In
questa intervista[1]
l’ex Vicepresidente della Bolivia, Alvaro Garcia Linera, commenta il trionfo
elettorale del Movimento al Socialismo (MAS) dopo pochi mesi dal colpo di stato
che rovesciò il governo appena eletto di Evo Morales al quale partecipava. Si è
trattato della ripresa del potere dei ceti medi ‘bianchi’ e del grande capitale
boliviano, in danno principalmente della popolazione ‘india’ (che in Bolivia è
la larga maggioranza) e dei ceti popolari, con l’aiuto decisivo del grande
capitale internazionale e dell’amministrazione Trump.
Il
tono dell’intervista è enfatico, l’intervistatore dice “esultante”, e la cosa è
comprensibile. Dopo pochi mesi di sanguinosa repressione, alla prima occasione
elettorale la destra è stata nuovamente sconfitta. La conclusione che ne trae
Linera è tanto semplice quanto ovvia, a cose fatte. Ovvero che il progetto del
MAS era stato ricacciato ma non sconfitto, perché conservava la sua forza
morale e la sua energia. Al netto di qualche arcaismo, come la dichiarazione
che se si danno benefici alla gente più semplice si “va con il senso della
storia” (sarebbe bello, ma non è vero), e che “la storia sta camminando in
questa direzione”, la sua analisi della vittoria è semplice ed efficace: il
ricordo dell’avanzamento sociale della ‘gente semplice’ ottenuto nel periodo di
governo, la messa a confronto con l’arretramento subitaneo prodotto dalla
reazione, la capacità organizzativa e di allargamento ad altre voci. La terza
cosa è stata anzi facilitata dalla reazione, perché cambiare leadership mentre
si era al governo poteva essere (e di fatto era) difficile; avrebbe messo in
gioco le ambizioni delle diverse componenti e provocato un percorso di
frammentazione. Questa era la ragione per la quale, alla fine, era stata
riproposta la candidatura di Morales. Ma mentre si era sotto attacco e respinti
dal potere è stato possibile un accordo unitario. Insomma, la caduta ha
ripristinato lo spirito di lotta e di unità.
C’è
stato altro, la destra ha fallito nel principale compito del politico: non è
riuscita a produrre un progetto credibile di economia, stato e società. Al
contrario il MAS è riuscito a dirigere l’orizzonte di previsione della
maggioranza delle persone, ha vinto quella che Linera chiama la “lotta per il
monopolio dell’orizzonte predittivo della società”. Ovvero, concretamente,
“come le persone prevedono il loro destino immediato”.
Al
contrario, come detto, il MAS ha nuovamente vinto perché è riuscito a
rigenerarsi nella lotta, a riprendere la spinta morale e la “mistica” che anni
di potere stavano attenuando. Ed ha vinto elettoralmente. Questo per Linera
significa che si può non solo vincere, ma anche difendere le vittorie con la
via elettorale, che la destra sta sempre più svalutando.
Ma
per farlo ci sono delle condizioni, una è l’avere una ‘mistica’ e stare dalla
parte giusta, ma un’altra è di indebolire in modo decisivo i fattori di potenza
strutturali dei caposaldi economici della destra. In Bolivia si è trattato di
togliere centralità e capacità di ricatto all’agroindustria di esportazione
nella parte orientale del paese, controllata da poche famiglie dell’alta
borghesia tradizionale. Quando infatti il MAS è andato al potere, nel 2005,
questa industria integralmente dipendente dalle esportazioni e quindi
intrecciata profondamente con il mercato mondiale valeva 900 milioni dollari di
esportazioni del paese. Quando è caduto era rimasta invariata. Ma con una
differenza, allora le esportazioni totali erano di 3.000 milioni e nel 2019
sono diventate 9.000 milioni. La Bolivia, insomma, in quindici anni aveva
triplicato le esportazioni (che restano poche in termini assoluti, l’Italia
esporta 465 miliardi, circa 45 volte di più), e il settore di Santa Cruz è
passato dal contare un terzo delle esportazioni del paese ad un nono.
Un
altro aspetto rilevante è interno alla filiera agroindustriale, e riguarda
l’organizzazione del lavoro e dei rapporti interni di gerarchia e dipendenza.
Mentre quindici anni fa i contadini producevano avendo il credito per
l’acquisto dei fattori produttivi esclusivamente dall’imprenditore/acquirente,
il MAS è intervenuto spezzando questa filiera e fornendo credito diretto.
Quindi ha creato un trasformatore della soia pubblico in concorrenza con i
monopoli privati, indebolendoli. Questo ha aumentato il controllo sia dello
Stato sia dei contadini sulle ragioni di scambio insite nella filiera, ed ha
ostacolato le manovre di modulazione del prezzo e dei margini dei produttori
che potevano essere usate anche a fini politici (per mettere in difficoltà il
governo dando l’impressione di un’inflazione crescente). Ora se i privati smettono
di vendere la soia ai piccoli allevamenti c’è lo Stato che la può vendere. Se
essi restringono il credito lo Stato può intervenire.
In
altre parole, con il Pil che è cresciuto da 8 a 42 miliardi di dollari in
quindici anni il potere della filiera dell’agroindustria si è fatto minore, ora
lo Stato può trattare da pari a pari e quindi ha quella che Linera chiama “una
autonomia relativa”. Una potenza relativa, non assoluta.
Per
Linera, del resto, un’autonomia assoluta non serve, lo Stato non deve
socializzare tutto ma deve creare le condizioni per non lasciarsi controllare
dal capitale. Basta il 30% del Pil direttamente controllato, o poco più. Ma per
farlo deve nazionalizzare solo le aree economiche che rendono, non quelle che
sarebbero un peso. “Non ti devi tirare indietro i morti”, anche questo serve ad
avere potere reale. Come serve intervenire nell’esportazione dei capitali a
fini di elusione fiscale (che i “Panama papers” hanno mostrato in evidenza) e
costringere parte del capitale finanziario ad impegnarsi nell’industria
nazionale.
Nel
resto dell’intervista viene affrontato un tema molto delicato. Quale è la
funzione del governo dello Stato nel processo di transizione verso il
socialismo? La risposta che fornisce Linera è che l’iniziativa è della società,
lo Stato non può arrivare al socialismo per decreto, neppure se nazionalizza
integralmente le proprietà private. Per arrivare davvero ad un sistema diverso
dal capitalismo bisogna che nella società esista una spinta a democratizzare i
rapporti di proprietà e di produzione. In tal caso la funzione del governo è di
“appoggiarsi su questo e irradiarlo”. Ma se non nasce questa spinta a
democratizzare, il compito è di accompagnare quel che c’è. Anche se per ora è
solo una spinta riformista, ai riconoscimenti, le partecipazioni.
Ovviamente
facendo attenzione ai movimenti ambigui delle classi medie, a quel che chiama
con la Fraser il “neoliberismo progressista”, ovvero un certo femminismo,
neoculturalismo, ecologismo che sono coerenti con la narrativa della modernità,
la globalizzazione, la “cosa fica”. Facendo attenzione a promuovere le
politiche di mobilità sociale delle classi povere, emarginate.
È
questo, specificamente, che alla fine ha irritato, per mero fatto materiale,
queste classi medie che si vedevano scavalcate. Questa è la base materiale
della narrativa contro il “governo estrattivista” che fu agitato contro di loro.
Alla base il fatto, semplice ed enorme, che le vecchie classi medie bianche,
che quando nel 2005 il MAS andò al potere contavano il 30% della società, sono
state nel tempo affiancate da nuove classi medie meticcie che hanno finito per
avere la stessa dimensione. La società è diventata molto più abbiente, meno
polarizzata, ma i vecchi borghesi si sono trovati a competere con molta più
gente. C’è stata quindi a novembre scorso una vera e propria mobilitazione
contro l’uguaglianza.
In
sostanza i “bianchi” ed i cittadini hanno cercato di spingere indietro e sotto
i nuovi venuti, i colorati, gli ignoranti, i maleducati. Come si sono talvolta
espressi, che tornassero negli altopiani, lontani dalle città. Jeanine Añez, la
presidenta autoproclamata, esponente dell’alta borghesia bianca, sventolando la
bibbia, esordì dichiarando “Che gli indios tornino pure al loro ruolo di
subumani, che non possano più interessarsi al governo del paese e diventare
proprietari delle sue risorse”.
Sono
seguite enormi mobilitazioni, e omicidi mirati, spari dagli elicotteri sulle
folle, a Cochabamba trenta morti e settecento feriti, a El Alto altri due
morti, a Plaza Murillo…
Gli
indio si sono ribellati in nome di Evo Morales, ma anche della loro lunga
storia secolare da quando i conquistadores li sottomisero. Da quando i bianchi
arrivarono. Hanno ricordato la lotta dell'indio Julián Apaza che prese il nome
di “Túpac Katari” a La Paz; la lotta di José Gabriel Condorcanqui che
prese il nome di “Túpac Amaru” a Cuzco; la lotta di Bartolina Sisa,
moglie di “Túpac Katari”.
La
vicenda, con l’imprevisto esito elettorale, è parte di una lotta senza
esclusione di colpi ed all’ultimo sangue che l’amministrazione Trump, in
perfetta continuità con quella che l’ha preceduta e, ne sono sicuro, con quella
che ora inizia di Biden, ha sviluppato in tutta la regione. Una lotta che ha
come snodi non solo il colpo di stato di Mesa e Camacho in Bolivia, ma anche il
Cile di Piñera, il Brasile di Bolsonaro (con l’arresto di Lula che lo
precede), l’Argentina con Macri, l’Uruguay, il Paraguay, l’offensiva per ora
sconfitta in Venezuela, i disordini in Nicaragua, Haiti, Ecuador, Perù.
Il
189esimo colpo di stato nella storia boliviana dal 1825 ad oggi è stato chiuso
dalla volontà del popolo.
Il
futuro è nelle nostre mani.
[1]
- Si veda “Bolivia
no tiene escrito su destino”, la traduzione italiana su Contropiano a
questo link
(riportata con qualche minimo adattamento).
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