“La costruzione del liberalesimo – Invarianti e variazioni”
L’importante
ed ambizioso libro di Andrea Zhok è uscito nel 2020 per l’editore Meltemi nella
collana diretta da Carlo Formenti, “Visioni eretiche”, e di questa
collana rappresenta sicuramente una delle pietre miliari. È da lungo tempo che
condivido il punto di vista di Andrea e quindi questa lettura che farò, oltre
ad essere come sempre influenzata dalle mie idiosincrasie ed orientamenti, ne
risentirà. Inoltre, risentirà delle accentuazioni tematiche e delle priorità
che reputo (non necessariamente in accordo con l’autore) attuali.
Detto
in altre parole, vuole essere, anche qui come sempre, un invito a leggere
direttamente il libro e trarne ciò che interessa e non alla sua sostituzione
con questo pallido fantasma.
Per
la sua complessità ed ampiezza compiremo la lettura di questo testo in tre
parti:
-
La prima, questa, tratta del processo di
costruzione delle invarianti della ragione liberale e dei suoi caratteri
tipici,
-
La seconda, individuerà i “Regimi di
ragione” che scaturiscono dalla struttura liberale e neoliberale di pensiero e
pratica, quindi della ragione postmodernista,
-
Nella terza parte, i “Regimi di verità”
della ragione liberale verranno mostrati nelle loro applicazioni politiche,
ovvero nella particolare forma di politico impolitico che è generato dalla
ferrea logica liberale (tanto più forte quando non si vede e ci si pensa
avversari).
Zhok
compie un’operazione ambiziosa, come detto, in quanto cerca niente di meno che
di comprendere le tendenze di fondo del processo storico nel quale siamo tutti
immersi. E lo fa praticando consapevolmente un approccio ricostruttivo che
identifica come “filosofia della storia”. Ovvero attribuendo al
movimento storico reale un’essenza ricondotta al modello liberal-capitalista
che cerca di individuare sul piano della provenienza e delle caratteristiche
invarianti. Con le parole di Andrea, intende esaminare il senso del movimento
storico come “quel nucleo storico del ‘liberalismo reale’ che ha rappresentato
la cellula generativa e il propellente delle maggiori trasformazioni degli
ultimi secoli”[1].
Precisamente, “una linea di sviluppo centrale che si è tradotta gradualmente in
istituzioni, pratiche sociali, costumi, sistemi economici, manifestando sempre
più nettamente il proprio carattere di fondo”. Un carattere che è nominato nel
testo come “ragione liberale”.
Due
espressioni chiave emergono in questo frammento: “gradualmente” e “sempre più
nettamente”. La “ragione liberale”, impegnata in una battaglia mortale con le
forme di “ragione” ad essa preesistenti, man mano che vince finisce infatti per
eccedere, al fondo distruggendo se stessa come “ragione”. I suoi meccanismi
di difesa finiscono per diventare, nel momento in cui si positivizzano,
autocontraddittori e mostrano in piena vista il loro carattere ‘negativo’.
Questi meccanismi sono: il naturalismo scientifico, il postmodernismo
filosofico, il discorso sui ‘diritti umani’, la second-wave femminista, il
‘politicamente corretto’, l’immoralismo postumanistico. Tutte tendenze, è la
tesi centrale del libro, che sono “abitate inconsapevolmente dalla ragione
liberale”.
Due
sono le linee genealogiche che portano alla sedimentazione di questa “ragione”
(certo ricostruita con il senno del poi e le urgenze del presente, ovvero
politicamente): l’evoluzione del diritto pubblico e dei diritti; la nuova ragione
utilitarista e scientifica. Ed uno è il criterio dirimente: il principio di
limitazione del governo (cioè la limitazione delle forme di sovranità
statuale) senza per questo rifarsi a concetti di giustizia trascendenti, o
di verità. Il liberalismo si appoggia piuttosto ad un principio di
efficienza immanente, una sorta di iato irrazionale che, in quanto paradossale
“regime di verità” finisce per essere una sorte di sotto-prodotto del sistema
produttivo che si impone nello stesso arco di tempo. È giusto perché esiste
e funziona. Questa teoria è identificata da Zhok come una tendenza, come la
trasposizione sistematica delle categorie dell’efficienza economica al campo
delle pratiche di governo. Una trasposizione che si autorappresenta come
razionalizzazione, ma che è in sostanza vaga e senza fondatori (e
coerentizzatori).
Con
il senno del poi ne fanno parte (o, meglio, ne costituiscono il profilo):
-
un manifesto individualismo normativo e
assiologico,
-
una visione delle relazioni sociali
strutturata interamente all’interno dell’idea dello scambio economico.
Per dirlo meglio dell’idea che dello scambio economico lo stesso liberalismo ha
(e che è molto lontana dalla sostanza di esso[2]).
Il
primo suppone l’esistenza di diritti soggettivi e concepisce la libertà personale
come un’esenzione, ovvero come “non interferenza rispetto a coazioni
gerarchiche o condizioni sociali”[3]. Certo, la costituzione
degli individui come portatori di autonomia e piena dignità, con una almeno
parziale indipendenza dalla comunità di riferimento (nella quale esso,
l’individuo, non è completamente immerso ma può concepirsi isolatamente) è un
processo che si è dispiegato nella storia dell’occidente, ed è un processo
cruciale. Zhok segnala in proposito una sorta di movimento ad onda, la crescita
con la cultura greco-romana, la ritirata nel medioevo e poi la riemersione nel
rinascimento con continua accelerazione da allora. Essere un individuo
significa, in questa tradizione e forma di vita, essere consapevoli di sé come
distinti dal mondo circostante, avere introiettato forme dialogiche comuni
le quali sedimentano concettualità ed un intero spettro di ragioni socialmente
accettabili. Nella ricostruzione prodotta nel libro ciò che fa la differenza,
che è questione di gradi, è la scrittura alfabetica (in specie nell’alfabeto
greco), che, diversamente dalle scritture logografiche precedenti, o
sillabiche, è economica ed enormemente flessibile. Tutto viene infatti costruito
a partire da pochissimi segni ed infinite combinazioni. Quindi, mentre la
produzione di un nuovo concetto in una scrittura logografica richiede una
complessa riforma della lingua ed una nuova convenzione, in una scrittura
sillabica esso può emergere dal basso e farsi strada direttamente nell’uso. Tutto
ciò amplia enormemente i margini di autonomia:
“sul
piano dello sviluppo e del riconoscimento dell'individualità cioè, ciò
significa che ora la componente di innovazione ed iniziativa individuale
acquisisce margini di autonomia straordinari. Anche l'individuo relativamente
isolato, relativamente minoritario, può diventare portatore di valore sociale.
In certo modo la vicenda della condanna di Socrate appare come l'emblema di
questa trasformazione. Socrate, portatore di forme di pensiero innovativo
eterodosso, entra in collisione con il senso comune del periodo e con le
autorità che lo costituiscono tradizionalmente. Ciò gli costa la condanna come ‘corruttore
dei giovani’, condanna che in epoche passate e sarebbe valsa l'oblio, ma che
ora, grazie alla scrittura del suo allievo Platone, diviene la mossa inaugurale
di una nuova epoca. Socrate, il pensatore che conosce la scrittura, ma che non
lascia nulla di scritto, diviene il ‘Santo protettore’ del pensiero critico nei
millenni a venire”.[4]
Tale
condizione ritorna socialmente determinante con l’espansione della forma
scritta a stampa. E subisce un ulteriore salto con la riforma protestante.
Tuttavia l’individualità, pur promossa dal linguaggio stesso, non può che
essere e rimanere strutturalmente intersoggettiva, è una funzione relazionale
che dipende dal riconoscimento altrui sia in riferimento alla sua genesi come
alla sua persistenza.
Il
secondo fattore storico è la tecnoscienza. Essa deriva da una svolta che
avviene nei secoli del mercantilismo, dell’umanesimo e dello spirito
antiautoritario che ne consegue. I quattro snodi sono l’analiticità, la
manipolazione causale, la matematizzazione e l’obiettivismo. La natura viene
concepita come “cosa”, il mondo reale autentico come matematizzabile e compare
l’idea di “legge di natura”.
Infine,
un terzo ruolo decisivo lo svolge l’espansione della funzione del denaro come
riserva di valore[5],
medio di scambio e unità di conto. Di qui il testo si concentra sul mito delle
origini del mercato e del denaro stesso, cioè sull’idea che nasca dal baratto
senza cornice istituzionale e comunitaria (ovvero senza strutture socialmente
determinate e dense di riconoscimento).
Tutti
questi fattori si addensano tra seicento e settecento, in particolare nella
cornice statuale inglese, dove l’individualismo eticamente orientato della
riforma protestante, una circolazione monetaria intensa ed i successi crescenti
della razionalità tecnico-scientifica (connessi molto più di quanto si pensi
con la messa a punto dell’arte della navigazione di lungo corso e con il
correlato sviluppo militare) finiscono per portare alla luce, come dice,
contemporaneamente la ragione liberale e il correlato operativo dell’economia
capitalistica.
La
lettura della nascita della “ragione liberale” è quindi abbastanza
tradizionale. Procede per schematizzazioni delle innovazioni concettuali di
eminenti filosofi e studiosi. Thomas Hobbes (1588- 1679) per primo, ovviamente.
Per il suo giusnaturalismo la natura non è altro che il luogo delle relazioni
meccaniche tra i corpi in moto e il pensiero è calcolo. Ne deriva che la
libertà è concepita come assenza di coazioni e la condizione di natura come
guerra di tutti contro tutti. Anche il diritto è principalmente la facoltà di
seguire le proprie pulsioni e non è sovrapponibile con la nozione di giustizia.
La scuola di pensiero che trova una prima sistemazione visibile nel lavoro del
grande filosofo seicentesco inglese è “polimorfa”, si nutre di una discrasia
che non risolve mai tra le teorizzazioni a vario titolo identificabili come
‘liberali’ e lo sviluppo simmetrico di pratiche sociali, scientifiche ed
economiche. Quell’immane processo che nel secolo si può riconoscere tra
monetizzazione progressiva, riforme ed indebolimenti della ‘ragione religiosa’
(o sue translitterazioni[6]), emergere del dominio
occidentale e del ‘dolce commercio’ come suo centro[7], razionalizzazione
operativa e addensamento del paradigma scientifico come nuova verità del mondo,
e che Andrea chiama sinteticamente “grande convergenza”, è percepito e
quindi teorizzato da alcuni pensatori allo scopo di renderlo intellegibile e
legittimo. I poteri verso cui questa operazione scopertamente ideologica e
di imprinting giustificativo si oppone sono quelli del passato.
La
ragione liberale, dunque, nasce nell’autore dominante di confine tra i due
mondi, Hobbes, poi si consolida nelle pagine militanti di John Locke (1632-1704)
e, infine, trova una sintesi operativa nel lavoro di Adam Smith (1723-1790).
In
uno dei passaggi più interessanti del libro Andrea mette a confronto l'idea di
diritto naturale del mondo classico con quello del mondo contemporaneo. Per il
mondo classico anche nei suoi esempi più eminenti non è la legge a essere
scritta nella natura ma sono le idee, i valori, che poi si devono applicare in
obblighi specifici negli specifici contesti normativi. L'idea liberale di
diritti individuali iscritti nella natura è estranea, quindi, sia al mondo
greco, come a quello romano e anche al cristianesimo, nel quale la dignità di
ogni singola anima individuale è conferita da Dio e dunque vale solo in
relazione alla volontà divina. Invece in Hobbes, e nel successivo pensiero liberale,
emerge la pretesa che concetti e regole siano dati nella natura e che da
essi debbano essere dedotti o estratti. Questo punto conferisce particolare
autorevolezza alle pretese politiche che vengono utilizzate per opporsi al
legittimismo monarchico, ma creano anche un problema logico. Come sostiene Zhok
un diritto può esistere soltanto come complemento concettuale di un dovere.
Se io ho diritto a adottare un certo comportamento o a svolgere una certa
azione, sostiene l’autore, “questo implica che qualcun altro ha il dovere di
consentirmi quel comportamento e quella azione”. Ma il diritto come libertà dei
liberali è solo un impulso individuale dominante che ha poco a che fare con la
sfera del dover essere. Invece un diritto come controparte di un dovere ha un
carattere essenzialmente relazionale e sociale, non può essere attribuito a un
soggetto di principio isolato. Questo tipo di diritto è soggettivo ma
può esistere solo in concomitanza con un simmetrico dovere e può esistere
soltanto in rapporto con altri individui; dunque, può esistere soltanto nella
società e dalla società scaturisce, non dalla natura.
La
stessa libertà nel mondo classico era concepibile soltanto in relazione all'
autodeterminazione della città. L'idea di fondo era che la libertà fosse
autonomia e autogoverno, capacità di progetto e realizzazione nel contesto
della partecipazione alla vita pubblica. L'individuo isolato non era in grado
di portare nulla di significativo. Questo concetto di libertà repubblicana è lo
stesso di Machiavelli dei “Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio”,
che ispireranno sia il suo concetto di cittadinanza come quello di nazione. Ma
a partire da Hobbes tutto il nucleo principale del pensiero liberale intravede
un concetto del tutto diverso di libertà. Viene rigettata esplicitamente
la concezione di libertà repubblicana, sostenendo che essa concerne solo le
comunità e non gli uomini. Al suo posto subentra la nozione di “libertà
negativa” che da allora in poi verrà considerata sempre come la nozione
fondamentale. Libertà come non interferenza come assenza di ostacoli, come
assenza di coazioni. In realtà la nozione di libertà come autogoverno e
autonomia cioè come “libertà positiva” include l'idea dell'assenza
di coazione ma la percepisce come insignificante la “libertà positiva” in altre
parole incorpora la libertà negativa non vi si oppone.
E’
John Locke il pensatore che viene identificato normalmente come il padre del
liberalismo. Anche se tutti i concetti fondamentali sono già presenti e
sviluppati in Hobbes. La ragione è che in questi si determina un esito
assolutistico del pensiero che lo rende poco adatto ad essere padre fondatore
del liberalismo. Il Locke tutti gli uomini sono uguali e indipendenti, e “nessuno
deve danneggiare nessun altro quanto alla vita, salute, libertà o proprietà”.
La ragione che viene fornita per questa affermazione è che gli esseri umani
sono inviolabili perché, in quanto essendo creati da Dio, sono di proprietà
divina. Dunque fa capolino il riferimento a Dio ma come appello esteriore ad
un’autorità che non svolge un ruolo effettivamente fondativo. Questa posizione
non argomentata lascia trasparire ciò che il Locke è in realtà la pietra
angolare di ogni diritto di natura: ovvero la proprietà.
E’
la teoria della proprietà ad essere il centro della filosofia politica di Locke
e questa subisce il passaggio cruciale che connette la teoria dei diritti
naturali soggettivi con l'approdo economico della ragione liberale. La
proprietà originale della libertà attribuita dall’esclusività della proprietà attraverso
il lavoro si trasferisce alle cose. Le quali diventano di sua legittima
proprietà. Sembrerebbe che su questa linea di ragionamento nessuno possa
legittimamente avere pretese di proprietà eccedenti, rispetto a ciò che può
adoperare personalmente. Ma immediatamente questa nozione scivola, a causa
dell'esistenza del denaro che estende la possibilità di godere di cose anche
lontane nel tempo nello spazio e non direttamente prodotte da sé. Il fatto
stesso che il denaro funzioni come qualcosa a cui altri attribuiscono valore fa
sì che esso legittimi per “tacito e volontario senso” anche uno sproporzionato
e diseguale possesso di terra e beni. In questo modo con due passaggi eleganti
la giustificazione della società commerciale esistente è compiuta.
Un’argomentazione
che lascia molto perplessi sia per la coerenza interna che per la tenuta
complessiva. Nel testo di Zhok c'è uno sforzo di mostrare come già il primo
assunto (che il proprio corpo rappresenti una proprietà) è un abuso concettuale,
in quanto una proprietà come diritto è qualcosa che deve essere riconosciuto da
altri mentre il mio corpo è mio in un senso che non ha niente a che fare con la
proprietà come diritto. Se avere a disposizione un corpo dalla nascita fondasse
diritto in quanto tale non si capirebbe perché non lo fondi per animali e
piante, e tutto ciò che con cui loro uniscono la loro attività. In sostanza questa
nozione confonde la proprietà come sanzione reale legale, reclamabile di
fronte a terzi, con proprietà biologiche che sono solo predicati di un
soggetto. Ma questa confusione fa decollare l'intero argomento, perché
permette al Locke di concepire il diritto che sussiste in natura senza
passare per alcun giudizio sociale. In realtà nel seguito dell'argomento si
sovrappone e confonde un piano di giustificazione del tutto diverso. In ultima
istanza l'argomento si appoggia sul fatto che la proprietà in forma monetaria
garantisce una maggiore ricchezza e un minore spreco per tutti. Questo
argomento è di tipo utilitaristico si fonda su un beneficio economico che si
presume generalizzato e perciò idoneo ad essere accettato da tutti.
Sarà
Adam Smith nella “Ricchezza delle nazioni” a fare il passo decisivo e in
esso si trovano alcune concezioni che saranno il cuore dell'economia
neoclassica: una concezione molto particolare dello scambio individuale auto
interessato, il quale sarebbe di per sé capace di condurre il benessere
comune; una concezione minimale dello Stato, il quale deve tendere
sostanzialmente al limitare il proprio intervento alla difesa della giustizia;
una visione storica progressiva, in cui il processo di incremento delle libertà
economiche è visto come un orizzonte necessario. In quanto tale fonte di emancipazione.
Il benessere comune in Smith emerge quindi come effetto collaterale non voluto
da nessuno dell'interazione tra individui auto interessati, ovvero come esito
della propensione umana in un passaggio molto famoso a “trafficare, barattare,
scambiare una cosa per l'altra”. Un processo spontaneo che poi genera la
tendenza alla divisione del lavoro. Si tratta di un'idea semplice ma potente:
in uno scambio volontario tra individui è chiaro che ciascuno dei due
contraenti intenda e voglia uscire dallo scambio più soddisfatto di come vi era
entrato, sennò non lo farebbe, ma questo mutuo beneficio spinge gli scambi
volontari ad espandersi. Quanti più scambi quanto maggiore soddisfacimento avrai.
Questo determina la divisione del lavoro dove gli argenti si specializzano nel
produrre qualcosa, sapendo che poi potranno ottenere ciò che manca dallo
scambio con altri. Lo scambio è dunque naturale ed è fondato sulla cooperazione
e comunicazione empatica. Oggetto come si sa della “Teoria dei sentimenti
morali”. Ma immediatamente l'interazione cooperativa fondata sull’empatia
si trasforma in appello all'interesse personale, il quale a sua volta è fondato
sulla naturalità dello scambio. Questo passaggio fondativo dell’intera economia
liberale indica per Zhok un nesso ambiguo che rimane sottotraccia cioè “l'idea
che lo scambio economico sia la prosecuzione naturale delle interazioni
cooperative degli scambi umani, culturali, affettivi eccetera. Questa idea che
concepisce lo scambio economico come la torre di pace e conciliazione la si
ritroverà ancora due secoli dopo in Hayek. La cooperazione si trasforma senza
apparente soluzione di continuità in competizione, senza che di questa
metamorfosi sia necessario discutere. In realtà, sul piano antropologico e
storico si potrebbe agevolmente mostrare come questo passaggio sia uno
stravolgimento che coincide con la trasformazione di economie del dono come
quelle arcaiche in economia dello scambio”[8].
In
sostanza, secondo la ricostruzione del libro, dall'idea hobbesiana e lockiana
di un individuo naturale isolato e autofondato si passa prima alla dimensione
dell'interazione sociale storica, nel porre l'individuo come portatore di
diritti naturali pre politici e pre sociali, e poi nel porre una forma di
socialità sui generis, a partire da quel tipo di individuo nello scambio auto
interessato che, contro ogni intenzione esplicita, genera spontaneamente
benessere comune. Il vantaggio è che non c'è più bisogno di pensare che un accordo
sui valori o la definizione di progetti in comune sia alla radice della
collettività, ma basta affidarsi al perseguimento del profitto privato e ne
scaturirà automaticamente il benessere collettivo.
Le
forme della libertà per la ragione liberale sono dunque:
1- libertà
negativa,
2- tutela
della proprietà,
3- società
come composizione di meri individui preesistenti,
4- Stato
come regolatore minimo.
Un
secolo dopo Smith, in Menger, Walras, Jevons, Marshall, avviene quella che è
normalmente concepita come la nascita della scienza economica. Questo passaggio
interviene nel contesto dell'ambiente positivista, dunque sulla base della
ricerca delle leggi esatte.
Nella
rinascita neoclassica abbiamo una nuova scienza sociale che imita le scienze
della natura e un modello assiomatico imperniato sul cosiddetto soggetto
economico. Sul valore come utilità e sulla relazione come essenzialmente
scambio e mercato. Quindi lo spostamento dell'analisi storico-induttiva a
quella ipotetico-deduttiva e quindi matematizzabile. Questa svolta nasce sin
dall'inizio come una teoria politica in cerca di egemonia e non come una teoria
scientifica, quale dichiara invece di essere.
Alla
base dell'edificio della scienza economica moderna sta uno schema che è tanto
suggestivo quanto forviante, una visione idealizzata antropologicamente
fittizia dello scambio volontario tra individui. Il concetto più elementare
basilare della scienza economica, infatti, è lo scambio tra agenti economici
individuali perfettamente indipendenti che si trovano a interagire liberamente
in una transazione per mutuo beneficio, per così dire nel vuoto. Se si assume
che i due soggetti pervengano uno scambio volontario per definizione questo è
vantaggioso per ciascuno (in quanto altrimenti non acconsentirebbero). Questo
vantaggio, che si presenta come appropriazione soggettiva, è concepito sul
piano economico come scambio di uguale quantità di valore, ovvero di utilità,
e si immagina quindi che dopo ogni scambio volontario la quantità totale di
utilità di valore sia accresciuta. Ne segue una importantissima conseguenza: in
linea di principio ogni accrescimento o intensificazione degli scambi volontari
all'interno di una società promuove un aumento generalizzato del benessere.
È questa la “buona novella” incorporata nel pensiero neoclassico e liberale, la
promessa di una autoregolazione immanente e per il maggiore bene di tutti. Gli espliciti
presupposti teologici dei classici (sia dei giuristi e filosofi, sia dei teologi
ed economisti) vengono, per così dire, immersi in una veste scientifica
positivistica. Questo schema iniziale viene sviluppato e complicato, raffinato,
ma rimane fondamentalmente sempre lo stesso. In Von Mises troveremo l'azione
individuale del singolo come una specie di scambio tra sé e sé, dove il
soggetto, per esempio, può scambiare il piacere del riposo a quello di un
appagamento futuro e quindi impegnarsi nel lavoro attuale. Ogni cosa, ogni
rapporto interumano, è letto secondo una chiave di lettura autoreferenziale in
cui è sempre in gioco uno scambio nel quale ognuno cerca sempre di ottimizzare
essenzialmente il proprio vantaggio. Ogni momento relazionale è reinterpretato
come uno schema di incentivi e disincentivi economici soggetti a leggi del
tutto simili a quelle del comportamento del consumatore. Così si pone la base
concettuale per la teoria microeconomica, costituita da principi che
definiscono forme ideali della scelta razionale nei processi di scambio.
Assiomi delle preferenze del consumatore che sono essenzialmente quattro: completezza,
transitività, non sazietà, utilità marginale decrescente. Struttura minima che
garantirebbe il requisito di razionalità di una scelta. Si tratta, tuttavia, di
principi manifestamente falsi. Non è vero che per ogni bene economico un
soggetto preferirà averne sempre di più piuttosto che di meno; non è sempre
vero che il principio di utilità marginale sia decrescente, né un esempio
l'accumulazione monetaria; non è sempre vero che ogni coppia di scelte può
essere ordinata in termini di utilità, ovvero che ogni scelta è sempre
commensurabile in base a un suo contenuto di valore analogo e quindi è sempre
anche misurabile.
Questo
è uno dei passaggi essenziali e che ha, come dice Andrea, ampie ripercussioni “un
conto infatti è dire che in qualunque circostanza noi possiamo comunque operare
una scelta senza rimanere in stallo (tra indecidibili potremmo, ad esempio,
tirare a sorte). Tutt'altra cosa è affermare che la nostra scelta è stata
prodotta sulla scorta di una comparazione quantitativa di una stessa entità (utilità)”.
In
realtà, spostandosi sul piano di una descrizione fenomenologica della natura
delle scelte reali, si nota come queste non avvengano mai in forma di una
comparazione tra piaceri e dolori strettamente intesi oppure genericamente tra
sentimenti. Le nostre scelte valutano sempre comparativamente scenari dinamici
dotati di senso, cioè sviluppi narrativi di storie possibili. Anche le
eventuali componenti di agio e disagio sono definite alla luce di potenziali
orizzonti di conseguenze. Ovvero di storie alternative. Il calcolo non ha a che
fare mai con comparare pesi diversi, o con computare, ma è una valutazione
comparativa immaginaria di situazioni alternative e di opzioni che queste
alternative aprono o chiudono. Già nei più elementari assiomi che definiscono
la razionalità di una scelta economica sono quindi presenti astrazioni che non
sono innocue approssimazioni ma problematiche distorsioni. Come corollario dell'esistenza
del mercato, e del modello monetario di valore come effettiva radice dell’impostazione
liberale, si ha che la priorità dello scambio auto interessato mette al centro
la divisione del lavoro e questo si traduce, dentro la logica dell'impostazione
liberale (anzi dell'assiomatica liberale), nella definizione dei principi della
concorrenza perfetta. Quelli nei quali un sistema di liberi scambi troverebbe da
sé un equilibrio capace di ottimizzare sia l'allocazione delle risorse come
l'utilizzo dei fattori produttivi, ovvero la più efficiente divisione del
lavoro. Questa idea di mercato perfetto non è solo un'ideale portante della
teoria economica neoclassica ma è un modello relazionale generale per tutto il
settore del liberalismo politico che concepisce l'intera società essenzialmente
come luogo di scambi tra individui. Luogo dove avviene il mutuo vantaggio come
esito di ogni scambio che si vorrebbe generalizzato alla totalità delle
relazioni sociali nella misura in cui gli scambi possono essere esercitati
nelle condizioni del mercato perfetto.
Mercato
perfetto significa:
1- massimizzazione,
gli agenti economici cercano di massimizzare i propri guadagni;
2- mutua
indipendenza delle decisioni, ciascuna decisione è presa
da ciascuno indipendentemente da ciò che decidono gli altri;
3- debolezza
degli agenti economici, nessun singolo agente è in grado di
esercitare una influenza significativa sui prezzi, né come acquirente né come
venditore; ci sono sempre una pluralità di agenti economici compratori e
venditori;
4- informazione
perfetta, ogni agente sul mercato ha informazioni esaurienti
circa la natura di sia dei prodotti che dei prezzi;
5- libero
accesso, non devono esistere barriere di alcun tipo né all’entrata
nel mercato di nuovi produttori o di nuovi consumatori né all’uscita degli
stessi;
6- mobilità
dei fattori di produzione, i fattori di produzione in un
mercato perfetto devono poter essere liberamente riallocati dove forniscono i
profitti maggiori;
7- nessuna
esternalità, (un’esternalità è un costo generato
un'attività economica imposto su soggetti che non hanno scelto di entrare in
quell'attività economica, ad esempio l'inquinamento) nel sistema delle libere
transazioni sul mercato non ci sono situazioni in cui le esternalità vengono
fatte ricadere su soggetti diversi dai produttori o dagli scambiatori
volontari;
8- nessun
costo di transazione, (i costi di transazione sono tutti i
costi necessari per pervenire allo scambio volontario, per esempio il tempo
l'impegno adottato per svolgere la trattativa) in un mercato perfetto non ci
sono.
Si
tratta ovviamente di riconosciute idealizzazioni, tuttavia sono assolutamente
determinanti. Nel seguito Andrea si impegna ad analizzarle una ad una,
contestando ad esempio rispetto alla massimizzazione l'ideale olimpico di piena
calcolabilità e ottimizzazione, opponendovi il lavoro di Herbert Simon sulla
razionalità limitata, ma anche, nuovamente, l'idea che la forma delle scelte
umane è sempre di essere percorse in una storia; dall'altra parte contestando
la mutua indipendenza delle decisioni, che naturalmente non sono individuali e
non sono separate le une dalle altre, ma sono sempre intrecciate da componenti
relazionali come ‘imitazione’, ‘emulazione’, ‘invidia’, ‘competizione’. La
normatività del mercato perfetto che naturalmente il fenomeno dei monopoli
contesta in radice. L'importanza delle istituzioni come messo in evidenza dalla
scuola di North per il quale vincoli morali le lealtà interpersonali, il senso
del dovere sono da intendere come espedienti necessari per consentire alle
relazioni di mercato di funzionare.
In
sostanza l'economia neoclassica che pretende scientificità ha creato una nuova
visione del mondo la quale riduce alla propria concettualità normativa intere
aree che prima erano analizzate con strumenti diversi.
Questo
processo di estensione delle categorie dell'economica ad ogni campo dell'agire
umano è una forma di imperialismo. Entità tipicamente extra economiche, come la
morale, i costumi e lo Stato, sono rilette in modo da concepirle come soluzioni
a problemi definiti da imperfezioni del mercato, immaginato come originario. Il
fatto che questa evoluzione sia totalmente falsa sul piano storico
antropologico è ritenuto irrilevante. Il fatto che un mercato possa esistere
solo in presenza di una preesistente cornice di tutela legale e quindi in uno Stato
e in presenza di soggetti rispettosi della legge e delle norme sociali, oltre
che delle norme sociali connesse, è considerato irrilevante. A causa di tutti
questi slittamenti interpretativi le idealizzazioni che definiscono la cornice
dello scambio del mercato si trasformano tacitamente in forme utopiche da
perseguire, producendo una metamorfosi dell'esperienza primaria di ciò che ci
si presenta come dotato di senso ed alimentando una prospettiva nichilistica
di svuotamento di tutto ciò che ha valore.
Nella
prospettiva citata il denaro e il piacere sono entità strutturalmente
indifferenti al modo in cui sono ottenute, indipendenti da buone o cattive
ragioni, e funzionano in modo indifferente alla sfera dei significati condivisi
o alle prospettive di senso comuni. Si tratta di un impoverimento etico che
lascia tracce visibili già nello stesso modo di pensare di chi viene addestrato
agli studi economici. Una forma mentis che consentiva, ad esempio, a Gary Becker
di parlare senza alcuna ironia dei figli come di “beni durevoli del consumatore”.
In sostanza, seguendo questa logica non è affatto incomprensibile supporre che
le motivazioni autentiche non possono che essere quelle egoistiche. Questa tradizione
capovolge il senso vissuto delle esperienze umane, invertendo sistematicamente
i mezzi con i fini. Il capitale stesso come mezzo universale, che può essere
impiegato a qualunque cosa senza per determinarne alcuna, diventa il fine
ultimo. “La prospettiva esistenziale aperta dall'imperialismo concettuale della
teoria economica neoclassica è dunque quella distopica di un rigoroso
nichilismo: una visione del mondo dove il calcolo ottimizzata riempito ogni
interstizio, mentre la riflessione sulle buone, o meno buone, ragioni del
perché calcolare e perché ottimizzare sono lasciate a una landa desolata di
idiosincrasie private ed arbitrarietà”[9].
Nela
Sezione Quarta, che riveste significativo interesse ma per ragioni di economia
dello spazio non può essere ripercorsa analiticamente, il testo si concentra
nel racconto del quadro storico nel quale la caratterizzazione del liberalismo
(nella Seconda e Terza) trova forma. Nel passaggio dal medioevo all’età moderna
il collante sociale determinato dalla religione e dall’ordine feudale (o meglio
dagli ordinamenti del feudalesimo) viene sostituito e integrato entro la forma
vincente dello Stato-nazione (emerso in un lungo periodo che va dal XII secolo
al XV e XVI). La pace di Westfalia (1648), punto di condensazione tardo di
questo processo, vede infine venire meno la coincidenza tra Stato e proprietà
individuale del sovrano e dei suoi lignaggi. Fino alla rivoluzione francese che
lo recide con un atto di simbolica (ed effettiva) nettezza. In questo
lunghissimo processo emerge la necessità di un collante alternativo nella
“nazione”. Ovvero nell’esistenza di confini e di omogeneità culturale.
Le
istanze delle cosiddette “rivoluzioni”[10] settecentesche, note come
“borghesi”, spostano la sovranità verso il “popolo”[11], aprendo la questione
sulla quale l’intero ottocento si impegna (e buona parte del novecento, in
effetti fino ad oggi) su “cosa precisamente conti come popolo, e come debba esprimersi
istituzionalmente”. Nascono due istanze simultanee, ma non coincidenti, l’idea
di popolo-nazione e quella di sovranità popolare, da una parte (con il
potenziale di democratizzazione, o l’arena della democrazia), e, dall’altra,
l’idea liberale di una società interamente coordinata dai principi della
libertà personale e del libero scambio. Due prospettive, e questo è
politicamente sia importante sia fonte di equivoci, “storicamente alleate
nell’opporsi ai poteri tradizionali basati sulle legittimità dinastiche”[12]. Nel secolo seguente si
assiste al consolidarsi prima dello Stato nazione e poi dello Stato
imperialista, a seguito della crisi economica del 1870, sempre più
aggressivamente orientato versi i rivali. Il successivo collasso dello Stato
liberale (a seguito di un settantennio di grandi guerre) porta alla soluzione
mista ed al trentennio di crescita che ne segue. Il neoliberismo, infine, è
riassunto sulla scorta della lettura di Dardot e Laval[13] e la ripresa trasformante
delle vecchie idee liberali.
La
“Ragione liberale” è organizzata quindi da alcune tendenze
strutturali e ideologiche le quali producono nel loro complesso il
dispiegarsi dell’ordinamento neoliberale (che Zhok considera completamente e
logicamente connesso alla linea interna di sviluppo storico del liberalesimo).
In
primo luogo, come abbiamo visto, si può dire che per la ragione liberale lo
scambio volontario è di per sé stesso fonte di benefici e che perciò la sua
intensificazione diventa un'ideale normativo. Questo ideale normativo è il
tratto fondante dell'odierna scienza economica e pone il mezzo dello scambiare
come fine. Nel momento in cui si pone lo scambio come punto fermo e cardine intorno
al quale tutto gira, tutto diventa in linea di principio mobile o negoziabile.
Da questo ideale normativo discendono tantissime conseguenze. La più importante
è che il modello incoraggia sistematicamente la flessibilità e ovviamente rende
ottimale per il datore di lavoro pagare il lavoratore solo nel momento in cui
produce qualcosa di vendibile. Questa idea di flessibilità lavorativa, però, è
anche concepita dal liberalismo come fattore di emancipazione individuale, in
quanto anche il lavoratore si sente “più libero” in queste circostanze.
L'emancipazione individuale come libertà dalla costrizione esterna è, come
visto in precedenza, parte integrante dell'ideologia del “Nuovo spirito del
capitalismo”[14]
descritto da Boltanski e Chiappello, nel quale libro viene presentato come una
forma nuova, più dinamica, più moderna di concepire il lavoro. Una forma che
celebra la libertà individuale di tutti gli attori economici che è proposta a
partire dagli anni 70, in esplicita contrapposizione al vecchio modello welfarista,
interpretato come gerarchico, padronale, taylorista. Il piano di fondo è che i
contraenti hanno, però, livelli molto diversi di potere contrattuale e, quindi,
il guadagno reciproco è una mera finzione. Solo per alcuni molto richiesti e molto
qualificati, le star, la conservazione di un'ampia autonomia contrattuale può
determinare un rapporto di forza favorevole (pensiamo ai calciatori dopo la
sentenza Bosman) ma per altri, ovvero per la grandissima maggioranza dei
lavoratori, questo sistema relazionale fluido e libero diventa perenne
mantenimento sotto ricatto. Inoltre, la flessibilizzazione dei rapporti di
lavoro comporta discontinuità di risorse economiche, ma comporta anche una
discontinuità territoriale, cioè mobilità che, essa stessa, ostacola il
radicamento in un territorio. Ostacola la formazione di una famiglia, ostacola
la costruzione di reti di mutuo soccorso basate sulla consuetudine e sulla
frequentazione. Inoltre, il processo di flessibilizzazione, come ricorda Sennett,
produce una profonda erosione dello stesso carattere degli agenti coinvolti,
cui è preclusa la possibilità di percepire forme stabili di appartenenza, di
consolidare abilità o competenze, di stabilire lealtà di lungo periodo. I
soggetti umani si percepiscono sempre più essi stessi come mezzi
intercambiabili a disposizione di un meccanismo esterno ad essi, sul quale non
possono agire, che funziona per la riproduzione del capitale. Il centro della
scena lo prende il denaro. Dunque, in questo senso, la flessibilizzazione, la
finanziarizzazione sono processi sia paralleli come complementari. La
flessibilizzazione impegna le società, le aziende, le persone, che riducono la
durata e la continuità dei rapporti di lavoro. Favorisce il ricorso
all'estrazione di servizi, diluisce le responsabilità ed estende le reti di
relazioni funzionali al capitale su territori molto ampi. Questa caratteristica
rende centrale l'aumento del peso del capitale liquido finanziario, rispetto a
ogni forma di proprietà reale. Il capitale finanziario può entrare ed uscire
agilmente da ogni situazione produttiva, può estrarre il massimo profitto, può
evitare ogni impegno a lungo termine. Questa forma di capitale è espressione di
uno spostamento massivo dei profitti dalla produzione di beni alla finanza che
è avvenuto a partire dagli anni 80. La mobilità del lavoro si esprime sia come
l'abilità delle condizioni di lavoro, cioè come flessibilità, che come
spostamento fisico alla ricerca dei posti di lavoro, cioè dei luoghi in cui il
capitale ha investito. Dunque, i processi migratori internazionali, e i processi
migratori internazionali, sono un fenomeno strutturale spontaneo del dominio
del capitale finanziario e sono l'immagine allo specchio della sua capacità di
spostarsi liberamente.
Più
in profondità, il testo sottolinea come non abbia tanta importanza stabilire di
quali valori si tratta, quando si consideri che nel mondo contemporaneo
l'azione di valore e il potere sugli altri sono strutturalmente disaccoppiati,
ma che l'ordinario funzionamento del denaro in un sistema di mercato mina
qualunque criterio etico si voglia considerare giustificato. Se, ad esempio,
assumo come valida un'etica cristiana, o la vecchia etica eroica, una kantiana
o comunista, o qualunque altro sistema normativo che sia in grado di valutare,
discernere, distinguere, le azioni buone dalle azioni cattive, in tutti questi
casi il funzionamento normale dei meccanismi di arricchimento in un sistema di
mercato ne prescinderà. Il potere interpersonale verrà attribuito dallo stesso
possesso del denaro, indipendentemente dalla legittimazione ad averlo. Si
tratta di una dinamica profonda e consolidata che spezza una delle dimensioni
etiche fondanti la società, quella che Andrea Zhok chiama “la continuità
temporale delle azioni”: “il denaro, in quanto potere su altri, distacca il
passato dal futuro, cioè distacca i ‘meriti’, gli ‘sforzi’, le ‘intenzioni’, le
‘regole’, le ‘promesse’ dalla disponibilità di potere e di status futuro. L'origine
del denaro posseduto è irrilevante quanto alla sua capacità di esercitare
potere. Il denaro è potere indipendentemente dalla sua legittimazione”[15].
In
altre parole, se il denaro conferisce un potere significativo sugli altri, e lo
fa tanto più quanto maggiore il suo potere, ogni azione che veicoli successo
economico, ovvero che generi successo economico diventa neutra, è sdoganata,
neutralizzata. Si può ottenere denaro tramite la corruzione, la prostituzione,
il furto, l'omicidio, oppure l'opportunismo, tutto è giustificabile in vista
del riconoscimento socialmente conferito dal potere del denaro. Chi è in
possesso di molto denaro ottiene, di per sé, uno status sociale e, se proprio
necessario, si può sempre spostare dove non è noto che l'ha ottenuto in modo
fraudolento. Ciò determina particolare importanza all'apparenza, all'immagine.
E queste dinamiche determinano uno strutturale ‘presentismo’, il disseccamento
di ogni prospettiva di lungo periodo sul piano sia economico, sia sociale, come
antropologico. Infatti, nel momento in cui il potere presente, cioè la
disponibilità economica di fatto in questo momento a mia disposizione, può
esercitarsi in modo efficace senza tener conto della provenienza dello stesso,
cioè del passato, allora anche l'investimento sul futuro è scarsamente motivato.
Dopo tutto, come sottolinea acutamente Zhok, nel futuro anche il mio
presente sarà un passato. O, dicendolo diversamente, qualunque impegno
presente non conta nel futuro. Ciò produce un tendenziale disgregamento del
senso temporale delle azioni.
Né
aiutano, fondamentalmente, i molti e diversi tentativi per fondare su una base
antropologica, o etica, più solida le prospettive liberali. Se anche si volesse
superare l'apparentamento all' utilitarismo, come in molti casi si è tentato a
partire dagli anni 70, non muta la prospettiva di fondo. I tentativi illustri
da John Stuart Mill a Busanquet, o T.H. Green, a Rawls, di produrre un'etica
perfezionista si sono scontrati e si scontrano sistematicamente con la realtà
sociale che la ragione liberale promuove. Che la ragione liberale, cioè,
promuove tacitamente e instancabilmente. Ogni auspicio di forma di vita
all'altezza delle proprie potenzialità, capace di libero sviluppo e di
perfezionamento, rimane in sostanza un vagheggiamento se inserito in un sistema
affidato al dominio delle transazioni autointeressate e quindi sfociante per
logica interna nell'imperialismo economico.
Ma
se durante le prime fasi del lungo percorso storico che precede l'emergere
delle ragione liberale si può dire che l'autonomia, l'autocontrollo, la
responsabilità e le capacità degli individui si siano davvero rafforzate questo
processo di autonomizzazione individuale, legato in varia forma al ruolo
sociale di alcune pratiche di scrittura, a partire dall'ottocento inizia a
mostrare alcune criticità. Queste si manifestano, in primo luogo, negli
ambienti più avanzati delle realtà urbane dell'Europa alla fine del secolo,
anzi dalla metà del secolo, che anticipano il quadro che osserveremo un'epoca
neoliberale. Qui fanno sistema le varie forme di sradicamento e d'isolamento
implicite nella logica liberale perché, portano oltre il limite quell’illusione
tipica dell'individualismo la quale porta a ritenere che l'identità del
soggetto sussista in modo indipendente dalle relazioni in cui sono emerse le relazioni
di riconoscimento personale, le relazioni di adesione culturale e dedizione. Quel
che avviene in realtà è il contrario: ognuno di noi si identifica
spontaneamente in varia misura con la propria collocazione intersoggettiva
occupazionale e culturale, noi ci sentiamo sempre qualcosa. Italiani o francesi,
commercianti o professori, cittadini o uomini della campagna, talvolta più di
queste cose insieme. Anzi in genere più di queste cose insieme. E’ questo che
ci orienta le nostre scelte, non è la mera e fredda logica del calcolo
razionale. Chiedersi, e questo è molto importante, che cosa penserei o che
cosa vorrei, a cosa darei valore, se fossi un'abitante dell'Africa interna,
oppure un guerriero giapponese del sedicesimo secolo, o un crociato medievale,
è semplicemente una domanda oziosa. In totale assenza dei retroterra
esperenziali, sociali, operativi, culturali, della traiettoria di crescita
della personalità e delle esperienze nel loro sedimentarsi narrativo non posso
avere la più pallida idea di cosa sarei, e quindi di cosa mi potrebbe passare
per la testa. Il mero fatto di avere il medesimo corpo o di essere capace di
ragione non determinerebbe come utilizzerei quel corpo o quella ragione. Dunque,
anche sotto questo profilo, il sistema di relazioni che è alimentato dall'estendersi
delle relazioni di mercato in ogni ambito della vita finisce per essere un
fattore patogeno dal punto di vista psicologico. Invece di rafforzare le
personalità le destabilizza. Finisce per attivare una sorta di individualismo
senza individualità, fondato su precarietà, ricattabilità, insicurezza,
isolamento. Un individualismo nel quale la formazione è sistematicamente
svalutata e nel quale ogni relazione solida e sistematicamente disciolta. L’individualità
neoliberale è, come dice Zhok, “insicura, superficiale fino all'inconsistenza,
organicamente sfruttata, incapace di azioni collettive, e di iniziative di
ampio respiro, ma anche rabbiosamente gelosa della propria presunta
indipendenza rispetto a ragioni esterne, vissute come invasive”.
Svolge
particolare rilevanza in questo contesto e stile di vita il consumismo, cioè la
funzione di controllo ed esercizio di potere fornita dal momento dell'acquisto.
Esso diventa una sorta di protesi dell'anima, un esoscheletro che sostiene una
personalità debole la quale ha bisogno, profondamente bisogno, di essere sempre
e compulsivamente confermata nell'esercizio del potere. Precisamente
nell'esercizio di quella forma di potere pervasivamente presente, e
organizzante il sociale, dato dal denaro.
Ma
questo finisce per tradursi nella disgregazione delle comunità umane. Una
disgregazione che avviene sia verso l'alto come verso il basso; più esattamente
i vincenti escono dall'alto e i perdenti escono dal basso. Domina comunque ovunque
lo sfruttamento. L’esito è la perdita dell’unità sociale l'impoverimento del
tessuto morale, il dominio di dinamiche desocializzanti e la valorizzazione
sistematica dei comportamenti da freerider che sono un necessario correlato
della personalità neoliberale.
Deriva
anche da tutto ciò il degrado della funzione pubblica ed infine il degrado
ambientale.
Con
l'insieme della grande convergenza da Hobbes agli ultimi esiti contemporanei lo
Stato neoliberale è divenuto ormai solo una funzione accessoria e accudente il
mercato. Contemporaneamente viene delegittimata ogni pretesa normativa e
aumenta la necessità di controllo, si attivano meccanismi di pressione
selettiva e di svuotamento democratico. La questione fondamentale è che nel
processo di distruzione dei valori dell'essere, delle identità, del limite, la
ragione liberale non possiede al proprio interno alcun fattore di contenimento,
non è in grado di esercitare alcuna misura.
Nella
seconda parte di questa lettura vedremo come, su questa base, si affermano e
vengono imposti dei veri e propri “regimi di ragione” altamente pervasivi.
[1] - Andrea Zhok, “Critica della ragione liberale”,
Meltemi 2020, p. 10
[2] - Vedi Polanyi e Mauss
[3] - Zhok, p.23
[4] - Zhok, p. 32
[5] - Si veda, dello stesso autore,
Andrea Zhok, “Lo spirito del denaro e la liquidazione del mondo”, Jaca
Book, 2006.
[6] - Hugo Assmann, Franz
Hinkelammert, “Idolatria
del mercato. Saggio su economia e teologia”,
[7] - Fase mercantilista dello
sviluppo del capitalismo.
[8] - Zhok, cit, p. 79.
[9] - Zhok, p.122
[10] - Sulla imprecisione nel definire
“rivoluzione” quella americana, o nel definirla al singolare, si veda Alan
Taylor, “Rivoluzioni
americane”, Einaudi 2017 (ed.or. 2016).
[11] - Né nell’una, né nell’altra si
chiama “popolo” la generalità della popolazione, ed in particolare in nessun caso
ciò avviene in quella americana. Si veda, ad esempio, Bernard Manin, “Principi
del governo rappresentativo”, Il Mulino, 2010 (ed. or. 1997).
[12] - Zhok, p.128, si veda Jean-Claude
Michea, “L’impero
del male minore”, Ore, Milano, 2008 (ed. or. 2007).
[13] - Pierre Dardot e Christian Laval,
“La
nuova ragione del mondo”, Derive e Approdi 2013 (ed. or. 2009)
[14] - Luc Boltanski, Eve Chiappello, “Il
nuovo spirito del capitalismo”, Mimesis, 2014 (ed.or. 1999).
[15] - Zhok, p. 166
Segnalo che il testo è afflitto da un gran numero di refusi.
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