Pagine

domenica 29 novembre 2020

Alvaro Garcia Linera “La Bolivia non ha un destino scritto”.

  

In questa intervista[1] l’ex Vicepresidente della Bolivia, Alvaro Garcia Linera, commenta il trionfo elettorale del Movimento al Socialismo (MAS) dopo pochi mesi dal colpo di stato che rovesciò il governo appena eletto di Evo Morales al quale partecipava. Si è trattato della ripresa del potere dei ceti medi ‘bianchi’ e del grande capitale boliviano, in danno principalmente della popolazione ‘india’ (che in Bolivia è la larga maggioranza) e dei ceti popolari, con l’aiuto decisivo del grande capitale internazionale e dell’amministrazione Trump.



Il tono dell’intervista è enfatico, l’intervistatore dice “esultante”, e la cosa è comprensibile. Dopo pochi mesi di sanguinosa repressione, alla prima occasione elettorale la destra è stata nuovamente sconfitta. La conclusione che ne trae Linera è tanto semplice quanto ovvia, a cose fatte. Ovvero che il progetto del MAS era stato ricacciato ma non sconfitto, perché conservava la sua forza morale e la sua energia. Al netto di qualche arcaismo, come la dichiarazione che se si danno benefici alla gente più semplice si “va con il senso della storia” (sarebbe bello, ma non è vero), e che “la storia sta camminando in questa direzione”, la sua analisi della vittoria è semplice ed efficace: il ricordo dell’avanzamento sociale della ‘gente semplice’ ottenuto nel periodo di governo, la messa a confronto con l’arretramento subitaneo prodotto dalla reazione, la capacità organizzativa e di allargamento ad altre voci. La terza cosa è stata anzi facilitata dalla reazione, perché cambiare leadership mentre si era al governo poteva essere (e di fatto era) difficile; avrebbe messo in gioco le ambizioni delle diverse componenti e provocato un percorso di frammentazione. Questa era la ragione per la quale, alla fine, era stata riproposta la candidatura di Morales. Ma mentre si era sotto attacco e respinti dal potere è stato possibile un accordo unitario. Insomma, la caduta ha ripristinato lo spirito di lotta e di unità.

C’è stato altro, la destra ha fallito nel principale compito del politico: non è riuscita a produrre un progetto credibile di economia, stato e società. Al contrario il MAS è riuscito a dirigere l’orizzonte di previsione della maggioranza delle persone, ha vinto quella che Linera chiama la “lotta per il monopolio dell’orizzonte predittivo della società”. Ovvero, concretamente, “come le persone prevedono il loro destino immediato”.

Al contrario, come detto, il MAS ha nuovamente vinto perché è riuscito a rigenerarsi nella lotta, a riprendere la spinta morale e la “mistica” che anni di potere stavano attenuando. Ed ha vinto elettoralmente. Questo per Linera significa che si può non solo vincere, ma anche difendere le vittorie con la via elettorale, che la destra sta sempre più svalutando.

Ma per farlo ci sono delle condizioni, una è l’avere una ‘mistica’ e stare dalla parte giusta, ma un’altra è di indebolire in modo decisivo i fattori di potenza strutturali dei caposaldi economici della destra. In Bolivia si è trattato di togliere centralità e capacità di ricatto all’agroindustria di esportazione nella parte orientale del paese, controllata da poche famiglie dell’alta borghesia tradizionale. Quando infatti il MAS è andato al potere, nel 2005, questa industria integralmente dipendente dalle esportazioni e quindi intrecciata profondamente con il mercato mondiale valeva 900 milioni dollari di esportazioni del paese. Quando è caduto era rimasta invariata. Ma con una differenza, allora le esportazioni totali erano di 3.000 milioni e nel 2019 sono diventate 9.000 milioni. La Bolivia, insomma, in quindici anni aveva triplicato le esportazioni (che restano poche in termini assoluti, l’Italia esporta 465 miliardi, circa 45 volte di più), e il settore di Santa Cruz è passato dal contare un terzo delle esportazioni del paese ad un nono.

Un altro aspetto rilevante è interno alla filiera agroindustriale, e riguarda l’organizzazione del lavoro e dei rapporti interni di gerarchia e dipendenza. Mentre quindici anni fa i contadini producevano avendo il credito per l’acquisto dei fattori produttivi esclusivamente dall’imprenditore/acquirente, il MAS è intervenuto spezzando questa filiera e fornendo credito diretto. Quindi ha creato un trasformatore della soia pubblico in concorrenza con i monopoli privati, indebolendoli. Questo ha aumentato il controllo sia dello Stato sia dei contadini sulle ragioni di scambio insite nella filiera, ed ha ostacolato le manovre di modulazione del prezzo e dei margini dei produttori che potevano essere usate anche a fini politici (per mettere in difficoltà il governo dando l’impressione di un’inflazione crescente). Ora se i privati smettono di vendere la soia ai piccoli allevamenti c’è lo Stato che la può vendere. Se essi restringono il credito lo Stato può intervenire.

In altre parole, con il Pil che è cresciuto da 8 a 42 miliardi di dollari in quindici anni il potere della filiera dell’agroindustria si è fatto minore, ora lo Stato può trattare da pari a pari e quindi ha quella che Linera chiama “una autonomia relativa”. Una potenza relativa, non assoluta.

Per Linera, del resto, un’autonomia assoluta non serve, lo Stato non deve socializzare tutto ma deve creare le condizioni per non lasciarsi controllare dal capitale. Basta il 30% del Pil direttamente controllato, o poco più. Ma per farlo deve nazionalizzare solo le aree economiche che rendono, non quelle che sarebbero un peso. “Non ti devi tirare indietro i morti”, anche questo serve ad avere potere reale. Come serve intervenire nell’esportazione dei capitali a fini di elusione fiscale (che i “Panama papers” hanno mostrato in evidenza) e costringere parte del capitale finanziario ad impegnarsi nell’industria nazionale.

 

Nel resto dell’intervista viene affrontato un tema molto delicato. Quale è la funzione del governo dello Stato nel processo di transizione verso il socialismo? La risposta che fornisce Linera è che l’iniziativa è della società, lo Stato non può arrivare al socialismo per decreto, neppure se nazionalizza integralmente le proprietà private. Per arrivare davvero ad un sistema diverso dal capitalismo bisogna che nella società esista una spinta a democratizzare i rapporti di proprietà e di produzione. In tal caso la funzione del governo è di “appoggiarsi su questo e irradiarlo”. Ma se non nasce questa spinta a democratizzare, il compito è di accompagnare quel che c’è. Anche se per ora è solo una spinta riformista, ai riconoscimenti, le partecipazioni.

Ovviamente facendo attenzione ai movimenti ambigui delle classi medie, a quel che chiama con la Fraser il “neoliberismo progressista”, ovvero un certo femminismo, neoculturalismo, ecologismo che sono coerenti con la narrativa della modernità, la globalizzazione, la “cosa fica”. Facendo attenzione a promuovere le politiche di mobilità sociale delle classi povere, emarginate.

È questo, specificamente, che alla fine ha irritato, per mero fatto materiale, queste classi medie che si vedevano scavalcate. Questa è la base materiale della narrativa contro il “governo estrattivista” che fu agitato contro di loro. Alla base il fatto, semplice ed enorme, che le vecchie classi medie bianche, che quando nel 2005 il MAS andò al potere contavano il 30% della società, sono state nel tempo affiancate da nuove classi medie meticcie che hanno finito per avere la stessa dimensione. La società è diventata molto più abbiente, meno polarizzata, ma i vecchi borghesi si sono trovati a competere con molta più gente. C’è stata quindi a novembre scorso una vera e propria mobilitazione contro l’uguaglianza.

In sostanza i “bianchi” ed i cittadini hanno cercato di spingere indietro e sotto i nuovi venuti, i colorati, gli ignoranti, i maleducati. Come si sono talvolta espressi, che tornassero negli altopiani, lontani dalle città. Jeanine Añez, la presidenta autoproclamata, esponente dell’alta borghesia bianca, sventolando la bibbia, esordì dichiarando “Che gli indios tornino pure al loro ruolo di subumani, che non possano più interessarsi al governo del paese e diventare proprietari delle sue risorse”.

Sono seguite enormi mobilitazioni, e omicidi mirati, spari dagli elicotteri sulle folle, a Cochabamba trenta morti e settecento feriti, a El Alto altri due morti, a Plaza Murillo…



Gli indio si sono ribellati in nome di Evo Morales, ma anche della loro lunga storia secolare da quando i conquistadores li sottomisero. Da quando i bianchi arrivarono. Hanno ricordato la lotta dell'indio Julián Apaza che prese il nome di “Túpac Katari” a La Paz; la lotta di José Gabriel Condorcanqui che prese il nome di “Túpac Amaru” a Cuzco; la lotta di Bartolina Sisa, moglie di “Túpac Katari”.

 

La vicenda, con l’imprevisto esito elettorale, è parte di una lotta senza esclusione di colpi ed all’ultimo sangue che l’amministrazione Trump, in perfetta continuità con quella che l’ha preceduta e, ne sono sicuro, con quella che ora inizia di Biden, ha sviluppato in tutta la regione. Una lotta che ha come snodi non solo il colpo di stato di Mesa e Camacho in Bolivia, ma anche il Cile di Piñera, il Brasile di Bolsonaro (con l’arresto di Lula che lo precede), l’Argentina con Macri, l’Uruguay, il Paraguay, l’offensiva per ora sconfitta in Venezuela, i disordini in Nicaragua, Haiti, Ecuador, Perù.

Il 189esimo colpo di stato nella storia boliviana dal 1825 ad oggi è stato chiuso dalla volontà del popolo.

 

Il futuro è nelle nostre mani.

 



[1] - Si veda “Bolivia no tiene escrito su destino”, la traduzione italiana su Contropiano a questo link (riportata con qualche minimo adattamento).

Nessun commento:

Posta un commento