“Un
uomo giace da tempo in una specie di pozza di fango, la luce è scarsa e rossa,
e filtra tra una densa foresta. Sta lentamente soffocando per effetto di un
enorme boa che lo avvolge nelle sue spire, senza fretta e progressivamente.
Improvvisamente l'attenzione che questo prestava, inutilmente a dir la verità,
al boa viene distratta da un evento.... con la coda dell'occhio intravede una
massa di muscoli, tendini ed artigli colorata di giallo e nero che si sta
precipitando su di lui. È una tigre. Chi è il nemico? Penso si possa dire una
cosa di sicuro: abbiamo un gran problema”.
Proveremo
poi a identificare boa e tigre, e magari anche l’uomo e la foresta, ma prima
proviamo a parlare dell’oggetto: Andrea Zhok da tempo riflette in modo radicale
e coraggioso sulla società nella quale viviamo ed i vicoli ciechi del suo senso
comune e della sua ideologia. Lo ha sempre fatto da un punto di vista
specifico, che non nasconde come non lo nascondo io. Lo abbiamo (se pure
immeritatamente dal mio lato) fatto insieme. Continueremo a farlo.
In
effetti tutti stiamo compiendo una dolorosa riflessione, che ognuno articola
secondo la propria sensibilità ed esperienze. Facendola insieme gli diamo
senso.
In
“Ancora su destra e sinistra”[1], che reca come sottotitolo
“riflessioni di un post-comunista”, Andrea produce un’ammirevole sintesi e
ricostruzione di quella che è stata l’esperienza ed il pensiero di molti in
questi anni. Descrive la traiettoria di un percorso di assunzione di
consapevolezza e responsabilità capace di allargare lo sguardo e generare nuove
prospettive. Lo descrive così: recuperare il buono di una vetusta e
illustre tradizione, quella dei grandi partiti di classe nel novecento
italiano, ovvero il nesso interno necessario tra l’identità di popolo e la
difesa, esercizio ed estensione della democrazia; un particolare modo di essere
comunitari che era di Hegel, ma anche del Marx “migliore”; rivendicare
un approccio non relativista anche entro le difficoltà del riferimento (cosa
che implica, io credo, in qualche necessaria misura il recupero, anche contro
un altro Marx, di una forma di giusnaturalismo e di umanesimo). Recuperarlo
anche se questi temi, tutti o alcuni, sono da tempo stati marchiati come “di
destra”. Questo percorso è il mio e nostro, su questo sentiero ci siamo
incamminati e questo proseguiamo.
Lo
abbiamo fatto da quando dalle nostre rispettive provenienze abbiamo subito quel
che giustamente Andrea chiama uno “slittamento gestaltico”. Quelle
figure che ci apparivano indubbiamente anatre, sono diventate conigli. Quasi
improvvisamente molti di noi che qualche esperienza l’avevamo avuta nei partiti
della sinistra li abbiamo visti per quel che sono: una versione non
particolarmente originale del senso comune liberale o, nella versione radical,
del libertarismo postmoderno inevitabilmente individualista.
Non
è necessario, anche se ce lo siamo chiesto a lungo, come sia avvenuto. È
stata una lunga storia che ha portato alcuni, i post-comunisti, a
rigettare completamente una tradizione (serbandone solo un certo habitus
mentale ormai pervertito) ed altri a dichiararsi post-comunisti, ma
senza sapere ormai come fare, dato che la sostanza era stata regalata. Sostanza
che per Andrea è la prospettiva popolare, collettiva, umanistica, nazionale
e internazionale, e, abbastanza necessariamente anche austera e disciplinare.
Ci sono, insomma, gli apostati e ci sono gli smarriti.
Di
qui partiamo.
Andrea
ha citato la dialettica hegeliana ed anche io vorrei fare un esercizio
dialettico con il suo testo, ma più antico. Vorrei discuterlo pacatamente,
pazientemente, ordinatamente, cercando di stare nel vero, ma soprattutto
cercando di formulare qualche altro enunciato e ipotesi entro i termini che il
testo (se lo capisco) pone ed accetta. Vorrei cercare insieme. E, naturalmente,
cercare una visione generale[2].
Nell’articolo
è proposto un percorso stilizzato. Ci sono due crisi
che determinano lo stato nel quale siamo: la prima è la crisi aperta nel
2007. Nel nostro contesto essa mette in movimento una catena di eventi che
aprono gli occhi a molti sulla vera natura del progetto europeo. Non si tratta,
come aveva(mo) sperato e creduto, del tentativo di costruire un modello
economico diverso ed opposto a quello americano, ma di assorbirlo
neutralizzando finalmente la specificità europea[3]. Qui il livello di
stilizzazione è invero molto alto, ma abbiamo passato troppi anni a discuterne
nei minimi dettagli per non concederlo. Quando lo speravamo e credevamo, con
noi molti ed una intera, enorme, letteratura non solo europea, ci illudevamo
(ci siamo sempre illusi, anche ben prima del crollo del muro, al riguardo). Ma
certo ora non ci crediamo. La natura della Ue è davanti a noi. Né basta a
mutare parere qualche balbettio e promessa[4].
La
seconda è la crisi del 2020, avviata ed incrudita su solide
basi preesistenti dalla sfida pandemica. Andrea ed io rifiutiamo qualsiasi
lettura di questa fondata sulla ipersemplificazione e la ricerca del capro
espiatorio, o, che è lo stesso, sulla sua mera e semplice negazione. La crisi
non è la causa, ma certo l’immane acceleratore di insopportabili ineguaglianze
e dissimmetrie, essa induce tensioni colossali nello sfilacciato e anomico
corpo della non-società neoliberale. Lascia intravedere il rischio di crollo.
Non
già del capitalismo, ma del livello resistente della civiltà
del novecento, in particolare europea. La crisi, se produrrà crollo, mi sembra
dica Andrea, potrebbe completare il percorso di disgregazione fino al grado
zero di ogni azione collettiva razionale, delle sue istituzioni, delle
strutture di senso che ancora, abbastanza miracolosamente ed assediate, qui e
lì, resistono.
Un
crollo che non ha positività. Dal quale non verrà alcuna palingenesi.
Da
questa diagnosi deriva un primo posizionamento. E con esso inizia la mia
dialettica.
Tre
enunciati, riguardo alla crisi socio-economica nel contesto delle istituzioni
europee:
a- Tutto
si sta muovendo e nulla è (ancora) davvero deciso;
b- Molte
(nuove) carte sono disponibili e andrebbero giocate (tutte) senza preclusioni;
c- È
egualmente rischioso se a giocarle sono i pasdaran progressisti o la destra
mercatista.
Dei
termini posti accolgo che si sta muovendo la situazione, ma non che lo fa “tutto”.
Accolgo che nulla è deciso, ma in un senso in parte diverso. Accolgo che molte
carte nuove sono disponibili, e accolgo che andrebbero giocate se possibile (ma
su un piano che va precisato). Accolgo che è egualmente rischioso se a giocarle
sono chiamate questa sinistra che abbiamo tra i piedi (ovvero, è chiaro, il
governo in carica) o la destra mercatista che potrebbe subentrarle.
Ma
rinvio la discussione circa la mia riserva a quando abbiamo completato il
percorso dell’articolo.
Interviene
la seconda soglia. O il secondo posizionamento, come mi
piace definirlo. Per Andrea la crisi Covid non produce solo effetti sul quadro
istituzionale o inter-governativo; essa mette davanti ai nostri occhi una sorta
di “test naturale”. La violenza degli effetti sulle vite comuni e
quotidiane di quasi tutti noi, e l’immane distanza tra gli impatti (a seconda
della posizione di ciascuno nel meccanismo produttivo, di inclusione protetta,
di inclusione incerta, a tempo e precaria, debole, di semi-esclusione o di
completa esternalità[5]), producono uno stress
rispetto al quale siamo interrogati. Due temi sono enucleati dall’autore di “Identità
della persona e senso dell’esistenza”[6], di “Critica della
ragione liberale”[7], ma anche di “Libertà e
natura. Fenomenologia e ontologia dell’azione”[8]:
1) il
dilemma tragico tra salute e libertà;
2) la
scelta tra volontà e ragione.
Nel
porre la questione in questo modo è presente, anche se naturalmente non
esplicato, un profondo radicamento filosofico. Sono, questi, temi sui quali si è
esercitato a lungo e sistematicamente. Questi sono di gran lunga i passaggi più
specifici, accurati e interessanti dell’intero articolo.
Il
“dilemma tragico” tra la necessità di salvaguardare il valore della vita
umana (si noti, non tanto sfidata dal decorso della malattia quando
adeguatamente assistita, ma dagli effetti di questa sul sistema di assistenza)
e la libertà individuale, o le conseguenze a carico del sistema economico, pone
questioni che si stanno facendo chiare. La seconda coppia, quella tra “semplificazione
volontaristica” e “complessità raziocinante”, sta emergendo con
forza e si intreccia con la prima in modo complesso.
È
qui che il testo fa una scelta forte. È qui che, se anche accolgo
la sostanza del fatto enucleato, vorrei porre una differenza. Andrea legge direttamente
politicamente la doppia coppia. E poi cala la distinzione entro il campo di
coloro che erano e sono impegnati nella critica all’Europa realmente esistente
ed alle culture politiche con essa legate.
Orientarsi
nel primo dilemma verso la polarità libertà/economia, svalorizzando (o negando)
quella protezione e salute, significa per il nostro direttamente essere
sensibile alla tradizione politica della destra neoliberale, o liberale. Mentre
restare sintonizzati con la protezione collettiva della vita implica un
ancoraggio alle citate tradizioni dei partiti e movimenti della sinistra, ben
più sensibili all’attivismo statale. Avere in sospetto la semplificazione
volontaristica, e ricercare l’articolazione delle cause rifuggendo colpevoli
facilmente identificabili resterebbe connesso con la stessa frattura
destra/sinistra.
Ma
esiste uno slittamento rilevante: mentre la prima coppia vede all’opposizione
un approccio collettivista o statalista contro uno libertario, e quindi si
legge secondo la lente della differenza tra le due coste dell’Atlantico; la
seconda riverbera posture anti-razionali e anti-intellettualistiche che
ricordano la tradizione fascista, restando quindi ben fondata in Italia. Ne
deriva che, andando immediatamente a maggiore profondità, la differenza
direttamente politica si radica in “tendenze antropologiche e psicologiche” che
hanno una ragione storica, a fianco di altre.
Insomma,
si sono ripresentate le distinzioni destra/sinistra e le posture più radicate
di entrambe. Da una parte il “me ne frego!”, dall’altra il suprematismo
morale.
Ne
conseguirebbe che nella piccola comunità (apparentemente) impegnata nella
ridislocazione delle tradizionali categorie di destra e sinistra, e nella
costruzione di una nuova rotta più utile ad affrontare le tempeste del
presente, questo ripresentarsi ha reso visibile un rimosso. La tensione
ha lacerato un tessuto evidentemente debole. Andrea sostiene, in primo luogo,
che nell’anti-europeismo di alcuni si nascondevano semplicemente tradizionali
posizioni filoamericane nutrite di un frontismo che sta tornando per effetto
del quadro geopolitico in mutamento. Quindi che il rifiuto dell’esterofilia
fino all’autorazzismo di molte posizioni ‘progressiste’ per alcuni era
naturalmente in continuità con mero nazionalismo, più o meno razzista. Terzo,
che il rifiuto sbandierato del pensiero unico ‘neoliberale’ e della ‘narrazione
unica’ mainstream poteva essere motivato sia da un legittimo senso critico come
da un “incredibile bestiario di leggende metropolitane, mitologie complottarde
e schiette forme di paranoia non diagnosticata in cui compare come unico indice
di verità il non comparire nei resoconti mainstream”. Erano fianco a fianco ma
ognuno non vedeva realmente l’altro.
Una
catastrofe, insomma. E, se questo è vero, ne è coinvolta anche
l’ipotesi di lavoro, durata anni, secondo la quale la crisi dell’ortodossia
liberale, fattasi soffocante ma soprattutto traditrice nei suoi propri termini[9], poteva riattivare le
energie della storia e rimettere in gioco visioni alternative in potenza
contenute nelle tradizioni di provenienza. Una ipotesi che per Andrea ora
bisogna chiamare con il suo nome: una illusione.
La
catastrofe mostra in definitiva la profondità del disastro, sia culturale sia
umano, provocato dal quarantennio neoliberale. Il sedimento fangoso dei
frammenti di senso comune che stanno risalendo, ribollendo, alla superficie.
Tutti vogliono semplicemente tornare alla normalità, costi quel che costi agli
altri. Si fottano i poveri, gli anziani, i malati, gli ‘improduttivi’, ma
anche i ‘garantiti’, gli ‘statali’, quelli che hanno ‘il culo al caldo’. Senza
avvedersi di ripetere il mantra andato per quaranta anni a televisioni e talk
show uniti, molti, sfidati e turbati dalle conseguenze, stanno reagendo
disperatamente con il più classico degli scaricabarili. A tutti ma non a me.
Ma
c’è anche altro. Si manifesta quello che, in modo molto
perspicace, Andrea chiama un “prodotto storico inedito”, precisamente quello in
cui:
“l’individualismo
libertario neoliberale si allea alla santificazione dell’interesse privato,
sfociando nel rifiuto di ogni ricerca dell’obiettività, vissuta come
oppressiva. È come se sullo sfondo delle coscienze neoliberali avesse preso
oscuramente forma una visione riassumibile così: ‘la ricerca stessa del vero ha
una pretesa di universalità e di accordo collettivo, dunque in fondo la verità
è una forma di collettivismo che opprime l’individuo’. Ciò che resta, una volta
che questa idea ha preso pieno possesso delle coscienze è solo una concezione
integralmente strumentale di ogni dato e argomento, che prende vita solo se e
nella misura in cui serve a giungere a quella conclusione che privatamente mi
fa comodo”.
Insomma,
i cosiddetti ‘negazionisti’ sono solo una parte uscita allo scoperto di
un vasto mondo per il quale l’unica guida alla ragione è ormai il
pregiudizio, purché autointeressato.
La
conclusione è drastica: “tutto o quasi il movimento di liberazione dal
quarantennio neoliberale si è mosso all’insegna di una ripresa e adeguazione ai
peggiori frutti della stagione neoliberale”. Questo è un primo senso nel
quale “il cerchio si chiude”. Ce ne è un altro, e rappresenta un piccolo ma
decisivo slittamento: l’irrazionalismo è coltivato dalla destra fascista e
neofascista ed è quindi questo che si è saldato con l’individualismo
anarcocapitalista che è un necessario componente del “neoliberismo”.
Con
questa frattura e questa nuova saldatura abbiamo a questo punto un nuovo
terreno nel quale emergono corposi “rischi”, o meglio nel quale si
radicalizzano. Il rischio che:
-
criticando l’involuzione della
sinistra si dia spazio ad una destra di nuovo conio che, senza
saperlo, mischia l’irrazionalismo con il neoliberismo in una miscela tossica ed
esplosiva;
-
cercando di contrastare il
politicamente corretto “buonista” della sinistra si dia
spazio e legittimazione al mero egoismo individuale ed alla dissoluzione di
ogni pubblico;
-
criticando la tecnocrazia e lo
scientismo si rilegittimino semplicemente le forme più ridicole
di irrazionalismo, e l’incompetenza esibita ed orgogliosa.
Sono
tre rischi reali, naturalmente.
Nella
logica stringente del discorso, allora, se si giunge al “capolinea” e la tigre
sta facendo il suo balzo, bisogna rimettere in piedi le priorità:
-
la sinistra postmoderna e la sinistra
liberale restano due avversari,
ma
-
la destra neofascista e quella liberale
sono i nemici.
In
definitiva, come si vede, alcune formule cadono nel testo e lo indirizzano. Una
è questa “illusione”, un’altra è “rischio”, la terza è “si
chiude il cerchio”, “l’arrivo al capolinea” ed infine, nella chiusa,
la coppia “avversario/nemico”.
Ma
questa conclusione poggia su una densa stratificazione di presupposti. Alcuni
ho già scritto di condividerli, per altri bisogna chiedersi che cosa sia, e se
sia, “la tigre”, quale la natura della sua minaccia e cosa “l’uomo”. Del “boa”
abbiamo parlato sempre. Cosa sostiene la distinzione tra “avversari” e
“nemici”? E di che genere di “nemici” qui si parla? In una risposta che lo
stesso Andrea fornisce ad un post[10] di Fabio Falchi, su
Facebook, si legge: “Mentre sul piano delle singole persone coinvolte, in un
confronto uno a uno, si possono accogliere e discutere e comprendere molte
delle istanze e dei problemi di quella piccola e media borghesia, non bisogna
dimenticare che di fatto, quando quel gruppo sociale ha vestito i panni della
destra fascista e neofascista lo ha fatto diventando il fondamentale alleato
'popolare' del grande capitale. Quindi il mio problema non è solo 'culturale'. È
anche schiettamente politico”. Ed è politico in quanto la “tigre” ha
effettivamente artigli possenti e volontà (nonché occasione) di usarli. Ciò
cambia, ed effettivamente lo fa, interamente la situazione.
Se
è in corso un balzo di tigre, è urgente fermarlo. Qui ed ora.
Anche
il boa ha la potenzialità di ucciderci, ma non ora. Se il fascismo, in una delle
sue forme[11],
si ripresenta sulla scena in effetti ci sono poche scelte.
Dal
tenore generale delle discussioni condotte sembra di individuare l’idea
sottostante che sia alla vista un momento eversivo, del quale le masse
spaventate della piccola borghesia divengono potenziale massa di manovra, e nel
quale circoli di destra “identitario-tribale” (o “fascista” nel linguaggio del
pezzo) possano prenderne la testa. Tutto ruota intorno a questa previsione. In
linea generale è possibile che il “momento Polanyi”, come è già avvenuto,
precipiti localmente in questo esito, però è decisivo comprenderne la
temporalità.
Se
fosse dovremmo rinserrarci in un qualche CLN “di sinistra” (in effetti è la
mossa che, imitando la favola del lupo che attacca il gregge, instancabilmente
si reitera da anni).
Non
credo affatto che Andrea intenda questo, e del resto lui stesso ha escluso che
questa sia una interpretazione legittima del suo scritto.
La
questione che trovo centrale è un’altra. Se il primo movimento
della crisi ha determinato lo stato di rimessa in questione dell’astratto
universalismo mercatista europeo, il secondo, insieme al rischio di crollo
sistemico avrebbe invece aperto una frattura di natura individuale ed antropologica.
Quel che mi pare dirimente, nel modo di organizzare il discorso, è questo
dualismo tra il livello sistemico e quello individuale e umano. Ovvero tra i
vincoli sistemici determinati dalla dinamica interistituzionale e dei poteri
nella dialettica nazionale e sovra, e la natura umana.
Se
anche, ed è vero, il duplice “test” (salute/libertà e volontà/ragione)
caratteristico del “secondo movimento” ha reso manifeste delle fratture entro
un campo che si credeva più coeso (quello creato dal “primo movimento” della
crisi), resta però una questione. Una importante questione.
Il
mio punto è che le categorie non possono essere depurate della relazione con
gli effetti socializzanti e umanizzanti (anche “de”) dei modi di produzione e
dei sistemi sociali come, infine, del quadro storico geopolitico che li
codetermina in una totalità. L’uomo è un campo di battaglia[12]. Ciò che sembra, invece, autorizzato
dal testo è una interpretazione che vede nel modo di articolazione del discorso
prodotto l’esistenza ex ante di un tipo umano “di sinistra” ed un tipo umano
“di destra”. Quasi due specie che si dividono l’essere dell’uomo. Ancora di
più, sembra che tra queste si possa porre una sorta di gerarchia, o di
gradiente di valore.
Conosco
molto bene questa idea. L’ho avuta in me da quando ero adolescente, di tanto in
tanto riemergere, cerca di formularsi, trovare conferma e nascondere le
confutazioni; l’ho sempre trovata molesta, se pur familiare. Come un cugino
ingombrante, insistente, un poco goffo, leggermente villano e però anche
antipatico, supponente. Tuttavia, un cugino.
So
benissimo che Andrea l’ha combattuta molto di più di me, con maggiore energia.
Ne ha fatto l’espresso bersaglio, non gli ha lasciato scampo, l’ha cacciata
dalla casa e l’ha inseguita fino ai confini del paese. Ha dichiarato eterna
inimicizia.
Perché
ora lascia che si riaffacci?
Noi
viviamo tempi difficili e confusi. Stiamo assistendo
all’estenuazione di una estenuazione, si era esaurita la spinta propulsiva
della fase neoliberale di fronte all’esplodere delle contraddizioni, e ora
sembra esaurirsi anche il ciclo breve della critica di questa. La seconda
estenuazione assume carattere recuperante, io concordo con Andrea. Ma se un
cerchio si chiude non mi pare possa essere quello della seconda estenuazione,
tornando attraverso la seconda crisi a recuperare lo spirito neoliberale.
Questo avviene, ma è solo un episodio minore. Il quadro generale parla di una
lunga transizione in corso a livello di sistemi-mondo, difficile e incerta come
è normale sia. Solo questo quadro può fornire il punto di giudizio per dirimere
i grandi cicli dai piccoli, le correnti profonde dalle onde di superficie.
Se
nel grande ciclo neoliberale avevamo assistito sconcertati all’estenuarsi a sua
volta del senso della critica sistemica, che aveva perso progressivamente il
solido ancoraggio alle dure condizioni materiali, traducendosi in una postura
che cresce nel vuoto di progetto, allora oggi, al suo tramonto, quando ne
viviamo i torbidi, dobbiamo ritrovare l’ancoraggio. Il quadro generare si
potrebbe interpretare in questo modo:
-
l’instabile soluzione neoliberale ai
dilemmi del secolo ed agli equilibri di potenza mondiali sta progressivamente precipitando
in un punto di caos, dal quale potrebbe emergere una nuova egemonia.
-
Contemporaneamente, e non senza relazioni
con questa accelerazione, stanno cambiando le “piattaforme tecnologiche”[13] in competizione e
parzialmente disgiunte (ovvero i funzionamenti essenziali, i know how
privilegiati, le norme sociali e gli orientamenti culturali, le istituzioni, i
pacchetti di incentivi e di interdetti) e con esse possono cambiare i luoghi
“densi”, le pratiche sociali dominanti e dominate, le dipendenze.
-
Questi due fenomeni ricadono
immediatamente nell’incremento della dualizzazione. Nella creazione,
crescita e consolidamenti di settori poveri, marginali ma indispensabili,
funzionalmente connessi e dipendenti, nei quali la produzione di beni e servizi
necessari per l’equilibrio di sistema e la stessa accelerazione
dell’accumulazione avvengono con il modello del lavoro povero e servile (se
pure formalmente autonomo, talvolta professionale o fintamente imprenditoriale).
E, contemporaneamente, nell’espansione di settori ricchi, connessi ai vertici
delle ‘catene alimentari’, ancorati a forme di lavoro incorporato profondamente
alla valorizzazione e dominante. La base sociale della differenza “antropologica”
identificata da Andrea affonda in questa dualizzazione, anche se poi non ne
deriva automaticamente per effetto della rilevanza dei fattori di tradizione
culturale, della dinamica del discorso pubblico, delle egemonie.
-
La seconda crisi, quella del Covid, ha messo
solo allo scoperto queste linee di frattura e divaricazione preesistenti. Ha
prodotto in linea con la tendenza ulteriori divaricazioni tra settori,
territori, segmenti del lavoro. Ciò si è unito ad uno stress psicologico
insopportabile, particolarmente per le frazioni meno protette ed esposte.
-
In questa condizione è fallita
l’ipotesi derivante dalla prima crisi di sfuggire alla estenuazione
neoliberale con “semplici” alleanze eterogenee di scopo, senza porre e
vincere prima la questione dell’egemonia. Della questione “patriottica” e
nazionale è stato prodotto un feticcio che nascondeva le autentiche fratture ed
i conflitti di interesse e potere costitutivi. Non poteva funzionare e non ha
funzionato.
Come
si vede sono perfettamente d’accordo su tutto l’essenziale con la posizione di
Andrea Zhok.
La
domanda che potremmo farci, data questa situazione, è: dobbiamo continuare a
muoversi tra Scilla e Cariddi[14], o è più prudente tornare
nel porto? Dobbiamo cedere alla potente attrazione gravitazionale delle
identità sfidate e turbate, o accettare di stare ancora nel vuoto?
È
una domanda difficile, per rispondere ne occorre un’altra; anche ammesso di
essere in “una crisi dentro la crisi”: serve la sinistra realmente esistente
nel nuovo grande gioco[15]?
Per
me la risposta resta quella che abbiamo già dato, non è parte della soluzione
ma del problema. Credo si debba restare nel vuoto.
Tutto
scorre.
[1] - Articolo pubblicato il 17
novembre sul suo blog “Ancora
su destra e sinistra (riflessioni di un post-comunista)”.
[2] - Platone, “La Repubblica”,
VII 537 c
[3] - La grande differenza tra
l’ambiente sociale americano e quello europeo è il portato della lotta delle
classi lavoratrici, e della borghesia nella fase immediatamente precedente.
Mentre l’Europa identifica come problema la distribuzione ineguale della ricchezza
e del privilegio, quello che Lipset chiamava nel 1996 “eccezionalismo
americano”, in America sin dallo studio di Sombart (ma anche dalle riflessioni
di Engels) si osserva che questo innesco manca. La differenza ha piani
economici, istituzionali (il federalismo) e culturali (la dominanza della
cultura WASP), ma anche antropologici (la costruzione del popolo attraverso
addizioni ed affiancamenti culturalmente e per differenza di razza eterogenei).
L’effetto di queste differenze è la minore ineguaglianza, la maggiore coesione,
la presenza dello Stato ben più forte, il welfare. Tutte cose che dal 1990 ad
oggi si sono di molto attenuate, riducendo decisamente la distanza tra le due
sponde dell’Atlantico. Per uno studio classico e rilevante (e non certo di
provenienza marxista) si veda Alberto Alesina, Edward Glaeser, “Un mondo di
differenze”, Laterza 2005 (ed or. 2004).
[4] - Si veda “Bastone
e carota. L’audizione del Commissario Gentiloni sul Next Generation Eu”, da
settembre ad oggi le cose non sono certo migliorate.
[5] - Per una caratterizzazione, certo
provvisoria, rimando al mio “Servitori,
bottegai e castellani. La vera lotta e quella finta”.
[6] - Andrea Zhok, “Identità della persona e senso
dell’esperienza”, Meltemi, 2018.
[7] - Andrea Zhok, “Critica
della ragione liberale”, Meltemi, 2020.
[8] - Andrea Zhok, “Libertà
e natura. Fenomenologia e ontologia dell’azione”, Mimesisi,
2017.
[9] - Ovvero nella promessa di
benessere.
[10] - Cfr. https://www.facebook.com/fabio.falchi1/posts/10217984891563194
Scrive Falchi: “La conclusione di questo articolo Zhok, che esprime con notevole chiarezza
la posizione di un intellettuale (ossia di un filosofo) post-comunista, che può
essere in buona misura condivisa anche da chi ha una diversa biografia
politico-culturale, mi pare che sollevi una questione politica fondamentale. Zhok,
infatti, conclude così il suo articolo:
“La critica post-Comunista aveva avviato un’indispensabile e feroce critica
del degrado della sinistra, e lo aveva fatto perché capiva che quel degrado
apriva le porte alla peggiore destra, e lo temeva.
Ma ora quella destra non è più un timore. Sta bussando alla porta. E per un
post-Comunista l’ordine di priorità dei fronti di battaglia non può che
cambiare: se è vero che la sinistra postmoderna e quella liberale sono un
avversario politico, la destra neofascista e neoliberale sono il nemico.”
Ciò che nell'articolo Zhok definisce (correttamente, in base alle categorie
politiche che denotano le attuali varie forze politiche) destra è uno
schieramento politico che io talvolta ho definito, per semplicità,
“nazi-populista” e che sotto il profilo ideologico presenta, a mio avviso, i
tratti distintivi di quello che si potrebbe definire un estremismo di centro,
come, in un certo senso, fu lo stesso fascismo, che perlomeno nella sua fase
inziale fu sostenuto soprattutto dalla piccola borghesia, anche se si alleò con
monarchia e il grande capitale per andare al potere. (Difatti, la destra è
soprattutto - ma qui si deve usare l'accetta - quella monarchica e
"tradizionalista” - ossia anti-socialista, anti-democratica e anti-moderna
-, rappresentata da autori come De Maistre, Evola, ecc., o quella
liberal-conversatrice, anti-socialista ed elitista - non certo anti-moderna ma
ostile sia pure in varia misura, alla democrazia -, e rappresentata da autori
come Mosca, Pareto, Michels, ecc.).
Comunque sia, una destra “nazi-populista”, caratterizzata cioè da un
aggressivo estremismo di centro, rappresenta certo un pericolo, per chi
condivide una concezione socialista e comunitaria, ancora maggiore della
sinistra (neo)liberale, non fosse altro perché distorce in modo aberrante la
stessa idea di comunità o addirittura, sotto certi aspetti, quella del
socialismo.
Tuttavia, nella misura in cui queste due forme di antisocialismo sono
espressione di due diverse forme di capitalismo - la sinistra (neo)liberale si
può ritenere espressione del grande capitale più avanzato (sotto il profilo
tecnologico ma non sotto quello sociale e culturale), mentre la destra
“nazi-populista” rappresenta gli interessi della classe capitalistica più
debole e arretrata (anche sotto il profilo socio-culturale) - è necessario
tener presente che questa destra rappresenta anche il “malcontento” di una
piccola borghesia che certo non si può definire parte della classe
capitalistica e che è cresciuta di numero anche a causa della scomparsa
dell'operaio massa e della progressiva "contrazione" delle dimensioni
della classe operaia.
L'immiserimento di gran parte dei ceti medi è infatti un fenomeno sociale
che viene facilmente strumentalizzato dalla destra “nazi-populista” proprio
perché la sinistra (neo)liberale da qualche decennio non rappresenta più gli
interessi delle classi sociali subalterne.
Pertanto, anche se è vero che la destra “nazi-populista” presenta le
caratteristiche tipiche del nemico politico per chi condivide una prospettiva
socialista, ci si deve chiedere in che senso la sinistra (neo)liberale si deve
considerare un avversario politico e non un nemico politico.
Orbene, è chiaro che Zhok non sta proponendo alcuna alleanza con la
sinistra (neo)liberale per creare un fronte antifascista. La sinistra
(neo)liberale è esplicitamente definita da Zhok un avversario non un alleato.
Lo stesso Zhok, del resto, pochi giorni fa aveva scritto: “Brindo con gioia
alla sconfitta di Trump. Se avesse vinto Trump, avrei brindato con gioia alla
sconfitta di Biden.”
Credo dunque che Zhok non consideri il grande capitale meno pericoloso dei
piccoli o medi capitalisti, frustrati per il peggioramento delle loro
condizioni economiche e la progressiva perdita di “influenza” a livello
politico e sociale (ovviamente anche a causa della globalizzazione), bensì che
consideri la destra “nazi-populista” un nemico per ragioni di carattere
politico-culturale. Ovverosia, credo che Zhok ritenga che almeno con una parte
della sinistra neoliberale è ancora possibile scontrarsi in modo “duro” ma
sostanzialmente “razionale”, ma che questo non sia praticamente possibile con i
“nazi-populisti” (tranne alcune eccezioni che però confermano la regola), che
come apprendisti stregoni rischiano pure di evocare forze che non saprebbero
nemmeno controllare.
Nondimeno, non si dovrebbe ignorare che il grande capitale può usare
“politicamente” lo stesso pericolo del “nazi-populismo” per giustificare un
mutamento politico e sociale ossia per infliggere un colpo letale a qualsiasi
prospettiva socialista e liquidare di fatto la stessa democrazia liberale, che
peraltro già si configura come una forma di oligarchia (la sempre maggiore
concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi capitalisti non è certo -
come pensava Marx - il segno che la società capitalistica, per così dire, sta
per dare alla luce il “bambino socialista" e che quindi la politica del
grande capitale sia “necessaria” per costruire una società socialista).
In questo senso, anche il grande capitale è un nemico e non un avversario.
La sinistra (neo)liberale quindi, a giudizio di chi scrive, può essere definita
un avversario e non un nemico solo nella misura in cui sia ancora disposta sia
a ridefinire criticamente il processo storico che l’ha portata a condividere
(pressoché acriticamente) posizioni euro-atlantiste e anti-socialiste, sia a
prendere seriamente in considerazione la necessità di rappresentare gli interessi
dei ceti sociali subalterni (senza nemmeno trascurare le ragioni del
malcontento della piccola borghesia, in buona parte formata da lavoratori
cosiddetti ‘autonomi’ ma che, in pratica, sono tali solo ‘di nome’) e senza
anteporre la difesa dei cosiddetti ‘diritti individuali’ alla difesa dei
diritti sociali ed economici e alla tutela del bene comune e del legame
sociale.”
[11] - Si veda il successivo “Nota
su fascismo e antifascismo”
[12] - Si veda, ad esempio, in un
diverso contesto di discorso l’argomento presentato circa l’antropologia
dell’uomo neoliberale come prodotto storico di specifiche condizioni e non come
esito naturale di una evoluzione in “Avanzate
e ritirate. Blocco sociale, egemonia e rivoluzione”.
[13] - “I set di funzionamenti essenziali, punti di
convenienza e vantaggio per diversi gruppi e ceti sociali determinati da
network di tecnologie convergenti e reciprocamente rafforzanti, quindi
dall’insieme di skill favorite da queste e di know how privilegiati, ma anche
da norme sociali e giuridiche che si affermano nella sfera pubblica e privata,
e infine da pacchetti di incentivi pubblici e privati (entrambe, norme ed
incentivi, coinvolti nell'affermazione del network di tecnologie). Una “Piattaforma
Tecnologica” è, inoltre sempre connessa con un assetto geopolitico che la
rende vincente (ed in ultima analisi possibile)”.
[14] - Si veda “Passare
tra Scilla e Cariddi, il nostro compito”.
[15] - Rinvio, per una interessante
risposta allo stesso dilemma, prodotto nell’ambito specifico di questa
discussione aperta dai pezzi di Zhok, all’articolo di Fabio Falchi, “Nota
sulla tentazione nazional-populista alla luce della questione (neo) fascista e
della trasformazione in senso antisocialista della sinistra europeo-occidentale”.
Ci si sente come sospesi, su sabbie mobili piuttosto che in aria. Se guardo indietro, non tanto il biennio rosso mi porta a metafore, quanto l'irrisolto in Spagna, che tanti desterrados portarono oltre oceano. Allora, un abbraccio, e a Mimmo in particolare (non avrete litigato, no?), con un paio di poietiche.
RispondiEliminaRafael Alberti
¿Tantas cosas han muerto que no hay más que el poeta?
Cantad alto. Oiréis que oyen otros oídos.
Mirad alto. Veréis que miran otros ojos.
Latid alto. Sabréis que palpita otra sangre.
No es más hondo el poeta en su oscuro subsuelo
encerrado. Su canto asciende a más profundo
cuando, abierto en el aire, ya es de todos los hombres.
José Agustín Goytisolo
Otros esperan que resistas
que les ayude tu alegría
tu canción entre sus canciones.
Entonces siempre acuérdate
de lo que un día yo escribí
pensando en ti
como ahora pienso.
Nunca te entregues ni te apartes
junto al camino, nunca digas
no puedo más y aquí me quedo.
Nunca digas, Alessandro. Nunca digas