Il
libro[1] del teologo Hugo Assmann,
con il contrappunto puntuale fornito dall’economista Franz Hinkelammert, è una
ristampa di un testo che è uscito probabilmente tra il 1989 ed il 1990. Si
tratta di un libro davvero notevole per interesse e profondità. Documenta
indirettamente una fase molto importante della svolta neoliberale durante gli
anni ottanta, vista dal decisivo punto di vista dell’ambiente sudamericano.
Il
tema di cui si occupa il libro è il modo in cui la particolare forma della
razionalità economica ha, come dicono gli autori, “sequestrato e reso
funzionale certi aspetti essenziali del cristianesimo” creando una sorta di
“religione economica” la quale in effetti ha una stretta relazione con processi
di “idolatria”[2].
Dal punto di vista cristiano è, cioè, una forma di adorazione di falsi dei. Si
tratta di una adorazione di dei sotto forma mascherata, soprattutto per il
carattere di “buona novella” che vi riveste la promessa di un’autoregolazione
senza intervento umano, attribuita agli interventi di mercato. Questa idolatria
è connessa strettamente ed internamente ad una sorta di “ideologia sacrificale”,
ovvero al fabbisogno continuo di sacrifici umani. In altre parole, nella forma
di vita sociale creata dalla ‘religione economica’ neoclassica, quando vince e
prevale, la vita concreta è sacrificata sistematicamente.
Le
interconnessioni tra economia e teologia si radicherebbero quindi proprio nell’ideale
di scientificità dell’economia, nascondendo una sorta di “discorso su Dio”.
A partire dai neoclassici[3] è sempre stato un punto
assolutamente centrale quello di svincolarsi dai chiari presupposti teologici dei
classici[4], ma il vero nocciolo
teologico è rimasto inalterato, se non rafforzato. La posizione della “Teologia
della liberazione”[5]
si forma connettendo critica della teologia conservatrice e,
contemporaneamente, quella all’economia (nascostamente) teologica:
“la teologia degli ultimi quattro
secoli ha pagato pesanti tributi di inconscio asservimento a modelli profondamente
disumani di concezione della vita umana nella società. Su larga scala, la
teologia si è rivelata impotente ad analizzare, in contemporaneità con il
succedersi degli avvenimenti sociali, la metamorfosi di determinate dottrine
teologiche inscritte nelle teorie e nelle pratiche dell’ambito economico,
politico e sociale. […]
In altre parole, i
teologi quasi non si sono resi conto che le teologie più importanti non erano più quelle dei loro compendi, ma quelle degli economisti e dei sociologi in
generale”[6].
Per posizionare correttamente la lettura bisogna partire da un punto inaggirabile. Il testo e la critica cadono in uno spazio non astratto, ma attraversato da drammatici conflitti: il sudamerica negli anni ottanta e settanta. Conflitti che sono spesso evocati nelle prime pagine e poi nel resto del testo. Ad esempio, posizionandosi esattamente nella fase di insorgenza ed affermazione della ripresa neoliberale gli autori denunciano in apertura il nesso e l’interpenetrazione tra una teologia mascherata e l’economia. Ovvero l’innesto sistematico di “perverse teologie economiche” nella mentalità dei popoli attraverso una potente, pervasiva ed insistita catechesi. Questa è in qualche modo endogena, si infiltra nel linguaggio comune ed entra nell’universo mitico del senso comune senza essere propriamente pianificata. Si tratta infatti di un modo di pensare agli avvenimenti sociali che emerge naturalmente dalla realtà oggettiva delle istituzioni. La stessa universalizzazione delle relazioni mercantili, in potente espansione negli anni di avvio della mondializzazione da cui parlano, genera spontaneamente un consenso sulle “virtù del mercato”. O, in altri termini, “gli oggetti ‘devozionali’ e le relazioni ‘devozionali’ si quotidianizzano nel seno della stessa istituzionalità economica”.
Ma
c’è anche un livello pianificato. Questo si manifesta nelle élite organiche
dell’imprenditorialità transnazionale, nelle loro organizzazioni, think thanks,
intellettuali organici, mezzi di comunicazione e pubblicità, innumerevoli
simposi e congressi che normalmente promuovono strategie di intervento
catechistico “freddo”. Si tratta di “una specie di pedagogia permanente,
integrata in una lotta di classe che deflagra dall’alto verso il basso”. Normalmente
va in questo modo, ma non sempre: “quando però sorgono situazioni di crisi acute
o minacce di sommovimenti sociali, tali élites – come abbiamo potuto constatare
spesso, nei decenni passati, in America Latina – passano aggressivamente all’offensiva.
Si utilizzano allora strategie più energiche, di intervento ‘caldo’, cioè, con
bersagli (target) più selettivamente definiti, e generalmente con maggiore
presenza dell’elemento religioso nella trasmissione di valori ‘congiunturali’”[7].
Questo
libro si colloca in un punto ben preciso. Dagli anni sessanta, e poi nella
vicenda cilena, la Teologia della liberazione era stata un centro di
elaborazione ed irradiazione di un autentico spirito di ribellione al dominio
imperialista e alla logica della dipendenza sudamericana, ponendosi con
nettezza e coraggio dalla parte dei secondi, e degli ultimi. I settori
conservatori della chiesa cattolica, e le organizzazioni della destra, come i
settori borghesi più legati al dominio oligarchico e contemporaneamente
subalterno alle relazioni di dipendenza internazionali, si schierarono immediatamente
contro questa insorgenza, facendogli pagare un pesantissimo tributo. Fino al
versamento del sangue di molti esponenti, grandi e piccoli. Negli anni ottanta
l’opposizione giunse fino ai diretti pronunciamenti censori della gerarchia centrale;
con l’ordine da Roma di emarginare, con i mezzi più brutali, migliaia di
sacerdoti, religiosi e laici legati alla “teologia”. E giunse alle azioni più
violente del braccio armato del capitalismo internazionale. Ad esempio, nel 1980
molti gesuiti che militavano in essa furono uccisi dagli spietati “squadroni
della morte” salvadoregni, che non si fermarono neppure davanti al primate salvadoregno.
Nel 1980 viene ucciso sull’altare l’arcivescovo Romero[8], preceduta dall’omicidio del
gesuita Rutilio Grande[9], e seguita, pochi anni dopo,
da quello dell’attivista e collaboratrice Marianella Garcia Villas[10]. Sfortunatamente la lista
è molto lunga.
Il
1989, immediato sfondo di questo libro[11], cadde come un terremoto
in questa vicenda. La riduzione della possibilità stessa di disporre di un’alternativa
al capitalismo mise la sordina a tutto ciò, inducendo a lungo una sorta di
affondamento della sua visibilità esterna.
La
cosa non accadde senza essere intenzionale. La Teologia della liberazione aveva
raggiunto la massima estensione tra il 1970 ed il 1973, in concomitanza con l’esperienza
di successo del governo di Allende in Cile. Nell’Unità Popolare che sostenne il
presidente socialista era allora forte il movimento dei Cristiani per il
Socialismo, che allarmò Nelson Rockfeller nel suo viaggio in America Latina già
nel 1968. Come racconta Hinkelammert, la risposta statunitense fu imperniata
sul fondamentalismo protestante, radicalmente antipolitico ed antistatale. Per esso,
infatti, ogni genere di attivismo politico è mondano, estraneo alla
preoccupazione religiosa e suo ostacolo. Invece l’attivismo economico è giusto
ed appropriato per un cristiano. Una religione per abbienti, che ne giustifica
le azioni e legittima l’arroganza. Questa linea spinse al potere Reagan. Questo
fondamentalismo cristiano negli Usa, di cui furono esponenti in vista il
predicatore Jerry Falwell[12] ed la sua Moral Majority,
creò una sorta di teologia antiliberatrice e una vera e propria “teologia dell’impero”.
Questa nuova teologia politica era scettica verso l’interventismo e tentativi
di riformismo forte come quello di Frey in Cile o Goulard in Brasile, il Fronte
Ampio in Uruguay, e il peronismo in Argentina. Tutti movimenti non socialisti,
ma che sembravano ai conservatori spingere in quella direzione.
La
risposta fu l’abbandono di ogni tentativo di riforma in direzione sociale e la
riaffermazione di un capitalismo intransigente. Il neoliberalismo è quindi
antiriformista e antinterventista, mentre il mercato è trattato come l’unica
istanza capace di risolvere i problemi. Ormai, anzi, lo Stato resta solo nella
sua funzione repressiva.
Dalla
posizione esattamente opposta a quella il testo accusa i “cattivi infiniti” che
lavorano a ridurre al silenzio il riferimento ai valori delle istituzioni umane
e cercano di sopprimere la “radicalità degli orizzonti utopici”. Ovvero, e
questo è un punto assolutamente centrale, “accusano di essere utopici coloro
che si ispirano a un orizzonte al di là del possibile-ora, per sostenere i mutamenti
necessari”. In realtà per Assmann chi, sulla base di un malinteso scientismo,
sviluppa queste posizioni anti-utopiche sta solo procedendo a sacralizzare lo
status quo. In questo senso i “cattivi infiniti” del capitale, del mercato,
sono utopie rovesciate il cui scopo è imprigionare le speranze dell’esistente. Lavorano
con “modelli di apprendimento della realtà dove ciò che è storico è nuovamente
ridotto a ‘natura’, con leggi che non si possono infrangere”. La mossa è
questa: si naturalizza la storia, dissimulandosi e proteggendosi con una
pretesa di scientificità avalutativa e neutrale, operando con valori assoluti
che si pretendono già contenuti nel reale stesso. Ma “i valori assoluti non
sono altro che un assolutizzazione banale di valori concreti che corrispondono
ad interessi concreti”.
Il
problema è di stabilire come ci si allontana da una mossa come questa,
dichiarandone il carattere comunque teologico (sia pure “perverso”)? O, come si
qualifica come “perversa” questa fondazione teologica per sostenerne un’altra? La
risposta di Assmann è: “per le sue conseguenze disastrose per molti esseri umani”.
Alla fine la discriminazione tra opposte teologie è possibile. Ma si tratta,
appunto, esattamente di questo, di mettere in conflitto “teologie”, ovvero combattere
“una lotta degli dei”. La Teologia della Liberazione pretende di essere scelta in
questa lotta con le teologie conservatrici e la perversa e nascosta teologia economica
(neoclassica) sulla base del suo mettere la riproduzione reale e concreta
della vita umana al centro dei suoi criteri. Combatte la gran parte della
sua battaglia sul terreno del feticismo e dell’alienazione. E contesta radicalmente
la pretesa che l’impostane neoclassica sia più coerente con il cristianesimo.
Ma
si impegna anche nello sforzo di sfuggire, proprio per restare fedele a tale
compito, alla “danza di divinità”[13] che si manifesta nella
logologica nella quale ricade, autoneutralizzandosi e separandosi dal mondo
reale, la teologia classica. Nello stesso modo in cui la “danza di divinità”
dell’economia di realizza attraverso il formalismo matematico estraneo ad ogni
relazione specifica e concreta.
Il
dibattito economico è ricostruito in alcune efficaci pagine a partire dai meandri
metafisici di Adam Smith che fecero dire a Joan Robinson, nel tentativo di
sfuggirvi, che “l’economia non è solo un ramo della teologia”[14], a Galbraith di “qualità
teologica” del mercato, che lo esime da ogni verifica empirica[15], o a Paul Samuelson che
la disciplina è piena di “fanatici religiosi la cui religione è il mercato del
laissez faire”[16].
Negli anni più vicini si registra un irrigidimento, una “religione coercitiva
da parte dello Stato per mantenere il funzionamento del sistema”[17], una interconnessione
reale tra le forti esplosioni di neoconservatorismo della teologia (negli anni
ottanta) e l’aumento dei dogmatismi economici.
Questo
fenomeno avviene insieme alla potente estensione dell’influenza dei centri
neoliberali, che si rifanno espressamente a teorie ed autori degli anni
antecedenti alla rivoluzione keynesiana ed a questa opposti, come Von Mises,
Hayek, alla scuola della scelta pubblica di James Buchanan, alla riflessione
sul “capitale umano”, di Gary Becker. Questa nuova scuola trova un punto di
condensazione nel testo di George Gilder “Ricchezza e povertà”[18], libro di testo dell’amministrazione
Reagan. La mossa, facendo leva sulle “passioni ed interessi”[19] e la rivitalizzazione
della “industry”, ovvero su temi classici, dichiara che occorre accettare che i
progressi nella storia non sono mai stati intenzionali e programmati. Quindi occorre
scommettere sull’interesse privato degli individui per recuperare le mete
collettive, altrimenti irraggiungibili. Ma è qui che si manifesta una sorta di “salto
trascendentale”. Come scrive Assmann, “una così grande scommessa sugli
interessi dell’iniziativa privata conserva un minimo di razionalità solo perché
include un presupposto tacito, cioè che questa è la condizione necessaria e
sufficiente per garantire un orientamento benefico delle attività umane a
vantaggio di tutti. È in questo presupposto che noi localizziamo la fede in
una divinità provvidenziale”[20].
Scriverà
infatti Gilder, come anche Novak, che la virtù essenziale dell’uomo è la creatività.
Cosa che nella loro logica significa rischiare, avere il coraggio di confidare
nella sorte, non temere ostacoli, avventurarsi nell’imprevedibile, e, infine,
avere una fede illimitata nella provvidenza. O, con le sue parole, “il rischio
e la concorrenza, la morte e il mutamento sono la vera essenza della condizione
umana”.
Dunque,
come scrive J. Passmore:
“l’eroismo, il desiderio di
lanciarsi nell’ignoto sono eminentemente le qualità umane del capitalismo. Il tentativo
dello stato benefattore di impedire, sopprimere ed eliminare i rischi e le
incertezze della nostra vita – per addomesticare il fattore inevitabile dell’ignoto
– viola non solo lo spirito del capitalismo ma anche la natura umana.
Abbiamo però una
speranza, una fede nella Provvidenza, un ‘mito’. Abbiamo bisogno di credenze
religiose, che nonostante la loro ambigua ‘irrazionalità’, possiedono nelle
loro profondità simboliche la più grande delle verità storiche e pragmatiche. Esse
ci dicono che gli uomini liberi, con fede nel futuro e impegnati per esso,
avranno successo.”[21]
Anche
in Novak, che cerca esplicitamente di produrre una teologia dell’economia, ci
si trova di fronte ad una mossa simile. Una impostazione che parte dalla
teologizzazione della creatività competitiva trasformata in una “virtù
teologale”. Insomma, con un rovesciamento sorprendente, la competizione
diventa l’unica via possibile per l’amore per il prossimo. Per come si
esprime: “la dura lotta di persone capaci e spinte dal coraggio creativo, sotto
lo stimolo della relazione competitiva, porta alle più ricche manifestazioni
dell’amore fraterno. La competitività creativa è l’unica via realistica verso
la fraternità, perché sa valorizzare la capacità dell’altro e di non lasciarsi schiacciare,
giacché la creatività e il rispetto si stimolano l’un l’altro”. In altro
termine, la concorrenza del mercato competitivo è la miglior forma di carità
cristiana. Il sistema capitalista, e le istituzioni americane in primis, ne
vengono sacralizzate, anche se riconosciute imperfette.
Di
opposto tenore è il lavoro di Arend Th. Van Leeuween che lavora sulla storia intellettuale
del pensiero economico per estrarne e renderne evidente il fondamento teologico.
Fino a giungere nella maturità a spendere anni in un profondo scavo nell’opera
di Adam Smith. Nei testi del grande filosofo ed economista scozzese viene
rintracciato un potente sfondo teologico che si articola nella identificazione
della quintessenza, una e indivisibile, del “capitale”. Una essenza che rimane
nascosta, invisibile, nell’oscurità, senza venire alla luce delle teorie
economiche. Ma proprio in quanto opera in una regione invisibile – una sfera
sacralizzata – il capitale integra nella sua propria essenza ed occulta al
contempo tutti i fattori della produzione, trasformandosi fantasmagoricamente
nell’unico Soggetto che governa la produzione, la circolazione ed il consumo[22]. Il capitale quindi come deus
absconditus che chiede un rapporto devozionale. Non è più il deus
otiosus greco e romano, né il motor immobilis aristotelico o tomista.
Qui si è in presenza di un dio sommamente attivo ed espansivo, un God who
Acts (che agisce) e trasforma il lavoro concreto in lavoro astratto,
creando di fatto potenzialità illimitate.
Come
ricorda Assmann, Marx ricordò che “il capitalismo trova nel cristianesimo, con
il suo culto dell’uomo astratto, e soprattutto nelle sue espressioni borghesi del
protestantesimo, del deismo, ecc. la più adeguata forma di religione”[23]. Dunque, reciprocamente, il
feticismo del capitale è, per il cristianesimo moderno, la più adeguata forma di
religione.
Il
capitalismo si appoggia insomma, come sottolinea Franz Hinkelammert, su una
spiritualità necrofila, contraria alla vita, e riconosce solo un essere umano
astratto. Si manifesta, nell’annullamento dell’umano concreto nell’essere astratto
preso nel circolo dell’azione del deus absconditus, il “capitale”. Si tratta di
una vera e propria logica di morte. Una logica che è anche, al contempo,
una logica idolatrica. Per comprendere la quale bisogna fare centro
anche sulla teoria del feticismo presente in Marx. La logica del sistema
dominante è invisibile e il visibile non è quel che sembra essere.
“L’inversione della realtà si produce
mediante inversioni all’interno della ‘logica spirituale’ del sistema, alla
quale non sono estranee profonde inversioni del e nel cristianesimo; si tratta
di una logica che svuota la corporeità umana concreta e adopera una concezione
astratta dell’umano (il che rende possibile legami con tutte le forme di culto
dell’uomo astratto nel cristianesimo); una rilettura della storia del feticismo
ci permette di penetrare nelle inversioni spirituali che sostengono lo svuotamento
dei legami corporali fra gli uomini; solo dopo che si sia portato alla luce il
carattere necrofilo e di antivita del sistema, diventa possibile ricostituire
il nucleo di riferimento: la produzione sociale della vita umana reale e
concreta, come ultima istanza e fonte di criteri di decisione sul piano
economico e politico.”[24]
È
sistematicamente su queste inversioni che si radicano i salti trascendentali
nel pensiero neoconservatore e negli economisti neoliberali come Hayek e
Friedman, ma anche, sostiene l’autore, nel pensiero anarchico e nell’ortodossia
sovietica di taglio stalinista.
L’intera
impresa dell’economia classica e neoclassica (e neoliberale) alla fine è
questo: “la naturalizzazione della storia. Fare apparire come naturale (natura)
quello che è prodotto storico dell’azione umana (storia).”[25]
Come
sottolinea Assmann la cosa può anche essere semplificata in questo modo: per
liberarsi dell’impostazione neoclassica bisogna recuperare la nozione che fra
tutte le decisioni dei consumatori o dei produttori sono praticabili solo
quelle che non distruggono la riproduzione del processo e della vita umana. La stessa
riproduzione della vita umana che è l’ultima istanza della libertà[26]. Cosa che è chiaramente
letta come una versione dell’identità dell’amore per Dio con l’amore per il
prossimo che caratterizza il cristianesimo.
Al
contrario la religione economica neoliberale, mostrandosi come idolatra,
rovescia questa posizione e identifica come mezzo per fare del bene ai propri
simili un diverso “paradigma articolante”. O, in altre parole, annuncia
un altro vangelo. In effetti tutte le teorie economiche dominanti sono “una specie
di danza in circolo attorno a un paradigma articolante, i cui presupposti sono
raramente enunciati e praticamente mai analizzati nelle loro implicazioni. Il pensiero
economico borghese opera con ridefinizioni molto serie e molto profonde della natura
degli esseri umani e dei modi di relazione interumani più e promettenti per
creare la felicità. Solo che tale credo metafisico e religioso non traspare con
chiarezza nell’apparato strumentale delle teorie economiche”[27].
Questo
“paradigma articolante” si forma all’alba della modernità stessa, quando
i limiti del mondo esplodono trascinando con sé le vecchie fonti di senso[28] e fanno da sfondo alla
traduzione in chiave economica del comandamento dell’amore. La potente
accumulazione e lo sfaldamento della vecchia società non trova una risposta
teologica adeguata. Si apre, cioè, un vuoto.
Un
vuoto che viene colmato da un “effettivo magistero teologico del pensiero
economico”. Identificano in qualche modo questo passaggio sia Max Weber[29], che propone niente di
meno che una versione funzionale del sentimento religioso pietista, e
Schumpeter, che loda gli sforzi della scolastica nel secondare il capitalismo
mercantile e liberarlo in qualche modo da preoccupazioni morali non più
adeguate. La cosa avviene in più passaggi: all’inizio si comincia a rifiutare
le antropologie essenzialiste e moralizzanti che parlano dell’uomo “come
dovrebbe essere”, in favore di concezioni dell’uomo “come è”. I passaggi citati
sono Machiavelli e Hobbes, o lo stesso Spinoza o Vico[30]. In questo clima
intellettuale Giovanbattista Vico ci parla della “scoperta”:
“dalla ferocia, dall’avarizia e dall’ambizione
– i tre vizi che hanno portato tanti uomini alla perdizione – la società forma
la difesa nazionale, il commercio e la politica, e così produce la forza, la
ricchezza e la saggezza delle repubbliche; da quei tre vizi che sicuramente
finirebbero per distruggere l’uomo sulla terra, la società fa sorgere, in tal
modo la felicità civile. Questo principio prova l’esistenza della Divina
Provvidenza; per opera delle sue leggi intelligenti, le passioni degli uomini
interamente occupati nella ricerca del proprio vantaggio privato sono
trasformate in un ordine civile che permette agli uomini di vivere in una
società umana”[31].
Ma
bisogna ricordare anche il best seller di questa letteratura per buona parte
del XVIII secolo, la “Favola delle api”[32] di Bernard de Mandeville.
Per lui bisogna “abbandonare le vane utopie sociali radicate nel cervello”, le
virtù basate sull’autonegazione, in favore della manipolazione politica dei
vizi.
“Ciò che in questo
mondo chiamiamo male […] è il grande principio che ci rende creature sociali,
la base solida, la vita e il sostegno di tutti i commerci e gli impieghi senza
eccezione”.
Con
un altro piccolo slittamento alla fine prende il centro della scena (in effetti
contro la Ragione della rivoluzione francese, il grande scandalo che muove il
secolo) la “razionalità economica”. Ovvero una razionalità degli individui in
quanto attori della scena economica. Una razionalità che sarà quindi attribuita
all’homo oeconomicus, ovvero al consumatore. È l’interesse che governa il
mondo.
È
questa, dunque, la funzione articolante: l’interesse privato. Adam Smith
lo impianta nel nocciolo stesso di una concezione ben precisa e determinata
dell’economia. Diventa ora “libera iniziativa”, “libera concorrenza”, “libero
mercato”. Insomma, “la razionalità economica su insedia nel seno della ‘libertà’”.
E “profitto” diventa per la prima volta un termine del tutto pulito, in quanto
legato al regno della libera creatività. Di qui passa il bene di tutti.
La
“’via migliore’ viene progettata, insomma, per un mondo ‘realista’. Dove gli
uomini non sono perfetti ma al contrario, essendo peccatori, tengono conto di
questa loro condizione per fare di essa la propria ‘incarnazione’ dell’amore possibile”.
Altro non sarebbe realistico.
Insomma:
“L’iniziativa economica degli
individui, come tutte le altre forme di iniziativa e di partecipazione, è parte
essenziale di una piena valorizzazione del soggetto umano. Quel che è accaduto
però con l’insediamento del paradigma economico borghese è stato un
riduzionismo escludente: la riduzione dell’iniziativa economica all’iniziativa
privata di quelli che già sono proprietari, con il conseguente impedimento dell’iniziativa
economica, o dell’accesso ad essa, di tutti gli altri. Questa sinonimia
perfetta tra iniziativa economica e iniziativa privata, con l’esclusione di
ogni interferenza proveniente da criteri sociali che oltrepassino il mero
interesse privato di individui, è il nucleo duro del paradigma istituito
a partire dalla totale identificazione della libertà con l’interesse personale.
Vie è stata una ridefinizione totale del soggetto umano e della sua libertà. Questa
ridefinizione ha chiaramente un carattere riduzionista ed escludente. […] l’accento,
quindi, non è posto tanto sull’accettazione di interessi particolari –
difendibili nella misura in cui riguardano l’identità dell’individuo nel
contesto sociale – quanto sul dogma della natura benefica, universale, dell’interesse
di un numero limitato di proprietari. Il vangelo della carità è rimasto
totalmente affidato alla passione dell’interesse individuale. Deriva da qui la
possibilità di proclamare, nel modo più enfatico, una mistica del servizio al
prossimo incorporata nelle peggiori forme di dominazione e di sfruttamento”[33].
Naturalmente
questa logica si appoggia strettamente ad alcune promesse. Tra queste quella
centrale è che il pieno appoggio all’interesse individuale genera la crescita
più rapida e quindi produce la maggiore ricchezza. Ma con un singolare slittamento
la promessa di maggiore efficienza produttivistica totale slitta nella promessa
(che, altrimenti, la prima resterebbe vuota) di efficienza sociale. La “torta
cresce”, poi si distribuirà a beneficio di tutti[34].
Scrive
Smith:
“è così che gli interessi privati e
le passioni degli individui inducono naturalmente a usare le loro
risorse verso impieghi che, salvo eccezioni, sono i più vantaggiosi per la
società. Però, se a causa di tale preferenza naturale essi dovessero
indirizzare verso tali impieghi gran parte delle risorse, la caduta del
profitto in questi settori e l’aumento del profitto in tutti gli altri ci
disporrebbero immediatamente ad alterare quella distribuzione difettosa, senza
alcun intervento della legge. Dunque, gli interessi privati e le passioni degli
uomini ci portano naturalmente a dividere e a distribuire l’insieme delle
risorse di ogni società fra tutte le diverse imprese che in essa esistono, e
per quanto possibile nella proporzione che è più favorevole all’interesse di
tutta la società”[35].
Altra
promessa, di poco successiva, è che tale ancoraggio all’interesse privato è la
migliore garanzia di una società democratica. Anzi coincide con essa.
Con
l’utilitarismo di John Stuart Mill e seguaci, la cosa assume anche un altro
significato. La “industry” (essere industrioso, intraprendente, diligente)
consente di godere dei relativi vantaggi senza alcuno scrupolo. Convinti di
irradiare felicità nel mondo.
In
questi meccanismi c’è per gli autori una vera e propria teoria sacrificale
nella teoria economica neoclassica. Il sacrificio dei lavoratori vale solo in
quanto è necessario per produrre. Il resto è solo una teoria ‘edonistica’ del
valore, centrata sul ‘piacere’ e al quale interessa solo l’affermazione della ‘vita’
(individuale ed isolata).
L’intera
espulsione dalla teoria economica dei “valori”, per ancorarsi ad una “razionalità
economica” depurata, deriva da questa profonda inclusione surrettizia di
criteri valutativi di valore che, però, sono considerati “naturali” e in quanto
tali autovalidanti. Anche quando, di rado, sono riconosciuti come “valori” restano
schermati con una mossa molto sottile: “sono il risultato dell’azione umana,
senza essere frutto della concezione umana” (Hayek). Sono, in altre parole, “razionali”
e quindi possono essere fondati scientificamente in quanto radicati nella
natura umana stessa e da essa provenienti.
Non
riconoscere i valori naturali, ma voler andare oltre essi, sospendendoli, significa
quindi essere “costruttivisti” (ancora Hayek) ed essere preda di una sorta di
superbia, di orgoglio, di eccesso e di hybris. Di più, farlo è anche illusorio.
“La rappresentazione dell’uomo come
un essere che, grazie alla sua ragione, si possa elevare al di sopra dei valori
della civiltà per giudicarli dal di fuori, o da un punto di vista più elevato,
è solo un’illusione. In tal modo è possibile dimostrare che l’accettazione di
valori che non si presentano come mete coscientemente perseguite dagli
individui o da gruppo, è il vero fondamento dell’ordine reale, la cui esistenza
noi presupponiamo in tutti i nostri sforzi individuali”[36].
Anche
la rilettura di Marx, per Assmann, avvalora quest’interpretazione. Nella sua
critica viene messo in luce il carattere dinamico delle categorie feticizzanti
del pensiero economico: il capitalismo è un regno di divinità attive dinamiche
in continuo progresso. La caratteristica fondamentale dello stesso è la “cattiva
infinità”, l’illimitatezza e l’inversione del precetto dell’amore per il
prossimo. In questa teoria, fatta da proprietari per proprietari, i poveri
diventano superbi ed invidiosi mentre i ricchi, i possidenti che però si
sottopongono all’illimitatezza del capitalismo, diventano umili servitori del
bene comune. I vizi privati diventano pubbliche virtù, mentre le virtù
pubbliche sono vizio.
In
definitiva l’insieme dei dogmi connessi con il “libero mercato” sono per i
neoliberali il codice stesso della crescita. E in esso, quindi nel mercato, è
presente un destino superiore al quale tutti i destini individuali devono
adattarsi, al prezzo di qualunque sacrificio. Questo è il nucleo sacrificale
del capitalismo.
Naturalmente
per la teoria liberale neoclassica “libero mercato” non significa esistenza di
singoli mercati, incorporati in sistemi di norme, compatibilità sociali e
condizioni attivanti ed inibenti. Questi ci sono sempre stati ed è giusto
restino sempre. No, si tratta di un vero e proprio, ed esteso ad ogni dimensione,
in linea di principio illimitato, “sistema di mercato” unico. Un sistema di
mercato verso il quale è coltivata accuratamente una fede illimitata.
Chiaramente
ciò è in relazione esattamente inversa con la rilevanza delle questioni sociali
e distributive. Ci pensa sempre il mercato, e per ogni cosa. Si tratta di un
vero e proprio “comandamento”. Quello della “accettazione serena della nostra ignoranza”.
Chi cerca di sapere, e peggio di agire, in materia sociale in realtà non ha
capito nulla. Non ha compreso cosa sia l’economia di mercato, e quindi non ne
coglie il carattere universalmente benefico. Si può dire in altro modo: “in un
mondo nel quale ogni certezza è una farsa, l’unica via di uscita è confidare
nel mercato”. Insomma, si tratta di forme estreme di irrazionalismo e di
agnosticismo sociale, ricoperte di una fede religiosa in un meccanismo
sovrapersonale e trascendente. Questa forma di fondamentalismo deriva
direttamente dal vuoto di certezze. Noi non potremmo conoscere nulla, e quindi
saremmo senza possibilità di azione razionale, se non fosse per l’anonimo
meccanismo dei prezzi. Si tratta di un’idea consolante. In questo modo abbiamo
nuovamente una funzione orientatrice, ma è sottratta alle influenze della politica
(e dunque al rischio che la massa, vera novità del primo novecento, la
sottragga al controllo).
Ma
c’è qualcosa di più. In Hayek, uno degli apostoli più coerenti, non potremmo
conoscere, letteralmente, niente se non fosse per il mercato che ci
istruisce. Dobbiamo dunque assumere un atteggiamento umile, di discepoli
del mercato. La funzione del mercato è di generare e fornire, al contempo,
informazione; si tratta di un miracoloso processo che mette in moto le
conoscenze, non le aggrega (non è un computer che segue un programma e
calcola). È una sorta di educatore di discepoli che praticano molto attivamente
l’arte di “stare all’erta” per captare i messaggi emessi dai meccanismi di
mercato. Questi discepoli sono gli imprenditori. Il mercato è una dinamica di mobilitazione
sociale di conoscenze (tramite il meccanismo dei prezzi) nella quale i chierici
sono gli imprenditori.
Siamo in società ipercomplesse di miliardi di persone. Dunque è il
mercato per Hayek che “è stata la grande forza che ha dato vita all’umanità” e
quindi è anche l’unico modo di serbarlo in vita.
“Se si vuole mantenere viva la
popolazione mondiale e darle una possibilità di perfezionare in futuro il suo
modo di vivere, si devono adottare i metodi di mercato, dato che è l’unico modo
che l’uomo conosce per mezzo del quale può essere utilizzata quell’infinità di
informazioni specifiche, esistenti appena in forma dispersa in mezzo a questi
milioni di persone, e che possiamo utilizzare in pieno solo se alimentate nel
sistema di mercato” [37].
Naturalmente
al centro di questa funzione di salvezza del genere umano, e quindi degno della
massima protezione possibile, come un santo e profeta, è chi riesce a tradurre
i segnali dei prezzi in azioni coerenti. Chi non ci riesce è escluso, e deve
esserlo, in quanto in effetti minaccia niente di meno che la sopravvivenza
umana. L’imprenditore è un santo, mentre il lavoratore è giustamente escluso,
in quanto subisce, e talvolta ostacola (se si organizza) il messaggio salvifico
dei prezzi.
Vediamo
come la mette Assmann:
“ora, in una visione dove rientrano
solo agenti sommamente dinamici, non c’è più bisogno dell’equilibrio del
mercato in actu: basa un equilibrio in fieri, ossia un processo
equilibratore affermato come reale. All’improvviso, scopriamo che tutta questa bella
tesi sul mercato come processo di comunicazione di conoscenze ha i suoi veri
presupposti in una teoria della massimizzazione non più del lucro per sé
(questo verrà come conseguenza), ma del potere. La teoria del mercato di
Hayek è una singolare teoria circa la massimizzazione dell’uso del potere.
Solo che egli non la presenta così. Forse nemmeno si rende conto che, invece di
una teoria economica pura, ciò che egli ha celebrato è una teoria politica
sulla massimizzazione dei poteri impositivi e della forza di pressione – un concetto
molto peculiare della concorrenza – degli imprenditori”[38].
La
teoria formulata da Hayek non prevede la concorrenza perfetta e l’equilibrio
generale. Rispetto alla prima generazione dei Walras, Jevons e Menger, ma anche
alla seconda di Marshall, qui c’è uno scarto. L’economia non è in costante
equilibrio, ma in costante movimento verso questo se c’è competizione orientata
alla dinamica dei prezzi. Per cui i monopoli sono ben accetti, se non sono
creati deliberatamente per via politica, ma nella misura in cui derivano la
loro forza dal mercato. In altre parole, vanno bene tutti i monopoli meno
quelli dei lavoratori. L’essenza del mercato è la competizione, che resterebbe
tale anche se le imprese del mondo fossero solo due, dunque il mercato di Hayek
ha una sorta di anima guerriera, non incoerentemente l’economista austriaco
fornì esplicito appoggio al fascismo sudamericano (a partire dal Cile)[39].
È
nel complesso di questi significati che i teologi della liberazione qualificano
la fiducia fanatica nel mercato come una forma di “idolatria”. Nel duplice
senso che si aderisce a falsi dei (idoli) e che si partecipa a processi oppressivi
che hanno dirette risonanze sul piano socioeconomico. Una idolatria del mercato
è moderna, collegandosi con il vasto processo di secolarizzazione, e figlia
dell’irrazionalismo post-moderno ad un tempo. Essa si afferma come
riformulazione globale delle ‘devozioni religiose’ immesse e tradotte in un
sistema socioeconomico che ha bisogno e pretende di legittimarsi in nome della scientificità.
In essa sopravvivono frammenti primitivi di totemismo e magia, ma anche nuove
forme di mitizzazione. È nel suo complesso “una religione del destino
pre-determinato”, senza avere la fissità gerarchica dell’ordine tipico delle
vecchie organizzazioni sociali. Questo è il senso nel quale Hayek sostiene che
serva, come meccanismo equilibrante necessario (come dispositivo di potenza e quindi
creatore di ordine), a conservare il livello di complessità raggiunto e
migliorarlo e quindi a serbare in vita l’umanità.
Di
fronte a questa missione (che, casualmente, prevede anche di investire dell’aura
di salvatori i potenti attuali) è chiaro che dettagli come lo stadio di
Santiago del Cile[40] sono prezzi modesti.
Il
liberalismo è, dunque, una potente reazione alle dottrine precedenti che unisce
in uno la passione per la scienza (e l’orientamento positivista di
essa), l’ideologia del progresso (e la spinta di esso all’illimitatezza),
e la fiducia nella ragione (ma incarnata nel mercato, e quindi
trasfigurata). Ne fanno parte specifici meccanismi che lo convertono in un processo
vittimizzante. Ma, a guardare bene, tutte queste dimensioni sono sempre
presenti come Giano bifronte. Ogni elemento si sdoppia in due facce: il
predominio inesorabile e vorace del profitto promette evangelicamente felicità
e piacere. Un sacrificalismo spietato che si traveste da promessa di vita.
Ma
c’è di più in questa logica. E si vede benissimo dal punto di osservazione
sudamericano degli autori: il paradigma economico (in quanto idolo) non tollera
trasgressioni, quindi “i difensori del mercato illimitato ricercheranno ogni
aiuto necessario (protezionismo, intervento del denaro pubblico per salvare
imprese, sussidi all’esportazione, esenzioni fiscali e, se necessario, golpe
militare), per ristabilire il mercato e la ‘libertà’”. Tutto è illimitato in
questo sistema: l’interesse, il capitale, l’autovalorizzazione del suo “lavoro”.
In questo modo viene annullata la finitezza delle cose, la loro contingenza e ne
viene distrutta la realtà. Tutto entra nel meccanismo valorizzante solo
cessando come unità di valore in sé (o ‘valore d’uso’).
Il
capitalismo è perciò, in un senso molto profondo, una religione della vita
quotidiana, come scrisse Marx. Tutti coloro che sono immersi in esso devono
partecipare al processo di feticizzazione necessaria, in relazioni astratte,
facendo calcoli astratti, soppesando vantaggi e costi sotto la metrica che
tutto confronta e tutto annulla del valore di mercato.
Questa
è la natura della trappola nella quale siamo prigionieri (alcuni felici).
[1] - Hugo Assmann, Franz
Hinkelammert, “Idolatria del mercato.
Saggio su economia e teologia”, Castelvecchi, 2020.
[2] - Biblicamente gli “idoli” sono
gli dei dell’oppressione che manipolano per i loro fini i simboli religiosi
allo scopo di alimentare delle dipendenze, di legittimarsi come fonte di
oppressione mascherata e di sostenere i poteri di fatto dominanti
nell’organizzazione della convivenza umana.
[3] - Autori come Walras, Jevons,
Menger, che operano nei primi anni settanta dell’ottocento e le cui opere
fondative sono: W. Stanley Jevons, “Teoria
dell’economia politica”, 1871; Leon Walras, “Elementi di economia politica”, 1874;
Carl Menger, “Principi di economia politica”,
1871. La teoria neoclassica, che prende il posto di quella classica entro la
fine dell’ottocento è una risposta diretta alle teorie socialiste, in
particolare di Karl Marx. Il punto di attacco centrale è la teoria del
valore-lavoro (Smith, Ricardo, e Marx) sostituito dalla teoria dell’utilità
marginale. Per essa ognuno è sempre pagato per il contributo marginale che
fornisce alla produzione, eliminando in radice (essenzialmente con un cambio di
punto di vista dalla produzione alla circolazione) il concetto di sfruttamento
e quindi una delle radici più forti della critica. Resta in piedi, comunque, la
critica alla reificazione e al feticismo, che è anche il punto centrale del
testo che si sta leggendo. Le altre due mosse fondative dell’approccio
neoclassico, successivamente sistematizzato da Marshall, sono il rifiuto di
ogni argomentazione politica o morale (e quindi il concetto di scientificità
che ne promana), e il rifiuto di considerare la società divisa in classi in
favore di un punto di vista individualista.
[4] - Basti pensare alla costruzione
della teoria di Adam Smith, su cui il libro torna a più riprese.
[5] - La “Teologia della liberazione”
prende le mosse dal Concilio Vaticano II, e trae ispirazione, calandola nella
condizione concreta dello sfruttamento, dal tentativo di Giovanni XXIII di aggiornare
il pensiero della chiesa nel mondo moderno, intorno al senso della giustizia e
dell’amore, e come scrive in “Pacem in terris”, del riconoscimento ad ogni
essere umano della dignità di “persona” (cioè “natura dotata di intelligenza e
volontà”) che ha “Il diritto all’esistenza e a un tenore di vita dignitoso
(alimentazione, vestiario, abitazione, riposo, cure mediche, servizi sociali
necessari)”, alla libertà, alla famiglia, al lavoro (una retribuzione
sufficiente a permettere al lavoratore e alla sua famiglia un tenore di vita
conforme alla dignità umana), e doveri, tra i quali “il compito di ricomporre i
rapporti della convivenza nella verità, nella giustizia, nell’amore, nella
libertà … È un imperativo del dovere; è un’esigenza dell’amore. Ogni credente,
in questo nostro mondo, deve essere una scintilla di luce, un centro di amore,
un fermento vivificatore nella massa: e tanto più lo sarà quanto più, nella
intimità di se stessa, vive in comunione con Dio”. La “Gaudium e spes” riprende
questi elementi indicando (66) l’obbligo di impegnarsi con ogni sforzo perché “siano
rimosse il più rapidamente possibile le ingenti disparità economiche che
portano con sé discriminazioni nei diritti individuali e nelle condizioni
sociali quali oggi si verificano e spesso si aggravano”. Subito dopo alcuni
vescovi e teologi firmarono il “Patto delle catacombe”, che elencava 13 punti
per porre in attuazione questi principi. In America Latina questo impulso fu
particolarmente forte, grazie alla base data dal movimento anni cinquanta
brasiliano delle “comunità di base”, intorno alla figura di Carlos Mesters e la
Celam (Conferenza episcopale latino-americana). La Celam organizzò a Medellin
un congresso per tradurre le indicazioni conciliari in America Latina. Il tema
principale fu che era la dipendenza economica, e la povertà che ne derivava, a
contrastare con la volontà di Dio, per cui è la liberazione da questa a dover
interessare la chiesa. Ne seguiva il dovere di “difendere, secondo il mandato
evangelico, i diritti dei poveri e degli oppressi”, e, quindi, “denunciare
energicamente gli abusi e le ingiuste conseguenze delle eccessive
disuguaglianze tra ricchi e poveri, tra potenti e deboli” (relazione del vescovo
Pironio). La “Teologia della Liberazione” si sviluppa da questo impulso negli
anni sessanta, mettendosi in connessione con la “Teoria della dipendenza”,
neomarxista. Dall’altra parte, nell’insegnamento di Gustavo Gutierrez, il cui testo
capitale è “Teologia della liberazione. Prospettive”, del 1971, la
salvezza viene calata dentro la condizione concreta di povertà e miseria dei
poveri e quindi tradotta in un appello di giustizia. Come scrive nel suo libro:
“Da una prospettiva di fede ciò che, in ultima analisi, spinge i cristiani a
partecipare alla liberazione dei popoli oppressi e delle classi sociali
sfruttate, è il convincimento della totale incompatibilità delle esigenze
evangeliche con una società ingiusta e alienante” (p.124). Seguono questa linea
i fratelli Boff, Jon Sobrino, Enrique Dussel, e, appunto, Hugo Assmann. Durante
gli ultimi anni settanta e gli anni ottanta la Teologia della Liberazione pagò
un durissimo debito di sangue per la sua scelta di campo, con l’uccisione di tanti
gesuiti, come padre Espinal Camps (“Lucho”) in Bolivia, ucciso il 21 marzo
1980, tre giorni prima di Romero in Salvador. Ma dovette subire anche la
repressione incruenta della gerarchia cattolica, che partendo dalla Congregazione
della Fede coordinata da Ratzinger, mise sotto accusa l’intera tendenza,
destituendo padre Arrupe (superiore generale della Compagnia di Gesù) e sostituendo
molti vescovi con esponenti dell’Opus dei. Cfr, https://books.fbk.eu/media/pubblicazioni/allegati/Rizzi_10.14598Annali_studi_relig_14201304.pdf
[6] - Assman, cit., p.25.
[7] - Cit., p. 30
[8] - Oscar Romero viene ucciso il 24
marzo 1980 nella capitale del San Salvador con un colpo di fucile da parte di
un cecchino in auto. Eletto nel 1977 grazie all’appoggio dell’oligarchia locale,
cambia progressivamente opinione grazie al contatto di teologi della
liberazione come Rutilio Grande. Il 12 marzo 1977 padre Rutilio viene assassinato
insieme a due catecumeni e l’arcivescovo inizia una battaglia che porterà a continue
stragi per vendetta e intimidazione. Ad Aguillares furono uccisi 200 fedeli, e
sempre più collaboratori di Romero ne seguirono le sorti. Alla fine, il maggiore
Roberto D’Aubisson ordinò la sua stessa morte. Venti giorni prima in un
discorso alla radio diocesana disse: “Il martirio è una grazia di Dio che
non credo di meritare, ma se Dio accetta il sacrificio della mia vita che il
mio sangue sia un seme di libertà e il segno che la speranza sarà presto
realtà… Io parlo in prima persona perché questa settimana mi è arrivato un
avviso che sto nella lista di coloro che stanno per essere eliminati la
prossima settimana. Ma rimanga il punto fermo che la voce della giustizia
nessuno mai potrà ammazzarla.” Aveva 63 anni.
[9] - Il gesuita Rutilio Grande,
grande amico di Oscar Romero, viene ucciso il 12 marzo 1977 ad Aguilares. Nato da
una famiglia povera e parroco di Aguillares, dal 1973 si impegna a creare
Comunità Cristiane di Base nelle quali il messaggio religioso viene associato
strettamente ad una inflessibile denuncia delle condizioni di sfruttamento
economico e sociale. Ancorato alla “Teologia della Liberazione” si impegnò
anche per far entrare il suo amico Romero in contatto con le reali condizioni
del paese e del suo popolo. D’Aubisson ne ordinò la morte per mettere a tacere
la sua voce, ma riuscì solo ad amplificarla. Al suo funerale parteciparono
100.000 persone. Aveva 49 anni.
[10] - L’avvocato Marianella Garcia Villas
viene uccisa il 14 marzo 1983 a Suchitoto. Era una figlia della ricca borghesia
locale, laureata in legge e filosofia nel 1970 si impegnò sin dall’inizio con
le comunità contadine salvadoregne, condividendone la dura vita e impegnandosi
nell’Azione Cattolica Universitaria prima poi nel Partito democratico Cristiano
dal quale fu presto emarginata ed espulsa. Fuggita dal Salvador e rifugiata in Messico
(come tanti in quegli anni) continua ad entrare nel paese per cercare prove
delle repressioni e denunciarle all’Onu. Nel corso di una di queste incursioni,
mentre nel 1983 cercava prove dell’utilizzo del fosforo bianco nelle
repressioni della giunta militare, pura sapendo di essere in testa alla lista
delle persone da uccidere (D’Aubisson l’aveva mostrata in televisione con tanto
di foto), fu oggetto di un agguato, ferita, catturata, selvaggiamente torturata
e abbandonata in una discarica in un cumulo di cadaveri. Aveva 39 anni.
[11] - Il libro è certamente
antecedente al crollo finale dell’Unione Sovietica, dato che la nomina costantemente,
ma dai rimandi e dalla bibliografia si deve collocare dopo il 1989. Presumibilmente
è stato scritto tra il 1989 ed il 1990.
[12]
- Jerry Falwell, che è morto
nel 2007, è stato un pastore battista, del sud, televangelista di grandissimo
successo. Nato da una famiglia benestante che aveva fatto fortuna distribuendo
alcolici nel protezionismo, fonda la Liberty University che è uno dei principali
punti di riferimento dell’estrema destra cristiana americana. La sua
associazione, la Moral Majority sostenne efficacemente, mobilitando la rete
delle congregazioni fondamentaliste della Bible Belt, la candidatura di Ronald
Reagan.
[13]
- Una “danza di divinità” è
il modo attraverso il quale si rende omaggio all’idolo al contempo manipolando
i destini umani.
[14] - Joan Robinson, “Filosofia
economica”, 1979 ed. spagnola.
[15] - John Kenneth Galbraith, “Economics
in perspective”, 1987 (ed it. 1990).
[17] - R. Heilbroner, “Business Civilization in decline”, 1976.
[18] - George Gilder “Ricchezza e povertà”,
Harvard, 1988.
[19] - Albert Hirschman, “Le
passioni e gli interessi”, 1975.
[20] - Assmann, cit., p. 43.
[21] - Cit in. Assmann, cit., p. 44
[22] - Assmann, cit., p. 53.
[23] - Karl Marx, “Il capitale”,
Libro I, cap. I, sezione IV.
[24] - Assmann, cit., p.74
[25] - Assmann, cit., p. 82
[26] - Gli esseri umani non possono
essere liberi da soli, ma lo diventano solo entro relazioni sociali che li
rendano tali, cioè entro una “libertà sociale” che va costruita e difesa. Non
si tratta solo di realizzare un sistema distributivo più giusto, ma anche ed
insieme di creare le condizioni di una nuova forma di vita comunitaria.
Consapevole della nostra comune compresenza. Una forma in cui la “libertà” sia
determinante sia sul piano dell’individuo, che si orienta verso la comunità per
la soddisfazione delle sue finalità (in primis quella di base della propria
sicurezza), sia su quello della comunità stessa, che è una creazione
consensuale della “fratellanza”, ovvero della “simpatia” reciproca (termine
presente nei moralisti settecenteschi, in particolare scozzesi e
successivamente distorto ed eroso proprio dal legame sociale perverso istituito
dall’economico). La cosa è abbastanza semplice da capire: noi stessi usiamo
spesso il termine comunità, intendendo una condivisione di finalità ed un senso
di comunanza e reciproca simpatia (che si manifesta automaticamente, ad
esempio, quando due connazionali si incontrano in un paese estero non
familiare) che porta ad un certo grado di disponibilità a farsi carico dei
bisogni dell’altro, ovvero un certo grado di essere-sé nell’altro
(secondo una fulminante formula di Hegel) sia pure nel quadro di unità anonime.
[27] - Assmann, p. 133.
[28] - L’autore richiama la
straordinaria analisi di Alexander Koyrè, in particolare in “Dal mondo
chiuso all’universo infinito”, della rivoluzione scientifica seicentesca
nel percorso da Keplero e Copernico, via Galileo, fino a Newton. Da questo
passo alla creazione dell’ideologia del progresso nel 1700 e alla formazione
del primo capitalismo, quando il denaro inizia a “lavorare”, è un continuo
sviluppo.
[29] - Max Weber,
[30] - La descrizione è in parte
ripresa da Alfred Hischmann, “Le passioni e gli interessi”,
[31] - Vico, cit. in Assamann, p.141
[32] - Bernard de Mandeville, “La
favola delle api”, 1705.
[33] - Assmann, cit., p. 149-50.
[34]
- Questo è di gran lungo l’argomento
più tipico che si ripete, in molte forme diverse, per sostenere l’economia
esclusivamente regolata dal mercato. Alla fine bisogna crescere per poter
distribuire; è vero che ci sono poveri, ma sono meno poveri di altri fuori del
mercato; il più povero oggi è più ricco di un benestante medioevale; e via
dicendo…
[35] - Adam Smith, “La ricchezza
delle nazioni”, p.594
[36] - Hayek, citato in Assmann, p.160.
[37] - Hayek, cit. Aussmann, p.228.
[38] - Assmann, cit., p.230.
[39]
- In una intervista
rilasciata al quotidiano cileno El mercurio, il 19 aprile 1981 (il
generale Augusto Pinochet resta al potere dal golpe dell’11 settembre 1973 al
11 marzo 1990), rispondendo all’intervistatore che gli ricordava la sua
affermazione sulle dittature che possono essere più liberali di una ‘democrazia
totalitaria’, disse: “è evidente che le dittature pongono gravi pericoli. Ma una
dittatura può limitare se stessa, e se autolimitata può essere più liberale
nelle sue politiche di un’assemblea che non conosce limiti. […] in un dato
momento potrebbe essere l’unica speranza, la migliore soluzione nonostante
tutto. […] la democrazia ha un compito che io chiamo ‘igienico’ per il fatto
che assicura che le procedure siano condotte in un modo, appunto,
idraulico-sanitario. Non è un fine in sé. Si tratta di una norma procedurale il
cui scopo è quello di promuovere la libertà. Ma non può assolutamente essere
messa sullo stesso piano della libertà. La libertà necessita di democrazia, ma
preferirei temporaneamente sacrificare, ripeto temporaneamente, la democrazia,
prima di dover stare senza libertà, anche temporaneamente.” Cfr. Philip
Mirowski, “The road from Mont Pelerin: the
making of the neoliberal thought collective”, Harvard University Press,
2009.
[40] - Nello Stadio i militari di Pinochet
segregarono, torturarono e fucilarono gli attivisti di Allende e dei movimenti
di base cattolici e socialisti (o comunisti) nelle prime settimane del golpe
dell’11 settembre 1973.
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