Il testo che segue è un comunicato dell'associazione politica Nuova Direzione, che prende le distanze, con una larga analisi, dalla logica che dal tempo in cui il prof. Bagnai portava avanti la sua predicazione antieuro si era affermata in un'area critica della sinistra di orientamento neo-socialista.
E' tempo di prendere contezza che questa linea è fallita.
Abstract.
Ricerca di una nuova
direzione.
Sulla logica del Cln
La crisi
La
spinta generata dalla crisi sanitaria ancora in corso sta
determinando conseguenze dirette ed indirette molto forti. In particolare, si
registra un’accentuazione della divaricazione tra sezioni del paese, sia in
termini geografici sia di specializzazione, e l’impatto altamente differenziato
sul mondo del lavoro (principalmente sull’asse tra impieghi stabili e precari e
tra lavoratori autonomi e dipendenti). È evidente l’allargamento di una
profonda linea di divaricazione, già presente e costitutiva della retorica
neoliberale, tra i settori dei ceti salariati ancora protetti dalle garanzie
novecentesche e il vasto mondo dei lavoratori precari senza diritti, in
particolare nelle imprese piccole ed a basso livello tecnologico e di
competitività, i numerosissimi finti autonomi del settore dei servizi (in
particolare nel turismo e settori affini), gli operatori in proprio del
commercio al dettaglio, i professionisti e parte del ceto medio produttivo ed
imprenditoriale in crescente difficoltà. I primi antepongono la protezione,
richiedendola, alla continuità dell’impegno lavorativo mentre i secondi,
impregnati dello spirito libertario e della retorica del self-help tipica del
mondo neoliberale, sono impauriti soprattutto della potenziale disoccupazione,
o del fallimento delle loro attività, passano in secondo piano i rischi
sanitari individuali e collettivi (che tendono ad essere negati). La seconda
area tende a mobilitarsi contro le misure di protezione sanitaria, percependole
come una minaccia concreta e una violazione della propria libertà individuale.
La prima costituisce la base, al momento maggioritaria, di consenso alle misure
governative di protezione attiva nei confronti dei rischi epidemici (che
riguardano molto più la tenuta del fragile sistema sanitario nazionale che non
la mortalità diretta in condizioni ottimali, che resta bassa). Sfortunatamente
nessun corso di azione, come mostra anche l’analisi comparata degli altri
paesi, è in grado di evitare completamente gli impatti sul sistema economico.
Unica eccezione, probabilmente, le radicali misure prese in ambito estremo
orientale, in particolare in Cina, che, tuttavia si giovano di una
infrastruttura tecnica, di condizioni culturali e sociali, e di strutture
istituzionali e politiche molto diverse da quelle occidentali.
La
divaricazione nella percezione sociale nasce anche dall’esistenza di effetti molto
severi sullo stato di crisi di interi settori, in particolare connessi con le
aree del tempo libero, spettacolo e turismo, che avevano subito un’enorme
espansione negli ultimi decenni e che sono il rifugio, a causa della loro bassa
produttività media, delle forme più deboli di lavoro. Si è trattato, nel
trentennio della trasformazione neoliberale, di veri e propri settori spugna,
che hanno riassorbito le aree di espulsione determinate dalla sempre maggiore
polarizzazione sociale. L’effetto diretto della concentrazione di tutti gli
incrementi di reddito e ricchezza nel primo dieci per cento (se va bene), della
popolazione. Sono infatti cresciuti contemporaneamente i consumi dissipativi e
identitari, da una parte, e la deprivazione di fasce crescenti di marginali e
semimarginali, dall’altro. Una intera industria è cresciuta e si è adattata a
questo ambiente sociale ed economico distorto, ed ora è in gravissima crisi
strutturale.
A
questo impatto fortemente ineguale va aggiunto l’effetto in termini di stress
psicologico determinato dall’esperienza senza precedenti del Lock Down che si è
sommato, diventando particolarmente insopportabile, per i ceti e le persone più
esposte e fragili. Ovvero per coloro i quali si sono trovati improvvisamente ad
essere tra i lavoratori e le attività “non essenziali”. Costretti
dall’organizzazione sociale già da prima in posizioni fragili e precarie, si
sono trovati improvvisamente espulsi e prigionieri dentro settori morenti.
In
relazione a questi macro-fenomeni è stato registrato l’emergere in piena luce
di fenomeni macroscopici di polarizzazione dell’opinione. Fenomeni di
polarizzazione resi particolarmente forti dalle piattaforme social sulle quali
avvengono gli scambi e dagli algoritmi ad apprendimento automatico, orientati a
massimizzare il tempo di navigazione e fidelizzare al mezzo. Sistemi tecnici
che “vendono” storie attraenti e vistose, mettendo in contatto persone che le
seguono, per sviluppare una sorta di droga compensativa: la meccanica della
dipendenza passa per il potenziamento della autostima tramite l’effetto gregge
e l’annullamento del senso critico. Si formano veri e propri pensieri di
gruppo, concentrati su narrazioni semplificate e altamente consolanti,
normalmente connessi con la creazione di nemici esterni.
Il
contesto europeo
È
indubbio, e merita di essere confermato sempre, che la crisi italiana deriva
solo in parte da caratteristiche e carenze interne ma in parte preminente è
effetto dell’inserimento del paese in posizione non sufficientemente autonoma
nel sistema mondo. Ed in particolare in quel suo centro con aspirazioni
imperiali (tuttavia in buona misura velleitarie) che è l’Unione Europea. Progetto
ricco di contraddizioni che nasce all’indomani del collasso sovietico e nel
clima trionfale di un occidente che si pensava dominante (per cui veniva in
agenda la lotta per il predominio in esso). Progetto incoerente e dominato
internamente dai potenti spiriti animali del sistema finanziario-industriale
continentale, e dalle propaggini di quello atlantico. Venduto come difesa dai
rischi della competizione globale, ma in realtà orientato geneticamente e
attraverso il disegno istituzionale, oltre che le principali agenzie, per
disarmare tutti quei presidi, istituzionali e normativi (in grande misura
nazionali) che potevano farvi fronte.
Questa
critica è stata portata avanti per anni, rintracciando le fonti,
inseguendo e ricostruendo i vecchi dibattiti, producendo argomenti e una
compatta narrazione. Nuova Direzione ha partecipato, e le organizzazioni dalle
quali è nata, in prima fila alla creazione di questa narrazione, e ne conferma
i caratteri essenziali. La gran parte dei problemi che i ceti subalterni e medi
stanno attraversando nei paesi occidentali, sia centrali (Usa) sia semicentrali
(Germania, Francia, Uk) sia semiperiferici (Italia, Spagna, Olanda) sia
periferici (Grecia, Irlanda, Portogallo, Polonia, Ungheria), derivano dal modo
nel quale è stata gestita la crescita della mondializzazione. A vantaggio e
secondo la cultura e obiettivi del grande capitalismo finanziario ed
industriale multinazionale e delle forze, politiche, culturali, sociali ad esso
connesse. Asservendo ogni funzione sociale e riproduttiva (di vita e cultura)
al fine di riprodurre ed accrescere solo il capitale, mercificando ogni
relazione, creando ovunque dipendenze e servitù (per lo più volontarie). È
sembrato a molti, ed in particolare alla sinistra, che questo indicasse e
rappresentasse nella sua essenza la modernità. E quindi, incorporasse le
direzioni del progresso. Nuova Direzione ritiene che qui affondi la ragione più
profonda del fallimento del pensiero emancipatore: bisogna che sia possibile
vivere senza restare prigionieri del mito del ‘progresso’ lineare, mutuato
dalla tecnoscienza, che traduce l’aumento di potenza in promessa di benessere e
libertà. Creando un mondo nel quale ciascuno e tutti insieme si possano
coltivare le capacità, sviluppare i talenti, portare a compimento la propria
natura, maturare le migliori tradizioni comuni. Occorre, però, superare la
narrazione mondialista, promossa da un potentissimo network e dal sistema della
cultura e comunicazione quasi al suo completo, senza farsi catturare
dall’agenda di una narrazione territorialista che si sforza di ottenere i
medesimi risultati di dominio e sfruttamento (insieme di popoli e classi
lavoratrici) con altri mezzi.
La
narrazione incentrata sulla “sovranità”.
Nuova
Direzione conferma la sua critica, contenuta nelle tesi, alla mondializzazione,
al progetto imperiale europeo, al neoliberismo in ogni sua forma (di destra e
sinistra), ma non può più nascondersi che l’insieme dei fenomeni brevemente
descritti stia da tempo portando ai suoi estremi limiti, e rendendo evidente,
il fallimento di una ipotesi di lavoro che alla metà circa degli anni
dieci era stata formulata nell’area della sinistra eurocritica: che si potesse affrontare
il problema del raggiungimento di una massa adeguata a modificare i rapporti di
forza, e mettere in crisi il dispositivo europeo, attraverso la costruzione di alleanze
eterogenee “di scopo”. Saltando il passaggio della creazione di una cultura
politica comune e di visioni concordi delle priorità e destini del paese.
L’idea
ed il tentativo di aggregare in un’unica formazione “patriottica” tutti
coloro che condividono, anche per ragioni diverse e talvolta opposte,
l’ostilità per il progetto europeo nato a Maastricht in Italia è stata
propagandata in particolare dal senatore Alberto Bagnai (esterno ai circuiti
della sinistra radicale, anzi fino al momento del suo impegno antieuro
tranquillo professore associato a Pescara, specializzato in econometria), che
negli anni alla metà del decennio ha guadagnato un’obiettiva centralità con il
suo blog “Goofynomics” e con la sua predicazione antieuro. Questa ipotesi si è imperniata
su alcune affermazioni o postulati:
a- che
il problema del paese sia determinato in ultima analisi da un dispositivo
tecnico-economico, l’Euro, o istituzionale, la Ue;
b- e
da un approccio ideologico-culturale, l’ordoliberismo;
c- quindi,
infine, da una dominazione esterna, la Germania.
Il
nemico, in questa prospettiva, è quindi ben definito, ha uno strumento, una
voce ed un volto.
Questa
scaletta implica, però, importanti conseguenze:
I- tutti
coloro che non condividono questa priorità (Euro, ordoliberismo e Germania come
nemici principali) diventano degli ostacoli e quindi nemici essi stessi;
II- viceversa,
tutti coloro che la condividono (qualsiasi cosa pensino su tutti gli altri temi
non principali, e qualunque sia la ragione effettiva della loro opposizione sui
principali) sono degli alleati;
III- infatti,
bisogna unire le forze di tutti coloro i quali si sono “risvegliati”, qualunque
cosa pensino in generale del mondo e qualunque posizione di interesse abbiano
in esso;
IV- casomai
sarà nel ‘secondo momento’, quando saremo “liberi”, che si deciderà la
direzione da far prendere al paese e che la politica potrà essere riattivata;
V- ora
è il momento della lotta di liberazione unitaria.
Si
trovano in questo modo ad essere chiamati ad un’alleanza tattica coloro
i quali ritengono fondamentale l’alleanza con gli Usa, contro la minaccia del
socialismo cinese (e degli altri), e del semiegemone russo (ma anche iraniano,
siriano, e via dicendo), insieme a coloro che ritengono essere proprio la
potenza imperialista statunitense il principale problema del mondo (ovvero il
nemico principale, anche se non il più prossimo). Oppure, coloro che vedono
essenzialmente il sacrificio della capacità di potenza e di riproduzione del
capitale italiano, nello scontro con quello nordico (tedesco e francese in
primis), insieme a coloro che identificano la crisi di civiltà nel capitalismo
stesso, nella preminenza della competizione e della costante esposizione dei
lavoratori alla “durezza del vivere”. Ancora, coloro che pensano al sistema
delle imprese private, medie e piccole, e del lavoro autonomo e professionale
che vi ruota intorno come alla parte più dinamica del paese, schiacciata dalle
burocrazie (europee nella fattispecie, ma anche nazionali, a ben vedere)
insieme a coloro che ritengono l’apparato pubblico drasticamente
sottodimensionato, in estensione e competenze, e compito dello Stato garantire
una crescita equilibrata e soprattutto sana, ed i lavoratori essere la parte
fondamentale e dinamizzante del paese stesso.
Provando
a interrogare più attentamente questa strana alleanza ne emergono i seguenti presupposti
impliciti, ma necessari:
1- che
l’Italia sia un soggetto, sia potenzialmente unito ed omogeneo, e lo
scontro sia solo questione di nazioni (una sorta di nazionalismo
ingenuo o metodologico);
2- che
“il” popolo ne sia l’attore, e sia esso stesso un soggetto
unitario, cosa per ottenere la quale bisogna identificare ed espellere i corpi
estranei, identificati con i politici servi dello straniero e la grande finanza
(una forma ingenua di populismo);
3- che,
quindi, la “liberazione” sia questione di sconfiggere tutti insieme un
nemico esterno, espellendolo dal “popolo” e scacciandolo oltre le Alpi;
4- che,
fatto questo, dalla fonte riattivata della ricchezza nazionale goccioli
su ognuno la ricchezza che veniva sottratta dall’esterno e si torni, ciascuno
ed insieme, ai tempi nei quali era possibile vivere bene (una sorta di
idealizzazione del passato mitico che qualcuno colloca agli anni ottanta, altri
nei primi novanta).
Se
si concede questa struttura, infatti, la strategia logica a questo punto diventa:
1. bisogna
neutralizzare tutte le differenze ideologiche, culturali e di interesse dei
diversi ceti, posizioni e classi, nel superiore interesse della “nazione” e del
“popolo”, schiacciato dall’occupazione straniera (e dai suoi alleati
collaborazionisti);
2. è
necessario unire destra e sinistra, nord e sud, imprenditori e
lavoratori salariati, ricchi e poveri, in un unico obiettivo, con
un’impostazione fortemente interclassista che sceglie quindi una linea di
conflitto completamente esterna (secondo il gergo, una ‘faglia di antagonismo’
collocata esattamente dopo quelle fratture, al fine di costruire delle
‘catene equivalenziali’ che uniscano le rivendicazioni, altrimenti disparate ed
anche opposte, dei diversi soggetti);
3. a
questo fine è indispensabile restare intenzionalmente vaghi su tutte le
questioni “divisive” che potrebbero rompere le ‘equivalenze’ (come quelle sopra
elencate);
4. in
questo modo si tornerà “liberi”.
La
svolta necessaria
Questa
logica sta manifestamente fallendo. Non solo in circa dieci
anni non ha raccolto forze significative, a meno di considerare tali il
consenso spesso aleatorio (e, dove non tale, fondato su solidi interessi
opposti direttamente a quelli dei lavoratori subordinati) che raccolgono nel
nostro paese le destre. Ma è anche un’illusione rispetto all’obiettivo
dichiarato come principale di favorire l’uscita dall’Euro o dalla Ue. Un
consenso fondato su retoriche aleatorie, sistematicamente costruite per
aggirare e trascurare i veri nodi di interesse e quindi di conflitto, meramente
identitarie e consolatorie, non ha in sé la forza per resistere alla
prova severissima di una riarticolazione generale delle élite e dei poteri,
degli equilibri di interesse, susseguenti all’eventuale rottura dell’Unione
Europea. E’ del tutto evidente che non appena l’obiettivo si è avvicinato di un
solo centimetro, nel 2018, le determinatissime forze rivolte a tale missione
hanno fatto, e di fatto fanno oggi e faranno sempre, un immediato passo
indietro.
Si
è trattato in sostanza di una scorciatoia, ma illusoria, e quindi
di un errore. L’autonomia delle rappresentazioni, postulata da Laclau ed implicitamente
presupposta da Bagnai, non è tale. Come è noto ad ogni pubblicitario, a medio
termine qualche relazione con i duri fatti si impone sempre. Una
rappresentazione non è solo un effetto egemonico di una pratica discorsiva. O
meglio, una pratica discorsiva può esplicare un effetto egemonico solidamente
efficace solo se ha un qualche riferimento reale. E non ha alcun riferimento
reale l’unità del “popolo” intorno alla ‘faglia di antagonismo’ europea.
Dobbiamo
quindi ripensare i nostri discorsi, e con essi la realtà
alla quale intendiamo riferirci. Bisogna ridurre intenzionalmente la vaghezza e
identificare referenti più precisi, ma anche, conseguentemente designare
nemici più precisi, molto più vicini nel tempo e nello spazio. Molto più
concreti. Al contempo dobbiamo scegliere un posizionamento specifico, e
organicamente coerente, nel quadro del conflitto terminale della crisi
strutturale in corso da decenni nel mondo, e giunta ad una transizione di
potenza dai grandissimi rischi.
Si
può dire in altro modo. Guardando insieme all’articolazione di interessi e
soggettività che informano e strutturano la società italiana ed europea ed alla
dinamica di scontro ed interconnessione ineguale internazionale: noi non siamo,
non possiamo essere, e non siamo mai stati, per liberare il capitale nazionale
dal controllo “straniero”, né per quello grande né per quello piccolo. Noi
riteniamo che il proprio dei capitali siano i rapporti sociali di dominazione che
istituiscono, di chiunque siano. E riteniamo che il punto sia liberarsi del
controllo da parte del capitale, ovvero di questi rapporti sociali che
esso istituisce e rappresenta.
Il
nostro fine è quindi del tutto diverso da quello dei finti alleati
temporanei che erano stati postulati. Nessuna egemonia è possibile se si
assorbono i fini del nemico.
In
altre parole. La Ue non è essenzialmente un nemico esterno. Ma è il
potente strumento di un nemico che attraversa interamente, da nord a sud, dai
centri alle periferie, da una classe all’altra, sia il nostro paese sia gli
altri. Un nemico fatto di interessi concreti e identità politico-sociali
ancorate ad essi che si muovono entro forme di vita interessate alla
conservazione dei propri privilegi attraverso la creazione di vincoli (siano
essi “esterni” o meno), la disattivazione sociale e politica che ne consegue, e
l’economia deflattiva, qualunque sia la cornice statuale entro la quale opera.
Dobbiamo
fare egemonia per liberarci di questo nemico,
distruggendo anche il suo strumento. Ma ciò non significa in alcun termine o
forma ottenere in modo aleatorio un voto una mattina, o la presenza ad una
manifestazione, o un “mi piace” su un post, un clic o retweet. Né significa
entrare in una giunta comunale, o avere un consigliere regionale, accedere ad
una alleanza politica di governo in posizione marginale, subalterna, di
supporto. Tutte cose degne, ma inutili. Significa cambiare il cuore e la
mente.
Significa
creare un “popolo” che sappia quel che vuole, dove vuole andare, contro
chi. Un “popolo” che ovviamente non preesiste alla propria creazione
egemonica, non è prodotto automaticamente dalla crisi (anche se questa, nel
medio termine può riarticolare alcune strutture di personalità che inibivano in
profondità l’azione e che sono state rese dominanti dalla fase ascendente della
società del welfare), non esiste in sé, ma non può essere neppure aggregato
alchemicamente da basi eterogenee ed opposte. La narrazione non può prescindere
dalle relazioni materiali. Uno sforzo egemonico va compiuto per rendere
possibile, o almeno favore, questa creazione di “popolo” (o di blocco sociale) ma
muovendo da un’analisi strutturale (schematica ma non dottrinale) degli
interessi sociali; da un’analisi capace di puntare all’individuazione e
denuncia di leggi di mutamento storico-concrete ed esattamente situate. Una
legge di mutamento che è comprensibile in concreto solo a partire dai conflitti
e dalle contraddizioni dello stato delle cose presenti e non può essere desunta
scolasticamente da alcuna dottrina.
Cambiare
il cuore e la mente, per fare “popolo” è tutto il contrario
della ‘produzione discorsiva del vuoto’ di cui, ancora, parla Laclau. O di
creare “miti”, secondo una sorta di neo-sorelismo dalla sinistra memoria
storica. Abbiamo visto dove ci portano.
Il
popolo che dobbiamo creare deve averlo un fondamento, ma deve essere lui
questo fondamento, solidamente materiale.
Dobbiamo
trovare, se vogliamo davvero produrre egemonia e non solo mimesi, il fondo
che è capace di resistere all’indefinita manipolazione dei discorsi.
Identificare, tentando e ritentando, le fratture in questo fondo.
Identificare i conflitti di interesse e non solo di senso. I
funzionamenti sociali, i concatenamenti resistenti, solidi, che
possano proporsi come primari, almeno difficilmente aggirabili, capaci di
determinare opposizioni nelle cose e non solo nelle rappresentazioni. Che non
siano riconducibili alla, largamente illusoria, frattura tra “popolo” ed
“élite”, nella sua problematica insufficienza. Sforzarsi di identificare i
luoghi ed i temi nei quali, intorno agli assi ordinatori centro/periferia
ed alto/basso si stanno comunque polarizzando estetiche, linguaggi, priorità e
valori, quindi soggettività di gruppo incompatibili con lo stato delle cose
presenti.
Non
dobbiamo farci ingolosire da immediate traduzioni elettorali, ma lavorare alla
cultura politica, ovvero alla creazione di una struttura sociale densa e ad una
rete di impegni e riconoscimenti con la necessaria decisione e passo.
Dobbiamo
sempre usare semplificazioni e costruzioni retoriche, discorsi, ma anche fare
attenzione che non ci ‘catturino’.
I
discorsi populisti fondati sull’opposizione interno/esterno ci hanno catturato
con il loro potente geografismo apparentemente ovvio e naturale. In questo modo
abbiamo fatto scomparire dal campo politico nessi e meccanismi decisivi, ma
non per questo essi sono scomparsi. La mancanza di strumenti per vederli ci
ha solo reso inermi, ci ha messi nelle mani dei nostri nemici, proprio al
nostro fianco e quindi non visibili. Anzi lupi travestiti da agnelli.
Nel
frattempo tutte le fratture costitutive hanno continuato ad operare dietro le
nostre spalle, secondo la loro logica propria, che attraversa diagonalmente i
corpi sociali, creando instancabilmente meccanismi di creazione e cooptazione
subalterna, strutture di collaborazione ed espulsione. Frazionando e dividendo,
a vantaggio della base di potere del paese che attraversa diagonalmente le
categorie proposte.
Guardando
troppo lontano abbiamo dimenticato la vicinanza
del potere. Dei poteri non grandi, non pieni di etichette, altisonanti, ma di
quelli che si diffondono e circolano attraverso tutti i corpi e in tutte le
menti, determinano ogni rapporto e prendono forme sempre nuove. Il punto è che
se non se ne comprende la dinamica, i molteplici livelli, i luoghi in cui si sono
addensati, le metamorfosi in corso e quelle che prenderanno, l’azione andrà
fatalmente incontro al più cocente smarrimento. Se non si nominano si rischia
poi di non poterli vedere dove si presenteranno, sorprendendoci. Detto con
altre parole, in politica restare vaghi può significare restare disponibili ad
essere addomesticabili. Ad essere colonizzati, come probabilmente è avvenuto o
avverrà.
Dobbiamo
prendere un’altra direzione.
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