L’economista
Emiliano Brancaccio è sicuramente un punto di riferimento nel panorama
dell’economia critica italiana ed un militante impegnato nel campo della
sinistra radicale. Il testo che qui si commenta è stato pubblicato[1] dalla rivista “Il ponte”
e nel libro “Non sarà un pranzo di gala”[2]. Si tratta di un testo
sicuramente ambizioso e notevolmente denso, nel quale l’economista dell’Unisannio
compie lo sforzo di sistemare la linea dei suoi studi recenti[3] e dargli uno sbocco
politico più esplicito. Già in “L’austerità è di destra”[4], nel 2012, la tesi che in
questo testo assume ruolo di gran lunga centrale, quella della tendenza alla
concentrazione dei capitali, era presente con esplicito riferimento al classico
marxista di Rudolph Hilferding[5], come una robusta critica
dell’Unione Europea a guida tedesca e della logica dell’austerità. In quel
testo Brancaccio prendeva anche posizione con decisione contro il “liberoscambismo
di sinistra”, in parte a suo parere risalente allo stesso Marx del 1848[6], e contro quella che
giustamente chiamava la “sudditanza verso il dogma liberista della totale
apertura dei mercati”[7], contestando nell’ordine
la tesi che l’apertura favorirebbe i paesi poveri (mentre ne aumenta la dipendenza)
e quella che sarebbe garanzia di pace. Quale conclusione proponeva controllo del
movimento dei capitali, standard europei sul lavoro e pianificazione per porre
sotto controllo i meccanismi di formazione dei prezzi e di allocazione delle
risorse e degli investimenti. Quindi la creazione da parte dello Stato di nuova
occupazione “di prima istanza”. Tutte azioni per attuare le quali, scriveva, c’è
bisogno di una “chiara esplicitazione di una strategia di uscita dal conclamato
fallimento dell’Europa di Maastricht”[8].
Ad
otto anni di distanza le soluzioni di “repressione finanziaria”, di controllo
democratico della regola di solvibilità oggi nelle mani dei soli banchieri
centrali, l’ingresso dello Stato negli assetti proprietari, il controllo della
bilancia dei pagamenti sulla base di “standard sociali” (e dunque forme di
protezione), proposte negli anni dal nostro[9], sono ormai viste come
potenzialmente reazionarie. Dunque Brancaccio si ritrae e si rifugia nella
speranza in quella che chiama una pratica yawara: rivolgere l’impeto dell’avversario
contro lo stesso, rovesciandolo con la sua stessa forza.
La
mossa è chiara nel caso della lotta, ma più di centocinquanta anni da quando è
stata concepita dallo stesso primo Marx, e messo in dubbio dall’ultimo[10], non la rendono oggi più
chiara nella sua applicazione ai sistemi sociali e politici. C’è un tono
decisamente familiare nel modo di argomentare di Brancaccio, un tono che mi si
scuserà ma leggo come scolastico. La via di uscita è sempre la stessa, aumentare
la concentrazione del capitale, creare la classe rivoluzionaria come suo sottoprodotto
necessario[11],
e saltare con un balzo di tigre nella pianificazione generale delle forze produttive.
Solo che ora, nelle ultime pagine, queste sono sia totali sia libere. Non molto
chiaro come (probabilmente si allude ad un necessario impero mondiale).
Ma
andiamo con ordine, il mondo tende verso la “catastrofe”. E questa
diagnosi è proposta dall’economia in quanto “scienza generale”, capace di
previsione. Per sostenere questa tesi di sapore neopositivista il nostro si
appoggia all’autorità prima di Milton Friedman[12], poi di Althusser. Fatto sta
che con la prima di molte affermazioni dense di pretesa di autorità, il nostro “decreta”
niente di meno che “la pretesa a pieno titolo dell’economia nell’empireo della
scienza tout court”. La cosa gli serve perché intende porre alla base della sua
costruzione politica un’affermazione forte di esistenza di una dinamica nel
mondo e di “leggi” di sviluppo dello stesso meccanicamente necessarie. E, cosa
importante e ben connessa con la proposta di Friedman, una spiegazione capace
di produrre una previsione (invero eroica) sulla base di un numero molto
limitato di assunzioni. Si tratta di quello che Paul Samuelson chiamò il “F-Twist
di Friedman”: “per essere importante, quindi, un'ipotesi deve essere
descrittivamente falsa nei suoi assunti; essa non tiene conto
di, e rappresenta, nessuna delle molte altre circostanze presenti, sin dal suo
stesso successo dimostra che esse sono irrilevanti per i fenomeni da spiegare”[13]. In altre parole, sembra
di capire, la teoria è buona se attiva una semplicità performativa, o, con le
stesse parole dell’economista di Chicago: “paradossalmente, la questione
rilevante per chiedere sulle ‘ipotesi’ di una teoria non è se sono
descrittivamente ‘realistiche’, perché esse non lo sono, ma se sono
approssimazioni a sufficientemente buone ai fini in campo. E questa questione
può essere risolta solo dal vedere se la teoria funziona, il che significa se
si producono previsioni sufficientemente accurate”. Una concezione che Mark
Buchanan, in “Previsioni”[14], giudica semplicemente “folle”.
Una linea di giustificazione che, peraltro, e questo mi spiace dirlo vale anche
per questo testo, scivola nella disciplina economica dal difficile criterio
della verifico post-factum delle previsioni alla più confortevole “accettabilità”
ante-factum delle conseguenze previste[15].
Ma
in generale, sia nei riferimenti marxiani sia in quelli neopositivisti, l’intero
argomento ha un sapore inconfondibilmente riduzionista, economicista e meccanicista,
addirittura rivendicato. Collocandosi in questo modo, in effetti, nel solco del
secondo internazionalismo che pure critica per alcune sue rigidità. Più che di Marx,
che coltivava robusti dubbi, qui si è nella scia di Engels (che li teneva per
sé).
Insomma,
seguiamo le parole stesse, in quanto particolarmente chiare:
“è venuto alla luce uno snodo
della moderna scienza economica critica che forse, una volta superato,
consentirebbe di compiere qualche concreto passo avanti nell’ancora pressocché
inesplorato continente della storia. Lo snodo a cui mi riferisco è l’esigenza
di stabilire un collegamento fra la teoria della ‘riproduzione’ e della crisi
capitalistica da un lato, e la teoria delle leggi di ‘tendenza’ del capitale
dall’altro”[16].
Il
punto di connessione tra la riproduzione del capitale e la tendenza alla crisi
e la tendenza alla concentrazione, è rintracciato “al livello della struttura
economica capitalistica” e quindi di qui risale a tutti i livelli sociali e politici.
Con questa concettualizzazione, invero molto tradizionale, del rapporto tra “struttura”
e “sovrastruttura” nel seguito spegnerà in un sol colpo ogni possibile obiezione
e/o manifestazione di controtendenza. La legge è indefettibile e invincibile
nei suoi effetti.
Per
mostrare la tendenza alla concentrazione del capitale, invece di utilizzare
metodi marxiani di carattere logico/empirico, ma riferiti evidentemente ad un’altra
epoca del mondo[17],
l’autore spende alcune pagine a ricostruire la proposta in tal senso di Thomas
Piketty nel suo classico del 2014[18]. La disuguaglianza
fondamentale creata dal differenziale necessario (ma dal nostro proposto sulla
base di argomenti fondamentalmente empirici) tra il tasso medio di rendimento
del capitale e il tasso medio di crescita del reddito. Il punto di connessione
tra la teoria della riproduzione, fondata sulla solvibilità, e la tendenza alla
concentrazione si colloca qui. Più alto è il differenziale (che per Piketty è
necessario e comunque storicamente presente) tra il tasso di interesse e quello
di profitto più, è evidente, i debitori saranno in crescente difficoltà a
sostenere la solvibilità dei prestiti. Cioè sarà “più difficile onorare i
debiti accumulati”.
Thomas Piketty, "Il capitalismo del XXI secolo", figura 10.9 |
Ma
allora ne seguirà una tendenza alle insolvenze, alle bancarotte ed agli accorpamenti
dei capitali più deboli, e il loro assorbimento da parte dei più forti. Questo è
“per l’appunto, il moto della centralizzazione capitalista”.
Primo
snodo dell’argomentazione:
“I dati indicano che
questo moto di centralizzazione è ancora frastagliato, con varianti nazionali e
geopolitiche, ma che almeno in potenza non ha limiti e confini. Ed è per questo
in grado di estendersi all’intero pianeta”.
In
questo passaggio, per ora mitigato prudentemente da un “almeno in potenza”, è
contenuto l’intero modello mentale riduzionista proprio della disciplina
economica. Intanto questa posizione, potentemente ricostruttiva e
fondamentalmente intrecciata ad assunzioni morali (come risulta chiaro dalla
lettura dell’insieme del testo) è fatta risalire “ai dati”. Quindi un fenomeno “frastagliato”
(eufemismo per dire che è una mera ipotesi ricostruttiva per la quale non ci
sono sufficienti evidenze) è senza limiti perché l’economico è la struttura cui
sociale e politico devono adeguarsi.
E
questi sono, niente di meno, “i tratti essenziali della legge di riproduzione
e tendenza”. Ovvero la natura del mondo.
Quando
si enuncia una tendenza, Marx docet, si ha cura di illustrare anche le “controtendenze”
che la possono tenere sotto controllo e/o invertire. Dunque quali sono qui? Ovvero,
in altre parole, la centralizzazione quali reazioni può indurre? È presto
detto, si tratta del fenomeno più macroscopicamente presente sulla scena contemporanea
ed alla radice stessa del mutamento di tono del nostro:
“i capitali più piccoli e più
fragili, a rischio di liquidazione e assorbimento, possono tentare di
organizzarsi per imporre al banchiere centrale e alle altre autorità di governo
una linea politica orientata a mitigare le condizioni di solvibilità e a
contrastare la dinamica della centralizzazione”.
Bene,
si potrebbe dire; infatti se tutti gli alberghi italiani falliscono e vengono
assorbiti dalla catena Hilton ne deriverebbe un’enorme espulsione di
lavoratori, espropriazione di capitale di parte dei ceti medi italiani,
svuotamento dell’indotto o sua centralizzazione in condizioni ancora più deboli
e subalterne (essendosi formato un monopsonio[19]), e via dicendo.
Ma
per Brancaccio non è bene contrastare questa tendenza naturale del capitale a
concentrarsi. Infatti, da una parte la cosa è letta come “lotta tra capitali”,
anzi è “tutta interna alla classe capitalista” (come se non ci fossero
differenze tra il gestore di una pensione e la multinazionale Hilton), dall’altra
le famose, ma mai esplicitate, “evidenze” mostrano che questa controtendenza non
sarà mai in grado di “sovvertire la tendenza centralizzante di fondo”.
Liquidata
in questo modo la “controtendenza” (in realtà ci tornerà, proponendo il vero
argomento per il quale questa non deve prevalere: il suo carattere “reazionario”),
Brancaccio sostiene che questa “legge” è sufficiente a diagnosticare la
tendenza di sistema verso la “catastrofe”. Una catastrofe che va anche oltre l’economico,
per coinvolgere il sociale ed il politico. L’argomento è semplice: man mano che
il capitale si concentra con esso si polarizza la società e si creano regimi
antidemocratici. L’economico è quindi il primum movens che produce
effetti secondari sul sociale, creando come vedremo l’affossatore, e sul politico,
neutralizzando altre possibili controtendenze. Il sociale ed il politico sono interamente
sussunti nell’economico, o, almeno, nelle sue “leggi di tendenza fondamentali”.
Ripercorrendo
questa sorta di manualistica marxista (alquanto tradizionalista, a dirla tutta[20]) Brancaccio attacca la possibilità
stessa che il politico prenda una rivincita, mettendo in campo il mix di
politiche di maggiore successo storico per affrontare crisi di questo genere:
quello keynesiano. L’autore che al tempo del suo testo con Passarella non
sembrava completamente ostile a politiche di controllo anticiclico ora sostiene
un curioso argomento: autori come Blachard e Summers accoratamente richiedono
una svolta nelle politiche economiche di sapore keynesiano (politiche fiscali e
monetarie espansive, controlli sui capitali, estensioni del welfare e forme di
reddito di esistenza) che potrebbero essere “di non poco conto”, ma che,
sostiene, non sono oggi praticabili perché all’epoca erano state messe
in campo come controtendenza nel contesto del conflitto con il modello sovietico[21]. Insomma, nel periodo 1930-70
queste erano state “un oggetto politico, prima che teorico” (e politico prima
che economico, aggiungerei). In definitiva seguendo questo esempio storico
prolungatosi per oltre un quarantennio e in buona parte del mondo si potrebbe
ricavarne una confutazione del determinismo pikettiano e brancacciano. E’ al
fine possibile che la politica sopravanzi e sussuma l’economico, almeno in
parte.
Ma
per i nostri ora non può più succedere.
Bisogna
soffermarsi perché il punto è cruciale: il vero e proprio interdetto politico intorno
al quale il nostro fa girare il suo testo risalta in questo passaggio. Perché
ora non può succedere? La risposta vorrebbe essere fattuale, ora non c’è più una
sfida strategica a quel livello. Tuttavia, in un testo del 2020, scritto nel
corso della pandemia da Covid-19 resterebbe da chiedere che ne è della Cina. È impossibile
dimenticare il macrofenomeno epocale di transizione di potenza in corso e la
ripresa crescente del clima di contrapposizione da guerra fredda. Infatti,
Brancaccio, alle prese con un elefante in uno sgabuzzino, lo chiede. Ma la
risposta è semplice, netta e apodittica “per adesso di quel grande conflitto
di sistema non c’è traccia nel mondo”. Punto.
Con
ciò la possibilità che vengano messe in campo politiche di controtendenza
espansive è liquidata.
Non
esistono controtendenze possibili e di successo. O meglio, ci sono o ci potrebbero
essere. Tuttavia le seconde potrebbero ma non sono (l’insorgere di un mondo multipolare
e di uno scontro di sistemi) le prime sono, proprio ora e qui, ma hanno segno “reazionario”.
Ecco che compare il nemico contro il quale è speso l’intero testo. È comparso
un rischio tra il 2012 ed il 2020. La politica keynesiana potrebbe presentarsi
in senso diverso: “non rivoluzionaria ma reazionaria”. Ovvero potrebbe essere
messa a servizio dei capitali più deboli e fragili, per rallentare la
centralizzazione da parte dei capitali più forti. In altre parole, siamo alle
viste di un possibile mutamento delle politiche economiche, ma queste sarebbero
usate dal capitale (come sempre, del resto).
Da
qui il testo fa uno scarto. Lavorando sul margine di una contraddizione interna
all’assiomatica posta, infatti, per Brancaccio “il tasso di rendimento del
capitale ed il tasso di crescita del reddito non è la risultante di un equilibrio
‘naturale’ ma è piuttosto l’esito di decisioni macroeconomiche”. Insomma,
la “legge” non è tale. O, almeno, non è una “legge” in senso delle scienze
naturali, come l’autore sembrava porre all’avvio, ma è a questo punto una “legge”
nel senso delle scelte politiche. Secondo la vecchia distinzione di Neville
Keynes, ripresa da Friedman, normativa e non descrittiva. Scopriamo ora che la
tendenza può essere contrastata efficacemente, vittoriosamente, se il banchiere
centrale manovra per tenere sempre il tasso di interesse sotto il tasso di
crescita. Che è quel che sta accadendo. Questa operazione sarebbe, insomma, una
sorta di elicopter money per la borghesia e non per il popolo.
Questo
passaggio del testo è difficilmente armonizzabile con l’insieme. Tutta la prima
parte era rivolta a fondare una “legge di tendenza” del capitalismo in quanto
tale, lungo i suoi cinque secoli e i cinque continenti. La seconda a escludere
o interdire moralmente le possibili controtendenze. Ora si scopre che non è “legge”
nel secondo senso di Friedman, ma nel primo normativo e quindi frutto della
politica. Ma di una politica malata, che va a vantaggio dei soli capitali
arretrati (come vedremo) e non del “popolo”. Come se l’alternativa della
indefinita concentrazione di tutte le attività in poche mani fosse per il
popolo. O si?
Vedremo
dove salta fuori il coniglio.
Dunque
la “tendenza” può essere soverchiata. Indefinitamente?
Brancaccio crede di no (del resto cosa è infinito ed illimitato?). Potrebbe essere
rallentata, ovvero trasformata in una contesa violenta tra nazioni (qui il
nostro si deve essere dimenticato che nel 2012 contrastava l’argomento che la
piena liberalizzazione, e dunque concentrazione, fosse vessillo di pace, mentre
la protezione di guerra). Accadrebbe ora che, da una parte, “capitali
mediamente solvibili, più grandi e sempre più ramificati a livello internazionale”
e dall’altra “capitali più piccoli ed in affanno che operano invece
maggiormente entro i confini della nazione e per questo tendono ad
identificarsi più facilmente in essa” entrerebbero in scontro. I primi
(evidentemente basati su Marte[22]) sarebbero “progressisti”
ed i secondi revanscisti, reazionari, xenofobi e al limite fascistoidi. Si tratterebbe
di un “rinculo keynesiano” nel quale “la reazione può farsi nazione”, o quanto
meno “può chiudere la tendenza alla centralizzazione del capitale entro gabbie
geopolitiche”.
Ma
che cosa è successo all’autore che otto anni fa criticava la mondializzazione
capitalista e la “mezzogiornificazione”? E’ accaduto che, per usare una formula
sintetica a suo parere “nello scontro tutto interno alla classe
capitalistica, Keynes può muovere contro Marx”. Ovviamente contro il Marx del
1848 e anni immediatamente seguenti[23].
Eppure
per il nostro la legge di tendenza enunciata è mossa dalla logica speculativa
del capitale, produce sistematicamente inefficienza sistemica, distruzione dell’ambiente
e della natura, soffoca le libertà. Il moto profondo, descritto dallo schema di
struttura altamente astratto e scheletrico proposto, minaccia, in altre parole,
la stessa sopravvivenza delle istituzioni ed è autoprogrammato. Punta alla
catastrofe, identificata con la proletarizzazione generale e con la plutocrazia
imperante, e induce come unica risposta, ma da rigettare anche essa, una svolta
keynesiana di tipo “reazionario”, in quanto volta a salvare ceti medi e piccoli
capitali dalla rovina.
Come
se ne esce? Con quello che chiama un “vincolo epistemologico” (è
interessante che lo schematismo sia “epistemologico”):
“in ultima istanza tutto deve scaturire
dallo schema: come la linea verso la catastrofe è una risultante della legge di
riproduzione e tendenza, così dovrebbero esserlo anche i suoi eventuali
sovvertimenti”[24].
Una
simile mossa, appunto di judo, avviene perché la tendenza alla concentrazione,
quando indefettibilmente prevale, distrugge i ceti intermedi e polarizza la
società (è la vecchia tesi marxiana della proletarizzazione, solo con parole
leggermente diverse). E quindi distruggendo i “piccoli capitalisti, ceti medi più
o meno riflessivi, borghesia minore, esponenti delle professioni, quadri
privati e pubblici, padroncini e rentiers marginali”, li spinge nei ranghi dei
ceti subalterni. Un moto che “sul piano della logica è destinato ad imporsi”.
Ma
se tutti diventeranno proletari, allora diventeranno omogenei. Ecco il
passaggio.
“infine la polarizzazione sembra
assumere anche i tratti di una tendenziale uniformizzazione delle condizioni
della classe subalterna. È una dinamica che avvicina le condizioni di vita e di
lavoro a livello internazionale, generalmente dando luogo ad una convergenza
verso il basso”.
La
concentrazione, qui sembra proprio di leggere Marx che scrive centocinquanta anni
fa:
“inesorabilmente, tanto
tende a concentrare il potere di sfruttamento in poche mani quanto tende a livellare
le differenze tra gli sfruttati. Che si tratti di nativi o di immigrati,
uomini o transgender, man mano che si sviluppa il capitale tratterà questi
soggetti in modo sempre più indifferenziato, come pura forza lavoro universale”.
Insomma,
sembra che stia parlando della concentrazione degli ex artigiani e contadini
nelle fabbriche a Manchester. Segue del resto un breve passo ripreso, pari pari,
dal famosissimo brano de “Il Manifesto” sulla dissoluzione dei legami comunitari.
La conclusione è quella cui siamo abituati: il movimento di proletarizzazione e
di universalizzazione del lavoro mette in crisi le vecchie istituzioni,
disintegra i legami di famiglia, allenta i confini nazionali, abbatte gli
antichi equilibri sociali basati su genere e razza, intensifica lo sfruttamento
ma rende tutti eguali. Quindi ha un aspetto “progressivo e universalistico”.
Perché,
si capisce, essere tutti eguali è per definizione “progressivo”.
Inoltre,
appunto come Marx al suo tempo e al suo stato delle tecniche vedeva, la legge
del capitale “implica un progressivo assorbimento di nuova forza lavoro nel
processo di accumulazione”. Come fa Brancaccio a scrivere questo, quando la
concentrazione in occidente sta facendo a tutta evidenza da decenni l’esatto contrario
(e per questo tende a ridurre i ceti medi)? Tenta questa magia, necessaria all’ordine
del suo discorso, perché, con un inavvertito trucco, sposta subitaneamente il
focus e lo allarga alla “macchina capitalista mondiale”. Peraltro, da tempo non
è più vero neppure a questo livello, dato che la classe lavoratrice mondiale è
ormai da tempo la maggioranza dell’umanità tutta, ma non fa nulla. Ci sarà pure
qualche “sperduto angolo del mondo” non ancora raggiunto…. Ecco lì ci sarà un
assorbimento.
E
quindi “con questo ingresso nel sistema, la forza lavoro muta in ingranaggio,
pezzo indistinguibile della macchina, operaiato”. Richiamando in pochi righi toni
post-operaisti fuori tempo massimo ne deriva la diagnosi che siamo tutti “attaccati
alla macchina” e tutta la nostra vita diventa tecnica. Si attiverebbe una “colonizzazione
capitalistica delle esistenze”. Ne emergerebbe un uomo nuovo.
Un
uomo preso e creato da un “grande meccanismo” (lo chiama proprio così), che ha “ingranaggi”
ben attaccati “all’albero motore” della legge di riproduzione e tendenza e alla
sua “logica di movimento”. Una logica che non ammette esodo ed è “insensibile
alle correzioni di rotta”. In realtà, andando in fondo al testo, come abbiamo
visto, l’argomento decisivo non è che sia “insensibile”, o non si possa dare,
quanto che la logica in specie è “progressiva” e queste sarebbero “regressive”,
dunque va rigettata. La diagnosi è netta:
“nel grande meccanismo la
rivoluzione keynesiana si riduce a mera reazione piccolo borghese, e con
essa le propaggini del reddito di esistenza o della moneta per il popolo”.
E’
qui, dunque, quando tutto è perduto, tra completa vittoria del capitale nell’immane
concentrazione per la quale alla fine uno solo possederà l’intero pianeta, e
tutti gli atri ne saranno servi (peraltro poverissimi), e la reazione
retrograda e guerrafondaia, che Brancaccio inserisce la sua mossa di judo.
“Adeguarsi alla forza avversa,
quindi sfruttarla per piegarla in avanti, fino ad ottenere il suo rovesciamento
e il suo controllo.”
Chiaro
quando si assiste ad un saggio ginnico. Mossa elegante, subitanea, decisiva.
Ma
cosa significa in questo diverso contesto? Il testo di Brancaccio da questo
punto si fa allusivo, evanescente. Si tratterebbe in sostanza di utilizzare il
fatto che il movimento del capitale “oggettivamente erode le eterogeneità tra i
subalterni, concretamente rideterminando la loro universalità” e quindi per
questa via “apre opportunità politiche inedite”.
Ora, quando Marx scriveva queste cose eravamo alla metà del 1800, sono passate parecchie cose. Abbiamo avuto l'espansione imperialista dell'ultima parte del secolo, le guerre mondiali, la trasformazione del capitalismo imperniato sulla fabbrica e il mercato in capitalismo monopolistico, lo sviluppo delle tecniche, la risposta keynesiana e la controrivoluzione liberale, la prima finanziarizzazione di fine ottocento, il crollo degli anni venti e la rifinanziarizzazione degli anni settanta e seguenti, la democratizzazione e la post-democratizzazione, la disgregazione del lavoro, la terziarizzazione, la rivoluzione informatica e il post-fordismo (prima avevano avuto il fordismo), l'espansione e ora il declino dell'impero americano (e prima di quello inglese). Insomma acqua ne passa sempre sotto i ponti.
Ma
oggi, 2020, non è chiaro in che senso:
“man mano che il
capitale si ammassa nelle mani di un manipolo sempre più ristretto di
capitalisti, man mano che il loro potere si concentra e ci si avvicina alla
catastrofe della liberaldemocrazia, diventa al contempo sempre più difficile
frastagliare gli interessi della classe subalterna, e risulta sempre più
oneroso l’antico esercizio macedone del dividere per dominare. In una
impersonale eterogenei dei fini, mentre cresce la potenza del capitale
centralizzato, monta al contempo la fragilità del suo monopolio politico. Più
vicina la catastrofe, più vicina è l’occasione di una svolta”.[25]
Ma
se questo è posto allora si tratta di costruire una nuova intelligenza
avanguardista. Nemica di ogni “codismo”, sia di quello che va dietro a “l’ammorbante,
continuo vezzeggiamento del cosiddetto ceto medio”, e quindi alle “reazioni”
piccolo borghesi, “con le sue tipiche suggestioni bigotte, familiste,
ultranazionaliste, intrise di illusioni del populismo interclassista, e che
conduce fuori delle contraddizioni di fondo del sistema”. Va dietro “al passato
che resiste”. E che resiste proprio alla polarizzazione, all’uniformizzazione
di classe e allo sviluppo di un nuovo capitale umano che “creano le condizioni
concrete per il cambiamento”.
Nemica
anche dell’opposto “codismo” che va dietro ai grandi capitali (la strada della
sinistra mainstream).
Come
si esce da questo ginepraio? Evocando appunto un’avanguardia ed una pratica: la
“pianificazione”. Anzi la “pianificazione collettiva”. Una Pianificazione
che è sia “collettiva” sia “moderna”, ovviamente. Anzi specificamente “moderna”
(dato che è l’idea centrale del socialismo reale che certo il nostro non ama) perché
sintetizza la “pianificazione collettiva” con la “libertà individuale”.
Per
cercare di descriverne il senso, ancora una volta Brancaccio si limita a citare
Marx e il suo noto concetto di controllo collettivo della totalità delle forze
produttive, e suo completo dispiegamento, come condizione necessaria per lo
sviluppo della totalità delle capacità individuali. “Critica al programma di
Gotha”[26],
insomma.
Nel
momento in cui il capitale ormai completamente centralizzato (presumo a livello
mondiale) si socializza in un piano collettivo, allora, il giorno della
simultanea rivoluzione mondiale, cambia il rapporto tra la storia e la natura
umana. “Viene raggiunto il limite estremo della legge di riproduzione del tipo
umano capitalistico, e si creano le condizioni per la produzione sociale di una
nuova umanità, in grado di fare dello sviluppo della materialità corporea e
psichica un esercizio ludico complesso, raffinatissimo, liberato”.
Insomma,
siamo a metà tra il Marx del 1875 e il Keynes del 1933.
Questa
per Emiliano Brancaccio “la via per l’unica rivoluzione capace, in prospettiva,
di scongiurare la catastrofe”.
Detto
in modo più chiaro, non pensiate che si abbia qualcosa per evitare a tutti un
destino di povertà, umiliazione e sfruttamento, è dal dolore che viene la
salvezza.
[1] - Emiliano Brancaccio, “Catastrofe
o rivoluzione”, Il Ponte, anno LXXVI n.6, novembre-dicembre 2020.
[2] - Emiliano Brancaccio, “Non sarà un pranzo di gala”, Meltemi
2020.
[3] - Dalla bibliografia citata oltre
ai lavori di critica delle basi dell’economia neoclassica, intorno al 2010,
troviamo uno studio sulla solvibilità nella centralizzazione dei capitali in
una unione monetaria, del 2016, e poi una serie di pubblicazioni del 2018-2020
sulla volatilità di mercato, la centralizzazione del capitale nella crisi
finanziaria, la regola di solvibilità nelle banche centrali.
[4] - Emiliano Brancaccio, Marco
Passarella, “L’austerità è di destra. E sta distruggendo l’Europa”, Il
Saggiatore, 2012.
[5] - Rudolph Hilferding, “Il
capitale finanziario”, Mimesis 2011 (ed. or. 1910).
[6] - Indubbiamente un esempio di
fascinazione per il movimento del progresso ed in uno del suo necessario superamento
per linee interne. Ma, oltre a leggere il “Manifesto”, bisogna prestare
attenzione alla prefazione dello stesso Marx del 1882 nella quale introduce il
dubbio che la obscina possa essere il seme di una evoluzione che non passi per
il percorso immaginato nel testo del ’48. Si veda “Il
‘Manifesto del Partito Comunista: la prefazione del 1882 all’edizione Russa”.
Osservando con attenzione questo testo tardo si possono rintracciare delle
risorse interpretative delle quali anche il testo di Brancaccio che qui si
commenta si gioverebbe. Infatti Marx sostiene che la Obscina pone un “problema”:
la comunità rurale, una forma non moderna e comunitaria, residuo della “originaria
proprietà comune della terra” e in questo anzi anti-moderna, può forse “passare
direttamente” alla forma che chiama “più alta” del comunismo? Bisogna
soffermarsi proprio qui, nella forma di questa domanda. La scelta della parola “alta”
in questo contesto, per designare il comunismo rispetto alla forma comunitaria
della Obscina, rinvia ad un modo di pensare per metafore topo logiche, quasi
architettoniche, che Marx adopera in molti luoghi cruciali. Come l’immagine
della soprastruttura (uberbau), ovvero di una “costruzione” (bau)
“sopra” (uber) un fondamento, che usa a partire dal 1859 in “Per la critica
dell’economia politica”, per distinguere tra le attività materiali e le
costruzioni della conoscenza. Come la struttura (il fondamento “sopra” cui
avviene la “costruzione”), indica le forze produttive e i “rapporti sociali” che
gli corrispondono, mentre la soprastruttura le forme culturali e politiche che
questa rende possibili, nello stesso modo la forma comunistica è più “alta”, ma
include ed implica necessariamente la forma che gli fa da fondamento. E questo
nel suo pieno ed ampio perimetro di abilità, razioncinio, consuetudini e
sapienza, oltre che dell’esito di tutto ciò: il “saper fare”.
Bisogna anche notare che La nuova prefazione al “Manifesto”, scritta per l’edizione
russa, oltre a dare conto di un mutamento della geopolitica mondiale in corso,
che vede retrocedere la centralità europea, relativizza anche il suo necessario
corso storico. Del resto questa mossa è connessa con la comprensione della
storia come sviluppo definibile in qualche modo solo a posteriori e quindi non
riassumibile, come dice, in “una teoria storico-filosofica del percorso
universale fatalmente imposto a tutti i popoli, indipendentemente dalle
circostanze storiche in cui si trovano i posti” (Karl Marx, alla redazione
della Otecestevennye Zapiski.
[7] - Brancaccio, Passarella, cit., p.107
[8] - idem, p. 137
[9] - Come lui stesso dichiara in
questo testo a p.19.
[10] - Come abbiamo visto nel commento in nota alla
prefazione del 1882 all’edizione russa de “Il Manifesto”, la linearità astratta
dello sviluppo, espressione della presunta “teoria storico-filosofica del
percorso universale fatalmente imposto a tutti i popoli, indipendentemente
dalle circostanze storiche in cui si trovano i posti”, si inceppa su un
punto di resistenza. Ma una resistenza che può mettere alla prova la verità del
pensiero individuato nel testo del 1848, una resistenza che è un “problema”.
Dalla lettera a Vera Zasulic lo leggiamo: o prevarrà “l’elemento della
proprietà privata sull’elemento collettivo” o il contrario, il collettivo sulla
proprietà. Ma non avverrà per via astratta, per imposizione dall’altro,
bensì da dentro. Nella prefazione, e prima nella lettera, l’idea è
chiarita così: il fatto che la Russia sia nella possibilità di trarre esempio,
ispirazione e sostegno dalla produzione capitalistica, che nel frattempo si è
comunque sviluppata (al prezzo di grandissimi sofferenze) nell’Europa occidentale,
rende possibile che appropriandosi dei risultati positivi di questo modo di
produzione, essa si trovi, dunque, in grado di sviluppare e trasformare, invece
di distruggere, la forma ancora arcaica della sua comune rurale. In questo caso,
senza passare sotto le forche caudine del sistema capitalistico, i contadini ne
potrebbero utilizzare ed integrare le acquisizioni positive. Così come non è
necessario superare tutte le fasi tecnologiche (dal telaio meccanico, a quello
a vapore, poi ai bastimenti a vapore, poi le ferrovie, e via dicendo) od
organizzative (prima le fiere, poi le borse merci, poi le banche, le società
per azioni, …) per impostare un sistema economico avendole ormai davanti pronte
tutte.
Questo è il senso, a ben vedere, in cui si capisce l’ultima frase della
prefazione: “la sola risposta oggi possibile [al problema] è questa: se la
rivoluzione russa servirà di segnale a una rivoluzione operaia in occidente, in
modo che entrambe si completino, allora l’odierna proprietà comune rurale russa
potrà servire di punto di partenza per un’evoluzione comunista”.
[11] - Nel 1859 Marx scrive nella
prefazione a “Per la critica dell’economia politica”: “tanto i rapporti
giuridici quanto le forme dello Stato non possono essere compresi né per se
stessi, né spiegandoli con la cosiddetta evoluzione generale dello spirito
umano, ma hanno le loro radici, piuttosto, nei rapporti materiali dell’esistenza
il cui complesso viene abbracciato da Hegel, seguendo l’esempio degli inglesi e
dei francesi del secolo XVIII, sotto il termine di ‘società civile’; e che l’anatomia
della società civile è da cercare nell’economia politica. […] nella produzione
sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti
determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di
produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro
forze produttive materiali. L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce
la struttura economica della società, ossia la base reale su cui si
eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono
determinate forme sociali della coscienza. […] non è la coscienza degli uomini
che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che
determina la loro coscienza”. Una formulazione potente, ed anche illuminante,
ma che va letta nella temperie del suo tempo ed entro gli scopi dati dell’autore,
per i quali conviene esercitare nettezza, prendendo il rischio ma correndo
verso il premio. La prefazione si chiude in modo molto significativo con il
richiamo a un verso di Dante:
Qui si convien lasciare ogni sospetto
Ogni viltà convien che qui sia morta.
[12] - In particolare, Milton Friedman, “La
metodologia dell’economia positiva”, 1953. Nel quale l’autore di Chicago riprende
nel clima neopositivista del suo tempo il programma schiettamente positivista
del padre di Keynes. Quel John Neville Keynes che aveva cercato nel 1890 di
distinguere tra una scienza positiva che riguardasse “ciò che è”, da una
normativa che riguardasse “i fini”. La “distinta scienza positiva” che Friedman
cerca necessita di una demarcazione, ponendo l’assioma centrale per il quale “l’economia
positiva è in linea di principio indipendente da qualsiasi
posizione etica o da giudizi normativi”. L’assiomatica disciplinare è posta. E dove
è precisamente posta e fondata? Per il testo del 1953 semplicemente “sul
successo”. Per Milton, infatti, se l’economia “positiva” deve fare
questo ne consegue che “Il suo compito è di fornire un sistema di
generalizzazioni che può essere utilizzato per effettuare previsioni
corrette circa le conseguenze di un eventuale cambiamento delle
circostanze”. Si tratta dello stesso successo che storicamente fonda l’immenso
prestigio e potere della fisica newtoniana sulle altre scienze (e ne farà
financo un modello per la filosofia).
Ma questo successo va guadagnato. Per questo, se vuole
demarcare il campo positivo della disciplina, è ovvio che “la sua prestazione è
per essere giudicata dalla precisione, la portata e la conformità con
l'esperienza delle previsioni che procura”. Cioè, come la mette: “in breve,
l'economia positiva è, o può essere, una scienza ‘oggettiva’, esattamente nello
stesso senso di una delle caratteristiche delle Scienze fisiche”. E’
chiaro; l’economia “positiva”, per avere ad oggetto “ciò che è”, realmente,
deve poter effettuare previsioni corrette e solo su questo, come le scienze
fisiche, va giudicata.
[13] - Milton Friedman, “La metodologia
nell’economia positiva”, cit.
[14] - Mark Buchanan, “Previsioni.
Cosa possono insegnarci la fisica, la meteorologia e le scienze naturali sull’economia”,
Malcord, 2014.
[15] - Ad esempio il premio nobel
William Sharpe nel 1964, per difendere il modello CAPM (non esattamente una
teoria disincarnata o senza “premi” all’estensore, dato che riguarda i mercati
finanziari e presumibilmente è accompagnata da ricchissime consulenze e
finanziamenti privati): “non c’è bisogno di dire che questi siano indubbiamente
assunti non realistici [che tutti gli investitori accedano agli stessi tassi e
e che tutti abbiano gli stessi obiettivi] poiché il test più appropriato di
una teoria non è il realismo dei suoi presupposti ma l’accettabilità delle sue
implicazioni, e poiché questi presupposti implicano le condizioni di equilibrio
che sono alla base della gran parte della dottrina finanziaria classica, non è
chiaro perché questa formulazione debba essere rifiutata, specialmente alla
luce dell’assenza di modelli alternativi che portino a simili risultati” (cit.
in Buchanan, p.130).
[16] - Brancaccio, “Catastrofe o rivoluzione”,
p.5
[17] - Non credo sia necessario
ricordare analiticamente che Karl Marx vive tra il 1818 ed il 1883, tra la nativa
Germania (ma al confine con la Francia) e la stessa Francia, Belgio e
Inghilterra, che esce dall’Europa una sola volta e per poche settimane. O richiamare
il contesto di accelerazione della seconda rivoluzione industriale, il clima
macchinista dell’epoca, il trapasso dal romanticismo al positivismo, la grande
stagione di lotte “borghesi” del 1848 (seguita alle mobilitazioni degli anni
venti e trenta) e quella successiva delle prime, entusiasmanti, lotte socialiste.
[18] - Thomas Piketty, “Il
capitale del XXI secolo”, Bompiani 2014. Un testo che ha molti meriti,
in particolare come stimolo al dibattito, ma anche il difetto di porre come “di
ferro” (il termine è di Rodrik) una relazione r>g che potrebbe essere
benissimo rovesciata nel tempo. Ad esempio (esempi di Rodrik) per eccesso di
capitale sua svalutazione, anche traumatica, o per incremento del tasso di
crescita economica. La stessa critica al determinismo ed all’estensione su periodi
lunghissimi di “leggi” stilizzate viene avanzata da Ann Pettifor e Geoff Tily. In
sostanza l’economista francese sembra presumere che nel lunghissimo periodo una
semplice curva di crescita della produzione sia ipotizzabile, senza prestare
attenzione alle infinite crisi, salti, cambi di paradigma, radicali mutamenti
di regime, immani distruzioni, assetti sociali, modi di produzione, relazioni
di potere che si sono susseguite. Francamente, con tutto il rispetto possibile,
un grafico del genere è sconcertante. Implica tacitamente che l’essenza sia
catturabile da un numero sintetico (peraltro tirato ad indovinare ad essere
gentili). Credo che lo scetticismo su questo risultato degli autori sia ben
motivato, il tentativo di definire una regolarità registrata su brevi periodi e
in alcune economie relativamente simili e molto interconnesse (come l’Europa
allargata agli USA negli ultimi due secoli) come “legge del capitalismo”, e poi
di estenderla addirittura oltra il capitalismo ai sistemi economici e sociali
premoderni passa il segno e forse dice qualcosa dell’impresa tentata. Come per
il caso del Marx del 1859 il sonetto di Dante è un esergo appropriato.
[19] - Un “monopsonio” è un monopolio
della domanda. Quando un solo acquirente è possibile per una merce, nella fattispecie
per i lavoratori del settore turistico.
[20] - Si veda per una robusta critica
del determinismo e dell’economicismo marxista, finalizzata a riattivarne l’energia
e non a liquidarlo, Carlo Formenti, Onofrio Romano, “Tagliare i rami secchi.
Catalogo dei dogmi marxisti da archiviare” Derive e Approdi, 2019.
[21] - Rimando ai capitoli centrali del
mio Alessandro Visalli, “Dipendenza”, Meltemi 2020.
[22] - Il “capitale” è una mera
astrazione. Quel che esistono sono sempre persone, organizzazioni, sistemi
giuridici e monetari imbricati gli uni con gli altri, sistemi di relazioni e di
dipendenze. Quindi tutti i “capitali” sono territorializzati, in qualche modo
ed in ultima istanza. Si faccia l’esperimento mentale di immaginare una guerra
nella quale gli Usa perdessero, le decine di migliaia di multinazionali
apparentemente ubique, le immani concentrazioni di moneta, la relazione di
potere che le prime e le seconde rappresentano e costituiscono, di riposizionerebbero
o si dissolverebbero.
[23] - Cioè il Marx che cerca leggi di
tendenza generali e si spende per quella che crede essere un’imminente
rivoluzione proletaria. Per una ricostruzione del suo percorso di vita si veda
Nicola Merkel, “Karl
Marx”, Laterza 2010, o per l’ultimo Marcello Musto, “L’ultimo
Marx”, Donzelli 2017.
[24] - Brancaccio, cit., p. 15
[25] - Brancaccio, cit. p.18
[26] - Karl Marx, “Critica al
Programma di Gotha”, Editori Riuniti, 1978, (ed. or. 1875).
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