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mercoledì 4 novembre 2020

“Dipendenza”

  

A settembre 2020 è uscito il libro “Dipendenza. Capitalismo e transizione multipolare[1]. Un libro che si può leggere in tre modi: racconta una storia che si sviluppa dal New Deal ad oggi, mostrando un andamento ciclico ed interconnesso di periodi di disordine sistemico, di espansione e di destabilizzazione; individua una teoria che con questa storia reagisce; presenta la sconfitta politica di un generoso tentativo.

Il primo piano si concentra sulla concatenazione di crisi che aprono sempre alla successiva, con un meccanismo (descritto nella teoria) mosso dalla tendenza del capitalismo alla concentrazione e (quindi) al sottoinvestimento. E descrive quindi le controtendenze che la tengono sotto controllo: guerra fredda, cetomedizzazione, esportazione di capitale, dipendenza interna ed esterna. Ne deriva anche una spiegazione interna della crescita della classe media nel “trentennio” e della ‘società del benessere’ non come confutazione della tesi marxiana (delle “due classi”) ma come sua estensione[2]. Ma ne deriva anche il “teorema di impossibilità” che Baran e Sweezy enunciano con la loro “legge della crescita del surplus[3], e quindi il tentativo di investire le periferie (e non il centro) del compito della rivoluzione.

Questa è l'ipotesi politica della dipendenza che cade quando le periferie sono sussunte (o sono disperse) nell’inversione degli anni ottanta. Di qui nasce la “teoria dei sistemi mondo” che sposta l'attenzione più avanti nello spazio e nel tempo.

 



 

Per descrivere analiticamente il testo.

Un primo blocco teorico descrive le posizioni di quegli autori che convergono nella creazione dell’assiomatica di base. Almeno dei principali: sono Paul Baran negli anni cinquanta, Paul Sweezy negli anni sessanta, Gunnar Myrdal e Francois Perroux.

·        Per Baran non è l’assenza del capitalismo a provocare il sottosviluppo (come contemporaneamente dirà Solow), ma la sua presenza. Per dimostrarlo pone sotto attenzione la meccanica del monopolio ed utilizza la nozione di “surplus potenziale[4]. Secondo la sua classica lettura il monopolio provoca una tendenza al sottoinvestimento e questa produce sottoccupazione e ristagno, quindi sovrapproduzione. E, soprattutto, non esiste nessuna tendenza automatica che può combattere questa dinamica propria del capitalismo. Riprendendo e criticando allo stesso tempo motivi keynesiani per Baran solo lo Stato potrebbe intervenire, ma non lo farà essendo controllato dal capitale (monopolistico). Impedito di agire per ridurre i monopoli lo Stato di fatto dirotta il surplus che cattura sulle spese “improduttive”, tra le quali il commercio estero e l’investimento nei paesi sottosviluppati (che ne aumenta la dipendenza). Farlo è una necessità sistemica che impedisce la stagnazione per impossibilità di ‘realizzo’ del capitale e quindi accumulazione.

·        Per Myrdal il fenomeno centrale per comprendere lo sviluppo e sottosviluppo è la causazione circolare e cumulativa, nella quale si contendono ‘effetti di diffusione’ ed ‘effetti di riflusso’. In generale il processo è polarizzante e non equalizzante.

·        Il testo cruciale “Il capitale monopolistico” di Baran e Sweezy parte dalla definizione della tendenziale dualizzazione del sistema tra monopoli e settore concorrenziale nel quale il primo prevale e “fa i prezzi”. Quindi produce una teoria del monopolio imperniata sulla neutralizzazione della concorrenza sui prezzi e quindi sulla “legge della crescita del surplus[5]; una tendenza sfidata dal lato della realizzazione. Per cui se fossero disponibili solo sbocchi endogeni alla fine il capitalismo monopolistico boccheggerebbe ed il sistema tenderebbe alla stagnazione. Si ricorre allora di necessità, per combattere la tendenza alla crisi, a tre fonti esogene di sbocchi: l’aumento della popolazione, le nuove tecnologie, gli investimenti all’estero. Ma occorre anche produrre sistematicamente, data la tendenza al sottoinvestimento, un metodo per drenare ed impiegare il surplus che tende ad essere eccessivo. L’economia del benessere è dunque l’effetto di una controtendenza intenzionale e necessaria. Tutt’altro che un esito naturale di sistema. Un’altra è la spesa militare (e la guerra fredda), una terza la spesa all’estero e quindi l’estensione della catena dello sfruttamento. Il capitalismo monopolistico è dunque legato con catene molteplici allo sfruttamento estero dal quale dipende, ma ciò crea anche gli elementi di instabilità tendenziale: il deficit delle partite correnti, la finanziarizzazione, la tendenza all’inflazione.

 

Poi c’è un secondo blocco, che retrocede alle radici. Vengono presentate le teorie dell’imperialismo degli anni venti. Hobson, Hilferding, Lenin (ci sono anche Luxemburg e Bucharin). Lenin, riprendendo Hilferding e Hobson, individua la novità della fusione del capitale finanziario con quello industriale. Il fenomeno dipende dal funzionamento essenziale dei meccanismi di accumulazione e non è esterno ad esso. In questo modo è superato il meccanismo della libera concorrenza, tramite l’esportazione del capitale e non delle merci. L’Imperialismo è dunque “lo stadio monopolistico del capitalismo” e produce anche una frattura tra i lavoratori stessi, creando delle categorie privilegiate, sussunte dal capitale e che dipendono dallo sfruttamento imperiale. Viene anche presentata l’importante relazione di Lenin al Congresso di Baku del 1920, in cui viene enunciata e messa in una rigorosa cornice (dodici tesi) la questione coloniale. In base alle tesi l’abolizione dell’ineguaglianza è possibile e immaginabile solo se cessa contemporaneamente anche l’oppressione coloniale.

 

Da qui parte una descrizione per grandi quadri decennali nei quali sono incastonati anche autori e testi che sviluppano, fissandolo, il progetto teorico e politico della “teoria della dipendenza”. Una teoria da cima a fondo politica.

 


Presentazione del libro

 

Il Primo Quadro è dedicato alla “metropoli”, all’imperialismo ed agli anni cinquanta. Si parte, però, dal necessario antefatto, ovvero dalla breve Belle Epoque degli anni venti e dalla crisi del ’29 (una crisi molteplice ed essenzialmente mondiale che nasce dagli squilibri del periodo precedente) e quindi dal New Deal. La grande depressione provoca, infatti, una tendenza all’introversione, al nazionalismo economico, allo stato sociale ed alle forme carismatiche di leadership. Nelle condizioni del tempo tutto questo è un pacchetto unico. Il New Deal è isolamento, sicurezza, intervento pubblico. Opera controllando la finanza, la produzione, l’immigrazione e la pianificazione. Dopo la guerra, però, si affaccia nuovamente l’incubo della stagnazione, e quindi viene combattuto espandendo ancora la spesa e le classi medie “improduttive”. Emerge la guerra fredda come soluzione; come controtendenza. Il decennio si chiude con l’affaccio della crisi, la rivoluzione cubana e l’inizio della decolonizzazione.

Il Secondo Quadro è dedicato alle “periferie”, al Sud America ed all’Africa negli anni sessanta. Dal 1958 gli Usa prendono il piano inclinato del crescente deficit che li porterà alla fine alla rottura degli anni settanta. Progressivamente scendono le riserve e aumenta la concorrenza intercapitalista con Europa e Giappone. Le imprese americane, allora, cercano occasioni di investimento all’estero e subiscono la sfida congiunta della decolonizzazione e del socialismo. Nasce il progetto politico secondo il quale alla fine queste tensioni, la stagnazione e le crisi da mancato realizzo, avrebbero esaurito le risorse degli Usa. Sono gli anni in cui vengono formulate le teorie dello sviluppo di Rostow, di Solow e sono anni del “triplo scontro” (USA/Urss/paesi ex coloniali). Anni in cui Che Guevara pronuncia l’importante “discorso di Algeri” che gli costerà alla fine la vita. Il tema che pone è quello di uscire dalla logica del valore e conservare il proprio surplus potenziale. La sistemazione teorica più potente è, in questi anni, elaborata da Andre “Gunder” Frank per il quale sottosviluppo e sviluppo sono la stessa cosa in un sistema di stratificazione totale. La stessa tecnologia ne è parte e ogni settore e segmento che si collocano per il rapporto che ha comunque con l’estrazione di surplus dagli strati inferiori. Uno spazio è dato anche alla figura del geografo Yves Lacoste ed alla vicenda delle “colonie interne” (in particolare alla rivolta nera nelle periferie americane delle Black Panther). Dopo la metà del decennio inizia l’esaurimento del boom e viene ripercorso tramite i puntuali contrappunti degli articoli di Paul Sweezy e dei suoi coautori su Monthly Review.

 

Il Terzo quadro è il punto di svolta, gli anni settanta. Si apre con la rottura di Bretton Woods nel 1971. Tutte le contraddizioni detonano: un malfunzionamento dei meccanismi di recupero che tenevano sotto controllo le tendenze alla crisi; l’estensione delle forze produttive che incorporano alla fine anche il mondo sovietico; una reazione dei ceti medio-alti e delle imprese. Si tratta del prodotto delle più profonde leggi di movimento del capitalismo dalla quale per prova ed errore ed in modo assolutamente non progettato emerge una nuova divisione del lavoro internazionale (ma ci vorrà un decennio abbondante). Nel testo sono letti gli interventi di Arrighi del 1972, che rappresenta l’anello tra la teoria operaista (sia pure eretica) e la percezione dell’esaurimento dello schema, e una serie di conferenze di Frank e Amin che anno su anno descrivono l’avvio della divaricazione e la creazione di un nuovo modello orientato sull’estero. Quindi l’importante libro del 1973 di Samir Amin, “Lo sviluppo ineguale”.

 

Il Quarto Quadro individua l’inizio del riflusso, e la scuola dei sistemi mondo. Siamo negli anni ottanta e muove la caduta e dissoluzione dell’impero sovietico (letto da Frank come una sconfitta e non fallimento). Quando alla fine i paesi dell’est cadono sotto il controllo occidentale sono incorporati in modo subalterno e forniscono le risorse per far apparire il superamento della crisi. Gli anni ottanta sono una cerniera tra l’esaurimento del breve ciclo del dopoguerra e l’avvio del ciclo neoliberale nel quale: le élite finanziarie e industriali si liberano del controllo della logica territorialista; vengono smantellate le barriere tra sistemi; ha luogo il big bang della finanza. Si torna alla globalizzazione abbandonata dopo il “momento Polanyi” degli anni venti-trenta. Ma c’è una novità: dopo la decolonizzazione e gli sforzi falliti di “sostituire le importazioni”, molti paesi ex coloniali ora hanno infrastrutture e sono disponibili. I capitali (anche quelli riciclati dal saccheggio dell’est) vengono quindi proiettati nelle ex periferie ed esplode l’esercito di riserva mondiale. La base produttiva si sparpaglia in tutte le aree di minore resistenza. La domanda è garantita dalla fluidità ed estensione dei mercati e dal meccanismo delle “bolle”. Nasce il sistema della “sostituzione delle esportazioni”, fragile e basato sulla liquidità, che deve correre sempre più forte per restare sostanzialmente fermo. Dalla metà degli anni ottanta a Birmingham la “banda dei quattro” elabora la “teoria dei sistemi mondo”. Il focus analitico si sposta dagli stati-nazione al globale.

Negli anni novanta la teoria si consolida. Viene scritto da Giovanni Arrighi “Il lungo XX secolo”, nel 1994, e poi “Caos e governo del mondo”, nel 1999. Una teoria dei cicli egemonici non economicista, che individua come fattore principale il “vantaggio posizionale” e lo scontro tra due tecnologie del potere, una capitalista ed una territorialista, reciprocamente estranee. Nascono grandi cicli di accumulazione, composti da una fase di espansione produttiva seguita da una fase terminale finanziaria, che si intrecciano a cicli di egemonia in cui un “centro” si impone a tante “periferie”, creando un sistema. Quando i cicli vanno ad esaurimento la soluzione delle contraddizioni avviene tramite la riorganizzazione dello spazio politico-economico mondiale da parte dello Stato capitalistico egemonico. Si passa da DTD’ a TDT’, passando da un’instabilità all’altra nella ricerca di “terre vergini”.

 

Il Quinto Quadro introduce le “divaricazioni” che si presentano nel nuovo millennio entro la teoria. Nel 1999 Gunder Frank scrive “ReOrient”. Ora nella sua lettura un solo sistema-mondo esiste da 4000 anni. Ne segue la necessità di abbandonare la prospettiva dello sganciamento e la stessa critica al capitalismo. Chiude i conti con la rivoluzione e con l’eurocentrismo. I suoi amici gli dedicano delle repliche furiose. Lo accusano di “revisionismo” e di “ritirata recuperante”. Ma per Frank non si tratta di un recupero (della sua formazione neoclassica), il sistema non tende all’equilibrio, ma si tratta di affermare che se pure la dipendenza esiste non si può fare nulla. È la prescrizione politica che era sbagliata non l’analisi. Lo sganciamento non è possibile e non c’è nessun sistema alternativo.

 

Nel Sesto blocco è infine descritta la “ricerca della speranza”, attraverso le ultime posizioni di Samir Amin e Arrighi. Il primo punta su un mondo multipolare e, in qualche modo sul sogno di Guevara. Bisogna sconfiggere punto a punto la tendenza del capitalismo a schiacciare le periferie, puntando su autonomia, decostruzione delle relazioni di potere, disconnessione dai vincoli del capitale. Una lotta concreta, da situazioni concrete, specifiche e nazionali. È necessario insistere sulla creazione di una controrete e assetti regionalizzati. Negli ultimi testi rivaluta la Cina e pone sotto accusa i “cinque monopoli” prendendo temi polanyani come la reincorporazione dell’economico nei rapporti sociali. Bisogna, insomma, “essere ciò che si vuole e volere quel che si è”. Invece l’ultimo Arrighi, quello di “Adam Smith a Pechino”, inquadra la Cina come il potenziale modello di un equilibrio di alto livello radicalmente diverso da quello capitalista (che è uno squilibrio sistematico fondato sul saccheggio e lo sfruttamento). Pone sotto attenzione anche due distinte tradizioni nel marxismo stesso, quella per il quale si tratta di uno sviluppo endogeno, interno, che si compie nel “segreto laboratorio” della produzione, dove il continuo rivoluzionamento delle forze produttive conduce, “motu proprio” ad una sempre maggiore efficienza e razionalità, e quindi al “progresso”. E una nella quale il capitalismo è visto come dispositivo di oppressione delle periferie del mondo, dei suoi popoli, e di estrazione delle loro risorse. In questo caso non c’è progresso ma “accumulazione per espropriazione”.

 

Nelle Conclusioni è riassunto il percorso del libro nelle prime pagine e presentato il suo esito. Il capitalismo è un movimento che genera sempre una dialettica spaziale internamente connessa con la lotta di classe. Ne deriva una tendenza interna a trovare sempre nuovi sbocchi alle eccedenze di capitale che i “centri” (monopolistici) generano, data la loro difficoltà a trovare occasioni di investimento al livello adeguato per effetto dei rendimenti decrescenti. Ma questo determina una cronica instabilità e genera instancabilmente dipendenze. La geopolitica del capitalismo crea quindi costantemente e necessariamente economie subalterne, e quelle che Harvey chiama “coerenze strutturate incomplete” (appunto perché dipendenti). Insieme genera e sostiene alleanze di classe nelle quali quelle superiori sono di necessità estese a livello internazionale. Quindi crea costantemente colonialismo (esterno ed interno) ed imperialismo. Questo movimento a spirale, oltre ad essere costantemente a rischio di crollo, non è autoequilibrante ma favorisce la concentrazione delle risorse nelle aree forti ed effetti di riflusso su quelle di provenienza. Questa geopolitica del capitalismo è sempre alla ricerca di meccanismi nuovi di assorbimento (impiego) del surplus e dello sfruttamento di una classe e di un territorio sugli altri. Questa ricerca, parossistica, di ‘soluzioni’ spaziali a problemi generati dal ‘tempo’ attiva il circolo vizioso della competizione sulla scala globale ed espone il mondo al costante rischio di precipitare nella violenza.

Il punto del libro è che senza gli strumenti concettuali idonei questa tendenza intrinseca del capitalismo a generare scontri tra aree e dipendenze “coloniali” sembra una questione di disposizione morale, mentre è una necessità.

 

L’accumulazione del capitale è una questione geografica.



[1] - Alessandro Visalli, “Dipendenza. Capitalismo e transizione multipolare”, Meltemi 2020.

[2] - Le classi intermedie anche in Marx sono sussunte dallo sfruttamento, partecipano all'estrazione ed impiego di surplus.

[3] - “I costi decrescenti implicano margini di profitto continuamente crescenti”.

[4] - “La differenza fra il prodotto che si potrebbe ottenere in un dato ambiente naturale e tecnologico con l’ausilio delle risorse produttive impiegabili, e ciò che si potrebbe considerare come consumo indispensabile”.

[5] - “I costi decrescenti implicano margini di profitto continuamente crescenti”.

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