In
questa conversazione con Mauro Cerbino pubblicata nel 2018 da Castelvecchi[1], e prima da Revista de
Ciencias Sociales nel 2012[2] appena due anni prima
della morte del pensatore argentino, Laclau ricorda la sua adesione al marxismo
nella stessa maniera con la quale individua il suo orientamento popolare: entrambi
assorbiti dall’ambiente. La famiglia per il secondo e l’ambiente universitario
degli anni sessanta per il primo. Tuttavia, sin da quegli anni, nella sua Argentina,
è influenzato anche dall’ambiente peronista e da una forma di sincretismo socialisteggiante
che ispira la sua prima militanza.
La
posizione del filosofo politico appare dunque come tentativo, via via anche
adattandosi ai tempi di riflusso nei quali si svolge gran parte della sua
traccia esistenziale, di tenere insieme un’ispirazione di fondo popolare e
vagamente socialisteggiante con una sorta di traduzione/applicazione alla
politica dell’egemonia culturale del post-strutturalismo nel quale si forma ed
afferma accademicamente. Ne deriva quella che lui stesso chiama un’ontologia
del sociale come costruito dal politico polemicamente rivolta contro una sorta
di fantoccino di comodo: il marxismo della seconda internazionale, economicista
e storicista.
Provenendo
da ambienti sia pure in parte influenzati dal marxismo, nella sinistra sudamericana,
ed alla ricerca di un qualche punto di riferimento eterodosso racconta nell’intervista
di essersi avvicinato prima ad Althusser, dal quale avrebbe tratto l’idea che ci
siano molte altre contraddizioni oltre quella di classe, quindi alla lettura di
Gramsci, dal quale il concetto di nazionalpopolare. E, soprattutto, grazie a
queste influenze racconta di aver definito l’allontanamento dall’ipotesi (che
attribuisce semplicemente al marxismo) che la struttura sociale si possa ridurre
allo scontro binario tra due classi: i proprietari dei mezzi di produzione (“borghesia”)
e il proletariato (coloro che non li possiedono, e dunque hanno il proprio
lavoro). E da quella dell’estinzione progressiva dello Stato.
Il
pensiero di Laclau, nel periodo in cui vive in Europa, si forma dunque a
partire da questa critica, alquanto semplificata a dire la verità, del marxismo
(in sostanza della sintesi kautskiana e della riduzione staliniana), e dalla
scoperta dei movimenti non di classe, che non possono essere ridotti ad un’identità
classista, come, dice, il femminismo e i movimenti gay. Si forma, inoltre, in
netta opposizione alle tesi operaiste che sono identificate nell’intervista come
“i miei avversari”. Specificamente alla posizione di Antonio Negri, che
qualifica come “fuga in avanti estremistica”, anche nella tesi che si debbano
affermare le lotte ignorando la questione dello Stato.
I
materiali da costruzione dell’impostazione sono dunque direttamente segno e
spirito del tempo nel quale si forma: la critica del soggetto, l’influenza
della psicoanalisi e della decostruzione derridiana. Al centro del suo pensiero
è posta la convinzione che non è possibile l’accesso ad un assoluto e dunque che
diventa essenziale e costitutiva la mediazione discorsiva. Precisamente, “l’una
o l’altra forma di mediazione discorsiva diventa costitutiva, nel senso
trascendentale del termine, quello cioè che non può fare riferimento ad un fondamento
più profondo”[3].
Ne trae, sulla scorta di una lettura di Derrida, la necessaria ricerca di un
senso senza conoscenza. Ovvero la possibilità di un’esplorazione retorica “che
non fosse legata alla conoscenza ultima di un oggetto”. Con il linguaggio di
Lacan, un significato che invece di fissarsi (portando alla conoscenza di un
oggetto) “fluttua costantemente” sotto il significante. Cosa che accade in
politica quando una classe, lungi dall’esistere come oggetto, diviene egemone proprio
grazie al primato del discorsivo, anziché esserlo a priori. Questa critica
colpisce in effetti i marxismi secondo e terzo internazionali (in particolare l’irrigidimento
staliniano), ma manca fondamentalmente il bersaglio se riferito a Marx, per il
quale è casomai centrale la categoria di potenzialità immanente ad un processo
(il dynamei on aristotelico). Più esattamente, l’innesto della nozione
di potenzialità (che deve essere già immanente) con quella di valore e la
critica dell’alienazione. La posizione di Marx non è determinista e storicista
(anche se si possono rintracciare brani di tale tenore a profusione) ma
valorizza la deviazione, l’aleatorietà, la libertà. Non è questione di essere
(ovvero di avere una origine pura, una soggettività data) ma di avere una
potenzialità. di sforzarsi di fissare lo sguardo al tradimento di questa
potenzialità.
La
questione secondo il nostro si pone, invece, in termini particolari, ma tipici
del tempo nel quale sono stati pensati, essendo a tutti gli effetti Laclau un
pensatore della crisi della ragione e sincrono con il periodo di formazione
della svolta neoliberale. Traendo dalla postulata indecidibilità del
riferimento uno scollamento tra senso e conoscenza a causa del quale queste
ormai si possono connettere solo grazie ad una “decisione”. Una scelta, non
ricostruibile razionalmente, di carattere “etico-teorico” che non è giustificata
dalla natura dell’oggetto (per esempio, dalla natura della classe o delle sue
potenzialità) bensì da se stessa. Una decisione, dunque, che ha una dimensione
performativa. È la decisione che crea l’oggetto.
Ma
Laclau non è certo un pensatore originale in questa applicazione dello spirito
del tempo nel quale visse e si formò, lo diventa nel mettere insieme le sue
esperienze biografiche e le suggestioni post-strutturaliste in una teoria
politica. Una teoria che parte dall’estensione sconnessa dei “movimenti” di
rivendicazione a singola scelta, di cui rivendica l’autonomia dalla classe. Dall’altra
cerca di fornirgli uno sbocco tramite il concetto di “catena totale di
equivalenze”, in grado di creare un campo polare ed una sorta di centralità
egemonica. Una centralità che non è un fondamento ma un orizzonte.
In
questa mossa, che è politica più che teorica, sono riverberati concetti come l’abgrund
heideggeriano e il reale lacaniano. Un oggetto impossibile e pure necessario. Come,
alla stessa maniera è impossibile e necessario il riferimento con il Leader del
popolo. Entrambi sono sconnessi con qualsiasi riferimento e interamente
costruiti nella relazione.
Non
necessariamente ciò significa che l’economico debba essere trascurato, la tesi
di Laclau è strettamente ontologica. Che, cioè, sia l’opzione discorsiva ad
essere ontologia del reale. E che anche l’economico non possa essere che
una costruzione discorsivamente posta. Non fondata, ma posta. E posta anche
dalla catena di equivalenze tra diversi momenti di lotta separati. È l’instaurarsi
di questa equivalenza, a partire da eterogeneità, che rappresenta il momento
costitutivo.
Ci
sono alcune conseguenze, la fissazione nel problema di evitare essenzialismo e
riduzionismo (rischio intrinseco ad ogni narrazione politica, peraltro), se può
essere efficace nel combattere le versioni più ossificate delle tradizioni
politiche marxiste, opera una decostruzione radicale della stessa ricerca di
fondamenta all’azione. Ovvero opera contro la concezione della classe come soggetto,
ma anche verso quella come potenzialità immanente. L’esito naturale di questa
impostazione è il proceduralismo e l’allontanamento da ogni proposta di
rottura, per valorizzare la successione delle egemonie (tutte infondate) e la “democrazia
radicale”. Ovvero la progressiva estensione di valori democratici circolanti. Questa
è la posizione che va ad assumere Chantal Mouffe[4] e verso la quale, fino a
che vive, Laclau conserva uno scarto, una riserva. Se è vero che l’unità delle catene
equivalenziali, indispensabili per la costruzione dalle lotte disparate di un
popolo e quindi per la loro politicizzazione, tendono ad organizzarsi intorno a
significanti privilegiati. Tuttavia, questi significanti non derivano da alcuna
posizione strutturale. Non da alcun dynamei on, bensì da un investimento
retorico.
Ne
deriva necessariamente che scompare all’orizzonte la stessa possibilità di
pensare un ‘altro’, dato che ‘proprio’ ed ‘altro’ sono solo effetti di giochi linguistici
e processi di soggettivazione senza alcuna radice. Senza potenziale. Una volta
che la decostruzione è giunta a questo resta proprio solo il gioco delle
successioni dei processi egemonici. In questo gioco, nel suo essere condotto correttamente,
si radica il valore.
A
ben vedere non si può giudicare un processo, se non per il fatto che include,
collega, politicizza. Per fare una battuta, un Habermas con dentro un Sorel
(ma solo in Laclau) in salsa derridiana.
Basta?
Credo
di no.
[1] - Ernesto
Laclau, “Marxismo e populismo”,
Castelvecchi 2018.
[2] - Ernesto
Lacau, “Postmarxismo,
discurso y populismo Un diálogo con Ernesto Laclau”, Revista de Ciencias
Sociales. Num. 44, Quito, septiembre 2012, pp. 127-144
[3] - Ivi,
p.12
[4] - Si
veda, ad esempio, Chantal Mouffe, “Il conflitto democratico”, Mimesis,
2015.
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