A
settembre 2020 è uscito il libro “Dipendenza. Capitalismo e transizione
multipolare”[1].
Un libro che si può leggere in tre modi: racconta una storia che si
sviluppa dal New Deal ad oggi, mostrando un andamento ciclico ed interconnesso
di periodi di disordine sistemico, di espansione e di destabilizzazione; individua
una teoria che con questa storia reagisce; presenta la sconfitta
politica di un generoso tentativo.
Il
primo piano si concentra sulla concatenazione di crisi che aprono sempre alla
successiva, con un meccanismo (descritto nella teoria) mosso dalla tendenza del
capitalismo alla concentrazione e (quindi) al sottoinvestimento. E descrive quindi
le controtendenze che la tengono sotto controllo: guerra fredda,
cetomedizzazione, esportazione di capitale, dipendenza interna ed esterna. Ne
deriva anche una spiegazione interna della crescita della classe media nel “trentennio”
e della ‘società del benessere’ non come confutazione della tesi marxiana
(delle “due classi”) ma come sua estensione[2]. Ma ne deriva anche il “teorema
di impossibilità” che Baran e Sweezy enunciano con la loro “legge della
crescita del surplus”[3], e quindi il tentativo di
investire le periferie (e non il centro) del compito della rivoluzione.
Questa
è l'ipotesi politica della dipendenza che cade quando le periferie sono
sussunte (o sono disperse) nell’inversione degli anni ottanta. Di qui nasce la “teoria
dei sistemi mondo” che sposta l'attenzione più avanti nello spazio e nel
tempo.
Per descrivere analiticamente il testo.
Un
primo blocco teorico descrive le posizioni di quegli autori che
convergono nella creazione dell’assiomatica di base. Almeno dei principali: sono
Paul Baran negli anni cinquanta, Paul Sweezy negli anni sessanta, Gunnar Myrdal
e Francois Perroux.
·
Per Baran non è l’assenza del capitalismo
a provocare il sottosviluppo (come contemporaneamente dirà Solow), ma la sua
presenza. Per dimostrarlo pone sotto attenzione la meccanica del monopolio ed
utilizza la nozione di “surplus potenziale”[4]. Secondo la sua classica
lettura il monopolio provoca una tendenza al sottoinvestimento e questa produce
sottoccupazione e ristagno, quindi sovrapproduzione. E, soprattutto, non esiste
nessuna tendenza automatica che può combattere questa dinamica propria del
capitalismo. Riprendendo e criticando allo stesso tempo motivi keynesiani per
Baran solo lo Stato potrebbe intervenire, ma non lo farà essendo controllato
dal capitale (monopolistico). Impedito di agire per ridurre i monopoli lo Stato
di fatto dirotta il surplus che cattura sulle spese “improduttive”, tra le
quali il commercio estero e l’investimento nei paesi sottosviluppati (che ne
aumenta la dipendenza). Farlo è una necessità sistemica che impedisce la
stagnazione per impossibilità di ‘realizzo’ del capitale e quindi
accumulazione.
·
Per Myrdal il fenomeno centrale per comprendere
lo sviluppo e sottosviluppo è la causazione circolare e cumulativa,
nella quale si contendono ‘effetti di diffusione’ ed ‘effetti di riflusso’. In
generale il processo è polarizzante e non equalizzante.
·
Il testo cruciale “Il capitale
monopolistico” di Baran e Sweezy parte dalla definizione della tendenziale
dualizzazione del sistema tra monopoli e settore concorrenziale nel quale il
primo prevale e “fa i prezzi”. Quindi produce una teoria del monopolio
imperniata sulla neutralizzazione della concorrenza sui prezzi e quindi sulla “legge
della crescita del surplus”[5]; una tendenza sfidata dal
lato della realizzazione. Per cui se fossero disponibili solo sbocchi endogeni
alla fine il capitalismo monopolistico boccheggerebbe ed il sistema tenderebbe
alla stagnazione. Si ricorre allora di necessità, per combattere la tendenza
alla crisi, a tre fonti esogene di sbocchi: l’aumento della popolazione, le
nuove tecnologie, gli investimenti all’estero. Ma occorre anche produrre sistematicamente,
data la tendenza al sottoinvestimento, un metodo per drenare ed impiegare il
surplus che tende ad essere eccessivo. L’economia del benessere è dunque
l’effetto di una controtendenza intenzionale e necessaria. Tutt’altro che un
esito naturale di sistema. Un’altra è la spesa militare (e la guerra
fredda), una terza la spesa all’estero e quindi l’estensione della catena dello
sfruttamento. Il capitalismo monopolistico è dunque legato con catene
molteplici allo sfruttamento estero dal quale dipende, ma ciò crea anche gli elementi
di instabilità tendenziale: il deficit delle partite correnti, la
finanziarizzazione, la tendenza all’inflazione.
Poi
c’è un secondo blocco, che retrocede alle radici. Vengono presentate le
teorie dell’imperialismo degli anni venti. Hobson, Hilferding, Lenin (ci sono
anche Luxemburg e Bucharin). Lenin, riprendendo Hilferding e Hobson, individua
la novità della fusione del capitale finanziario con quello industriale. Il
fenomeno dipende dal funzionamento essenziale dei meccanismi di accumulazione e
non è esterno ad esso. In questo modo è superato il meccanismo della libera
concorrenza, tramite l’esportazione del capitale e non delle merci.
L’Imperialismo è dunque “lo stadio monopolistico del capitalismo” e produce
anche una frattura tra i lavoratori stessi, creando delle categorie
privilegiate, sussunte dal capitale e che dipendono dallo sfruttamento
imperiale. Viene anche presentata l’importante relazione di Lenin al Congresso
di Baku del 1920, in cui viene enunciata e messa in una rigorosa cornice
(dodici tesi) la questione coloniale. In base alle tesi l’abolizione
dell’ineguaglianza è possibile e immaginabile solo se cessa contemporaneamente
anche l’oppressione coloniale.
Da
qui parte una descrizione per grandi quadri decennali nei quali sono incastonati
anche autori e testi che sviluppano, fissandolo, il progetto teorico e politico
della “teoria della dipendenza”. Una teoria da cima a fondo politica.
Presentazione del libro
Il
Primo Quadro è dedicato alla “metropoli”,
all’imperialismo ed agli anni cinquanta. Si parte, però, dal necessario
antefatto, ovvero dalla breve Belle Epoque degli anni venti e dalla crisi del
’29 (una crisi molteplice ed essenzialmente mondiale che nasce dagli squilibri
del periodo precedente) e quindi dal New Deal. La grande depressione provoca,
infatti, una tendenza all’introversione, al nazionalismo economico, allo stato
sociale ed alle forme carismatiche di leadership. Nelle condizioni del tempo tutto
questo è un pacchetto unico. Il New Deal è isolamento, sicurezza, intervento
pubblico. Opera controllando la finanza, la produzione, l’immigrazione e la
pianificazione. Dopo la guerra, però, si affaccia nuovamente l’incubo della
stagnazione, e quindi viene combattuto espandendo ancora la spesa e le classi
medie “improduttive”. Emerge la guerra fredda come soluzione; come
controtendenza. Il decennio si chiude con l’affaccio della crisi, la
rivoluzione cubana e l’inizio della decolonizzazione.
Il
Secondo Quadro è dedicato alle “periferie”, al Sud
America ed all’Africa negli anni sessanta. Dal 1958 gli Usa prendono il piano
inclinato del crescente deficit che li porterà alla fine alla rottura degli
anni settanta. Progressivamente scendono le riserve e aumenta la concorrenza
intercapitalista con Europa e Giappone. Le imprese americane, allora, cercano
occasioni di investimento all’estero e subiscono la sfida congiunta della
decolonizzazione e del socialismo. Nasce il progetto politico secondo il quale alla
fine queste tensioni, la stagnazione e le crisi da mancato realizzo, avrebbero
esaurito le risorse degli Usa. Sono gli anni in cui vengono formulate le teorie
dello sviluppo di Rostow, di Solow e sono anni del “triplo scontro”
(USA/Urss/paesi ex coloniali). Anni in cui Che Guevara pronuncia l’importante
“discorso di Algeri” che gli costerà alla fine la vita. Il tema che pone è
quello di uscire dalla logica del valore e conservare il proprio surplus
potenziale. La sistemazione teorica più potente è, in questi anni, elaborata da
Andre “Gunder” Frank per il quale sottosviluppo e sviluppo sono la stessa cosa
in un sistema di stratificazione totale. La stessa tecnologia ne è parte e ogni
settore e segmento che si collocano per il rapporto che ha comunque con
l’estrazione di surplus dagli strati inferiori. Uno spazio è dato anche alla
figura del geografo Yves Lacoste ed alla vicenda delle “colonie interne” (in
particolare alla rivolta nera nelle periferie americane delle Black Panther).
Dopo la metà del decennio inizia l’esaurimento del boom e viene ripercorso
tramite i puntuali contrappunti degli articoli di Paul Sweezy e dei suoi
coautori su Monthly Review.
Il
Terzo quadro è il punto di svolta, gli anni settanta.
Si apre con la rottura di Bretton Woods nel 1971. Tutte le contraddizioni
detonano: un malfunzionamento dei meccanismi di recupero che tenevano sotto
controllo le tendenze alla crisi; l’estensione delle forze produttive che
incorporano alla fine anche il mondo sovietico; una reazione dei ceti
medio-alti e delle imprese. Si tratta del prodotto delle più profonde leggi di
movimento del capitalismo dalla quale per prova ed errore ed in modo
assolutamente non progettato emerge una nuova divisione del lavoro
internazionale (ma ci vorrà un decennio abbondante). Nel testo sono letti gli
interventi di Arrighi del 1972, che rappresenta l’anello tra la teoria
operaista (sia pure eretica) e la percezione dell’esaurimento dello schema, e
una serie di conferenze di Frank e Amin che anno su anno descrivono l’avvio
della divaricazione e la creazione di un nuovo modello orientato sull’estero.
Quindi l’importante libro del 1973 di Samir Amin, “Lo sviluppo ineguale”.
Il
Quarto Quadro individua l’inizio del riflusso, e la
scuola dei sistemi mondo. Siamo negli anni ottanta e muove la caduta e dissoluzione
dell’impero sovietico (letto da Frank come una sconfitta e non fallimento).
Quando alla fine i paesi dell’est cadono sotto il controllo occidentale sono
incorporati in modo subalterno e forniscono le risorse per far apparire il
superamento della crisi. Gli anni ottanta sono una cerniera tra l’esaurimento
del breve ciclo del dopoguerra e l’avvio del ciclo neoliberale nel quale: le
élite finanziarie e industriali si liberano del controllo della logica
territorialista; vengono smantellate le barriere tra sistemi; ha luogo il big
bang della finanza. Si torna alla globalizzazione abbandonata dopo il “momento
Polanyi” degli anni venti-trenta. Ma c’è una novità: dopo la decolonizzazione e
gli sforzi falliti di “sostituire le importazioni”, molti paesi ex coloniali
ora hanno infrastrutture e sono disponibili. I capitali (anche quelli riciclati
dal saccheggio dell’est) vengono quindi proiettati nelle ex periferie ed
esplode l’esercito di riserva mondiale. La base produttiva si sparpaglia in
tutte le aree di minore resistenza. La domanda è garantita dalla fluidità ed
estensione dei mercati e dal meccanismo delle “bolle”. Nasce il sistema della
“sostituzione delle esportazioni”, fragile e basato sulla liquidità, che deve
correre sempre più forte per restare sostanzialmente fermo. Dalla metà degli
anni ottanta a Birmingham la “banda dei quattro” elabora la “teoria dei
sistemi mondo”. Il focus analitico si sposta dagli stati-nazione al
globale.
Negli
anni novanta la teoria si consolida. Viene scritto da Giovanni Arrighi “Il
lungo XX secolo”, nel 1994, e poi “Caos e governo del mondo”, nel
1999. Una teoria dei cicli egemonici non economicista, che individua come
fattore principale il “vantaggio posizionale” e lo scontro tra due tecnologie
del potere, una capitalista ed una territorialista, reciprocamente estranee.
Nascono grandi cicli di accumulazione, composti da una fase di espansione
produttiva seguita da una fase terminale finanziaria, che si intrecciano a
cicli di egemonia in cui un “centro” si impone a tante “periferie”, creando un
sistema. Quando i cicli vanno ad esaurimento la soluzione delle contraddizioni
avviene tramite la riorganizzazione dello spazio politico-economico mondiale da
parte dello Stato capitalistico egemonico. Si passa da DTD’ a TDT’, passando da
un’instabilità all’altra nella ricerca di “terre vergini”.
Il
Quinto Quadro introduce le “divaricazioni” che si
presentano nel nuovo millennio entro la teoria. Nel 1999 Gunder Frank scrive “ReOrient”.
Ora nella sua lettura un solo sistema-mondo esiste da 4000 anni. Ne segue la
necessità di abbandonare la prospettiva dello sganciamento e la stessa critica
al capitalismo. Chiude i conti con la rivoluzione e con l’eurocentrismo. I suoi
amici gli dedicano delle repliche furiose. Lo accusano di “revisionismo” e di
“ritirata recuperante”. Ma per Frank non si tratta di un recupero (della sua
formazione neoclassica), il sistema non tende all’equilibrio, ma si tratta di
affermare che se pure la dipendenza esiste non si può fare nulla. È la
prescrizione politica che era sbagliata non l’analisi. Lo sganciamento non è
possibile e non c’è nessun sistema alternativo.
Nel
Sesto blocco è infine descritta la “ricerca della
speranza”, attraverso le ultime posizioni di Samir Amin e Arrighi. Il primo
punta su un mondo multipolare e, in qualche modo sul sogno di Guevara. Bisogna
sconfiggere punto a punto la tendenza del capitalismo a schiacciare le
periferie, puntando su autonomia, decostruzione delle relazioni di potere,
disconnessione dai vincoli del capitale. Una lotta concreta, da situazioni
concrete, specifiche e nazionali. È necessario insistere sulla creazione di una
controrete e assetti regionalizzati. Negli ultimi testi rivaluta la Cina e pone
sotto accusa i “cinque monopoli” prendendo temi polanyani come la
reincorporazione dell’economico nei rapporti sociali. Bisogna, insomma, “essere
ciò che si vuole e volere quel che si è”. Invece l’ultimo Arrighi, quello di “Adam
Smith a Pechino”, inquadra la Cina come il potenziale modello di un
equilibrio di alto livello radicalmente diverso da quello capitalista (che è
uno squilibrio sistematico fondato sul saccheggio e lo sfruttamento). Pone
sotto attenzione anche due distinte tradizioni nel marxismo stesso, quella per
il quale si tratta di uno sviluppo endogeno, interno, che si compie nel
“segreto laboratorio” della produzione, dove il continuo rivoluzionamento delle
forze produttive conduce, “motu proprio” ad una sempre maggiore efficienza e
razionalità, e quindi al “progresso”. E una nella quale il capitalismo è visto
come dispositivo di oppressione delle periferie del mondo, dei suoi popoli, e
di estrazione delle loro risorse. In questo caso non c’è progresso ma
“accumulazione per espropriazione”.
Nelle
Conclusioni è riassunto il percorso del libro nelle
prime pagine e presentato il suo esito. Il capitalismo è un movimento che
genera sempre una dialettica spaziale internamente connessa con la lotta di
classe. Ne deriva una tendenza interna a trovare sempre nuovi sbocchi alle
eccedenze di capitale che i “centri” (monopolistici) generano, data la loro
difficoltà a trovare occasioni di investimento al livello adeguato per effetto
dei rendimenti decrescenti. Ma questo determina una cronica instabilità e
genera instancabilmente dipendenze. La geopolitica del capitalismo crea quindi
costantemente e necessariamente economie subalterne, e quelle che Harvey chiama
“coerenze strutturate incomplete” (appunto perché dipendenti). Insieme
genera e sostiene alleanze di classe nelle quali quelle superiori sono di necessità
estese a livello internazionale. Quindi crea costantemente colonialismo
(esterno ed interno) ed imperialismo. Questo movimento a spirale, oltre ad
essere costantemente a rischio di crollo, non è autoequilibrante ma favorisce
la concentrazione delle risorse nelle aree forti ed effetti di riflusso su
quelle di provenienza. Questa geopolitica del capitalismo è sempre alla ricerca
di meccanismi nuovi di assorbimento (impiego) del surplus e dello sfruttamento
di una classe e di un territorio sugli altri. Questa ricerca, parossistica, di
‘soluzioni’ spaziali a problemi generati dal ‘tempo’ attiva il circolo vizioso
della competizione sulla scala globale ed espone il mondo al costante rischio
di precipitare nella violenza.
Il
punto del libro è che senza gli strumenti concettuali idonei questa tendenza
intrinseca del capitalismo a generare scontri tra aree e dipendenze “coloniali”
sembra una questione di disposizione morale, mentre è una necessità.
L’accumulazione
del capitale è una questione geografica.
[1] -
Alessandro Visalli, “Dipendenza.
Capitalismo e transizione multipolare”, Meltemi 2020.
[2] - Le classi intermedie anche in
Marx sono sussunte dallo sfruttamento, partecipano all'estrazione ed impiego di
surplus.
[3] - “I costi decrescenti implicano
margini di profitto continuamente crescenti”.
[4] - “La differenza fra il prodotto
che si potrebbe ottenere in un dato ambiente naturale e tecnologico con
l’ausilio delle risorse produttive impiegabili, e ciò che si potrebbe
considerare come consumo indispensabile”.
[5] - “I costi decrescenti implicano
margini di profitto continuamente crescenti”.
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