In
questo piccolo testo è contenuto un intervento del 2016, edito da Mimesis nel
2017[1], nel quale la militante
femminista americana Nancy Fraser si esercita in una denuncia della difficoltà
del capitalismo, nella fase dell’accumulazione flessibile e della
finanziarizzazione, a riprodurre la società e gli individui. In fondo l’idea è
molto semplice, ed anche molto tradizionale: il capitalismo è, in ogni sua fase
storica, interessato essenzialmente all’accumulazione del capitale ed annega
nel gelido mare del calcolo utilitarista ogni altra considerazione. Una società
improntata al capitalismo non è dunque orientata alla sua propria riproduzione,
e dei suoi membri, ma all’estensione dello sfruttamento ai fini
dell’accumulazione ed alla concentrazione. La riproduzione ne deriva, semmai,
some effetto secondario eventuale. Questa tesi è pienamente marxiana.
La
cosiddetta “crisi della cura”, deriva come somma di numerosi squilibri
che producono nel loro insieme la compressione di capacità sociali non
compiutamente mercatizzabili (come quella di generare e crescere figli,
prendersi cura degli amici e dei familiari, mantenere le famiglie e le comunità
più ampie e sostenere i legami sociali). Secondo l’ingenerosa posizione della
Fraser tutte queste cose sono state “storicamente assegnate alle donne” (anche
se, successivamente, lamenta che “mantenere le famiglie” sarebbe ingiustamente
una prerogativa maschile). Tutto questo vasto ed eterogeneo insieme (cose
importanti, ma vaghe come “sostenere i legami sociali”, palesemente svolte da
entrambi i sessi) è, secondo il punto difeso, indispensabile, ma spesso non è
in quanto tale remunerato. La tendenza a scrivere in modo impreciso e allusivo,
ed a forzare i termini, emerge già in questa notazione (se pure indicativa),
secondo la quale sarebbe svolto senza remunerazione mantenere la famiglia.
Quando è, nel suo significato ordinario, esattamente un effetto necessario
della remunerazione. In altre parole, qui non si sta dicendo che le attività
che mantengono (sul piano materiale come su quello psicologico) unita la
famiglia, ed i suoi membri dipendenti in specie, non sono remunerate, perché
altrimenti non avrebbero luogo, ma che questa avviene attraverso i membri
economicamente attivi. In una famiglia, che è un gruppo di reciproco sostegno
(struttura caratteristica della specie che è sociale e di branco), alcuni membri
nelle condizioni contemporanee prestano forza-lavoro in cambio di remunerazione
(indipendentemente lo facciano dentro o fuori della casa), ed altri ricevono da
questi le risorse per sopravvivere. Questo è il fenomeno descritto, e questo è
il significato per il quale la definizione come “femminile” del secondo ruolo,
restando ai membri adulti, costituisce problema. Ma c’è un altro senso
nel quale la “crisi della cura” scaturirebbe dal capitalismo finanziarizzato ed
altamente ineguale contemporaneo: il sistematico definanziamento delle
strutture sociali e delle relative istituzioni volte alla cura. Ospedali, case
sociali, scuole, etc… Ed un terzo significato, l’indebolimento
progressivo della remunerazione della forza-lavoro per cui risulta sempre più
difficile riprodurre la vita al livello dignitoso desiderato.
Nel
testo questi tre significati si intersecano in modo non sempre chiaro.
Come
sia, è palese che senza figli, senza legami sociali, senza cura di amici e
familiari non c’è l’umanità. Dunque non c’è neppure economia. In questo
senso la crisi della riproduzione sociale (ed i suoi sintomi, il declino
demografico, la disgregazione sociale, l’individualismo e l’anomia) è alla base
di ogni altra crisi, o, per meglio dire, è intrecciata con ogni altra. Tuttavia
lo è come effetto dei tre significati indicati, e non solo per il confinamento
tradizionale della donna nelle mura di casa (confinamento, peraltro, da tempo
residuale).
Abbastanza
banalmente ciò significa che quel che si nomina come “crisi della cura” è
espressione di contraddizioni (Marx direbbe tra il valore d’uso e valore di
scambio, per cui si produce per il secondo quando ciò che conta è il primo)
socio-riproduttive del capitalismo. Secondo le parole dell’autrice: “da una
parte, la riproduzione sociale è una condizione capitalistica duratura;
dall’altra, la vocazione del capitalismo a un’accumulazione illimitata tende a
destabilizzare lo stesso processo di riproduzione sociale su cui esso poggia”[2]. Questa è la prima delle
contraddizioni strutturali del capitalismo (ma non ha una connotazione
sessista, dato che il secondo e terzo senso prevalgono). Questa contraddizione
si manifesta in generale, in quanto ogni attività economica presuppone
l’esistenza in vita delle persone, e queste richiedono, ed hanno richiesto
prima di diventare produttive (o dopo esserlo) assistenza e cura. In questo
senso ogni attività, sia essa capitalistica o meno, dipende dalla cura. Quindi
anche il lavoro salariato, quello per il quale viene pagato e misurato, ha
quale presupposto l’attività socio-riproduttiva prestata prima, durante e dopo
l’erogazione. Senza non si avrebbe accumulazione e neppure capitalismo (per la
buona ragione che non ci sarebbe del tutto l’umanità). È proprio perché il
capitalismo tende a non pagare per quel che non produce immediatamente merci
dalle quali realizzare il capitale (vendendole), e tende a pagare il meno
possibile anche questo, che i tre significati della crisi della cura si
producono. In ordine di pertinenza si ha: la riduzione del salario al livello
di sussistenza o sotto questo (per periodi dati); il contenimento al minimo dei
costi di riproduzione socialmente necessari e trattenuti collettivamente (delle
tasse per alimentare gli investimenti in capitale fisso sociale e i costi
variabili per servizi collettivi come ospedali, strade, infrastrutture, scuole,
etc.); la mancata remunerazione diretta, e soprattutto indiretta (tramite
sussidi, servizi pubblici, etc.) del lavoro di assistenza svolto entro il
nucleo familiare e l’ambito sociale parentale.
Questa
ovvietà nelle mani dell’autrice diventa una denuncia della separazione,
intervenuta ad un certo stadio dello sviluppo delle forze produttive (non nella
prima fase di industrializzazione, come la nostra sembra credere, ma nella
seconda) estraendo dalle famiglie il lavoro prestato in comune, secondo i ruoli,
e specializzando gli uomini nella produzione mentre alle donne, ai vecchi ed ai
giovani sarebbe rimasta la “riproduzione”. La produzione, a questo punto,
sarebbe stata monetizzata, in quanto “lavoro astratto” e misurabile, produttore
di merci e quindi di valori di scambio riscattabili nella circolazione, la
riproduzione sarebbe rimasta ad affetti e virtù. Il punto è che la “moneta”
degli affetti implica al contempo subordinazione, e il legame della virtù ha un
rovescio autoritario. Come se l’inserimento nella produzione, quale erogatore
di forza-lavoro non comportasse il medesimo, e peggiore, legame di
subordinazione. Questa percezione è tipica della cultura antiautoriaria da
campus nella quale la nostra si è formata[3].
Quindi
la contraddizione, fondamentalmente, consiste nella dipendenza a doppio legame,
da una parte si rendono dipendenti i soggetti incaricati della riproduzione da
coloro che partecipano alla produzione di valore dall’altra l’intera macchina
dell’accumulazione, che estrae plusvalore da questi ultimi, in ultima istanza
dipende da loro. Questa contraddizione (se umilio ed ostacolo, sottraendo
rispetto e risorse anche economiche alla riproduzione creo deperimento
demografico, invecchiamento, disgregazione) genera tendenza alla crisi. Ma
questa tendenza non sarebbe posta nell’economico, ovvero nel secondo e terzo
senso, bensì al confine tra produzione e riproduzione, nel primo. Marx non se
ne sarebbe accorto[4].
Ma,
giustamente, il capitalismo esiste solo in forme storiche. E, per la Fraser, in
queste a volte sono quelle che chiama “lotte di confine” a ridefinirlo. Ovvero
lotte tra i confini tra economia e società, produzione e riproduzione, lavoro e
famiglia. Lotte altrettanto importanti di quelle di classe.
L’autrice
procede a descrivere grandi quadri storici semplificati. In base alla sua
ricostruzione in primo luogo il capitalismo del XIX secolo (e qui pensa
evidentemente al regime vittoriano) relegava le donne entro la famiglia,
attribuendovi la prerogativa esclusiva della riproduzione. Ciò in effetti accadeva,
ma solo alle famiglie borghesi; quelle operaie (ovvero la grandissima
maggioranza) anche in questa fase devono sottoporsi al lavoro nella loro interezza.
Peraltro alla metà del secolo in alcune fabbriche (es. tessile), come Marx
denuncia, fino al 50% della forza lavoro era costituita da bambini, e un’altra
quota femminile. Addirittura gli uomini erano in minoranza. Bambini e uomini erano
impegnati nelle miniere (e anche alcune donne). In generale durante la seconda
rivoluzione industriale un buon terzo dell’intera forza lavoro inglese delle
fabbriche è femminile.
Il
secondo regime descritto è il ‘capitalismo organizzato’ dei XX secolo, ovvero
quello seguito al New Deal, che è, a ben vedere, il bersaglio polemico ed anche
biografico. La Fraser è infatti nata nel 1947, a Baltimora, laureata nel 1969
in filosofia in un college femminile di tradizione quacchera, e dottorata 11
anni dopo a New York, risente del clima dei primi anni settanta se pure, come
noto, nel suo lavoro più recente prende le distanze dalla “politica
dell’identità” per la sua potenzialità di distogliere l’attenzione dalla
distribuzione. Si può dire che essenzialmente il suo lavoro tenta di tenere
insieme le due tendenze (il socialismo pre-beat generation con le scoperte
antiautoritarie di questa). Il ‘capitalismo organizzato’ dallo Stato,
interconnesso intimamente con il modo di produzione fordista, e con il
consumismo promosse una crescita progressiva del salario, portandolo a livello
“familiare” (ovvero idoneo a sostenere adeguatamente una famiglia). Ma nel
farlo ricondusse, man mano che le classi medie si espandevano, le donne entro
le mura domestiche.
Il
terzo regime schematizzato è il ‘capitalismo finanziarizzato globalizzato’, che,
al contrario, produce un’erosione crescente delle classi medie e recluta le
donne (in effetti, semplicemente, revocando il “salario familiare” e tornando
verso le condizioni precedenti). Con ciò, grazie alla contemporanea distruzione
del welfare, scarica i compiti di cura nel privato familiare mentre sottrae le
forze che lo svolgevano, costrette a lavorare. Questo è l’effetto, molto
semplice ma potente, che ostacola la riproduzione.
In
sostanza l’attuale sistema unirebbe i difetti di entrambi. I tre significati
della “crisi di cura” si sommerebbero caricando le donne di pesi aggiuntivi (in
quanto un residuo tradizionalista identifica i lavori in casa come ‘femminili’,
senza più fornire il contesto materiale nel quale questo era possibile per
effetto del terzo significato della crisi, erosione dei salari) insopportabili.
Dato
che l’occhio della nostra è fermo sulla borghesia, la descrizione è dalle
“sfere separate” (Vittoriane), al “salario familiare” (welfarista) al “doppio
reddito familiare”. Ogni volta si sono generate diverse “lotte di confine”. Si
potrebbe anche descrivere la cosa, guardandola dal lato della classe
lavoratrice non borghese, come il passaggio da “sfruttamento selvaggio di
tutti”, a “salario di dignità” (e modello borghese) a “sfruttamento di tutti”. Nel
testo il fatto che le “sfere separate” siano, nelle condizioni materiali delle
periferie urbane ed industriali del XIX secolo inglese, poco più di un ideale
borghese irraggiungibile è descritto chiaramente. Mentre nelle classi medie,
dove è possibile, l’ideale produce frizioni e tensioni emancipative nel quadro tardoilluminista
del secolo (come ben testimoniato dalla letteratura e dai nascenti movimenti
femministi di prima generazione, essenzialmente borghesi).
Il
secondo modello storico, quello dei trenta gloriosi, è invece criticato in
quanto “biopolitico”. Ovvero in quanto l’aumento della protezione e del salario
medio, con conseguente innalzamento dei consumi, porta con sé anche un
consolidamento della condizione di dipendenza femminile. Si attiverebbe, in
altre parole, una catena delle dipendenze. Il lavoratore dipende dal
sistema produttivo, al quale contribuisce, e l’adulto addetto alla ‘cura’ nel
contesto familiare dipende dal salario di questi. Si tratta di un fatto ben
fondato, che ha carattere ambivalente per la Fraser. È vero che la parte
femminile è svantaggiata, ma questa trasformazione (il ‘capitalismo organizzato’)
stabilizzò la riproduzione sociale. La visione di questa epoca è ambigua, da un
lato si tratta oggettivamente di un avanzamento democratico e di benessere,
dall’altra questo risultato si ottenne anche dall’incrudimento
dell’imperialismo nelle periferie[5]. Più in dettaglio si può
dire che nei paesi del centro il capitalismo organizzato dallo Stato “valorizzò
un modello eteronormativo, tipico della famiglia gerarchizzata in base al
genere, del maschio che porta a casa il pane e della donna casalinga”[6]. È presumibilmente il
modello da piccolo cottage americano anni cinquanta che la piccola Fraser ha
vissuto nel Maryland e che ha trovato contestato nel Bryn Mawr College, un “Women’s
liberal arts college” di tradizioni liberali.
La
profonda ambiguità di questo modello consiste in sostanza nel fatto che nel
promuovere un’alleanza tra protezione sociale e mercatizzazione da una parte
mitiga la contraddizione sociale del capitalismo, dall’altra consolida una
concezione androgenetica della famiglia e del lavoro, naturalizzando forme di
etero-normatività e gerarchia di genere. La “nuova sinistra globale”, alla
quale appartiene biograficamente sfida a questo punto, in nome di nuove forme
di emancipazione, tutte le esclusioni. Quindi quelle imperialiste, di genere e
razziali, ma anche il “paternalismo burocratico”. Questo movimento, sostiene la
Fraser, però nel fare questo, e senza volerlo, di fatto unisce le sue forze
critiche con gli sforzi dei “neoliberali” e finiscono per sacrificare la
protezione sociale. La fuga dal lavoro di cura nel primo senso produce un
anello autorafforzante, prodotto dalla meccanica strutturale del capitalismo,
che indebolisce il potere contrattuale della ‘forza-lavoro’ e quindi il suo
salario, rendendo ancora via via più necessario passare dal lavoro di uno a
quello di due. Ma questo indebolimento, insieme allo smantellamento delle
infrastrutture di cura nel secondo senso (sociali e pubbliche), spinge ad un
sovraccarico delle funzioni familiari (che restano non remunerate direttamente
e sempre meno indirettamente) che finisce per fare emergere la “crisi della
cura” in tutto il suo tripartito significato.
Da
una contraddizione si cade quindi in un’altra. L’ordine statal-capitalistico si
dissolve nel corso di una crisi prolungata. Tagli ai servizi,
flessibilizzazione della forza lavoro e reclutamento femminile camminano di
pari passo. La nuova organizzazione è dualistica, chi può permetterselo affida
i servizi di cura al mercato (comprando forza lavoro dedicata, spesso
immigrata), chi non può è costretto a comprimere la riproduzione. Ormai, e
nuovamente, lavorano tutti (non ancora i bambini). Sorge l’economia del debito
e quella dei “lavoretti”, ben al di sotto del livello di sussistenza e
riproduzione.
Di
fatto perversamente “l’emancipazione si allea con la mercatizzazione per
indebolire la protezione sociale”[7]. Di fatto questo avviene
perché i movimenti antiautoritari di emancipazione si sono trovati ad andare
nella stessa direzione della storia, mossa da coloro che volevano farla finita
con le protezioni e liberalizzare e globalizzare l’economia. Si è creato un
paradossale “neoliberalismo progressista”[8] che celebra “diversità”,
“meritocrazia” ed “emancipazione”, per chi ha i mezzi ovviamente, mentre
smantella di fatto e scientemente le protezioni sociali ed esternalizza la
riproduzione sociale (a questo punto “a servizio” e razzializzata).
L’emancipazione è reinterpretata in senso mercatista.
Come
dice duramente e giustamente la Fraser:
“I movimenti di emancipazione hanno
preso parte a questo processo. Tutti, incluso l’anti-razzismo, il
multiculturalismo, il movimento di liberazione LGBT e l’ecologismo, hanno dato
vita a correnti neoliberali favorevoli al mercato. La traiettoria femminista si
dimostrò tuttavia decisiva più di altre in tale processo, dato il consueto
intreccio di questioni di genere e di riproduzione sociale nel capitalismo.”
Il
punto è che l’immaginario dominante è “liberal-individualista” ed egualitario,
ma tende ad estirpare la riproduzione come un ostacolo lungo la strada della
liberazione. Ne sono espressione, ad esempio, il congelamento degli ovuli per donne
in carriera, la riduzione dei figli a uno al massimo, la parossistica
importazione di donne immigrate, per riempire i ranghi delle funzioni di cura.
In
conclusione, per la Fraser sarebbe necessario che al confine tra produzione
e riproduzione un nuovo “femminismo socialista” trovi la forza per
interrompere l’infatuazione per la mercatizzazione “dell’uguaglianza”, e riesca
nuovamente a congiungere protezione ed emancipazione. Qualcosa che
sostituisca il “doppio reddito familiare” (ovvero due mezzi stipendi al prezzo
di due lavori interi).
Per
ottenerlo bisogna superare l’avida sottomissione da parte del capitalismo
finanziario della riproduzione alla produzione.
E
forse lo stesso capitalismo (per il quale, però, più che un “femminismo socialista”,
serve direttamente un “nuovo socialismo”, senza altre etichette che
dividano più che unire).
In
che senso proverà a dirlo in un altro intervento[9] che leggeremo.
[1] - Nancy Fraser, “La fine della cura. Le contraddizioni sociali
del capitalismo contemporaneo”, Mimesis 2017.
[2] - Idem, p. 13
[3] - Nancy Fraser, 72 anni, si è laureata
nel 1969 in un famoso college femminile e dottorata nel 1980, attraversa
biograficamente tutta la parte ascendente del movimento libertario americano. Si
specializza nel corso degli anni novanta nell’articolazione del concetto di
“giustizia”. Insegna scienze politiche e sociali e filosofia alla New School di
New York, è Presidente della divisione est dell’American Philosophical
Association, è stata a lungo condirettore di Constellations.
[4] - E’ abbastanza evidente che alla
nostra manca la lettura di buona parte del corpus marxiano, basta leggere il
Capitale, anche solo il primo libro, per rintracciare decine o centinaia di
passaggi nei quali il deperimento sociale, della forza lavoro, delle famiglie e
delle persone è denunciato come effetto di una crisi di riproduzione causata
esattamente dalla tendenza del capitalismo a sottrarre risorse. Sono citate, ad
esempio, molte inchieste inglesi preoccupate per il deperimento dei lavoratori,
anche a fini militari, e lo stato di abbruttimento e degrado delle famiglie
costrette a lavorare (spesso tutti) e sopravvivere con salari minimi.
[5] - E di tutte, incluse quelle
interne e quelle disperse nel privato.
[6] - p. 37
[7] - p.41
[8] - Si veda anche , “Nancy
Fraser, ‘Come il femminismo divenne ancella del capitalismo’”, e “Nancy
Fraser, ‘Contro il neoliberismo progressista, un nuovo populismo progressista’”,
Nancy Fraser, ‘Il
vecchio muore ed il nuovo non può nascere”.
[9] - Nancy Fraser, “Cosa significa
socialismo nel XXI secolo”, Castelvecchi 2020.
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