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domenica 24 gennaio 2021

Antonio Labriola “Discorrendo di socialismo e di filosofia”, 1898, III

  

Dopo aver discusso del secondo dei “Saggi sul materialismo storico”, il testo del 1896 “Del materialismo storico. Delucidazione preliminare”, e di “In memoria del Manifesto dei comunisti”, dell’anno precedente, proseguiamo e per ora terminiamo questa lettura di Labriola con il terzo saggio del 1898-9 “Discorrendo di socialismo e di filosofia[1], cui avrebbe dovuto dar seguito “Da un secolo all’altro” fermato allo stato di abbozzo dalla morte nel 1904.

Il testo del 1898 si apre con la denuncia della povertà e difficoltà a reperire gli scritti di Marx, e la necessità di una edizione completa e critica[2]. Siamo in anni piuttosto decisivi: nel 1895 era morto Engels, con il quale Labriola era in corrispondenza, ma quasi subito prese forza la ripresa economica dopo la lunga e lacerante grande depressione del 1875 che aveva fatto pensare ad un possibile crollo del capitalismo[3]. Compaiono quindi innovazioni tecnologiche decisive come l’automobile, l’aeroplano, la trasmissione dell’elettricità a distanza (1892), che alimenteranno l’espansione fino agli anni venti; si rafforza la prima forma di assicurazione sociale proposta in Germania negli anni ottanta e poi estesa agli altri paesi; la guerra ispano-americana del 1898 segnala l’entrata in campo di un altro attore imperialista, e dall’altra parte del mondo si affaccia il Giappone. La crescita della concorrenza industriale e dei grandi gruppi industriali e finanziari, sostenuto dai rispettivi Stati, apre una lunga fase di concorrenza militare e di espansione coloniale di nuovo genere: concentrata sul controllo diretto di ampi territori al fine di escludere da questi la concorrenza. Si affaccia l’imperialismo e si prepara la via per il grande scontro che arriverà negli anni dieci del secolo successivo. Questo è il contesto nel quale parte il grande dibattito che impegna il marxismo fino al 1905 (il Bernsteinsdebatter[4]). Dopo il Congresso di Erfust (1891)[5] della Spd, si consolida la corrente principale kautskiana, contro il quale era diretto il lavoro di Labriola, quindi si manifesta anche una corrente che si potrebbe definire soggettivistica e rivoluzionaria, rappresentata appunto da Sorel ed in qualche misura da Rosa Luxemburg (molto attiva nel dibattito), e, infine, si forma la nuova sintesi leniniana[6].

Questo sfondo è di decisiva importanza per comprendere anche la particolare sintesi labriolana e le sue difficoltà. In Germania, allora il paese guida insieme alla Francia (dove, però, il marxismo è sempre stato meno forte per la solida presenza di correnti blanquiste, anarchiche, radicali etc.), la Spd era appena uscita dalla legislazione speciale, nel congresso di Halle (1890) decide di darsi un programma d’azione unitario che è approvato nel successivo anno. Kautsky scrive il “programma massimo” e Bernstein il “programma minimo”. Bebel, leader politico indiscusso, dichiara che certamente la rivoluzione arriverà praticamente per sviluppo naturale. Il rischio che la Luxemburg vede quasi subito, e sul quale Labriola concorda nella sostanza, è che l’attesa fideistica della immancabile rivoluzione ma abbandono effettivo dello sforzo di provocarla per concentrarsi sulla lotta parlamentare e le conquiste parziali, aumenti la forza quantitativa del partito a spese del suo ‘spirito rivoluzionario’. Se è così, il “programma massimo” diventa solo un feticcio buono per tenere insieme le truppe; dirà Kautsky che la rivoluzione (“cioè una radicale trasformazione dei rapporti di forza nello Stato”[7]) non si può né fare, né preparare, perché arriverà indipendentemente quando i tempi matureranno.

Rosa Luxemburg, a Berlino solo da un mese quando esce su “Die Neue Zeit” il primo articolo di Bernstein, scrive una replica a puntate nel settembre 1898 e poi una l’anno seguente. Viene attaccata la sopravvalutazione della capacità di adattamento del capitalismo e la scomparsa della crisi generali per effetto dello sviluppo del credito, delle grandi industrie interconnesse e la crescita dei ceti medi. Non ultimo per effetto dell’innalzamento dei salari reali per effetto delle lotte sindacali (in Gran Bretagna Bernstein dal 1888 è in stretto contatto con fabiani e altri circoli sindacali locali). L’ex segretario di Engels e suo curatore testamentario, insomma, rimuove l’anarchia del capitalismo e con essa la prognosi di crollo generale. Il socialismo non è più obiettivamente necessario. I “mezzi di adattamento”, come li chiama Bernstein, non sono forme in avvio del socialismo (di cui, con formula famosa, “conta il movimento”[8]) ma lo rendono superfluo. Il programma socialista (“minimo”) sarebbe giustificato per questa via in modo idealistico, “mentre la necessità obiettiva, cioè la giustificazione data dal corso dello sviluppo materiale sociale, viene a cadere”[9]

Insomma:


La teoria bernsteiana si trova davanti ad un dilemma. O la trasformazione socialista continua ad essere una conseguenza delle contraddizioni obiettive del sistema capitalistico, allora insieme a questo sistema si sviluppano anche le sue contraddizioni, e un crollo, in questa o in quella forma, a un certo momento, ne è il risultato; ma allora anche i ‘mezzi di adattamento’ [Bernstein] sono inefficaci e la teoria del crollo è giusta. Oppure i ‘mezzi di adattamento’ sono in realtà tali da impedire un crollo del sistema capitalistico, rendono quindi il capitalismo in grado di esistere, sopprimono le sue contraddizioni; ma allora il socialismo cessa di essere una necessità storica, e sarà tutto quel che si vuole tranne che un risultato dello sviluppo materiale della società. Questo dilemma conduce ad un altro dilemma: o Bernstein ha ragione per quanto riguarda il corso dello sviluppo capitalistico, e allora la trasformazione socialista della società si muta in un’utopia, oppure il socialismo non è un’utopia e allora la teoria dei ‘mezzi di adattamento’ non deve essere valida. That is the question, questo è il problema”[10],

 

 

 

Labriola sta in questo problema. Ma cerca di restarci in modo creativo, accogliendo parte delle critiche e degli stimoli di Bernstein (peraltro comuni anche a Croce), in particolare contro il tono positivista ed evoluzionista, prudentemente senza enfatizzarli, ma producendoli, per così dire, da sé. Al contempo con grande sensibilità per il rischio di abbandono dello spirito rivoluzionario, che intravede molto bene nella guida del Partito Socialista Italiano, se intendere è superare, non tutto va lasciato, e quindi in più punti ribadisce la sua fede nel superamento del capitalismo. Il costante richiamo al “senso vivo e reale delle cose”, suona in questa direzione: nello scontro tra le classi possidenti e le classi lavoratrici bisogna dare armi alle seconde. A Benedetto Croce, che aprirà le ostilità contro il marxismo, replicherà, come vedremo, che è ‘irresponsabile’. Di qui nascono formule di grande densità come quelle che abbiamo segnalato e segnaleremo.

Mentre Bernstein trae dal rifiuto del determinismo crollista, che intravede in Marx, l’intero spostamento dello scopo del socialismo nella lotta democratica (e di qui nell’avanzamento delle condizioni concrete dei lavoratori), sulla base di una ricezione del socialismo liberale inglese e della critica liberale crociana, Labriola evita sia di asserragliarsi nel fortino assediato, come faranno sia pure diversamente sia Kautsky sia Luxemburg, o di puntare su una geniale sortita come Lenin[11], ma anche di buttare acqua e bambino, per fare centro sulla “filosofia della prassi” e quindi su un nuovo terreno di lotta, che sarà successivamente messo a tema da Gramsci.

Se accetta gli elementi essenziali della critica al determinismo del “materialismo storico” nella versione positivista[12], per Labriola l’agire sociale è al punto di congiunzione della volontà e della necessità. Punto che evita di feticizzare la seconda, ma anche la prima.

 

 

Anche con Sorel, che citerà Labriola solo nella prefazione di “Le illusioni del progresso[13], e peraltro criticandolo, Labriola ebbe una frequentazione e vicinanza, terminata man mano che questi si allontanava dal marxismo. Sorel, che si affida al sindacalismo rivoluzionario con forti connotazioni anarchiche, punta alla mobilitazione volontaria, e per questo al “mito” dello sciopero generale dei lavoratori. Anche in questo caso la risposta nasce dallo stesso grumo di problemi. Arriva a questo esito, che lo porterà sempre più lontano, ammettendo la ‘crisi del marxismo’ ma rifiutando sia la soluzione “riformista” di integrazione di fatto del movimento socialista nel governo capitalista della società (coperto dalla dichiarazione della inevitabile necessità storica finale del socialismo), operata dal kautskismo, sia la soluzione “crollista” ed in fondo attendista.

La rottura tra Labriola e Sorel è progressiva; nella prima stesura dei testi non è ancora definita, mentre nei due anni successivi le nuove prefazioni aggiunte la testimoniano in pieno. A quel punto Sorel comunque si è spostato, grazie ad un serrato dialogo con Croce, su posizioni che il nostro considera revisioniste[14]. Ma anche in questo dialogo segnavia ci sono elementi comuni. Tra questi una certa accentuazione del lato umano e volontario e l’avversione al catastrofismo evoluzionistico, come anche la presenza temperata della dimensione economica.


Eduard Bernstein


Labriola scrive dunque il terzo saggio contro tutte queste prospettive di revisione del marxismo, cosa evidente soprattutto nelle appendici contro Croce[15], Bernstein e Masaryk[16] e in dialogo, progressivamente sempre più lontano, con Sorel. Lo scontro con Croce è, in particolare, molto acceso nel 1898, quando letteralmente il nostro dà in escandescenze alla lettura di “Per la interpretazione e la critica di alcuni concetti del marxismo”, dell’anno prima. Trattare il marxismo storico sotto il solo sguardo filosofico gli pare infatti slegarlo dal conflitto sociale e politico, cui è indissolubilmente intrecciato. L’amico Croce viene bollato con termini furiosi come “epicureo contemplante”, “fraccomodo”, “letterato”, “extra e anti-politico”, persona “intenta a disputare solo con se stesso”, e quindi irresponsabile, indifferenze “agli effetti pratici e inclusivamente politici” delle posizioni prese.

In un così largo raggio preme soprattutto ribadire che il nucleo primigenio del socialismo è la “filosofia della praxis”. La vita sia dei singoli come dei sistemi sociali è essenzialmente caratterizzata dal “lavoro” (qui sia materiale quanto intellettuale); opera dell’uomo che nell’ambito di rapporti determinati agisce sull’ambiente naturale e si trova costantemente modificato, a sua volta, da questo e dalla seconda natura della tecnica. Nel lavoro è dunque presente un nesso complesso tra natura e libertà. Tuttavia, la formula muove dal termine “filosofia”, e per questo fu valorizzata da Gramsci. In altre parole, della “prassi”, data dal lavoro e presa nel nesso tra natura e libertà, occorre dare una riflessione ed una sistemazione teorica. Qui si allontana dall’ispirazione dei padri fondatori, preoccupati piuttosto di distinguersi dai circoli “giovane-hegeliani” e terminata per questo nella dura svalutazione della “ideologia”.

In altri termini l’intero testo, di difficile lettura, sembra attraversato da una tensione non completamente risolta ad andare oltre la concezione di opposizione tra “lavoro degli uomini”, e “forme della coscienza” (come, al limite, lavoro meramente intellettuale, quindi borghese e sospetto di falsa coscienza), o, ancora, tra “struttura” e “sovrastruttura”. Qui si inizia a costruire quel ponte che poi Gramsci doterà di piloni.

La distinzione strategica, come quella del movimento storico, è ricollocata e ripensata come distinzione nella compresenza, senza fondare assiologie e tanto meno movimenti evolutivi, rispetto all’agire economico. È quindi spesa contro ogni tentazione a scivolare nell’economicismo. Giova ad assumere questa posizione la sua storia di studioso già pienamente formato quando accede al marxismo, per cui il vecchio studioso di Hegel, se pure critico, e di Herbart, ovvero la sua frequentazione con le scienze storiche, la psicologia dei popoli e l’etnologia, linguistica comparata[17]. Si tratta di una operazione complessa, tessuta dello sforzo di contribuire ad una impresa collettiva e di fornire strumenti in una lotta. Certo, come evidenzierà Gramsci, se pur rapidamente, l’operazione di sovrapporre alla teoria incline all’economicismo dei padri del marxismo il portato metodologico delle scienze storiche dello spirito, per valorizzare meglio gli ambiti non economici della prassi, rischia costantemente di scivolare indietro. Del resto, questa difficoltà a rendere coerenti i materiali della costruzione, e di farne narrazione chiara, sarà uno dei punti di attacco che giocheranno contro di lui Benedetto Croce e tanto più Giovanni Gentile.

La cosa è posta in modo abbastanza esplicito:


Dalla vita al pensiero, e non già dal pensiero alla vita; ecco il processo realistico. Dal lavoro, che è un conoscere operando, al conoscere come astratta teoria: e non da questo a quello. […] In questi pensieri è il segreto di una asserzione di Marx, che è stata per molti tempi un rompicapo, che egli avesse, cioè, arrovesciata la dialettica di Hegel: il che vuol dire, in prosa corrente, che alla semovenza ritmica d’un pensiero per sé stante (- la generatio aequivoca delle idee! -) rimane sostituita la se movenza delle cose, delle quali il pensiero è da ultimo un prodotto”.

 

 

Il punto fecondo è la descrizione della contraddizione tra capitale e lavoro come organica, non accidentale, e dunque non risolvibile attraverso pretese giustizie redistributive. In altri termini la forte individuazione dell’antagonismo, la lotta l’opposizione tra capitalisti e venditori di forza-lavoro come chiave di volta per intendere la società moderna. L’affermazione del monismo del materialismo storico nel contesto della lotta politica condotta nell’ambito del nascente movimento operaio italiano, per volgere in chiave “rivoluzionaria” la cultura e la politica irriducibilmente evoluzionistica e positivistico-riformistica della dirigenza del Partito Socialista. Ma anche per rinviare al mittente lo spostamento del centro di volta nella forma giuridica ed istituzionale della società liberale e quindi della lotta, interamente, in quella democratica.

Gramsci, successivamente, ovvero un trentennio dopo, e con il vantaggio dei tempi (e dell’ingegno) risolverà la tensione spostando, con mossa radicale, la “filosofia della prassi” labriolana, ancora fissata sull’assiologia alla quale non riesce completamente a sfuggire, in una molto più decisa rivalutazione del piano “sovrastrutturale”. Ciò che c’è da costruire non è tanto il “regno della libertà” materiale, ovvero il pieno sviluppo delle forze produttive, quanto una nuova soggettività storica e collettiva (il “blocco storico”), capace di produrre la libertà. Un blocco capace di produrre “ideologia” (ora positivizzata) e liberarsi dell’egemonia altrui, producendo la propria. Lo spostamento disloca sul piano ontologico, ad un livello di profondità molto elevato, la struttura stessa dell’essere sociale concepito da Marx ed Engels in condizioni storico-sociali del tutto diverse, e sposta il luogo dell’azione politica (ovvero della praxis) dall’ambito economico alla società civile.

Su questa base il confronto con Croce diventa possibile, in quanto alla concezione della soggettività e libertà individualistica oppone una nuova soggettività storica, collettiva e posta anziché trovata (in un processo di liberazione intellettuale e morale). Il materialismo storico non è più concepito come una teoria della necessaria causazione economica nella storia, ma diventa teoria dello svolgimento storico nel quale si alternano soggettività collettive egemoniche, che trapassano dal “non essere” della subalternità a “l’essere” dell’iniziativa e dell’azione storica[18].

 

In “Discorrendo”, in una delle lettere iniziali a Sorel, Labriola chiarisce comunque che il “materialismo storico” ha sempre un triplice aspetto: tendenza filosofica in quanto veduta generale della vita e del mondo; critica dell’economia “che ha modi di procedimento riconducibili in leggi solo perché rappresenta una determinata fase storica”; interpretazione della politica e soprattutto di quel che giova alla direzione del movimento operaio verso il socialismo. Tre aspetti (che indeboliscono alquanto, nel suo complesso, il piano di fondazione ontologico ortodosso, militando contro la riduzione operata dal socialismo contemporaneo e spingendola verso l’azione) che, aggiunge, “facevano uno” nella mente di Marx ed Engels. Quando non è così, quando in uno o l’altro scritto pare che prevalga l’una o l’altra componente, o un qualche determinismo, aggiunge, è perché si tratta di occasione. Si tratta di saggi di occasione. Ossia i frammenti di un divenire, che deve essere lasciato proseguire.

 

Ed aggiunge:


“Per intenderli in pieno bisogna ricollegarli biograficamente, e in tale biografia è come la traccia e l’orma, e a volte l’indice e il riflesso della genesi del socialismo moderno. Chi codesta genesi non è in grado di seguire, cercherà in quei frammenti ciò che non c’è, e non ci ha da essere: per es. delle risposte a tutti i quesiti che la scienza storica e la scienza sociale possano mai offrire nella loro vastità e varietà empirica, o una soluzione sommaria ai problemi pratici d’ogni tempo e d’ogni luogo”[19].

 

Dunque, nella lettera a Turati specifica che “il socialismo ha il suo fondamento reale soltanto nella presente condizione della società capitalistica, e in ciò che il proletariato e il rimanente popolo minuto possono volere e fare”. Come si vede, nelle mutate condizioni ci sono le premesse per la svolta gramsciana e, ovviamente, ci sono echi del grande dibattito in corso di cui abbiamo fatto brevemente cenno.

 

“Il materialismo storico si allargherà, si diffonderà, si specificherà, avrà esso stesso una storia. Forse da paese a paese avrà modalità e colorito diverso. E ciò non sarà un gran male; purché rimanga in fondo il nocciolo, che n’è, come a dire tutta la filosofia. Per esempio, dei postulati come questi: – nel processo della praxis è la natura, ossia l’evoluzione storica dell’uomo:- e dicendo praxis, sotto questo aspetto di totalità, s’intende di eliminare la volgare opposizione tra pratica e teoria :-perché in altri termini, la società è la storia del lavoro, e come, da una parte, nel lavoro così integralmente inteso è implicito lo sviluppo rispettivamente proporzionato e proporzionale alle attitudini mentali e alle attitudini operative, così, da un’altra parte, nel concetto di storia del lavoro è implicita la forma sempre sociale stesso, e il variare di tale forma:- l’uomo storico è sempre l’uomo socialee il presunto uomo presociale, o supersociale, è un parto della fantasia:-e così via” [20].

 

Del resto, spesso nel complesso testo Labriola torna sulla questione delle previsioni e talvolta la sua fiducia nelle prospettive della rivoluzione operaia sembra quasi vacillare. Sullo sfondo dell’“enorme complicazione del mondo attuale” (tema anche bernsteiano, dalla quale, peraltro, prenderà le mosse anche Gramsci con la metafora delle ‘casamatte’[21]), la lotta contro il capitale sarà di lunga lena (come dice la borghesia “non è tanto prossima a tirar le cuoia”). Anche per questo bisogna spegnere gli avventati entusiasmi dei “facitori di strampalate profezie” e richiamare gli animi alle “resistenze del mondo effettuale”. Ma se ora (soprattutto nell’edizione del 1902) prevale la cautela (e arriva a scrivere che “la nostra previsione non può non correre incerta”), resta tuttavia ferma la convinzione che, sia pure “parallelamente” allo sviluppo mondiale del capitalismo, il proletariato “via via diventa atto a concentrarsi in partito di classe” e quindi esso diverrà “prevalente, e poscia predominante politicamente nello stato”.

 

In polemica con le tentazioni irrazionalistiche di Sorel, e la rinuncia di Bergstein, ma anche con ogni posizione volta a definire il proletariato come classe separata, ciò cui punta Labriola è piuttosto la lotta per l’egemonia civile tra la borghesia ed il proletariato, per la quale è necessaria la mediazione di teoria e del partito. Come scrive verso la fine del testo:

 

Il socialismo è stato per così lungo tempo utopistico, progettistico, estemporaneo e visionario, che è bene ora di dire e di ripetere ogni momento, che ci occorre la pratica; perché gli animi di quelli che lo professano siano rivolti di continuo a misurare le resistenze del mondo effettuale, e a misurare le resistenze del mondo effettuale, e a studiare di continuo il terreno, sul quale ci è imposto di aprirci la non facile né morbida via. […] è la dura prova di una costante osservazione, e di un adattamento da tentar di continuo; - è la dura prova d’indirizzare sopra una linea di moto unitario le tendenze, spesso difformi e spesso antagonistiche, del proletariato; - è lo sforzo di condurre ad esecuzione dei disegni pratici col sussidio della chiara visione di tutti i rapporti che legano, con complicatissimo intreccio, le varie parti del mondo in cui viviamo[22].

 

Dunque, nel finale del testo chiarisce che a coloro i quali “ripetendo di continuo il dogma della necessaria evoluzione”, e confondendola con un diritto ad uno Stato migliore, e ad una futura società, traggono la conclusione che non c’è da fare per la rivoluzione, che verrà da sé, bisogna ricordare che “codesto futuro devono pur produrlo gli uomini stessi, e per la sollecitazione dello stato in cui sono, e per lo sviluppo delle abitudini loro”. I “dogmatici”, infatti, dimenticano che il futuro, “in quanto sarà presente quando noi saremo passato”, per questo “non può costituire il criterio pratico di ciò che noi dobbiamo fare al presente”. Insomma, il futuro sarà pure “ciò a cui si arriverà, ma non è la via per arrivarci”. Poi, continua, questi trascurano anche di dare il giusto peso all’esperienza degli ultimi cinquanta anni (dai tempi in cui scriveva Marx le sue opere sulle lotte di classe). Questa mostra che mentre il movimento è cresciuto in dimensione e capacità di organizzarsi, ma lentamente, parimenti è cresciuta enormemente la “complicazione del mondo attuale, e in tanto allargarsi del capitalismo, ossia della forma borghese” (in nota specifica, dei centri di produzione, degli incroci ed interferenze che ne seguitano e anche delle crisi). Questa circostanza induce prudenza.

 

Come conclude il testo: se anche le due crescite parallele possono in teoria portare a calcolare il punto in cui “il proletariato divenga prevalente, e poscia predominante politicamente nello Stato” sarebbe solo l’inizio di ciò che ora non può essere previsto. Anche se quel punto, “coincide con l’impotenza del capitalismo”.

 

Del resto, se c’è chi abbia il bisogno di vivere fin d’ora nel futuro, come da sentirlo e da provarlo su la propria pelle, e, palpeggiando in nome delle idee, voglia investire dei loro diritti e doveri i componenti la società dell’avvenire – s’accomodi pure. Permetta quindi a me, che pure ho qualche diritto d’inviare la mia carta di visita ai posteri, di esprimere la speranza, che quei del futuro, non transumanati tanto da non esser più comparabili a noi del presente, serbino tanto della gaia dialettica del ridere, da farsi beffe umoristicamente dei profeti dell’oggi.

Finisco per davvero, e toccherebbe ora a voi, se mai vi piace, di ricominciare[23].

 

Ci vorranno una trentina di anni.



[1] - Questo terzo lavoro non è un saggio ma una raccolta di lettere indirizzate per lo più a Sorel, da aprile a luglio 1897, con un postscriptum del 1898.

[2] - A questa data, infatti, Labriola conosce solo: “Gli annali franco-tedeschi”, del 1844; “La sacra famiglia”, del 1845; “La miseria della filosofia”, del 1847; “Il Manifesto”, del 1848; “Lavoro salariato e capitale”, del 1849; “Le lotte di classe in Francia”, del 1850; “Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte”, del 1852; “Per la critica dell’economia politica”, del 1859; “Signor Vogt”, del 1860; il I e III volume de “Il Capitale”, del 1867. Dunque, tra le opere giovanili a noi note non conosce la “Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico”, del 1844; “La questione ebraica”, stesso anno; i “Manoscritti economico-filosofici del 1844”, mai pubblicati; “L’ideologia tedesca”, mai pubblicata; e non conosce, tra le opere mature, “Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica (Grundisse)”, pubblicati nel 1937; “Salario, prezzo e profitto”, del 1865; “Critica al programma di Gotha”, del 1875; il III libro de “Il Capitale”.

[3] - La “Grande Depressione” fa luogo tra il 1873 ed il 1879, secondo Paolo Sylos Labini, o tra il 1873 e il 1896, secondo Hobsbawm, durante questa crisi in Inghilterra i prezzi dei prodotti industriali caddero del 30%, la produzione solo del 5%, ed i salari del 10%; in agricoltura, allora molto importante, i prezzi caddero del 20%. Contemporaneamente negli Usa il calo dei salari fu più pronunciato (35%) e dei prezzi agricoli anche (30%). Fino agli anni ottanta in Inghilterra prevalevano le industrie piccole e frammentate, e in seguito, durante la ripresa, si affermano invece grandi imprese dominanti in diversi rami (cartelli, trust, holding). In alcuni paesi ci furono crolli repentini, in altri un persistente ristagno, ma in generale (come riconobbe anche Engels nelle sue ultime opere) la Gran Bretagna cessò di essere la “officina del mondo”. La spinta della fase di crescita precedente era stata data dalle esportazioni di capitali, in particolare per l’infrastrutturazione ferroviaria, e l’estensione dello sfruttamento di beni primari minerari e/o agricoli nelle “colonie”. Ma quando troppi centri furono infrastrutturati e troppe industrie create (in Usa e Germania, in particolare) i prezzi caddero. Iniziò una deflazione ventennale. Le tecnologie della seconda industrializzazione erano divenute inflazionate e bisognò aspettare una serie di innovazioni che le riavviassero. Tra le vie di uscita c’era, come visto, la concentrazione in grandi trust, ma fu perseguita più da Usa e Germania. La Gran Bretagna si impegnò a conquistare “sbocchi”, e quindi nell’espansione dell’imperialismo. Ma in un clima di maggiore concorrenza industriale la cosa era foriera di nubi all’orizzonte. Cfr. Eric Hobsbawm, “La rivoluzione industriale e l’impero”, Einaudi, 1972, p. 138 e seg.

[4] - Un dibattito decisivo al quale, sia pure indirettamente partecipa persino Max Weber, e che viene aperto da Eduard Bernstein nel 1895 con la pubblicazione su “Neue Zeit” di una serie di articoli che proseguono per tre anni (raccolti in “Problemi del socialismo”) e poi nel 1899 “Die Voraussetzungen des Sozialismus und die Aufgaben der Sozialdemokratie”, Stoccarda, Dietz (tradotto da Lucio Colletti nel 1968). A questo dibattito partecipano tutti, ovviamente la direzione del partito a partire da Kautsky, ma anche Rosa Luxemburg e fuori della Germania Sorel e Croce. La divergenza è sui mezzi (come sostiene la Luxemburg), ma anche sui fini. In quanto il revisionismo propone di ripensare il socialismo con più come forza “eretica”, estranea ed ostile alla società esistente, ma forza politica che avanza proposte di miglioramento “qui ed ora”. In un certo senso un socialismo liberale. Il nuovo fondamento di una “mentalità costruttiva”, necessaria per superare il messianesimo ed i teologismi del socialismo utopico, è la “democratizzazione”. Per cui ciò che può decidere della natura socialista, o meno, di una data riforma non è tanto l’essere prima o dopo la rottura rivoluzionaria, quanto la capacità di modificare le condizioni della produzione ottenendo che sia subordinata all’interesse collettivo anziché a pochi. Ma ciò non deve andare verso il “capitalismo di Stato” (formula illogica), quanto (riprendendo una formulazione di Hobson) verso una forma di “economia mista”. Un ulteriore tema, sollevato nell’articolo che chiude il primo ciclo polemico, è quello del necessario superamento della “mistica società disincarnata” che farebbe deperire lo Stato. Quando se si punta alla pubblicizzazione dei mezzi di produzione avverrebbe l’esatto contrario. Nella seconda serie attaccherà quindi la prognosi di crollo necessario, a suo parere contraddetta dalle trasformazioni della regolazione statuale del capitalismo, in grado di reagire e neutralizzare ogni automatismo. IL socialismo è ora inteso come il movimento stesso, necessariamente graduale e progressivo, della democratizzazione. Dunque del “diritto della comunità al controllo dei rapporti economici”.

[5] - Il Programma di Erfust è scritto insieme da Karl Kautsky e da Edward Bernstein, all’epoca alleati, e vede la linea marxista ‘ortodossa’ (i due erano i principali collaboratori di Engels), prevalere su linee disparate ed eclettiche che tenevano insieme nello stesso partito una impostazione anarchico-rivoluzionaria con Weitling, una paternalistica e statalistica con i lassaliani, una sorta di filantropismo umanitario neokantiano, il positivismo di Duhring, il radicalismo democratico di Bebel e di Liebknecht, e la destra riformista di Vollmar. Nel Programma si presenta una sintesi di catastrofismo (verso le prospettive del capitalismo) ed ottimismo (verso la rivoluzione socialista) come espresso sinteticamente nel Sozialdemokratische Katechismus di Kautsky (1893). Come Darwin, Spencer e Naeckel avevano mostrato le leggi della natura, così il Programma illustrava le leggi necessarie all’evoluzione sociale e annunciava l’inevitabile ed inesorabile ‘vittoria finale del proletariato’.

[6] - Si veda Vladimir Ilic Lenin, “Che fare?”, Editori Riuniti, 1968, ed. or. 1903.

[7] - Karl Kautsky, “La via del potere”, 1909, Laterza 1972, p.35.

[8] - Nella risposta a Belfort Bax, pubblicata nel 1897: “Per quel che di solito si intende come scopo finale del socialismo ho comprensione ed interesse molto scarsi. Questo obiettivo, qualunque esso sia, non è nulla per me. Il movimento è tutto. E con movimento intendo sia il movimento in genere della società, ossia il progresso sociale, sia l’agitazione e l’organizzazione politica ed economica miranti a provocare tale progresso”. Eduard Bernstein, “Die Zusammenbruchstheorie und Kolonialpolitik”, “Die Neue Zeit”, n.18, 1897/98, p.556.

[9] - Rosa Luxemburg, “Riforma sociale o rivoluzione?”, Newton Compton, 1978, p.11, prima replica su “Leipziger Volkszeitung”, 21 settembre 1898.

[10] - Ivi.

[11] - Il quale accoglie le obiezioni di analisi fattuale sui monopoli e sulla aristocrazia operaia e le classi medie bernsteiane, ma le oltrepassa con una teoria dell’imperialismo che sposta interamente il focus tematico marxiano.

[12] - Ovvero che: 1- la storia non è interpretabile secondo direzioni univoche; 2- la realtà non è ordinabile secondo una causa unica economica; 3- la teoria politica non è il mero riflesso della realtà.

[13] - George Sorel, “Le illusioni del progresso”, 1908, in “Scritti politici”, Utet, 2017, p. 427.

[14] - La rottura è favorita dalla prefazione scritta da Sorel al volume di Francesco Saverio Merlino, “Pro e contro il socialismo: esposizione critica dei principii e dei sistemi socialisti”, Milano, Treves, 1898, uno dei principali bersagli polemici del Labriola.

[15] - Una appendice è diretta contro la critica di Croce, ed in essa spicca una pagina straordinaria nella quale descrive ed attacca la nuova economia “pura” marginalista in quegli anni emergente (ivi, p. 283). Si tratta di astrazioni indeterminate, economie fatte per “uomini superistorici e supersociali”, basate su una logichetta formale ed un “puro possibile, che è. poi, in realtà, l’impossibile”. Per Croce, infatti, la teoria marxiana del valore è una sorta di caso particolare della “economia pura” di scuola austriaca. Le analisi di Marx si riferiscono alla “legge particolare dell’astratta società lavoratrice”, mentre la teoria marginalista individua le leggi generali ed i concetti fondamentali del movimento economico fermi al concetto edonistico, all’utilità, e quindi alla relazione interna del profitto e del valore con il diverso grado di utilità dei beni. Cfr. “Per la interpretazione e la critica di alcuni concetti del marxismo”, in “Atti dell’Accademia pontaniana”, novembre 1897. Quanto a Gentile, pochissimo prima, nel 1897 aveva pubblicato “Una critica del materialismo storico” (in “Studi storici”), e nel 1899 “La filosofia di Marx. Studi critici”, che interpreta il marxismo come una filosofia della storia in piena regola, che dalla presunta conoscenza della logica immanente del corso storico desume previsioni come fosse una scienza. Il tutto fondato su un erroneo ‘rovesciamento’ della logica hegeliana, sostanzialmente posta su basi platoniste. Una critica che fu ben accolta da Croce e giudicata “apprezzabile” dallo stesso Labriola. I due si incontreranno a Roma a dicembre del 1897.

[16] - Un professore dell’università di Praga che conia il termine “crisi del marxismo”, nel 1898, rifacendosi a contenuti positivisti ed evoluzionisti.

[17] - Labriola partecipa direttamente ed intensamente al dibattito in lingua tedesca tra gli anni 60 e 90 dell’ottocento tra le scienze naturali e gli studi umanistici (tra Naturwissenschaften e Geisteswissenschaften) traendone la convinzione che la storiografia è sempre studio di avvenimenti determinati e specifici, mai riducibile a leggi schematiche, confrontandosi con i condizionati e risalendo alle condizioni, dagli effetti alle cause, individuando ricorrenze ed analogie, arte e scienza.

[18] - Per questa interpretazione si veda Roberto Finelli, “Antonio Labriola e Antonio Gramsci: variazioni sul tema della ‘prassi’”.

[19] - Antonio Labriola, “Discorrendo”, p.186

[20] - Antonio Labriola, cit.

[22] - Ivi., p. 272

[23] - Ivi., p. 275





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