l’unica speranza, la migliore soluzione nonostante tutto. […] la democrazia ha un compito che io chiamo ‘igienico’ per il fatto che assicura che le procedure siano condotte in un modo, appunto, idraulico-sanitario. Non è un fine in sé. Si tratta di una norma procedurale il cui scopo è quello di promuovere la libertà. Ma non può assolutamente essere messa sullo stesso piano della libertà. La libertà necessita di democrazia, ma preferirei temporaneamente sacrificare, ripeto temporaneamente, la democrazia, prima di dover stare senza libertà, anche temporaneamente.” Cfr. Philip Mirowski, “The road from Mont Pelerin: the making of the neoliberal thought collective”, Harvard University Press, 2009.

[40] - Nello Stadio i militari di Pinochet segregarono, torturarono e fucilarono gli attivisti di Allende e dei movimenti di base cattolici e socialisti (o comunisti) nelle prime settimane del golpe dell’11 settembre 1973.

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