Tentiamo.
Quello
che la crisi economica, che è direttamente sociale e direttamente politica,
indotta sul corpo malatissimo del nostro presente illumina non è nuovo. Lo
abbiamo sempre avuto con noi e ne abbiamo sempre parlato. Tuttavia si sta
presentando in un modo che è insieme scontato ed inaspettato. Si scoperchiano
contemporaneamente linee di frattura che erano presenti e che sono state prodotte dal carattere del nostro tempo.
Si
tratta, peraltro, di linee vecchie. Sono state prodotte da decenni e molti,
moltissimi, sono talmente abituati ad esse da considerarle naturali e
irreversibili. Per dargli forma si tentano sempre metafore spaziali,
geografiche, o topografie fondate sull’esperienza di base del nostro corpo: dialettica
tra le periferie ed i centri, scontro tra alto e basso, tra il vicino ed il
lontano, tra l’amico ed il proprio e l’estraneo, l’ostile. D’altra parte, tanti
e diversi operatori, tanti spregiudicati imprenditori, cercano costantemente di
metterle a frutto, di trarne dividendi politici. Di fare di queste fratture, di
queste differenze, merce politica.
In
questo modo la putrefazione del corpo del presente si fa posta nel gioco che
affaccendati mestatori continuano a rilanciare freneticamente. Un gioco roco,
pieno di urla, di ira simulata per intercettare e trarre a frutto, per sé, la
vera e giusta ira di coloro che sono naufragati, nelle periferie, soli, in
basso. Di coloro che, scivolando, si attaccano alle vesti dei poveretti che
sono appena qualche centimetro sopra di loro, li vogliono trascinare in basso,
invece di fare forza insieme e salire.
Le
politiche prodotte in tutto il mondo liberale ed occidentale dalla necessità di
contenere il contagio nei limiti asfittici dei nostri sistemi pubblici di
protezione allargano enormemente questa tensione distruttiva. Si tratta di
autentica necessità perché la meccanica del modo di produzione neoliberale,
esteso alla scala mondiale, ha reso inesorabilmente insufficienti già in tempi
“normali” tutta la infrastruttura universalista di protezione sociale. Ci
vivevamo dentro da anni, ma ora per molti, anzi decisamente per troppi, tutto
questo è intollerabile.
Immediatamente
intollerabile.
In
questi anni la disponibilità di risorse accumulate, tali da poter riassorbire
senza grave danno mesi di arresto o forte rallentamento delle condizioni di
lavoro e di reddito si è ristretta lentamente ad una minoranza significativa,
ma calante. La distribuzione dei redditi è ancora più polarizzata. La grande
massa vive solo del proprio lavoro, giorno su giorno, spesso con riserve che si
contano sulle dita di poche settimane. E, una parte che non credevamo così
ampia, ma lo sapevamo, vive senza alcuna o del tutto insufficienti garanzie.
Esposta.
Sono
i frutti di un albero malato che è stato piantato in epoca remota, ma il cui
innesto putrido risale all’epoca dell’uscita dal trentennio nel quale la
presenza, bene o male, del polo socialista e la spinta delle decolonizzazioni lo
costringeva a sforzarsi di creare qualche frutto anche nei rami bassi. Ora non
più. Nell’era neoliberale la divisione internazionale del lavoro e
l’incorporazione di tutti nelle logiche del capitale fattosi compiutamente
globale e finanziario, ha prodotto un’enorme espansione del lavoro salariato
(fino a superare i due miliardi di lavoratori) e insieme una nuova morfologia.
Le forme del lavoro sotto comando del capitale, si sono moltiplicate come
effetto combinato e ineguale di divisioni tra “Nord” e “Sud”, tra vecchie e
nuove tecnologie e quindi diverse produttività, lavori manuali e intellettuali,
materiali ed immateriali, contrattualizzati e informali, qualificati e
dequalificati, in diversi settori, a diverso grado invisibili, produttivi e
‘improduttivi’, ‘essenziali’ e non, autonomi e fintamente tali… nessuna di
queste forme è isolata, nessuna è davvero comprensibile da sola. Nessuna può
dire, realmente, che può provare a salvarsi da sola.
Questa
morfologia del lavoro che la crisi del Covid porta sul bagnasciuga come una
tartaruga rovesciata, o un sassolino sparso, è in realtà comprensibile solo
come frutto di una connessione sistemica organicamente estesa. Socialmente
combinata e contemporaneamente intensificata, tale da produrre ritmi e processi
necessitanti, che, ora lo vediamo, non possono interrompersi. Ritmi e processi
che sono rivolti costantemente ad aumentare, ancora, ed ancora, ed ancora,
l’informalità e la precarizzazione strutturale per estendere ancora, ed ancora,
ed ancora i margini di quel profitto che consente la riproduzione del mondo come
è. Ineguale.
Non
dell’Italia, del mondo. Almeno occidentale.
Si
può scegliere: si sta senza lavoro o si accettano lavoretti, altrimenti si
accetta il più bieco e spietato sfruttamento. Può sembrare ad una percezione
attentamente coltivata che l’ultimo sia privilegiato. Che l’ultimo sia quello
che toglie.
Straordinario
effetto del dominio della cultura del capitale. La fonte si fa invisibile, si
ritrae nei suoi segreti laboratori (che sono sopra, sotto, dentro e intorno
tutti noi, non solo dove, prigioniero del paradigma della fabbrica, pensò di
identificarlo Marx centocinquanta anni fa), mentre il fratello è accusato di
essere Caino. Se, come disse la Robinson decenni fa, di peggio di essere
sfruttati c’è il non esserlo (ovvero abbandonati) la società nella quale
viviamo per molti, per i più, lascia solo questa scelta.
Nella
putrefazione del corpo del presente, emerso al pelo dell’acqua per effetto
della crisi del Covid, può sembrare allora che la frattura sia questa: tra i
deboli e sfruttati lavoratori dipendenti, e i deboli e sfruttati finti
lavoratori autonomi. È un’illusione, ma non è innocente; nessuno è autonomo se
non dispone della possibilità di scegliere la propria vita. Nessuno può davvero
essere autonomo da solo.
La
protesta che monta, di fronte alla puzza di questo grande corpo morto da tanto
tempo, manca completamente il bersaglio se non comprende questo: è la logica
impersonale del valore, della valorizzazione attraverso lo sfruttamento che,
come una catena, avvolge e stringe tutti. Costringendoci ad essere sempre in
corsa, affannosa, perdente. Se ci limitiamo a pensare che questi o quelli sono
privilegiati, che, ad esempio, lo sono gli anziani, o i lavoratori dipendenti,
che poco hanno ma sicuro (per ora), diventiamo il mezzo attraverso il quale un
altro giro si compirà. Il mondo diventerà ancora più ineguale, ancora più
ricchezza si concentrerà in chi svolge almeno il ruolo di funzionario del
capitale (sempre meno con le nuove tecnologie e la crescente possibilità di
lavoro cooperativo remoto), ancora meno valore sarà lasciato a chi, alla fine,
quel valore produce.
Se
ci limitiamo a pensare, simmetricamente, che ad essere privilegiati sono i
finti autonomi, i lavoratori con una faticosa partita iva, gli artigiani (ed i
professionisti), gli operatori della distribuzione ed i commercianti, o tanti,
tantissimi, lavoratori che si sono rifugiati, non avendo altro,
nell’ipertrofico settore dello spettacolo, del tempo libero, della ristorazione,
del turismo, perché possono essere infedeli fiscalmente, o perché sono
flessibili, facciamo lo stesso errore. Nessuno è davvero autonomo se non ha
adeguate risorse, nel mondo come è.
La
protesta che monta, di fronte alla puzza di questo grande corpo morto da tanto
tempo, è solo un’altra astuzia del potere che, senza essere progettato o
voluto, tutti ci trattiene dentro di sé. Lo è se i vari ultimi, i diversamente
ultimi, pensano solo a farsi la guerra tra loro.
A
beccarsi come i tacchini portati da Renzo all’azzeccagarbugli nel famoso
romanzo ottocentesco.
Ma
tutto questo ha un carattere realmente strutturale, e quindi è davvero
difficile da disattivare. La trappola scaturisce direttamente per falsa
coscienza necessaria dalla posizione che le diverse componenti assumono per
riprodursi come tali, in quanto incapaci di riconoscersi della nuova morfologia
del lavoro neoliberale, oggi agonizzante. Nel mondo nel quale viviamo
grandissime società controllano, con mezzi di potere e accurata conservazione
di monopoli e monopsoni sempre più enormi, la propria capacità di fare
sistematicamente il proprio prezzo. Al contrario il brulicante mondo del lavoro
fintamente autonomo, in realtà dipendente in altissimo grado perché
costantemente esposto per la propria vita, subisce ogni strategia altrui, i
prezzi, le norme, la competizione selvaggia e disonesta di tutti verso tutti.
Abbiamo un mondo hobbesiano che serve a proteggere e rendere possibile un
paesaggio di alti castelli. Castelli, sia chiaro, nel quale abitano in tanti. I
veri privilegiati.
Chi
brulica fuori dei castelli, cercando la giornata, è oggettivamente costretto a
pensarsi come autonomo, per salvare un suo qualche orgoglio, ed è costretto da
una inflessibile logica di sistema a schiacciare sotto di sé qualche altro ingranaggio
dal quale estrarre surplus, trattenendone almeno un poco. Una catena si allunga
verso il basso perché cade dall’alto. Contemporaneamente con falsa coscienza
appunto necessaria guarda con rabbia ai servi del signore. I poveri, umiliati,
appena sopravviventi, servi del signore.
Questo
è il segreto, un segreto in piena luce, del signore stesso.
Autonomi e servi devono guardarsi a vicenda come la causa del loro dolore, così
che non si voltino, insieme, verso di lui.
Quando
gli autonomi, in alcune delle nostre piazze, proprio mentre chiedono aiuto, prigionieri
di se stessi e delle condizioni della propria riproduzione, lamentano l’eccesso
di presenza dello Stato, le tasse gravose, le regole (incluso quelle volte alla
protezione di tutti), i privilegi dei lavoratori dipendenti ‘fissi’, proprio
allora stringono le proprie catene. La rete dei castelli ringrazia (e la
sua rappresentazione come Confindustria in primo piano). Un altro giro.
Servitori ancora più economici, un arazzo in più per la sala delle feste.
Quando
i servi, i “dipendenti”, fissi o meno, guardano alle piazze con sdegno, anche
allora la rete dei castelli ringrazia.
Bisogna
che si esca da questo gioco di ruolo viziato. Identificarsi non per il ruolo
che individualmente rivestiamo nella riproduzione del capitale, ma come
cittadini pienamente eguali, persone morali, membri di una comunità di senso,
rifiutando la logica della valorizzazione della propria isolata “bottega”;
rigettando la protezione del proprio piccolo ruolo di servizio. La protezione
delle nostre catene. Non servire più il capitale che si esercita attraverso di
noi, porsi fuori del suo flusso perverso.
Ma
non si può fare.
Non
si può assolutamente fare individualmente.
Se
uno si pone fuori del flusso diventa uno scoglio battuto dalla risacca. Se
rifiuta di valorizzare il capitale, il poco capitale che gli passa attraverso
(perché passa sempre, una goccia, un rivolo), al livello medio sociale che
presuppone per stretta necessità lo sfruttamento dell’anello inferiore resta
solo.
Inutile.
Anche se orgoglioso.
Ma
se gli scogli si uniscono, allora potrebbero diventare un muraglione.
Potrebbero far partecipare anche i sassi sul bagnasciuga. Potrebbero cambiare
tutto.
La
condizione necessaria è che tutti, scogli, sassolini e ognuno comprendano che
la ricerca della valorizzazione al livello medio, imposto dalla competizione, è
solo la strada della schiavitù di tutti. Che la continua ricerca di nuovi modi
di schiacciare almeno sotto di sé le frazioni di capitale ancora più deboli e
le persone che lo servono (quel lavoratore a giornata, quello stagista,
quell’immigrato) è la vera fonte ultima della propria schiavitù.
La
vera schiavitù, che non è certo quella verso immaginari complotti mondiali per
la dittatura sanitaria, non è la presenza di lavoratori ‘novecenteschi’ ancora
un poco protetti, non è il peso dell’infedeltà fiscale di alcuni disperati. La
vera schiavitù è quella verso il capitale.
Ma
per questo serve molto più Stato, non meno. Dobbiamo appropriarcene, altrimenti
ci teniamo i castelli (invece bisogna assediarli ed espugnarli).
Bellissimo. Grazie
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