Il 26 settembre 1940, Walter Benjamin che aveva compiuto
da poco i suoi quarantotto anni, si uccise alla frontiera spagnola per il
timore di cadere, lui ebreo, nelle mani della polizia politica nazista. La Francia
era caduta e il filosofo tedesco, come molti altri, cercava di riparare negli
Stati Uniti. Theodor W. Adorno e Max Horkheimer vi riuscirono, ma lui, che
degli amici e colleghi francofortesi era il più anziano, se pur di poco, no.
Il frammento[1] di
cui vorremmo per lo più parlare è del 1921, ed è forse parte di un progetto più
ampio di “politica” che venti anni dopo non ha ancora compiuto e la morte
impedirà. Anche gli anni nei quali è scritto sono anni tragici e violenti (alla
violenza sono intestati alcuni altri frammenti dell’opera mai nata), la Prima
guerra mondiale, questo conflitto senza precedenti che ha frantumato il senso
dell’Europa, è terminata solo da pochissimi anni, ma anche i tre brevi anni di
pace sono stati, per chi vive in Germania una continua tragedia. Dal 1918 al
1919 fu in corso una continua guerra civile a bassa intensità tra le forze che
si contendevano il potere: le destre che poi troveranno sbocco nel nazismo, le
sinistre divise sull’onda dell’esempio della rivoluzione russa. Dal 1919 è
attiva la Repubblica di Weimar, che fatica a stabilizzarsi. Nel 1921
vengono costituite le Sturmabteilung (SA).
Ma non c’è solo il tempo, in questo scritto. C’è anche
la dinamica del pensiero, nell’inseguirsi dei testi e delle controversie. Si
tratta di un tema che, infatti, è molto presente nella riflessione critica sul
capitalismo. Nel 1904 Max Weber aveva scritto “L’Etica protestante e lo spirito del capitalismo”[2],
nel 1902 Werner Sombart aveva pubblicato “Il
capitalismo moderno”[3],
nel quale il termine stesso è presentato. L’avvio con questo doppio testo della
scuola storica tedesca è citato[4] da
Benjamin nell’avvio del suo frammento. Ma il tema centrale, quello
dell’illimitatezza del desiderio disperato che la “forma di vita” del
capitalismo introduce nel mondo, rinvia alla riflessione sulle radici che in
quegli stessi anni Sombart inquadra. Il sociologo tedesco distingue tra
“mentalità economica precapitalistica” come “erogazione”, equilibrio tra quel che si spende e quel che si
ottiene nella produzione di beni necessari all’uomo “vivo”, e “capitalismo”, che è una “organizzazione
economica di scambio” caratterizzata da una nuova collaborazione dominata dal
principio del profitto e dal razionalismo economico. Ovvero dominata dal “calcolo”.
Ancora nella classica lettura di Sombart, ripresa
infinite volte, l’uomo nella cultura tradizionale è invece sotto determinato,
incorporato, in una rete sociale di ruoli e dominato
dall’idea “che il tenore di vita debba essere conforme al proprio ceto
sociale”. Ovvero debba essere conforme ai propri doveri. “Lusso” e “nutrimento”
sono le coppie di forme sociali che Sombart individua, l’uomo non ha sempre
lavorato per il profitto, non lo ha fatto per diventare “ricco”. Anche il
“lusso” si capisce male con le categorie contemporanee, su questo Mauss, con la
sua descrizione del “potlatc” aiuta[6] in
un altro testo che esce in quel torno di anni. Il “lusso” è in effetti una
relazione sociale, un dovere ed una responsabilità verso dio e gli uomini.
Verso la fine Benjamin dirà che il capitalismo non ha vie di uscita, nessuna
via “comunitaria” è possibile, resta solo l’“individuale-materiale”.
Lo stesso concetto di “economia” è radicalmente
diverso nel mondo tradizionale, come quello di denaro[7].
Lo scriverà bene Mauss, si vive dentro le proprie creazioni; l’uomo non
è separato dalle sue azioni, non lo è dalle sue
cose (c’è in realtà un legame nelle due direzioni, delle “cose”), ed anche
quindi il “lavoro” (concetto eminentemente capitalista) non è mai separabile
dal legame sociale, dai ranghi, dai ruoli, dai vincoli, dalle responsabilità,
dai doveri, dagli amori. Quando si lavora si dona se stessi, si esercita e si
viene esercitati da una lealtà.
Ricorda Luigino Bruni, rileggendo Antonio Genovesi[8],
che ciò che può essere solo donato (il proprio tempo, ovvero la propria
vita) richiede reciprocità. Pretende riconoscimento e rispetto, pretende cioè
riconoscenza. “Incentivi” e tanto meno “controlli” non possono
ottenerla. L’uomo, davvero, non lavora per il denaro. Questa semplicissima
verità era chiara ancora nel XVIII secolo, anche agli scozzesi, ma oggi non è
più capita (anche quando è enunciata). La nostra religione non ce lo
consente più.
Su questa linea si incontrano quindi anche le
riflessioni, coeve di Marcel Mauss sull’economia del dono e di Gyorg Lukacs sulla
reificazione[9], entrambe pubblicate nel
1923.
Dunque, come bene dirà una ventina di anni dopo Polanyi
ne “La grande trasformazione”[10], testo
di poco successivo alla tragica morte di Benjamin, parlando della rivoluzione
industriale: “separare il lavoro dalle altre attività della vita ed
assoggettarlo alle leggi del mercato significa annullare tutte le forme
organiche”[11], ovvero estrarre
parte della vita dalle relazioni sociali, dalle strutture “totali”, per
distillare un elemento, attraverso lo strumento del “contratto” e la sua
particolare “libertà”[12].
Rispetto a queste notazioni, tutte di critici, Max
Weber all’epoca amico di Sombart prende una linea meno netta, qualificando
l’attività di lucro come un insieme di atteggiamenti e tecniche, di
orientamenti basati sul calcolo continuo, ma su quello che chiama “un agire
sobrio, riflessivo, costante, ma anche audace”[13].
Dove il socialista Sombart evidenzia anche lo spirito di rapina, l’aggressività
illimitata, l’irrazionalismo (come farà, appunto, Benjamin), il momento
selvaggio, Weber sottolinea l’ambivalenza, ma è affascinato dagli esiti.
Inoltre, pone (sulla base di una limitata ricerca empirica) una relazione tra
insorgere del capitalismo e spirito protestante, luterano e calvinista. La
pulsione a connettere tempo e denaro (Benjamin Franklin, citato a p.76) è
trasmettere a questo la natura “feconda e fruttuosa” del tempo, purché si
rispetti l’ethos della “diligenza e moderazione”. L’irrazionale, ma leale e
degno, “guadagnare denaro, sempre più
denaro, alla condizione di evitare rigorosamente ogni piacere spontaneo” (Franklin[14]),
è davvero spoglio da ogni considerazione eudemonistica o edonistica; si tratta
di un semplice e chiaro “fine a se stesso
con tanta purezza, da apparire come alcunché di totalmente trascendente, in
ogni caso, e senz’altro irrazionale, di fronte alla <felicità> o
all’<utilità> del singolo individuo”.
Il punto è che questa irrazionalità anche per Weber contiene
dei “sentimenti” connessi a “certe rappresentazioni religiose”. Lo stesso
Benjamin Franklin (che era un deista e quindi non seguiva la confessione
calvinista del padre, nella quale tuttavia era stato educato) se lo chiede, e
nell’autobiografia risponde che gli “uomini” devono “fare denaro” come
espressione dell’essere “spediti nelle proprie faccende” (un versetto della
Bibbia) e dell’abilità nella professione (“beruf”).
Deve farlo, insomma, per “dovere professionale”, un dovere verso il contenuto
della propria stessa professione, una serietà interna. Queste idee, questa
etica, questa valorizzazione del “beruf”,
del dovere non è, però, un semplice rispecchiamento, o una sovrastruttura di
condizioni economiche. Per Weber (che polemizza evidentemente con Marx, o, per
meglio dire, lo rovescia) lo precede.
Questo spirito è, nella sua ambivalenza, quello che
lega un interprete contemporaneo di Weber, come Jurgen Habermas, alla sua
sempre riaffermata fiducia (da ultimo “Verbalizzare
il sacro”[15]) nei “potenziali
spirituali” della modernità (globalizzata), pur nella contemporanea presenza di
ben viste “tendenze autodistruttive”. La mossa kantiana che ne deriva,
l’universalismo egualitaristico e individualistico al contempo, muove quindi dalla
perdita di questo “senso religioso” e quindi dallo “sganciamento degli
enunciati morali dal contesto sostanzialistico (cosmologico ed escatologico)”[16] al
quale erano connessi nel senso ricordato con Sombart e Weber. Di qui, per
conservare comunque la “coscienza normativa”, che è “struttura dello spirito”,
si viene alla unica fondazione residualmente disponibile, basata sulla
“razionalità procedurale”.
Ma si è davvero
perso questo “senso religioso”?
La scala è stata davvero gettata dopo essere “saliti” sulla piattaforma della
razionalizzazione del mondo, o piuttosto non dobbiamo concludere che l’incantesimo
ci trattiene ancora. E nella stessa mossa, inseparabile, la “razionalizzazione”
incorpora, in modo bastardo e irriconoscibile, un “senso religioso” pervertito?
Le “tendenze autodistruttive” di cui
parla Habermas (rinviandosi al dibatto dell’inizio secolo, ovvero alla
prima generazione della sua stessa scuola), sono
davvero solo un’aggiunta ai “potenziali spirituali” della modernità, o ne sono
piuttosto il codice?
Per aiutarci in queste domande andiamo al testo del
1921 di Walter Benjamin: prenderemo le citazioni dalla raccolta “Senza scopo finale. Scritti politici
(1919-1940)”, sono solo sei pagine, da p.42 a 47, ma sono intensissime.
Mentre Weber, secondo il nostro, vedeva il capitalismo come “una conformazione
determinata dalla religione” (ovvero coevoluta insieme alla trasformazione
delle sensibilità religiose), esso è per Benjamin proprio “un fenomeno essenzialmente religioso”.
Nel capitalismo, cioè, “può ravvisarsi una religione”.
Oppure, come scrive il teologo Hugo Assmann, la razionalità economica “ha
sequestrato e reso funzionale certi aspetti essenziali del cristianesimo”[17].
Ciò significa che “il capitalismo serve essenzialmente
alla soddisfazione delle medesime ansie, sofferenze, inquietudini, cui un tempo
davano risposta le cosiddette religioni”. Ma
che genere di religione è?
Per Benjamin si tratta di una “pura religione cultuale”, la più estrema. Un puro riferimento al
culto, a quello che Habermas chiama “il rito” (la ripetizione dei gesti, delle
forme, delle pratiche, denso in sé di significati trattenuti, congelati in
essi, non verbalizzati), senza avere “una teologia”. Il capitalismo in sé non
ha infatti una vera e propria dottrina, si presta ad ogni possibile vestizione.
Si veste anche di socialismo (ad un certo punto, fulmineamente, dirà). È in
effetti più il contrario: ogni dottrina che scaturisce dal culto, dal rito, ha
una sorta di “tonalità religiosa”, è una “verbalizzazione” che non conclude
l’intero campo del culto. Così ha una tonalità religiosa per Benjamin
“l’utilitarismo” (noi potremmo oggi dire il liberismo).
Secondo carattere è che si tratta di un culto “senza tregua e senza pietà”.
Ininterrotto, costante, onnipresente, che entra in ogni cellula e tutto
cattura.
Terzo, è un culto che “genera colpa” (la parola usata
è schuld, della quale il nostro
segnala “l’ambiguità demoniaca”) cioè anche “debito”. Come dice “il capitalismo è verosimilmente il primo
caso di culto che non purifica ma colpevolizza [ed indebita]. Così facendo,
tale sistema religioso precipita in un moto immane”. Cioè anche in una
“immane coscienza della colpa [del debito] che non sa purificarsi [da cui non
ci si redime], fa ricorso al culto non per espiazione in esso di questa colpa,
ma per renderla universale, per martellarla nella coscienza e infine e
soprattutto per coinvolgere dio stesso in questa colpa e interessarlo infine
all’espiazione”. Ma questa espiazione non arriva mai; infatti “sta nell’essenza
di questo movimento religioso che è il capitalismo, resistere sino alla fine,
fino alla definitiva, completa, colpevolizzazione di dio, fino al
raggiungimento dello stato di disperazione del mondo”. Fino alla “autodistruzione”
dello “spirito” (normativo) di cui parla Habermas con riferimento allo
spettacolo dello scatenamento del capitale nella forma finanziaria che con i
suoi “flussi” distrugge sempre di nuovo il mondo.
Ecco, per Benjamin, dove trova luogo “l’elemento storicamente inaudito del
capitalismo: la religione non è più riforma dell’essere, ma la sua riduzione in
frantumi”[18]. La vera e propria “estensione della disperazione a stato
religioso del mondo”, una disperazione da cui, assurdamente, doversi
“attendere la salvezza”. Siamo nell’assoluta solitudine della fine della
trascendenza, e quindi della implicazione di dio nel destino umano. Nietzsche e
Freud sono citati a supporto di questo codice, pensieri che “appartengono al
dominio sacerdotale di questo culto”. Non si trova più salvezza nella umkehr (nel ‘rivolgimento’,
‘capovolgimento’, ‘conversione’ e quindi ‘pentimento’, ‘metaonia’, e
‘ripartenza’), ma nel “potenziamento”, costante, illimitato. Un potenziamento
che non fa salti, e attraversa il
cielo.
Il teologo della liberazione sudamericano Assmann, pur
senza citare Benjamin, né il dibattito degli anni venti-quaranta (al di fuori
del solo Polanyi che, in qualche modo, ne tira i fili) dirà cose molto simili. La
promessa di autoregolazione senza alcun intervento umano intenzionale assume
nel capitalismo il carattere di “buona novella” e di idolatria. Una buona
novella strettamente connessa ad una “ideologia sacrificale” a danno
sistematico della vita concreta.
Questa strada della redenzione attraverso il
potenziamento, la crescita, è proprio anche di Marx. Per Benjamin, infatti:
parimenti in Marx “il capitalismo che non
inverte la rotta diviene, con interessi ed interessi composti che sono funzioni
della colpa (si badi all’ambiguità demoniaca di questo concetto), socialismo”.
Insomma, anche il socialismo (nella sua versione industrialista e progressista,
ipostatizzante la tecnica e lo sviluppo materiale delle “forze produttive”)
“appartiene al dominio sacerdotale di questo culto”. Partecipa al culto.
Ma, infatti, come dice Benjamin “il capitalismo è una religione di mero culto, senza dogma”[19].
Del resto del legame tra capitalismo e religione era
ben cosciente lo stesso Marx, che nel terzo volume de “Il Capitale”, alla fine del capitolo trentacinquesimo
sull’argomento dei metalli preziosi e il corso dei cambi scrive
improvvisamente: “il sistema monetario è essenzialmente cattolico, il sistema
creditizio è essenzialmente protestante. <The Scotch hate gold>. Come
carta l’esistenza monetaria delle merci ha soltanto una esistenza sociale. E’
la fede che rende beati [rif. alla dottrina di Lutero]. La fede nel valore monetario come spirito
immanente delle merci, la fede nel modo di produzione e nel suo ordine
prestabilito, la fede nei singoli agenti della produzione come semplici
personificazioni del capitale autovalorizzantesi. Ma come il protestantesimo
non riesce ad emanciparsi dai principi del cattolicesimo, così il sistema
creditizio non si emancipa dalla base del sistema monetario”[20].
In effetti, qui la tesi sembra affine a quella di
Weber, ma se ne discosta, “il capitalismo
– come va dimostrato non solo per il calvinismo, ma anche per gli altri
indirizzi cristiani ortodossi – si è sviluppato in occidente in modo
parassitario sul cristianesimo, in modo tale che alla fin fine per
l’essenziale la storia di quest’ultimo è la storia del suo parassita, il
capitalismo”. Come abbiamo cennato su questa relazione tra capitalismo e
religione, oltre il protestantesimo, si potrebbe anche rileggere il bel libro
di Luigino Bruni “Il mercato e il dono”,
che è imperniato sulla figura di un sacerdote e teologo settecentesco, il
napoletano Antonio Genovesi (morto nel 1769), che dal 1755 regge nella
prestigiosissima (all’epoca) Università di Napoli la prima cattedra europea
(ovvero mondiale) di “economia” e scrive “Lezioni
di economia civile”[21]
che anticipa di nove anni la più famosa “La
ricchezza delle nazioni”[22]
(peraltro anche essa scritta da un autore che insegnava filosofia morale a
Glagow connessa con la chiesa scozzese). Bruni, che legge anche Benjamin e lo
cita, sostiene che il capitalismo “è nato dalla ricerca o dal desiderio del
paradiso, e ancora oggi continua a vivere con promesse di altri paradisi”,
paradisi secolari fondati su quei potentissimi simboli, codici e sogni che sono
le merci ed il denaro stesso. Il capitalismo ha natura, insomma, “religiosa,
simbolica e spirituale” e nulla come la finanza, con la sua auto programmazione
impermeabile a qualsiasi ratio umana lo mostra. Insomma, “nell’età della riforma il cristianesimo non ha favorito l’emergere del
capitalismo, ma si è trasformato nel capitalismo”.
Ciò che manca, ciò che è stato sottratto, per
guadagnare l’illimitatezza, e dunque l’ansia che la rende necessaria,
sistematicamente, è la “mancanza di una via di uscita comunitaria, non
individuale-materiale”[23].
L’incapacità del capitalismo di riconoscere l’uomo
vivo, con i suoi bisogni non traducibili nella metrica del valore-denaro, per
tradurlo in uomo astratto è fondato su questa spiritualità necrofila nascosta. Come
dio nascosto è il “capitale”.
[1] - Walter Benjamin, “Capitalismo
come religione”, 1921, ora in “Senza scopo finale”, Castelvecchi, 2017,
p.42.
[2] - Max Weber, “L’etica
protestante e lo spirito del capitalismo”, 1904.
[3] - Werner Sombart, “Il
capitalismo moderno”, 1902.
[4] - Con riferimento a Weber ed alla
tesi della dipendenza del capitalismo dallo spirito protestante.
[5] - Sombart, cit, p. 162
[6] - Marcel Mauss, “Saggio
sul dono”, 1923.
[7] - Sombart, cit, p.130.
[8] - Luigino Bruni, “Il
mercato e il dono”, Bocconi, 2016.
[9] - Gyorg Lukacs, “Storia e coscienza
di classe”, 1923, Cit. in Axel Honneth, “Reificazione”,
[10] - Karl Polanyi, “La
grande trasformazione”, 1942.
[11] - Polanyi, cit., p. 210
[12] - su questo si può leggere anche
la ricostruzione fatta da Axel Honneth in “Il
diritto della libertà”, Codice ed. 2015
[13] - Max Weber, cit., p.92
[14] - Max Weber, cit. p.76.
[15] - Jurgen Habermas, “Verbalizzare
il sacro”, Laterza 2015.
[16] - Habermas, cit., p. 179
[17] - Hugo Assmann, “Idolatria
del mercato. Saggio su economia e teologia”, Castelvecchi 2020, ed or.
1990.
[18] - Benjamin, cit., p.43
[19] - cit., p. 45
[20] - Karl Marx, “Il Capitale”,
Editori Riuniti, p.690.
[21] - Antonio Genovesi, “Lezioni di
economia civile”, 1765
[22] - Adam Smith, “La ricchezza
delle nazioni”, 1776
[23] - Luigino Bruni, cit., p.46
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