Immanuel
Wallerstein è stato probabilmente il principale animatore di quella che negli
anni settanta fino ai novanta fu chiamata “la banda dei quattro”. Ovvero quel
gruppo di studiosi[1]
di varia provenienza che negli anni ottanta e poi novanta metteranno a fuoco e
creeranno la “scuola del sistema-mondo” dalle ceneri di quella che fu la
“teoria della dipendenza”[2]. Dal 1976 Wallerstein dirige
nel Fernand Braudel Center for the Study of Economies, Historical Systems, and
Civilizations alla Binghamton University, e fino al 2005, un folto
gruppo di studiosi interdisciplinare rivolto alla messa a punto di una visione
sistemica della storia e dello sviluppo umano.
Fu
uno studioso di orientamento marxista che proveniva direttamente dalle lotte
per la liberazione e decolonizzazione del terzo mondo, in particolare in
Africa, come per il suo amico e collega Giovanni Arrighi e Therence Hopkins,
oltre, ovviamente, Samir Amin. La messa a punto concettuale del paradigma. che troverà
maggiore esplicazione proprio nelle sue opere ed in quelle di Arrighi, prosegue
durante tutti gli anni ottanta. Alcuni caposaldi sono la pubblicazione di Janet Abu-Lughod[3] e il libro di Giovanni Arrighi, Terence Hopkins
e Immanuel Wallerstein Antisystemic Movements[4]. A
partire da queste date i
“movimenti antisistemici” diventano l’etichetta che individua, al posto dei
movimenti anticoloniali percepiti ormai come troppo nazionalisti, la speranza
di contrasto alla logica del Sistema-mondo che gli autori del Braudel Center si
sforzano di descrivere. Ma progressivamente questi seguono una
ridefinizione che porta dall’attenzione al mondo socialista, ancora attiva all’inizio
degli anni ottanta, a quella per i ‘movimenti’ libertari durante i novanta.
Nella
nuova prospettiva, come vedremo, ci sono alcuni decisivi spostamenti di
accento, il più evidente è quello dal nazionalismo metodologico, che faceva
centro sulla possibilità di autonoma realizzazione delle unità statuali di
nuova formazione, all’unità teorica e analitica rappresentata dal concetto di “sistema-mondo”.
“Sistema”, si badi bene. Ovvero di quella parte del mondo che riesce a
funzionare come sistema e nella quale il tutto è molto più delle sue singole
parti; nella quale, in altri termini, le parti sono incomprensibili senza la
totalità. Oltre a scegliere una prospettiva meno militante e più storica
l’analisi finisce per focalizzarsi abbastanza naturalmente sul problema
dell’insorgenza storica dell’egemonia occidentale e del capitalismo con essa.
In questa luce diventa ancora più centrale il concetto di “modo di produzione”
e sono recuperati dal vecchio paradigma alcuni concetti centrali come
“costellazione tra centri e periferie”, forme di “drenaggio del surplus” e
quello di “scambio ineguale”. La pratica teorica ruota intorno all’idea che il
capitalismo non sia altro che la forma moderna di una sorta di relazione
totale, estesa potenzialmente all’intero pianeta con un movimento progressivo che
nel farsi distrugge quei “modi di produzione” che risultano all’atto più deboli
e con essi le relative civilizzazioni. In questa descrizione ci sono alcuni
residui ostinatamente resistenti, se pure criticati, verso i quali si alzerà alla
fine del secolo la voce di Gunder Frank e poi quella di Hosea Jaffe. Ovvero resistono
le idee che ci sia un movimento di sviluppo endogeno all’occidente, fondato su
innovazione ed industrializzazione, ed una sorta di movimento ‘da dentro a
fuori’, dal ‘centro alla periferia’ e dal ‘meno al più’, inoltre che la
modernità sia essenzialmente discontinuità. Saranno i punti che Frank attaccherà
in “Re-Orient”[5]
e Hosea Jaffe in numerosi testi[6].
Questo
piccolo libro che leggeremo è del 1983, e quindi si colloca entro il periodo
nel quale, con “Il sistema mondiale dell’economia moderna”[7], che è del 1974 per il
primo volume, del 1980 il secondo e del 1989 il terzo, Wallerstein dava la
prima sistemazione alla teoria. La prospettiva aperta alla concettualizzazione del
capitalismo come sistema di interdipendenza non esclusivamente economico era
stata del resto aperta da tempo. Uno
dei primi libri che presentavano una lettura su larga scala del capitalismo
moderno nella chiave che poi sarà dei “sistemi-mondo” è quello del 1970 di
Samir Amin, “L’accumulazione su scala mondiale”[8],
insieme a questo, del 1972, il libro che introdusse il concetto di “scambio
ineguale”: E. Arghiri, “Lo scambio ineguale”[9].
Nel 1978 Andre Gunder Frank pubblicò invece una sintesi finale della sua
“prima” posizione che già apriva alla trasformazione in “World Accumulation 1492-1789”[10]. Nel 1982 uscì un saggio che conteneva la
riflessione metodologica di Terence Hopkins, “World-Systems
Analysis: Theory and Methodology”[11].
In questo contesto il testo del 1983 di cui parliamo
è come una sorta di piccolo studio di settore, o di esplorazione storico-concettuale.
Il titolo del breve testo di Wallerstein definisce
già il campo di azione. Quel che interessa è la messa a fuoco del problema
della formazione del capitalismo come fenomeno storico. Ovvero
situazionalmente dato, e temporalmente identificato. E, come si
troverà a dire di Marx, questa formulazione, come tutte, è comprensibile
solo nella misura in cui è anche utilizzabile. Ovvero, “solo in rapporto
alla formulazione alternativa che essa sta esplicitamente o implicitamente attaccando”,
e in questo caso in rapporto all’ipotesi alternativa che il capitalismo sia
naturale (ovvero che, in fondo, non esista come fenomeno storico, essendo
proprio dell’uomo).
Ciò che definisce il ‘capitalismo storico’,
cioè il fenomeno storico del capitalismo, è in sostanza la mercificazione di
ogni cosa. La questione è semplice: il capitalismo è prima di tutto ed
essenzialmente un sistema sociale storicamente determinato. Ma un sistema molto
particolare, ovvero quel sistema nel quale il capitale viene investito per
uno scopo solo e molto specifico: in quanto finalizzato solo alla sua
autoespansione. In altre parole: “tutte le volte che, nel corso del tempo, è
stata l’accumulazione del capitale a prendere sistematicamente il sopravvento
sugli obiettivi alternativi, siamo autorizzati a dire che stiamo osservando un
sistema capitalistico”.
Non è sempre stato così.
Anzi, nelle culture tradizionali non era
mai così. Ogni volta nella lunga catena dei processi della valorizzazione
interveniva un ostacolo perché uno o più degli elementi necessari venivano a
mancare nel senso che non erano disponibili in quantità, qualità e prezzo alla
bisogna.
La conseguenza è semplice: nel capitalismo, man
mano si sviluppa, si creano delle catene continue di merci che legano tra di
loro i processi di produzione, ed il tasso di accumulazione diventa alla fine una
funzione dell’ampiezza del margine che in queste catene viene creato. Ma ciò
per l’insieme del processo; per i singoli capitalisti è invece funzione non di
quello che complessivamente viene creato ma esclusivamente della frazione
che da essi è appropriata. Ne deriva una contraddizione ben messa in
evidenza da Marx: l’interesse dei singoli consiste nel ridurre al minimo i
propri costi di produzione (che, però, per altri possono essere margine). In
questo modo l’interesse dei singoli, se generalizzato cade in un’impossibilità.
Perché quel che per uno è costo di produzione per un altro è reddito, e dunque
la ricerca della compressione induce una contrazione della capacità di spesa e
quindi della stessa possibilità di realizzare il valore potenziale incorporato
nelle merci. In definitiva, ciò che è razionale per il singolo imprenditore non
lo è necessariamente per i lavoratori (che sono probabilmente il principale
“fattore di produzione”) e, alla fine, neppure per il sistema nel suo complesso.
Ne consegue che la necessità di forza lavoro a basso costo, sistematicamente
più basso della capacità complessiva di spesa del sistema (ovvero del livello
della “domanda”) si può identificare come l’elemento centrale della dinamica
capitalista, e, al contempo, la fonte della sua contraddizione interna.
Ma questo sistema potente e contraddittorio non
è sempre stato presente; nei vecchi modi di produzione, anzi, la forza lavoro
era per lo più vincolata. Ovvero era incorporata nei sistemi sociali e
giuridici, quindi poco disponibile alla valorizzazione nella quantità e modo
richiesto. In altre parole, chi in un sistema precapitalista aveva nella
propria disponibilità uno sbocco e quindi riusciva a identificare qualcosa come
merce unitamente alla prospettiva della sua valorizzazione incontrava
immediatamente la difficoltà di disporre dei fattori produttivi nella quantità
e frequenza necessaria. Deriva da questa difficoltà una delle spinte
caratteristiche del capitalismo storico: la necessità di affidarsi all’istituto
del lavoro salariato per espandere la propria attività.
Nel tempo vengono messi a punto alcuni
meccanismi attraverso i quali si ottiene che il lavoro sia disponibile, pronto,
ed al costo sufficientemente basso. Uno è quello che Wallerstein chiama “gli
aggregati domestici”, ovvero quelle forme di lavoro improduttivo di reddito, ma
produttivo di valore d’uso, che consentono una parziale esclusione dal mercato
di quanto serve a vivere. In questo modo (ad esempio se una famiglia ha
componenti che non chiedono salario ma prestano servizi necessari alla
riproduzione) viene prodotta un’altra fonte di reddito effettivo che, non
dovendo essere remunerato con il lavoro, abbassa in effetti il suo costo reale e
quindi incrementa il profitto. Questa è la forma di lavoro che chiama “semiproletariato”.
Ma questi scambi, per la parte scambiata (per
tutte le merci, incluso il lavoro), avvengono sui cosiddetti “mercati”. Con riferimento
a questa caratteristica istituzione, non propria del capitalismo ma da questo altamente
potenziata, l’autore evidenzia una circostanza piuttosto ovvia ma spesso poco
osservata: l’incontro tipico che avviene nel mercato non è quello tra il
produttore iniziale e il consumatore finale. Casomai ciò accadeva nell’economia
di tipo artigianale. In una economia industrializzata di tipo capitalistico,
nella quale è giunto ad un elevato livello di articolazione la divisione del
lavoro e l’organizzazione a rete, la maggioranza delle transizioni avvengono
tra imprenditori “intermedi” situati su una lunga catena di merci. In altre
parole, l’acquirente conclude l’acquisto di ‘input’ del suo proprio processo di
produzione, e spesso produce un ‘output’ che è, a sua volta, ‘input’ di un successivo.
Questa lunga catena intermedia e verticale apre enormi spazi alla manipolazione
di domanda ed offerta e di lotta sui prezzi rivolti a “tirare” su (o giù) i
margini complessivi lungo la catena. La lotta, che non si svolge esclusivamente
con mezzi puramente economici, è rivolta ad estrarre e catturare a proprio vantaggio
il margine complessivo (il “surplus” secondo il linguaggio della teoria) che si
realizza alle sue estremità come differenza tra la remunerazione dei costi di
produzione (materie prime e lavoro in primis) e il valore finale che si
realizza presso l’acquirente finale.
La conclusione di Wallerstein è che “quando
parliamo di catena di merci parliamo di una diffusa divisione sociale del
lavoro che, nel corso dello sviluppo del capitalismo storico, è diventata
sempre più funzionalmente e geograficamente estesa”. Sempre più estesa e sempre
più caratterizzata da rapporti ‘ineguali’.
Lo ‘scambio ineguale’ è dunque il segreto
della valorizzazione ed il motore della polarizzazione. È il meccanismo
fondamentale che consente l’estrazione del surplus.
Ma è anche un meccanismo invisibile.
Scrive:
“La chiave per nascondere questo meccanismo
fondamentale sta nella struttura profonda dell’economia-mondo capitalistico: l’apparente
separazione, nel sistema-mondo capitalistico, della sfera economica (una
divisione sociale del lavoro a livello mondiale con processi di produzione
integrati, tutti operanti per la continua accumulazione del capitale) e a sfera
politica (che si compone apparentemente di stati nazionali separati, ciascuno
autonomamente responsabile delle decisioni politiche entro la propria giurisdizione,
e ciascuno dotato di forze armate a sostegno della propria autorità).” [12]
Nello
scambio ineguale accade un trasferimento da una zona all’altra di una parte del
profitto totale (o del surplus) prodotto lungo tutta la catena e realizzato all’estremo.
È questo fenomeno che determina la relazione tra ‘centro’ e ‘periferia’
caratteristici del capitalismo. O, per meglio dire, estesi sistemicamente nel
capitalismo.
C’è
però, sostiene nel 1983, una relazione di reciproco rafforzamento tra la
concentrazione del capitale nelle zone centrali, ovvero in quelle che vincono
la gara per l’estrazione del surplus dalla catena, e il rafforzamento delle macchine
statali centrali. Questo è un passaggio decisivo nella transizione dal
nazionalismo metodologico della fase della decolonizzazione nella quale era
stato, dagli stessi autori, messo a fuoco il paradigma della “dipendenza”, al focus
sui ‘sistemi-mondo’. La relazione di rafforzamento è evidente: man mano che il
capitale si concentra una parte viene impiegata per rafforzare la capacità di
minaccia, di coesione e di difesa degli interessi comuni (eserciti, potenti
burocrazie, infrastrutture) e questo produce una dissimmetria rafforzata e
crescente con le aree “periferiche”. La dissimmetria rende ancora più efficace
l’estrazione/cattura del surplus dalle catene di relazione di scambio, se
necessario tramite forzature militari.
Questo
essenziale concatenamento di sistemi eterogenei e di relazioni strutturalmente
instabili induce cicli alternati di espansione e stagnazione del sistema se
visto nel suo complesso. Wallerstein riprende uno schema che viene introdotto in
Usa da Burns e Mitchell nel 1940, con cicli di dieci anni, ma leggendolo con un
periodo di ritorno di cinquanta anni che ha piuttosto radici in Marx[13] e Schumpeter[14] e, come antecedente diretto
Kondrat ‘ev[15]
e le sue “onde lunghe”. Ora, per lui nei momenti di stagnazione una parte delle
imprese cerca di sfuggire alle difficoltà cercando di estendere la proletarizzazione
per aumentane l’offerta e abbassarne il prezzo. La cosa si produce attraverso l’introduzione
di innovazioni di vario genere e attraverso l’espansione geografica. Ne deriva
una caratteristica tendenza del capitalismo ad integrare sempre nuove aree
subalterne, per sfruttarne le risorse abbassando il prezzo di quelle giù
impiegate, “a scatti”. Questa espansione geografica, in altre parole, non
avverrebbe affatto per “cercare nuovi mercati”, quanto per “controbilanciare la
contrazione dei conflitti, incorporando nuove forze-lavoro semiproletarie”. Nella
storia questo fenomeno è avvenuto man mano che il capitalismo si è affermato in
occidente. La natura del processo è stata coperta dall’ideologia autolegittimante
del progresso e dalla strettissima alleanza tra scienza moderna e capitalismo.
Il
momento cruciale è stato la crisi dei secoli XIV e XV, durante i quali l’Europa
era posizionata in un livello intermedio nella scala della divisione sociale
del lavoro e della forza produttiva. Ma era intrappolata in una crisi radicale
che si manifestava come lotta spietata tra le classi dirigenti (e conseguenti
continue guerre). Inoltre, era in corso una profonda crisi spirituale e di
legittimazione dei sistemi d’ordine politico-religiosi ed una tensione
profondissima del cattolicesimo sotto la spinta dei movimenti egualitari.
Di
fronte a questo stato di tensione l’invenzione del capitalismo rovescia letteralmente
il campo. Spegne completamente la spinta dei movimenti egualitari (che si
ripresenteranno al termine del XVIII secolo) ed instaura un sistema d’ordine
perfettamente adatto alle forze sociali emergenti. In un lungo processo di
statuizione, di cui sono espressione feroci lotte come, ad esempio, quelle per
l’istituzione delle dogane (e l’eliminazione delle consuetudini e dei diritti
feudali), si afferma la centralità della forma-stato e delle sue strutture. Si consolidano
le giurisdizioni territoriali e cambiano natura gli eserciti (cosa per la quale
saranno decisive da ultimo le guerre napoleoniche). Si affermano anche
strutture giuridiche di tipo moderno, il diritto del lavoro (che riporta sotto
la regolazione dello Stato e quindi sotto rapporti sociali capitalistici l’intera
modalità di erogazione della forza-lavoro, creando le condizioni essenziali
della proletarizzazione), le imposizioni fiscali e le ridistribuzioni
(ovviamente dal basso all’alto). Da ultimo, ed ovviamente, il monopolio della
forza armata.
È
in tutti questi sensi che il ruolo attivo degli Stati è essenziale nella
formazione e anche nella conservazione del capitalismo; come essenziale per il
suo funzionamento e capacità di estrarre e concentrare il surplus è la
gerarchia effettiva tra questi. Una gerarchia “correlata con le effettive capacità
di accrescere nel tempo la concentrazione di capitale accumulato nelle proprie
frontiere in contrapposizione a quello degli stati rivali”.
In
effetti in questa accezione la sovranità degli Stati diventa una sorta di “mito
ideologico”. Come scriverà: “gli Stati si sono sviluppati e costituiti come
parti integranti di un sistema interstatale, che era un insieme di
legittimazioni senza le quali essi non avrebbero potuto sopravvivere”[16]. Ma la presenza di tanti Stati,
se pur non realmente “sovrani” in senso assoluto, non ha mai dato esito, se pur
con qualche tentativo, ad un impero-mondo per l’eccessiva divergenza degli
interessi di valorizzazione dei rispettivi capitali. Si sono date “egemonie”,
ma sempre piuttosto brevi.
Poi
ci sono stati gli sforzi di quella che chiama la “forza-lavoro mondiale” di
giungere al potere degli Stati contro gli accumulatori del capitale mondiali e contemporaneamente
contro la gerarchia degli Stati indotta dalle meccaniche di scambio ineguale. Nei
casi di successo (Russia, Cina, Cuba, Vietnam) si è trattato di lotte “antimperialiste”.
Queste non hanno coinciso perfettamente con l’astratta contrapposizione tra
forza-lavoro ed “accumulatori di capitale”, perché sia negli Stati subalterni e
periferici, sia in quelli centrali e dominanti alcune forze nominalmente schierate
da una parte possono aver trovato convenienza a breve termine a schierarsi in
senso nazionalista e non di “classe-nazione”. Un esempio del primo tipo sono le
cosiddette ‘borghesie compradore’, del secondo le ‘aristocrazie operaie’. Tuttavia,
malgrado queste contraddizioni (o questi nemici interni) le grandi spinte di
mobilitazione che hanno portato alle rivoluzioni del novecento non sarebbero
potute avvenire (“e di conseguenza non sarebbe stato realizzato alcun obiettivo,
per quanto limitato”) se il contenuto di classe della lotta non fosse stato
presente, se pure come tema ideologico.
Ci
sono dunque molti piani di lotta: quello tra capitalisti per il posizionamento dominante
nella catena di trasmissione ed estrazione del surplus (e quindi per il dominio
del proprio sistema nazionale), coperto da parole d’ordine ‘universalizzanti’ e
‘progressiste’; quello tra popoli ‘oppressi’ e ‘dominanti’, secondo una
interpretazione nazionalista; quello tra forza lavoro e capitale di tipo ‘antisistemico’.
Quando hanno vinto i terzi, come nel caso della Russia e Cina, le forze ‘antisistemiche’
hanno però rapidamente scoperto di essere costrette dal funzionamento di base
del sistema stesso, ovvero dalla concatenazione dei capitali e delle forme
statuali internazionale, ad esercitare il potere acquisito senza poter ignorare
la necessità della continua accumulazione del capitale. Pena il suo
deflazionamento e quindi il diventare deboli ed alla mercé degli sforzi di
valorizzazione degli altri stati dominanti.
Il
dilemma si presenta all’attenzione di Wallerstein, in questo delicatissimo
momento di passaggio, come ambivalenza. I “movimenti antistemici” di successo
non hanno potuto restare fuori, ma nel farlo e quindi nell’accettare la razionalità
e razionalizzazione della legge del valore, nonché dell’impresa scientifica
tutta, hanno “preparato per sé la trappola”. Hanno in effetti proseguito il processo
di mercificazione e di accettazione ed incorporazione della legge del valore. Questa
è la traiettoria dell’URSS e della Cina del “grande balzo” come della svolta di
Deng, di appena quattro anni prima.
Né
le versioni “indigene” del socialismo (ad esempio alcune versioni sudamericane
o africane) sono state senza piani di ambivalenza. Prese dall’accusa di
nazionalismo culturale retrogrado, da parte della sinistra progressista, in
effetti senza volere hanno funzionato da intermediari culturali del potente
verso il debole, nel tempo “alterandone le forme di resistenza più radicata”[17].
Viene
quindi diagnosticata una crisi dei sistemi storici che ha una dimensione
strutturale (mercificazione generalizzata) ed una dimensione culturale che
colpisce sia il sistema-mondo capitalistico sia le sue periferie “antisistemiche”.
La
dimensione culturale della crisi è strettamente legata al mito del progresso
e della razionalizzazione che sono connaturati al capitalismo storico. Con esso
all’universalismo epistemologico, chiave di volta dell’edificio ideologico del
capitalismo storico. Wallerstein arriva a definire l’ideale della “verità”,
connaturato al concetto di progresso e di universalità epistemologica, come
qualcosa che funziona come un “oppio”, anzi “forse l’unico vero oppio del mondo
moderno”.
Naturalmente
un “oppio” che allevia il dolore della perdita di senso, ed in questa accezione
effettivamente svolge funzione, ma che contiene anche una tremenda bugia:
“la
nostra educazione collettiva ci ha insegnato che la ricerca della verità è una
virtù disinteressata mentre invece essa è una forma autointeressata di
razionalizzazione. La ricerca della verità, proclamata come pietra angolare del
progresso, e quindi del benessere, è stata quanto meno consona al mantenimento
di una struttura sociale gerarchica, diseguale, sotto una serie di aspetti particolari.
I processi attivati dall’espansione dell’economia-mondo capitalistica – la periferizzazione
delle strutture economiche, la creazione di strutture statali deboli
forzatamente inserite in un sistema interstatale – hanno comportato una
quantità di pressioni a livello della cultura: l’evangelizzazione cristiana, l’imposizione
di particolari tecnologie e modi di vita, il cambiamento dei codici
legislativi. Molti di questi cambiamenti furono realizzati manu militari.
Altri furono ottenuto tramite l’opera di persuasione di ‘educatori’, la cui
autorità era sostenuta in ultima istanza dalla forza militare. Si tratta di
quel complesso di processi che talvolta definiamo ‘occidentalizzazione’, o in
modo perfino più arrogante ‘modernizzazione’, e che furono legittimati dal
desiderio di spartirsi la fede nell’ideologia dell’universalismo insieme ai
suoi frutti.”[18]
Due
diverse strutture culturali hanno agito all’unisono, se pure verso bersagli
diversi, in questo processo: il razzismo, che ha sovraordinato alla collocazione
di forza-lavoro omogenea nell’opportuna posizione nel processo produttivo,
sotto controllo ed al costo più basso possibile; l’universalismo, che,
agendo sulle élite periferiche, ha favorito la stretta integrazione dei
processi produttivi ed il tranquillo funzionamento del sistema intestatale. Entrambe
facilitano l’accumulazione del capitale (ovviamente dove questo è opportuno si
accumuli). Un ruolo lo svolge anche la cultura scientifica, che sovraintende alla
formazione di uno stato intermedio di specialisti e funziona da vero e proprio “codice
di riconoscimento su scala mondiale degli accumulatori di capitale”[19]. Rappresenta, insomma,
una forma di socializzazione. O, in altre parole, “la grande enfasi posta sulla
razionalità dell’attività scientifica è stata la maschera dell’irrazionalità
dell’accumulazione senza fine”. La razionalizzazione, la scienza, la tecnica e
l’universalismo sono stati offerti al mondo come un dono del potente al debole:
“Timeo Danaos et dona ferentes”, il dono nascondeva in sé il razzismo.
Anche
qui il segno è l’ambivalenza.
Quel
che si ricava dalla lettura del libro, inserito nello sviluppo delle idee che
provengono dalla teoria dell’imperialismo leniniano e della teoria del
monopolio costruita negli anni sessanta che transitano nella teoria dei sistemi-mondo[20], è un avvertimento. Si può
anche tentare di raddrizzare il ramo storto del fallito terzomondismo
piegandolo dall’altra parte, ma nel passaggio dall’enfasi sulla dipendenza a
quella sulla inter-dipendenza non bisogna far cadere il trattino. Ovvero
bisogna prestare la dovuta attenzione sia alle dinamiche interne di dipendenza
create dalla meccanica propria del “capitalismo storico” sia al suo parassita, l’idea
di progresso.
Nelle
conclusioni è qui che Wallerstein pone l’accento. Dopo
aver illustrato le ambivalenze costitutive sia del socialismo reale (ma anche
della versione ‘indigenista’ del socialismo), sia della razionalizzazione e
della stessa impresa scientifica con la sua idea di verità, identifica l’idea
di progresso come centrale del mondo moderno tutto. Considerata centrale dai
liberali nell’epoca della rivoluzione fino a renderla dominante nel secolo XIX
questa a livello di sistema-mondo legittimava la transizione dai modi di
produzione feudali a quelli capitalistici, ovvero rendeva necessaria la rottura
dell’opposizione persistente che i sistemi sociali incorporati o in via di
assorbimento nel sistema (e quindi entranti a far parte del ‘mondo’
capitalista) esercitavano nei confronti della spinta a mercificare ogni cosa. La
funzione specifica della idea di progresso, e quindi la sua funzione ideologica
entro il processo di estensione e consolidamento del sistema-mondo è specificamente
di “spazzar via tutti gli aspetti negativi del capitalismo sulla base della convinzione
che i benefici sopravanzassero, e di gran lunga i danni”[21]. Un’idea decisiva per la
costruzione del capitalismo come ideologia contro il quale, per spostarsi su un’altra
tradizione critica (la ‘teologia della liberazione’, ma connessa internamente con
la ‘teoria della dipendenza’ sudamericana), sul finire del decennio i teologi Hugo
Assmann e Frank Hinkelammert spenderanno il loro “Idolatria del mercato. Saggio
su economia e teologia”[22].
Bisogna
notare che questa idea, che ‘sequestra e rende funzionali certi aspetti
essenziali del cristianesimo’[23] coinvolge in pieno anche
i marxisti. Anche qui era a servizio di uno scopo ideologico manifesto, a
partire dalla sistemazione englesiana. Garantiva le classi oppresse che il
corso inevitabile dello sviluppo storico avrebbe infine rovesciato la scala. O per
dirla biblicamente che “gli ultimi sarebbero diventati i primi”. Tuttavia, questo
acuto tentativo di creare un “mito” che usasse la medesima struttura delle idee
borghesi (grazie alle quali avevano sconfitto la reazione) contro il sistema
borghese di dominio aveva un difetto per Wallerstein, esattamente il parassita
di cui facevo cenno prima: “se l’idea di progresso giustificava il socialismo,
essa giustificava anche il capitalismo”. Nel lodare il socialismo si loda infatti
anche il capitalismo, e scritti come il “Manifesto del partito comunista”[24] lo provano.
La
posizione è quindi chiara:
“Il
fatto di aver abbracciato da parte marxista un modello evolutivo di progresso è
stato una enorme trappola, di cui i socialisti hanno cominciato ad accorgersi
solo di recente; ed è questo uno degli elementi della crisi ideologica che è
stata parte della generale crisi strutturale dell’economia-mondo capitalistica.
È
semplicemente falso che il capitalismo come sistema storico abbia rappresentato
un progresso rispetto ai precedenti sistemi storici che distrusse o trasformò. Mentre
scrivo queste cose, sento già il tremore che accompagna il senso della
bestemmia, e temo la collera degli dèi, perché anch’io sono stato forgiato
nello stesso calderone ideologico dei miei compagni, e anch’io ho pregato agli
stessi altari”[25].
Il
problema non è se ci siano degli effetti cumulativi, ad esempio tecnologici, ma
è l’unilateralità della visione che impedisce di considerare anche quel che è
andato perso. A volte di pari efficacia nel medio o lungo termine (ad esempio
si può considerare il recupero di alcune antiche pratiche agricole, soprattutto
sotto il profilo della integrità ecologica, o la fragilità ecologica, o pandemica,
o gli effetti sulla psiche umana o la socialità), a volte più adatto a
conservare stabilità umana ed ecologica. Come minimo la questione è discutibile
e dipende da quale valore, priorità, si considera. Se è la potenza aggregata e
la massa delle merci o la libertà, eguaglianza, fraternità, ovvero la
distribuzione della ricchezza e del potere. Cosa che si vede particolarmente
bene ai margini, nelle ultime periferie, negli anelli terminali delle catene di
scambio ineguale. Nelle bidonville, nelle zone rurali estreme, dove ancora vive
all’epoca dello scritto (e tutt’ora) la maggior parte della forza-lavoro (anche
potenziale) mondiale. Quelli che sono stati raggiunti, ma hanno ricavato solo
un immiserimento assoluto. L’autore scrive proprio “assoluto”, non “relativo”.
Queste masse raggiunte dalle lunghe relazioni capitaliste, ai margini del
sistema-mondo capitalista, ma non fuori di esso, vivono molto peggio dei loro
antenati di cinquecento o più anni fa. Peggio dei pochi che ancora non sono
raggiunti. Lavorano più duramente, mangiano meno bene, hanno precarie
aspettative di vita (anche se sopravvivono di più al primo anno di vita). Hanno
più potere? Difficile dirlo, nei sistemi separati tradizionali esisteva un
significativo controllo sociale che non può essere identificato se non ambivalente.
L’istituto delle “piantagioni” è stato più libero? O la presenza normante dello
Stato liberale? La cornice ideologica oppressiva ed umiliante, fatta di
razzismo, di irrigidimento delle differenze di genere, di stratificazioni
interne promossa per trattenere i gruppi oppressi all’interno del sistema in
modo da costituirli in periferie “interne”.
Con
questo sguardo allargato come si spiega che il divario crescente sia nascosto? Scrivendo
nel 1983, e dunque all’avvio della fase neoliberale, mentre oggi tramonta e il
tema della crescita delle ineguaglianze è stato posto[26], Wallerstein lo
attribuisce alla focalizzazione sul destino di poche popolazioni occidentali
che si giovano direttamente o indirettamente del dividendo del sistema-mondo. Ovvero
di quel 10-15% della popolazione complessiva del sistema-mondo che “consuma più
surplus di quello che produce”. Dentro questo settore c’è stato un
appiattimento della curva (negli anni tra 1950 al 1980) ma a danno del restante
85%.
In
definitiva, il capitalismo storico non è stato tanto il frutto del
rovesciamento di un’aristocrazia arretrata da parte di una borghesia
progressista, quanto della trasformazione della aristocrazia terriera in borghesia,
nell’arco di alcune generazioni, perché il vecchio sistema di dominio si stava
disgregando. In altre parole, “piuttosto che lasciare che la disgregazione
proseguisse verso fini incerti, essi si impegneranno in una radicale opera di
chirurgia strutturale per poter mantenere e anzi accrescere significativamente la
loro capacità di sfruttare i produttori diretti”[27].
Sulla
base di questa visione bisogna modificare radicalmente la nostra immagine della
transizione dal capitalismo al socialismo, “da una economia-mondo capitalista
ad un ordine-mondo socialista”. Bisogna uscire dalla visione che inquadra la ‘rivoluzione
proletaria’ secondo il modello immaginato della ‘rivoluzione borghese’. Ovvero dall’idea
che come la borghesia rovesciò l’aristocrazia così il proletariato rovescerà la
borghesia. Presente in Marx insieme ad altre, e dominante nel marxismo della seconda
internazionale.
Non
c’è stata alcuna rivoluzione borghese. Ma ciò non significa che non ci sarà una
transizione al socialismo, solo che bisogna comprendere la differenza tra una
disgregazione/riaggregazione (avvenuta nella formazione del capitalismo), o una
disgregazione/riaggregazione molto più lunga e profonda (tra mondo antico e
feudalesimo), ed un possibile ma non automatico cambiamento controllato che
però avesse la caratteristica di ridurre drasticamente o abolire lo
sfruttamento. La questione per come la pone Wallerstein è se la transizione
andrà verso un nuovo modo di produzione a base di classe, e quindi di
sfruttamento del lavoro degli esterni incorporati, o se andrà verso un ordine-mondo
relativamente senza classi.
Ma
bisogna fare attenzione:
“Il
comunismo è Utopia, che vuole dire ‘in nessun posto’. Esso è l’avatar di tutte
le nostre escatologie religiose: la venuta del Messia, la seconda venuta di
Cristo, il nirvana. Non è una prospettiva storica, ma un mito dei nostri tempi.
Il socialismo, al contrario, è un sistema storico realizzabile, che potrà
essere un giorno posto in essere nel mondo. Non vi può essere alcun interesse verso
un ‘socialismo’ che pretenda di essere esso stesso un momento ‘temporaneo’ di transizione
verso l’Utopia. L’unico interesse è per un socialismo concretamente storico, un
socialismo che soddisfi le caratteristiche minime di un sistema storico
tendente a massimizzare l’eguaglianza e la giustizia, un socialismo che
accresca il grado di controllo della propria vita da parte dell’umanità (cioè
la democrazia), e che liberi l’immaginazione”[28].
A
questo stadio della riflessione la questione resta posta così.
[1] - Appunto Immanuel Wallerstein,
Giovanni Arrighi, Andre ‘Gunder’ Frank, Samir Amin.
[2] - Che è l’oggetto del mio libro “Dipendenza. Capitalismo e transizione
multipolare”, Meltemi 2020.
[3] - J.
Abu-Lughod, “Before European hegemony: The World System AD 1250-1350”, Oxford University Press, 1989.
[4] - Giovanni Arrighi, Terence Hopkins e Immanuel
Wallerstein, “Antisystemic Movements”, London, 1989.
[5] - Andre ‘Gunder’ Frank, “ReOrient”,
University of California Press, 1998
[6] - Ad esempio,
Hosea Jaffe, “Era
necessario il capitalismo?”, Jaca Book, 2008, o Hosea Jaffe, “Abbandonare
l’imperialismo”, Jaca Book, 2008.
[7] - Immanuel Wallerstein, “Il
sistema mondiale dell’economia moderna”, Il Mulino, 1982.
[8] - Samir Amin, “L’accumulazione su scala mondiale”, 1970.
[9] - Emmanuel Arghiri, “Lo scambio
ineguale”, Einaudi, 1972
[10] - Andre Gunder Frank, “World Accumulation
1492-1789”, 1978.
[11] - Terence Hopkins, “World-Systems Analysis: Theory and Methodology”,
1982.
[12] - Wallerstein, cit, p.20.
[13] - In sostanza sono presenti tre
possibili spiegazioni delle crisi, e quindi dei cicli: caduta tendenziale del
saggio di profitto, nelle difficoltà di 'realizzo' provocate dall'insufficiente
potere di acquisto delle masse lavoratrici e nell''anarchia del capitalismo',
che produce 'sproporzioni' nella composizione delle domande e delle offerte a causa
dell'impossibilità di coordinare e programmare le decisioni dei capitalisti.
[14] - Schumpeter, J. A., “Business
cycles: a theoretical, historical and statistical analysis of the capitalist
process”, 2 voll., New York 1939 (tr. it. parziale: Il processo capitalistico.
Cicli economici, Torino 1977).
[15] - Kondrat´ev, N. D., “The
long waves in economic life”, in "Review of economic statistics", 1935,
XVII, pp. 105-115
[16] - Wallerstein, Cit., p.43
[17] - Cit., p.72
[18] - Cit., p.66
[19] - Cit., p.67
[20] - Per questa evoluzione devo
rinviare al mio “Dipendenza”,
Meltemi 2020.
[21] - Wallerstein, cit., p.78.
[22] - Hugo Assmann, Franz Hinkelammert,
“Idolatria
del mercato. Saggio su economia e teologia”, 1989, trad.it. Castelvecchi
2020.
[23] - Assmann, Hinkelammert, cit.
[24] - Karl Marx, Friedrich Engels, “Il
manifesto del partito comunista”, 1848.
[25] - Wallerstein, p.79
[26] - Per fare qualche esempio dalle
opere di Piketty “Il
capitale del XXI secolo”, e di Milanovic, “Mondi
divisi”.
[27] - Wallerstein, cit., p. 86.
[28] - Wallerstein, cit., p.90
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