Nel
tardo impero romano, intorno al 417 d.c., quando le spinte interne ed esterne
si facevano sempre più insopportabili, Rutilio Namaziano, reagendo alla
profanazione gotica, eleva il suo inno all’ordo renascendi. Roma si
fortificherà nelle disgrazie e trarrà vigore da ogni disavventura.
“Porrige
victuras Romana in saecula leges
Solaque
fatales non vereare colos
Quamvis
sedecies denis et mille peractis
Annus
praeterea iam tibi nonus eat
Quae
restant nullis obresolvit
Ordo
renascendi est crescere posse malis”[1]
L’ex
senatore e prefetto urbano nella urbis affacciata sul Tevere torna nella sua
natia Gallia, ma nel farlo rivendica il suo status di membro della curia (senatoriale)
che annulla tutte le differenze di origine geografica, garantendo la partecipazione
alla somma potestà dell’ordine et partem genii, quem venerantur, habent.
Il genius in questione essendo, probabilmente, quello dello stesso
ordine senatorio (o, in alternativa, il più ampio del populi romani). Questa
curia, che lo ha accolto provinciale e che lo restituisce trasfigurato è,
niente di meno, che modello in terra del concilium summi dei, circostanza
che consente alla classe senatoria di sentirsi superiore e “diversa”, e di
fatto li legittima all’esercizio del governo ovunque nell’impero. Ciò anche
oltre lo stesso imperatore.
Nella
generale disgregazione (formalmente Roma cadrà solo pochi decenni dopo) una
intera cultura politico-istituzionale è durissimamente impegnata, questione di
vita e morte come si vedrà, in una opera sistematica di elaborazione di strategie
per difendere le prerogative ed i privilegi socio-economici della classe
senatoria, al contempo ricomponendo l’incerta solidarietà di classe nell’ordo.
Rilegittimando, quindi, le pretese di governo e leadership sociale. Leadership che
è affermata attraverso il richiamo alle cariche, certo, ma anche alla frenata
potestas. Al potere esercitato con moderazione che determina, secondo il
poemetto, inevitabilmente e invariabilmente l’entusiasmo ed il consenso
popolare intorno ai governatori. Alla virtus, al meritum, al boni,
che determina necessariamente buon governo, anche quando gravoso.
Quindi
il richiamo alla reverentia e alla amicitia di classe che solo i
folli possono spezzare, rompendo un vincolo politico-sacrale, garanzia di tutte
le nobiltà dell’ordo.
Rutilio
Namaziano riafferma, nel suo canto del cigno, le prerogative dei boni e
del loro cursus honorum, proprio quando queste erano sfidate dalle nuove aristocrazie
barbare (dai Vandali in Gallia e dai Goti in Italia) e dal centro imperiale
stesso, che da tempo si appoggiava a nuovi ceti. Tanto più la situazione si
allontanava dal dominio dei clarissimi, tanto più diventava necessario
riaffermarlo. La battaglia per la rinascita della tradizione, nel colore del tramonto,
si fa serrata. E vitale diventa richiamare tutti i membri dell’ordine, vecchi e
nuovi, di antichissimo lignaggio come di recente generazione, ad una coscienza
comune, quella dell’essere la pars melior humani generis.
Si
tratta dell’ultimo ed erculeo sforzo di rimettere in gioco la classe senatoria,
direttamente, quale forza condizionante decisiva dell’intero assetto del potere
occidentale. Anche davanti alle rovine, testimoni della decadenza, solo la
classe senatoria, si afferma, ha gli uomini adatti ed il bagaglio morale,
culturale ed ideologico indispensabile per innescare la “legge della rinascita”
e consentire di risorgere dalle proprie rovine. Per un breve tratto sembra
anche avere successo. Il comes et magister utriusque militiae Flavio Costanzo
respinge i visigoti in Spagna e nel 413 in Africa è sconfitto Eracliano, quindi
Galla Placidia si sposa con lo stesso generale nel 417. Sembrava che la tempesta
potesse essere respinta.
Un
proconsole ci ha raggiunto. Reca con sé tutti i segni della Vittoria. Benedetto
dal genius che da giovane lo ha accolto nella urbs, è legittimato
da questo al governo, in ogni provincia imperiale. Promette, magnanimamente,
una frenata potestas, lui che fa indubitabilmente parte dei boni,
e che brilla splendente nella sua virtus e per il suo meritum.
Il
suo richiamo alla unità della classe, alla amicitia ed alla reverentia,
è di quelli che non si possono rifiutare. Come si vede sono accolti da tutti.
Da tutto il bestiario.
Da
qui bisogna partire, da questa che senza il clima da tardo impero, senza i
barbari alle porte, resterebbe incomprensibile: la reverentia e l’amicitia
di tutti. Non c’è in pratica programma politico (il poco che c’è dovrebbe
dividere aspramente[2]),
non c’è davvero una emergenza impellente[3], non ci sono ragioni italiane
sufficienti. Questa è la ragione per la quale ho pensato ed osservato in questi
primi dieci giorni, tacendo.
Perché
mandare un proconsole? Perché farlo adesso?
Siamo
sotto la minaccia delle “tre lame”[4], in mezzo ad una emergenza
sanitaria persistente[5], al passaggio di spalla al
fucile del dominus americano[6]. Tutte cose gravi ed
importanti, ma, alla fine, il debole ed insufficiente governo Conte II stava
più o meno tenendo il campo, non tanto peggio dei predecessori, non tanto
meglio. Non stava cadendo nessun tetto, non bruciava la casa.
E’
vero: gravi, gravissime, erano le emergenze economiche, la divaricazione
sociale, la sanguinolenta ferita nella carne delle classi medie inferiori, in
particolare di quelle periferiche rispetto al modo di produzione che si andava
da tempo affermando[7].
Tuttavia, quel che accade ha pochi precedenti, forse nessuno.
Cercare
le ragioni della discesa, diretta, del proconsole, richiede di guardare alla
geopolitica del virus, alla crisi di potenza, ed allo sforzo disperato di
riaffermarsi di un ordo che è disposizione ordinata, schiera militare,
rango e ceto, quindi sistema, metodo, regolarità, norma. Ma anche rito,
sacramento, benedizione. L’ordine di cui Draghi è eminente membro,
clarissimus[8],
attraversa l’intero occidente, si manifesta ovunque ci sia una longa manus
della alta finanza di osservanza angloamericana, attraversa tutte le stanze ed
i palazzi, è ascoltato sempre per primo e per ultimo, dispone del potere di
morte.
Quel
potere che oggi è davanti a noi.
[1] - Rutilio Namaziano, “De reditu”,
cit in Sergio Roda, “Nobiltà burocratica, aristocrazia senatoria, nobiltà
provinciali”, “Storia di Roma”, 3.I, Crisi e trasformazioni, Einaudi,
1993, p.643.
[2] - Ne parleremo man mano che
diventa noto, ma le promesse
di fermezza ‘schumpeteriana’, avanzate al G30, un think thank della Rockefeller
Foundation (nome che non ha bisogno di presentazioni), di cui è il Presidente
con Raghuram Rajan, annunciano fiumi di sangue. Proprio la constituency della
Lega, e parte di quella del M5S, dovrebbero sentire le lontane campane della
propria morte. D’altra parte, il rispetto “europeo”, con la meccanica spietata
del “Recovery” (pochi soli in cambio di “riforme”), dovrebbe fare eco anche a
quelle della “sinistra”.
[3] - La situazione è grave, ma nulla
stava accelerando e/o precipitando. Se qualcuno teme i fallimenti, crescenti,
abbia paura di Draghi, non del tenue e democristiano Conte.
[4] - Si veda per questa metafora “<Bastone
e carota>. L’audizione del Commissario Gentiloni sul Next Generation Eu”.
[5] - Grave, gravissima, ma in fase
lentamente calante e con la campagna vaccinale in corso (lentamente, ma non
solo per colpe italiane, atteso che anche gli altri principali paesi della Ue –
la Gran Bretagna non ne fa più parte – erano nelle condizioni eguali o
peggiori).
[6] - Ovvero, ovviamente, nel
passaggio dal governo Trump a quello Biden, molto più vicino ai circuiti di
optimates cui il nostro clarissimus si riferisce da sempre.
[7] - Si veda, per un tentativo di
tratteggiare alcuni degli incroci di questo anno spariacque, il post “Spartiacque,
il 2020”.
[8] - Alto funzionario imperiale nel tardo
impero, preceduti dagli illustres e dagli spectabiles e seguiti dai
perfectissimi.
Riprendendo l'incipit, sì mi è utile, ne è valsa la pena
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