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sabato 7 novembre 2020

Ernesto Laclau, “Marxismo e populismo”,

  

 

In questa conversazione con Mauro Cerbino pubblicata nel 2018 da Castelvecchi[1], e prima da Revista de Ciencias Sociales nel 2012[2] appena due anni prima della morte del pensatore argentino, Laclau ricorda la sua adesione al marxismo nella stessa maniera con la quale individua il suo orientamento popolare: entrambi assorbiti dall’ambiente. La famiglia per il secondo e l’ambiente universitario degli anni sessanta per il primo. Tuttavia, sin da quegli anni, nella sua Argentina, è influenzato anche dall’ambiente peronista e da una forma di sincretismo socialisteggiante che ispira la sua prima militanza.



La posizione del filosofo politico appare dunque come tentativo, via via anche adattandosi ai tempi di riflusso nei quali si svolge gran parte della sua traccia esistenziale, di tenere insieme un’ispirazione di fondo popolare e vagamente socialisteggiante con una sorta di traduzione/applicazione alla politica dell’egemonia culturale del post-strutturalismo nel quale si forma ed afferma accademicamente. Ne deriva quella che lui stesso chiama un’ontologia del sociale come costruito dal politico polemicamente rivolta contro una sorta di fantoccino di comodo: il marxismo della seconda internazionale, economicista e storicista.

Provenendo da ambienti sia pure in parte influenzati dal marxismo, nella sinistra sudamericana, ed alla ricerca di un qualche punto di riferimento eterodosso racconta nell’intervista di essersi avvicinato prima ad Althusser, dal quale avrebbe tratto l’idea che ci siano molte altre contraddizioni oltre quella di classe, quindi alla lettura di Gramsci, dal quale il concetto di nazionalpopolare. E, soprattutto, grazie a queste influenze racconta di aver definito l’allontanamento dall’ipotesi (che attribuisce semplicemente al marxismo) che la struttura sociale si possa ridurre allo scontro binario tra due classi: i proprietari dei mezzi di produzione (“borghesia”) e il proletariato (coloro che non li possiedono, e dunque hanno il proprio lavoro). E da quella dell’estinzione progressiva dello Stato.

Il pensiero di Laclau, nel periodo in cui vive in Europa, si forma dunque a partire da questa critica, alquanto semplificata a dire la verità, del marxismo (in sostanza della sintesi kautskiana e della riduzione staliniana), e dalla scoperta dei movimenti non di classe, che non possono essere ridotti ad un’identità classista, come, dice, il femminismo e i movimenti gay. Si forma, inoltre, in netta opposizione alle tesi operaiste che sono identificate nell’intervista come “i miei avversari”. Specificamente alla posizione di Antonio Negri, che qualifica come “fuga in avanti estremistica”, anche nella tesi che si debbano affermare le lotte ignorando la questione dello Stato.

I materiali da costruzione dell’impostazione sono dunque direttamente segno e spirito del tempo nel quale si forma: la critica del soggetto, l’influenza della psicoanalisi e della decostruzione derridiana. Al centro del suo pensiero è posta la convinzione che non è possibile l’accesso ad un assoluto e dunque che diventa essenziale e costitutiva la mediazione discorsiva. Precisamente, “l’una o l’altra forma di mediazione discorsiva diventa costitutiva, nel senso trascendentale del termine, quello cioè che non può fare riferimento ad un fondamento più profondo”[3]. Ne trae, sulla scorta di una lettura di Derrida, la necessaria ricerca di un senso senza conoscenza. Ovvero la possibilità di un’esplorazione retorica “che non fosse legata alla conoscenza ultima di un oggetto”. Con il linguaggio di Lacan, un significato che invece di fissarsi (portando alla conoscenza di un oggetto) “fluttua costantemente” sotto il significante. Cosa che accade in politica quando una classe, lungi dall’esistere come oggetto, diviene egemone proprio grazie al primato del discorsivo, anziché esserlo a priori. Questa critica colpisce in effetti i marxismi secondo e terzo internazionali (in particolare l’irrigidimento staliniano), ma manca fondamentalmente il bersaglio se riferito a Marx, per il quale è casomai centrale la categoria di potenzialità immanente ad un processo (il dynamei on aristotelico). Più esattamente, l’innesto della nozione di potenzialità (che deve essere già immanente) con quella di valore e la critica dell’alienazione. La posizione di Marx non è determinista e storicista (anche se si possono rintracciare brani di tale tenore a profusione) ma valorizza la deviazione, l’aleatorietà, la libertà. Non è questione di essere (ovvero di avere una origine pura, una soggettività data) ma di avere una potenzialità. di sforzarsi di fissare lo sguardo al tradimento di questa potenzialità.

La questione secondo il nostro si pone, invece, in termini particolari, ma tipici del tempo nel quale sono stati pensati, essendo a tutti gli effetti Laclau un pensatore della crisi della ragione e sincrono con il periodo di formazione della svolta neoliberale. Traendo dalla postulata indecidibilità del riferimento uno scollamento tra senso e conoscenza a causa del quale queste ormai si possono connettere solo grazie ad una “decisione”. Una scelta, non ricostruibile razionalmente, di carattere “etico-teorico” che non è giustificata dalla natura dell’oggetto (per esempio, dalla natura della classe o delle sue potenzialità) bensì da se stessa. Una decisione, dunque, che ha una dimensione performativa. È la decisione che crea l’oggetto.

Ma Laclau non è certo un pensatore originale in questa applicazione dello spirito del tempo nel quale visse e si formò, lo diventa nel mettere insieme le sue esperienze biografiche e le suggestioni post-strutturaliste in una teoria politica. Una teoria che parte dall’estensione sconnessa dei “movimenti” di rivendicazione a singola scelta, di cui rivendica l’autonomia dalla classe. Dall’altra cerca di fornirgli uno sbocco tramite il concetto di “catena totale di equivalenze”, in grado di creare un campo polare ed una sorta di centralità egemonica. Una centralità che non è un fondamento ma un orizzonte.

In questa mossa, che è politica più che teorica, sono riverberati concetti come l’abgrund heideggeriano e il reale lacaniano. Un oggetto impossibile e pure necessario. Come, alla stessa maniera è impossibile e necessario il riferimento con il Leader del popolo. Entrambi sono sconnessi con qualsiasi riferimento e interamente costruiti nella relazione.

Non necessariamente ciò significa che l’economico debba essere trascurato, la tesi di Laclau è strettamente ontologica. Che, cioè, sia l’opzione discorsiva ad essere ontologia del reale. E che anche l’economico non possa essere che una costruzione discorsivamente posta. Non fondata, ma posta. E posta anche dalla catena di equivalenze tra diversi momenti di lotta separati. È l’instaurarsi di questa equivalenza, a partire da eterogeneità, che rappresenta il momento costitutivo.

 

Ci sono alcune conseguenze, la fissazione nel problema di evitare essenzialismo e riduzionismo (rischio intrinseco ad ogni narrazione politica, peraltro), se può essere efficace nel combattere le versioni più ossificate delle tradizioni politiche marxiste, opera una decostruzione radicale della stessa ricerca di fondamenta all’azione. Ovvero opera contro la concezione della classe come soggetto, ma anche verso quella come potenzialità immanente. L’esito naturale di questa impostazione è il proceduralismo e l’allontanamento da ogni proposta di rottura, per valorizzare la successione delle egemonie (tutte infondate) e la “democrazia radicale”. Ovvero la progressiva estensione di valori democratici circolanti. Questa è la posizione che va ad assumere Chantal Mouffe[4] e verso la quale, fino a che vive, Laclau conserva uno scarto, una riserva. Se è vero che l’unità delle catene equivalenziali, indispensabili per la costruzione dalle lotte disparate di un popolo e quindi per la loro politicizzazione, tendono ad organizzarsi intorno a significanti privilegiati. Tuttavia, questi significanti non derivano da alcuna posizione strutturale. Non da alcun dynamei on, bensì da un investimento retorico.

Ne deriva necessariamente che scompare all’orizzonte la stessa possibilità di pensare un ‘altro’, dato che ‘proprio’ ed ‘altro’ sono solo effetti di giochi linguistici e processi di soggettivazione senza alcuna radice. Senza potenziale. Una volta che la decostruzione è giunta a questo resta proprio solo il gioco delle successioni dei processi egemonici. In questo gioco, nel suo essere condotto correttamente, si radica il valore.

A ben vedere non si può giudicare un processo, se non per il fatto che include, collega, politicizza. Per fare una battuta, un Habermas con dentro un Sorel (ma solo in Laclau) in salsa derridiana.

Basta?

 

Credo di no.

 



[1] - Ernesto Laclau, “Marxismo e populismo”, Castelvecchi 2018.

[2] - Ernesto Lacau, “Postmarxismo, discurso y populismo Un diálogo con Ernesto Laclau”, Revista de Ciencias Sociales. Num. 44, Quito, septiembre 2012, pp. 127-144

[3] - Ivi, p.12

[4] - Si veda, ad esempio, Chantal Mouffe, “Il conflitto democratico”, Mimesis, 2015.

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