Nel
2000 il filosofo francese André Gorz risponde all’intervista di Margund Zetzamann,
spiegando[1] le ragioni per le quali
nel suo “Miseria del presente, ricchezza del possibile”[2] invitava a liberarsi dell’obbligo
del lavoro. Gorz, che si toglierà la vita di lì a sette anni, sul lavoro aveva
a lungo riflettuto cercando costantemente la via per l’autorealizzazione del
singolo dentro gli angusti spazi della gabbia d’acciaio della moderna società
industriale e capitalista (ma anche socialista reale). Già nel 1967, scriveva
che in entrambe le società “l’individuo, in quanto produttore e in quanto
cittadino, è spodestato di ogni potere reale (che non può essere altro che
potere collettivo) sulle decisioni e sulle condizioni produttive che modellano
la sua vita di lavoro e la sua vita fuori del lavoro. Subendo la società più
che crearla consapevolmente, essendo incapace di identificarsi con la sua realtà
sociale, l’individuo tende a ripiegare nella sfera privata come la sola sfera
in cui egli è sovrano” [3].
Ma questo “spodestamento”, continuava, avviene in quanto lavoratore. Egli,
“privato di iniziativa, di responsabilità e di valorizzazione sociale nel suo
lavoro, tende a cercare una compensazione nel non-lavoro”. Tema, questo, sul quale
è larghissima la riflessione e lo resterà a lungo.
Da
queste formulazioni durante gli anni ottanta passerà alla proposta di
riconoscere i limiti propri alla razionalizzazione e fermare la mercatizzazione
sulla soglia di quel che è socialmente sostenibile. In altre parole, di fermare
l’integrazione funzionale sulla soglia dell’integrazione sociale e puntare
sulla “riduzione metodica, programmata, massiccia della durata del lavoro
(senza ridurre il reddito)”[4]. A questo stadio la proposta
pratica, su cui a lungo insisterà, è di stabilire l’erogazione di un reddito di
secondo livello che integri un tempo di lavoro effettivo calante e socialmente
prestato. Non sarebbe un “reddito garantito”, proposta che allora giudicava “di
destra”, perché “ogni cittadino deve avere diritto a un livello di vita
normale, ma ognuno deve anche avere la possibilità (il diritto ed il dovere) di
fornire alla società l’equivalente in lavoro di ciò che consuma”[5].
Nel
2000 Gorz, ormai postmarxista, abbandona questa prospettiva ed ormai vede
cadere a pezzi la società del lavoro salariato, a causa dell’estinzione del “contratto
sociale di tipo socialdemocratico” che contava di poter “addomesticare il
capitalismo e poter conciliare lavoro e capitale”. Scrivendo sulla soglia del
decennio di finale accelerazione della globalizzazione neoliberale (ed al
termine di un decennio di forte consolidamento della svolta seguita alla crisi
finale degli anni settanta[6]) vede correttamente e
ovunque lo smantellamento dello stato sociale, quindi del diritto al lavoro,
dei relativi contratti e delle condizioni regolamentate e garantite. Quindi il
dilagare dei “rapporti di lavoro precari, flessibilità, mobilità,
individualismo”. Assiste, insomma, ad un procedere verso la società “di mercato”.
In conseguenza di questo stato di cose il lavoro, a suo parere, “cessa di
essere il terreno su cui costruire la propria vita e i progetti futuri”.
Questa
presunta descrizione di fatto è presa però immediatamente come orizzonte
normativo in linea con una significativa letteratura[7]. Nella traccia, propria
della sinistra di tutte le declinazioni e del senso comune neoliberale che ha
profondamente assorbito, “non ci sono alternative”, perché questo è di fatto il
corso del mondo. Ed al corso del mondo non ci si può opporre, pena essere
re-azionari.
Senza
avvedersi del radicale eurocentrismo della sua descrizione (nel mondo non si
può in nessuna fase o termine dire che il lavoro sta cessando, anzi, si assiste
in quegli anni ad una formidabile crescita dei lavoratori salariati) Gorz,
immediatamente, ammette che se “un ritorno al modello fordista è impensabile”
(e certamente un ritorno è sempre impensabile, dato che macchine del tempo
sulle quali far salire un intero pianeta non esistono), allora invece del “ritorno”
dobbiamo “andare”. E andare verso un processo che ci porta fuori del lavoro
salariato. Insomma, accelerare nella stessa direzione in cui va la Storia. Ormai
identità, senso della vita ed appartenenza (i temi che frequenta da trenta
anni) si “devono costruire in altri ambiti di attività”. Riconoscendo a livello
sociale che questo è il necessario destino, si deve recuperare in altra
direzione la spinta utopica, nel trasformare il lavoro discontinuo che il
capitalismo impone “in una maggiore sovranità sul tempo a disposizione e in una
vita dalle molteplici attività, piena di cambiamenti”.
È
un curioso modo di porre la cosa, dato che Gorz riconosce molto bene e
facilmente che la precarizzazione non è altro che una forma della debolezza dei
lavoratori, un modo per abbassare i salari e trattenere il plusvalore ricavato,
un effetto della mondializzazione stessa. E che questo “presupponeva che gli Stati
nazione venissero privati della libertà di manovra da parte di una potenza
superiore, transnazionale e inattaccabile, e messi al servizio del capitale”[8]. Ma (ancora lo spirito del
tempo parla in lui), se il capitale dispone di uno “Stato mondiale” nella forma
delle istituzioni sovranazionali come il Wto ed il Fmi, “senza territorio,
popolazione e legittimazione politica”[9], allora, senza filtri né passaggi,
ne deriva che “volersi contrapporre a livello nazionale alla globalizzazione
non ha senso”. Il potere del capitale globalizzato si può solo contrastare a livello
sovranazionale, cosa che “corrisponderebbe agli obiettivi fondanti della Unione
Europea”.
Straordinaria
forma di cecità rispetto alla reale natura della Ue stessa e straordinaria
forma della sconfitta.
Rovesciando
completamente l’ordine del discorso Gorz fa discendere dal fatto che le rendite
finanziarie prevalgono su quelle da lavoro, ovvero che la quota di reddito
sociale complessivo che si presenta come capitale variabile, o come “quota
salariale”, è sistematicamente calante, la subitanea conclusione che “tutte le
chiacchiere sulla società fondata sul lavoro, che dovrebbe garantire la coesione
sociale, non sono altro che sciocchezze”. Ma se quelle sono sciocchezze, e la
ragione è la ferrea presa del capitale finanziario (che si sposta senza sforzo
e tiene sotto ricatto i deboli Stati nazionali, peraltro tenuti sotto il
tallone dalle istituzioni sovranazionali), cosa resta? Cosa, per Gorz scappa al
“non ci sono alternative” nel quale è prigioniero il suo pensiero?
Per
rispondere ripesca un cavallo di battaglia evergreen di quegli anni, la fine
del lavoro diretto (in quanto “ormai svolge solo un ruolo subordinato in
termini di utili”[10]) perché anche se è ancora
“ampiamente necessario” esso non vale più come fonte di ricchezza. Dove il
termine “ricchezza” è, a tutta evidenza riferito al valore di scambio, alla
traduzione in denaro, al prezzo. In questi termini, di utili, di valore di
scambio e quindi di “ricchezza”, continua e conclude, “la produttività decisiva
è rappresentata dal ‘sapere’”. Precisamente, dal “sapere generale di una
società”, ovvero dal livello della tecnica e della conoscenza presente e
disponibile nella società data. Il continuo ritorno ai “Grundisse”, al “frammento
delle macchine” è qui rivendicato espressamente. Ma questo segno dei tempi
rivendicato (“torno da quaranta anni sui Grundisse”) lo porta ad annunciare la
fine della legge del valore, ovvero che “il valore di scambio cesserà di
essere la misura del valore d’uso” (Marx, cit.). Frase che a ben dire però invaliderebbe,
in effetti la sua linea di ragionamento interamente imperniata sulla constatazione
fattuale di un differenziale di valore d’uso. Né aiuta la triviale considerazione
successiva che data l’ingente formazione ex ante necessaria per erogare le
prestazioni lavorative in presenza nel capitalismo avanzato la remunerazione di
queste ultime resta indeterminata. O che, in altre parole, bisognerebbe
remunerare la formazione nell’intero arco della vita come lavoro.
È
palese che la formazione, in ogni caso, dall’operaio filatore del settecento al
programmatore contemporaneo (per fare due esempi di lavori attaccati ad una
macchina individuale) è sempre stata remunerata sotto la specie del lavoro
fornito, dato che questa deve consentire la riproduzione. Qui più che i “Grundisse”
gioverebbe leggere, anche non per quaranta anni, “Il Capitale”.
Ma
è evidente che alcuni argomenti funzionano semplicemente perché aderenti ad uno
spirito del tempo, non per la loro forza intrinseca. E spesso questa
considerazione vale per intero per alcuni pensieri ed autori (se pur
interessanti e sensibili).
Noi
viviamo in un mondo nel quale ci sono ormai qualcosa come due miliardi e mezzo
di lavoratori salariati, che producono le merci che Gorz consumava. Ma in parte
non sono più in Europa. Precisamente non lo sono più o meno per l’80%. Questa
ed altre obiezioni sarà proposta tempestivamente, nel 2002 da Antunes in un suo
controtesto dal titolo “Addio al lavoro?”[11]. Nel testo è presentata
la tesi che sia l’indubitabile tendenza crescente verso la precarizzazione strutturale
del lavoro su scala mondiale, come l’ipotesi che la società del capitale e la
sua legge del valore necessitino in misura sempre minore del lavoro stabile e
formalizzato e in misura sempre maggiore del lavoro precario e deregolamentato,
sono fondate. Ma la nuova morfologia del lavoro, lungi dallo scomparire, può
essere compresa solo alla luce delle catene produttive globali e si leggono
come ampliamento ed aumento di complessità della “legge del valore” e non sua
eliminazione come vorrebbero Gorz o altri. I cosiddetti “lavori immateriali”, e
la stessa scienza (uno dei “monopoli” ai quali si riferiva spesso Samir Amin),
sono integrati ed inseriti, non autonomamente, in una logica di valorizzazione
del capitale e di crescita del valore (ovvero di accumulazione) che è comprensibile
alla scala di sistema-mondo. A questa scala, osservando i saggi e rimi di
sfruttamento nei paesi del sud, e osservando l’enorme massa dei lavoratori
trapiantati, stimata da Basso nel testo citato nel 15% del totale in Europa, si
può al contrario leggere la fase come di “precarizzazione strutturale del
lavoro”, ma non, assolutamente, di sua sostituzione o fine. Tanto meno di fine
dello sfruttamento o della legge di estrazione del plusvalore. Insomma, come
propone Antunes:
“la
riduzione del proletariato taylorizzato, specialmente nei nuclei più avanzati
dell’industria, e il parallelo ampliamento del lavoro intellettuale, procedono
in chiara interrelazione con l’aumento dei nuovi proletari. E questo processo
riguarda tanto l’industria quanto l’agricoltura e i servizi (e le loro aree di
intersezione, come l’agroindustria, l’industria dei servizi e i servizi
industriali).
Dal
lavoro intensificato del Giappone al lavoro super-precario degli Stati Uniti,
dagli immigrati che arrivano nell’Occidente avanzato al sottomondo del lavoro
nel polo asiatico; dalle maquiladoras nel Messico ai precarizzati/e dell’Europa
occidentale; dai lavoratori e lavoratrici della Nike, di Wal-Mart e di
McDonalds a quelli/e dei call center e del telemarketing, questo ampio e
crescente contingente di lavoratori e lavoratrici sembra esprimere le distinte
modalità di lavoro vivo che oggi sono sempre più necessarie per la creazione
del valore e per valorizzare il sistema del capitale” [12].
Alla
fine tutto si regge su alcune piccole frasette che nel contesto del 2000
suonano del tutto non problematiche, ovvie addirittura, come “cambiamenti
strutturali dell’economia”[13], e che conducono a
previsioni poi falsificate dallo sviluppo successivo. Come quella che “è
difficile, se non impossibile, tradurre il sapere in proprietà privata e
accumularlo come esclusivo possesso individuale”. Per informazioni citofonare a
Google o Facebook. Ovvero, e quindi, “non è più adatto come mezzo per
sottomettere e sfruttare le masse da parte di pochi individui. Qui risiede la
grande differenza tra fordismo e postfordismo”.
Letture
queste alle quali Antunes, nel suo testo-confutazione oppone la descrizione di
una “Nuova morfologia” nella quale:
“Al
vertice della piramide sociale del mondo del lavoro si trovano, quindi,
i lavori ultraqualificati che si realizzano nell’ambito dell’informazione e
della conoscenza. Alla base, invece, aumentano informalità,
precarizzazione e disoccupazione, tutte strutturali. Nel mezzo si trova
un ibrido, il lavoro qualificato che può sparire o erodersi, a seconda delle
alterazioni temporanee e spaziali che raggiungono gli impianti produttivi o i
servizi nelle diverse parti del mondo”.
Ovviamente
quello di Gorz è un miraggio vero e proprio. Nella visione interamente
debitrice della retorica neoliberale e della narrativa del tempo il
postfordismo è caratterizzato da una “gigantesca crescita di produttività” rispetto
al fordismo. In realtà quel che cresce con il postfordismo non è la
produttività intesa come produzione per input di lavoro, ma la produttività per
costo del lavoro. La produttività nel primo senso cresce del 96% nell’epoca fordista
(1948-73) e del 72% nell’epoca neoliberale (1973-2014), mentre la quota salari
del 91 e del 9% rispettivamente.
La
quale crescita (che non c’è stata) dipenderebbe inoltre dalla presenza di “grandi
macchine” (in termini marxisti da una maggiore composizione organica del capitale)
che, però, sono essenzialmente “sapere”. Di seguito, nell’esplicare questo
punto si incontra, ben allineata come una fila di soldatini di stagno, tutta la
vulgata neoliberale, incluso, gli “imprenditori di se stessi”, e le piccole
imprese autovalorizzanti come molla dello sviluppo. A parere di Gorz, che
prende decisamente gusto a demolire uno ad uno tutti i capisaldi del pensiero
marxista, da queste piccole imprese e dagli imprenditori di se stessi “il
contrasto tra lavoro e capitale è stato ampiamente superato”, perché “trattano
la loro abilità lavorativa come capitale e non lasciano spazio ad
appropriazioni estranee”. Non sarebbe dunque “lavoro”.
Non
mancano neppure le “grandi comunità anarco-comuniste che mettono gratuitamente
a disposizione su internet servizi e conoscenze”. Lo shareware, reti che si
basano sulla socializzazione e gratuità. Insomma, Gorz miscela e rivende l’intera
narrazione del capitalismo “californiano”.
Quello
che nel nostro secolo ci ha regalato Facebook, Amazon, Google, Twitter,
Deliveroo, Uber, e via dicendo… effettivamente una comunità anarco-capitalista.
Alle domande che pone nel 2000, se le potenze finanziarie sapranno monetizzare
il sapere e misurare in denaro il suo moltiplicarsi il tempo ha, insomma, fornito
risposta: si.
Ma,
ovviamente, non era necessario aspettare venti anni, il capitalismo incorpora
sempre quel che emerge dal suo seno. E tutte queste tecnologie non cadono dal
cielo, non salgono dalla terra, non sono pensate nei garage (quello è il mito),
sono pesantemente finanziate da un intero enorme ecosistema per svolgere
funzioni di riproduzione del capitale. Sono strettamente connesse, intimamente,
con la fase finanziaria che pure Gorz conosce e vede.
Al
contrario di essere, i lavoratori dei servizi ad alta tecnologia e contenuto di
informazione, imprenditori di se stessi e pieni possessori dei propri “mezzi di
produzione” (la propria mente), essi sono più adeguatamente descrivibili come
nuovo “infoproletariato” (Antunes) o “cybertariato” (Huws). Il controllo del
proprio lavoro non è maggiore e la capacità di appropriarsi del valore prodotto
non diversa da qualsiasi lavoratore materiale.
Sulla
base di questi sogni ed equivoci, profondamente debitori della retorica neoliberale
del tempo, Gorz alla fine esce con la proposta del tutto utopica di garantire a
ciascuno il reddito in cambio di nulla. La cosiddetta “società della conoscenza”
non ne avrebbe infatti più bisogno. Il reddito di base dovrebbe essere in
conseguenza illimitato e incondizionato. Un reddito non trasferibile e limitato
nel tempo (in sostanza una sorta di tessera annonaria con la quale ritirare
merci) che quindi non è scambiabile e non è accumulabile. Una politica del
genere, inoltre, “non dovrebbe essere dall’alto”, ovvero “deve essere una
politica che si collega a diverse politiche da condurre su altri piani”. Una
frase realmente incomprensibile.
In
sostanza l’idea è che si dovrebbe autoorganizzare una rete di scambio, micro circuiti
cooperativi, che creano mutuo soccorso, e che determinano economie “informali”
e gratuite. Reti che fanno riferimento
ai movimenti di Seattle e Davos, che sviluppano “una società di cittadini del
mondo” che sono capaci di mobilitare “migliaia o anche decine di migliaia di persone
a compiere insieme azioni su vasta scala”[14].
Ci
sarebbero “possibilità latenti di costruire un’altra civiltà a livello mondiale”.
Si
è visto cosa poi è accaduto.
[1] - André Gorz, “Addio al lavoro”,
Castelvecchi 2000.
[2] - André Gorz, “Miseria del
presente, ricchezza del possibile”, Manifestolibri 2009 (ed. or. 2000).
[3] - In “lavoro, tempo libero,
cultura”, in André Gorz, “Il socialismo difficile”, Laterza 1967, p.
155.
[4] - André Gorz, “Metamorfosi
del lavoro”, Bollati Boringhieri 1992 (ed. or. 1988), p. 84.
[5] - André Gorz, cit. p. 225.
[6] - Si veda la ricostruzione,
filtrata dalla teoria della dipendenza, compiuta nei capitoli centrali, da 4 a
6, del mio libro Alessandro Visalli, “Dipendenza”,
Meltemi 2020.
[7] - Si veda André Gorz,
“Addio al proletariato”, Edizioni Lavoro, 1982 (ed. or. 1980); Manuel
Castells, “L’età dell’informazione”, Bocconi, 2002; Dominique Méda, “Società
senza lavoro: Per una nuova filosofia
dell’occupazione”, Feltrinelli, 1997.
[8] - André Gorz, “Addio al lavoro”,
cit., p. 14.
[9] - In realtà ha tutti questi nella
misura in cui questi sono gli strumenti dell’egemonia statunitense, viene elusa
clamorosamente in queste formule la questione dell’imperialismo.
[10] - Sono molto importanti queste
formule che cadono così, leggere, perché mostrano a quale profondità il pensiero
del nostro sia imbibito dell’interdetto a pensare altro. Il lavoro è finito in
quanto sottoprezzato dal capitale, non in quanto produttore di valore (d’uso)
inferiore o trascurabile.
[11] - Ricardo Antunes, “Addio
al lavoro?” Franco Serantini Edizioni, 2002 (ed or brasiliana 1995).
[12] - Antunes, cit., p.30.
[13] - “Per riconoscerli [i tratti dell’esodo
dalla ‘società del lavoro’] dobbiamo prima collegarli ai cambiamenti strutturali
dell’economia”, Cit., p.21.
[14] - Gorz, cit., p.39
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