Questo breve testo è il commento dell'intervento di Carlo Formenti "Appunti per una discussione sui nostri compiti", pubblicato sul sito di Nuova Direzione.
Il
punto cruciale del lungo testo mi pare la definizione del progetto originario
che ha dato vita a Nuova Direzione, consigliando peraltro la accelerazione
finale, non da tutti condivisa[1], verso la costituzione in
soggetto politico a gennaio 2020.
Questo
è stato descritto da Carlo in una duplice prospettiva:
1- Nel
breve termine, cercare di intercettare una significativa diaspora in uscita dal
M5S[2] perché scontenta della
formazione del governo “bianco-giallo” Conte II. La possibilità che ciò si
verificasse scaturiva direttamente dalla manifesta incapacità di tradurre il
“contenitore dell’ira” di grande successo del movimento degli anni 2008-18 in
un “contenitore di potere”[3] che fosse in grado di fare
la differenza, traducendo il paese fuori delle secche neoliberali nelle quali è
da decenni[4],
2- Nel
medio termine, fornire un centro di aggregazione politico-culturale e, insieme,
il nucleo organizzativo per addensare forze antisistemiche giocabili in senso
neo-socialista.
Come
sintetizzavo nella mia relazione in assemblea, “Passare tra Scilla e Cariddi”[5], la ristrutturazione del
decennio 2008-18 è l’estenuazione delle dinamiche di spoliticizzazione e
divaricazione gerarchizzante dell’intero trentennio neoliberale. Il “momento
populista” ci appariva, anche allora, egemonizzato da, cito, “i <lavoratori
della conoscenza> che si sentono al contempo sovraistruiti e sottoutilizzati
e che esprimono, nel vuoto dei quadri di senso novecenteschi (persi da tempo,
insieme ai corpi intermedi) una particolare miscela di individualismo edonista frustrato,
rancore cieco, e spinta alla socializzazione destrutturata”. Non ci siamo
mai fatte illusioni sul “neopopulismo”. Come non ce ne siamo fatte
sull’impossibilità strutturale di tradurre in scelte che facessero
davvero la differenza (ovvero divisive e nette) un consenso raccolto non
facendole. Anche quando la linea vincente apparve, come per un lungo tratto è
apparso, rappresentarsi come proveniente dal basso e dalle periferie contro il
centro e l’alto, ovvero idonea a costruire un “contenitore dell’ira”. Noi facemmo
l’assemblea al termine di un autunno nel quale si era presentato sulla scena
quel che aspettavamo già da tempo, che avevamo annunciato nelle assemblee di
maggio e giugno: il fallimento della strana alleanza tra i due populismi e
l’agenda rovesciata del governo Conte II. Nel quale tornava sulla scena il
partito garante della fedeltà e compatibilità con il quadro europeo e della
desovranizzazione italiana.
Quando facemmo
l’assemblea di gennaio ci sentivamo già al termine di un periodo di spinta, di
avanzamento. Ad una fase di ritorno della politica ordinaria.
Ma allora pensavamo che
la permanenza delle condizioni del “momento Polanyi”, se pure nella ritirata
del “momento populista”, creasse lo spazio perché si potesse rompere la
gabbia del bipolarismo e lo spazio dell’aggregazione di un blocco
sociale fondato su, come dicemmo: “una larga coalizione sociale da Nord a Sud,
rispondendo alle diverse esigenze delle sue aree culturali ed economiche.
Capace di parlare con i neo-proletari della new economy, i professionisti in
via di ‘uberizzazione’, i lavoratori autonomi sfruttati e marginali, i
pensionati a basso reddito e negletti, la parte ancora reattiva del
proletariato e sottoproletariato urbano. Al contempo capace di attrarre a sé i
segmenti di piccola borghesia operanti sul mercato interno, il ceto
impiegatizio pubblico, e parte dei ceti medi riflessivi, staccandoli
dall’egemonia esercitata dalla borghesia cosmopolita e dal settore dedito alle
esportazioni”. Pensavamo, in continuità con una generosa ipotesi di lavoro che
ci aveva visti impegnati per un lustro o due, alla possibilità reale di una
rete contingente di soggetti sociali sensibili, anche per ragioni diverse, alle
diseguaglianze orizzontali e verticali, alle fratture tra periferie e centri.
Una aggregazione che prendesse le mosse dai danni creati dallo sviluppo
unilaterale della valorizzazione capitalistica (e non solo finanziaria), e dai luoghi
stessi dove le condizioni di lavoro o di vita risultano insopportabili per chi
non gode di posizioni privilegiate. Combattendo, come dicemmo nelle conclusioni
di quel discorso, la guerra
egemonica, piazzaforte per piazzaforte, tornando a capire la politica come
lotta tra posizioni strutturali di interessi, resi tali dal modo di produzione e
dalla collocazione spaziale. Una guerra nella quale servono alleati, di
ogni genere, ma in cui la questione dirimente, dicemmo allora, è quale gruppo
sociale esercita la direzione intellettuale e morale.
Noi pensavamo che era da
qui che poteva partire la resistenza da cui partire.
Nelle Tesi[6]
avevamo per questo scritto che bisognava costruire linee oppositive al capitalismo
che passassero innanzitutto per i differenziali di reddito, di mobilità, di luogo. Come scrivemmo, è la divaricazione tra i ‘vincenti’ – che riescono a fare il proprio prezzo e
si muovono nei centri geografici funzionali al sistema – e i ‘perdenti’, che il
prezzo lo subiscono e stazionano in area periferica – a definire il campo della
lotta di classe per un socialismo del XXI secolo.
Rispetto
a questa ipotesi di lavoro, ciò che la crisi pandemica ha provocato è stato un
massivo sfaldamento che ha investito in pieno quella che si immaginava essere
in qualche modo un’area politica in formazione. Questo sfaldamento si è
manifestato potentemente sia nella sfera pubblica quanto, e soprattutto, nella
ripartizione delle risorse sociali e nell’autocomprensione delle diverse
frazioni di classe. L’area di discussione che sedimentava la percezione della
centralità del vincolo esterno europeo come blocco della dinamica politica e
via di trasmissione degli impulsi neoliberali nel paese ne è stata investita in
pieno.
Essa,
nella percezione dell’estate del 18 e dell’autunno 19, sembrava concordare
sulla necessità di un maggiore protagonismo del pubblico, e dello Stato per
esso, e dell’inversione della dinamica di smantellamento del welfare, e di
un’economia a traino esterno. Infine, sembrava identificare nella gestione
della mondializzazione e dell’egemonia statunitense, che l’utilizzava, la causa
ultima della enorme crescita della precarietà, delle ineguaglianze e della
presa delle logiche finanziarie sui possibili meccanismi di controllo. In
conseguenza prediligeva la ricerca di un assetto multipolare, volto a
contrastare ogni dipendenza strutturale di aree geopolitiche e paesi dominanti,
su aree periferiche o semi-periferiche. Per aggregare questa area, nel nostro
piccolo, avevamo scritto le Tesi. Queste individuavano come bersaglio la
mondializzazione[7],
il progetto imperiale europeo[8], le sinistre liberali[9], e come obiettivi la
democrazia reale[10],
un’economia umana[11], il perseguimento
dell’interesse nazionale in un’ottica multipolare[12], il socialismo per il XXI
secolo[13].
Ci
sono alcuni motivi per i quali questo disegno è in questa fase inattuale,
ed il testo di Formenti, li individua con precisione chirurgica:
-
L’area politica del M5S si è andata
disgregando nella società in direzione di una disattivazione individualista, e
non verso la segmentazione per aree politicamente, culturalmente e
organizzativamente coese.
-
Ci facevamo poche illusioni, ma la realtà
si è incaricata di distruggere anche quelle poche. La pattuglia istituzionale
si è fondamentalmente asserragliata, imitando in questo la dinamica dei partiti
durante la seconda repubblica, ed ha accentuato le sue debolezze e la sua
attitudine mimetica, nessun esponente di peso si è smarcato, né, tanto meno, è
andato in cerca di una diversa prospettiva dando mostra di comprendere le
ragioni profonde del fallimento (nel produrre un reale cambiamento sistemico).
-
L’area politico-culturale che sembrava
condividere l’agenda minima e gli elementi di comune senso elencati sopra ha
dimostrato di essere attraversata dalle medesime fratture costitutive della
generale società nella quale sussiste, quindi si è frantumata alla prova
secondo linee di classe, se pur non comprese.
In
questo contesto il punto di sintesi immaginato nelle Tesi, e nella stessa
costituzione di Nuova Direzione appare ormai inattuale. Andrebbe ripensato
nella sua radice, disponendosi ad un diverso lavoro politico di fase. Ovvero, nella
terminologia gramsciana, ad una lunga fase di “guerra di posizione”[14]. Nella quale bisogna
ripensare in profondità il progetto immaginato di “blocco storico”, data la
dimostrata immaturità della prospettiva di dinamizzarlo verso l’obiettivo della
formazione almeno potenziale di “contenitori di potere” che vadano in direzione
neosocialista e non verso nuove forme di liberalismo semi-autoritario[15].
L’esperienza
rende ancora più chiaro che il nucleo del potenziale “blocco storico” in grado
di contendere l’egemonia nella sfera pubblica prima, nella società e nell’arena
dello stato poi, al quale bisogna riferirsi non può che essere il variegato
e frammentato mondo delle classi lavoratrici, le più sacrificate dalla
forma attuale del modo di produzione capitalista. Giova qui sottolineare che il
concetto di “classe” che si adopera in questo contesto è di natura
espressamente funzionale. Non ha a che fare con la dotazione di risorse
individualmente possedute, o l’accesso ai consumi, più o meno distintivi
(ovvero dal “ceto”), quanto alla posizione della propria autoriproduzione
rispetto al capitale. Non necessariamente, anche se principalmente, la
posizione che determina l’appartenenza di classe, si cattura nell’esistenza o
meno di “lavoro salariato”. Né, tanto meno, nella figura dell’operaio (ovvero
del lavoratore addetto alla produzione di beni industriali). Il punto è che la
forma, storicamente determinata, del nesso tra lavoro vivo e lavoro morto,
ovvero tra attività lavorative subordinate a mezzi e oggetti del lavoro stesso,
attraversa tutte le molteplici modalità della sua definizione. Riceve un
salario come contropartita della sua relazione funzionale con “lavoro morto”
(ovvero mezzi produttivi e forme totali della produzione dalle quali viene
oggettivato) anche chi apparentemente lavora con partita Iva, è connesso ad una
piattaforma, impegnato nelle varie forme di cottimo, anche iperspecializzate
(anzi, soprattutto, se iperspecializzate). E la relazione funzionale implica sempre
che il capitale (che si incarna nell’insieme dei mezzi produttivi e del nesso
generale che li rende tali) si valorizzi. Questa relazione implica sempre
dipendenza.
Fanno
parte della “classe” lavoratrice, dunque, tutti coloro che si trovano connessi
nella forma della remunerazione dietro prestazione a sistemi produttivi ad essi
esterni e nei quali sono sussunti (e trasformati in oggetti). Ne fanno parte
anche se le modalità cooperative che contraddistinguono il loro lavoro sono
mediate da sistemi a maglia larga, invisibili, altamente tecnologici (è il caso
delle cosiddette “piattaforme”, ma anche di tante modalità più o meno glamour
di lavoro a cottimo o frammentato). Se la segmentazione dell’opera, anche nella
iperspecializzazione apparentemente liberante o autonoma, rende impossibile
controllare il proprio “valore” (o, secondo la formula scelta nelle Tesi, di “fare
il proprio prezzo”). Se, infine, il senso complessivo dell’opera si perde.
Non
ne fanno parte non tanto i “ceti medi” (dato che, come
detto, non è questione di “ceto”), quanto coloro i quali traggono la propria
autoriproduzione dal controllo di segmenti di capitale e quindi, nel nesso
essenziale capitale/lavoro che costituisce la forma sociale del modo di produzione
capitalistico, dipendono per la propria esistenza come soggetti economici dalla
permanenza di tale nesso. Ciò anche se la frazione di capitale è
piccola, periferica, subalterna (ad altre).
Ciò
non significa che non possano darsi alleanze tattiche, esse sono necessarie. Ma
implica, oggi molto più di prima, che il compito più urgente è di ri-costruire
la prospettiva dalla quale diventa possibile inquadrare correttamente le
dinamiche di produzione e riproduzione della società ed in particolare delle
sue ineguaglianze e forme di dipendenza interna (ed esterna).
Per
questo serve un diverso strumento.
[1] - Durante la lunga discussione
sulle Tesi, oltre ad alcuni piani di divaricazione, a fatica ricomposti, sulle
coppie progressismo/socialismo, la nozione di modernità, il giudizio sulla
tecnica, emerse anche un dilemma strategico che trovava forma nella alternativa
tra la formazione di una associazione culturale, volta alla lotta ideologica, e
un partito politico, se pure in nucleo, volto alla lotta per il potere.
[2] - Cfr la mozione finale approvata
in assemblea.
[3] - Per questa distinzione si può
leggere “Dai <contenitori dell’ira> ai
<contenitori di potere>”.
[4] - E che sono descritte in tutta la
prima parte del testo di Formenti.
[5] - Pubblicata sul sito di ND, a questo link.
[6] - Si veda “Per una nuova coalizione sociale”.
[7] - Si veda la tesi “Contro la mondializzazione”.
[8] - Si veda la tesi “Contro il progetto imperiale
europeo”.
[9] - Si veda la tesi “Contro le sinistre liberali”.
[10] - Si veda la tesi “Per la democrazia reale”.
[11] - Si veda la tesi “Per un’economia umana”.
[12] - Si veda la tesi “Per il perseguimento dell’interesse
nazionale in un’ottica multipolare”.
[13] - Si veda la tesi “Per un socialismo plurale nel XXI
secolo”.
[14] - Si veda “Guerre di movimento e guerre di
posizione”, oppure
il documento di Nuova Direzione dal quale ha preso le mosse l’intero
ripensamento in corso durante la fase più accesa della crisi, “Tornanti, una mappa”.
[15] - Che è ciò che si intravede nel
progetto iper-elitario del proconsole imperiale Draghi.
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