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giovedì 17 giugno 2021

Nancy Fraser, “Cosa vuol dire socialismo nel XXI secolo?”

 

Il libricino[1] edito da Castelvecchi è la traduzione della Lectio magistralis che la professoressa Fraser ha tenuto alla rassegna di incontri “Ripensare la comunità”, che la casa editrice ha tenuto nel 2019 a Roma[2]. Si tratta dunque di un testo molto sintetico, scritto per essere letto. Un testo che contiene numerose formule eccessivamente sintetiche, per certi versi comprensibili per il genere del testo ma che dimostrano anche in qualche modo la scarsa dimestichezza con l’insieme del dibattito marxista della tradizione accademica americana (con importanti eccezioni, ovviamente[3]). Parte, infatti, dalla proposta di superare “l’economicismo”, ma si muove alla fine interamente entro di esso; critica in Marx la sottovalutazione del lavoro riproduttivo, senza comprendere i contesti ravvicinati e polemici dei testi che critica; sviluppa, in forma travestita, quel che è un discorso di dipendenza riferito a donne e ‘colored’, ma certamente generalizzabile; costruisce, alla fine, una proposta che ha un tono decisamente già sentito e in effetti è in contrasto con alcune delle sue premesse (se non altro quelle libertarie).




Ma veniamo in ordine. Per la Fraser bisogna superare gli stretti economicismi e “occuparsi di trasformare la relazione tra la produzione e il suo retroterra di condizioni di possibilità, cioè la riproduzione sociale, il potere dello Stato, la natura non-umana e le forme di ricchezza che si trovano fuori dei circuiti ufficiali del capitale, ma comunque alla sua portata”[4]. Ciò è quanto dovrebbe fare il socialismo, ed in effetti è quanto, però, è sempre stato entro il perimetro della sua critica. Presente già con Marx, che, tuttavia, aveva altre priorità polemiche e altri avversari[5] e dunque enfatizzava diversamente le componenti del suo discorso. Per fare mente locale bisogna almeno considerare alcuni fatti scheletrici: Marx opera tra gli anni quaranta e ottanta dell’ottocento, tra Francia e Inghilterra per lo più, mentre il capitalismo delle fabbriche, ancora non monopolistico, è in fase di espansione e consolidamento. Al suo tempo il 30% dei lavoratori nelle fabbriche, a Manchester ed in tutti i posti più avanzati, erano donne, e il 15% erano bambini. Nella sua opera maggiore, nel capitolo “La giornata lavorativa”, come nel successivo “Macchine e grande industria”, è aspramente denunciato il lavoro minorile, fino al 50% e dall’età di sei anni, e quello femminile, reso possibile proprio dall’effetto di moltiplicazione della forza dato dalle macchine[6]. Nulla lo fa ritenere che questo effetto venga meno (sarà, piuttosto Engels, che gli sopravvive per dieci anni, e la generazione successiva a partire dal ‘Bernsteindebatte’ e dalla teoria dell’imperialismo di Lenin, ad assistere al consolidamento della tendenza alla crescita dei salari dei lavoratori industriali e quindi alla mascolinizzazione della forza lavoro[7]). Peraltro, sono rintracciabili passi[8] in cui Marx appoggia l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro e fuori casa, se pure nelle modalità in cui si verificava significava solo l’incremento del più selvaggio sfruttamento. Come altri in cui sottolinea il ruolo “nobile ed eminente” delle lotte femminili per l’emancipazione dallo sfruttamento sul lavoro[9]. Tuttavia sono passi sparsi, non c’è dubbio manchi una teoria organica. Nel testo marxiano, da una parte, non si vede abbastanza come problema specifico il fatto che la forza lavoro possa essere distinta per sesso (relegando l’altro sesso alla riproduzione e quindi alla remunerazione indiretta che determina, nella microfisica del potere di coppia, un potenziale di dipendenza), e ciò sia perché non è abbastanza evidente al suo tempo sia, e soprattutto, perché il tema dell’organizzazione della vita quotidiana è presente in alcuni autori molto influenti dai quale intende prendere le distanze, o che, pur rispettandoli, intende superare[10]. Dall’altra, nella dottrina che i due autori creano in comune viene formulata una teoria implicita dello Stato troppo poco differenziata[11]. Teoria che sarebbe stata oggetto dei volumi successivi della sua opera maggiore, se il tempo lo avesse concesso.

La questione è sicuramente molto complessa, un tentativo iniziale di perimetrarla era stato compiuto in un recente post[12] che si concentrava sul femminismo “della differenza”, invalso a partire dalla critica degli ambienti marxisti, o comunque entro la “controcultura”, negli anni sessanta. Un movimento potente che parte proprio dai campus americani, e che vede la Fraser, per elementari ragioni anagrafiche, fortemente coinvolta. Il tono centrale del movimento è antiautoritario, la tendenza è di sostituire all’analisi strutturale, per grandi meccanismi funzionali e ad elevato livello di astrazione, una lettura che finisce per mettere in generale sotto accusa la pretesa del più generale movimento di liberare tutti. Il discorso di liberazione sarebbe infatti “neutro”, se rivolto all’intera società, senza essere distinto in discorso di genere, delle donne alle donne e degli uomini agli uomini. Ed a sua volta il “neutro” sarebbe, a partire dal linguaggio (la linguistica è la filosofia e scienza umana egemonica negli anni di incubazione di questa tendenza) in sé oppressivo. Precisamente oppressivo dell’universale femminile. Ne conseguirebbe, abbastanza logicamente, che l’unico modo di rispondere è quello di separarsi. Si tratta di rivendicare, insomma, la priorità di un conflitto tra i sessi sul conflitto di classe e l’esistenza di una differenza essenziale fondata sul terreno della presunta omogeneità interna di queste. Le altre differenze di ceto, di ruolo, restano, ovviamente, ma quella tra uomini e donne sovraintende a tutte. Le teorie della differenza, che nascono dentro e contro il più ampio movimento della contestazione antiautoritaria, finiscono per focalizzare interamente la propria attenzione sui temi della cultura, l’ideologia e le forme di resistenza al potere. Questo è ciò che è contenuto nella frase, spesso richiamata dall’autrice come refrain ormai consolidato, “superare l’economicismo”. Si intende superare l’idea che le differenze economiche siano quelle essenziali.

Come noto Nancy Fraser ha il grande merito di aver visto da tempo i limiti di questa forma influente entro la quale si è formata. In “Fortune del femminismo[13], una raccolta che va dalla critica ad Habermas nel 1985 (a TAC[14]) ad interventi che si dispiegano fino al 2010, incornicia il suo femminismo in una teoria della dipendenza focalizzata sulla critica al Welfare State, ma sfocia in una presa di distanza della “terza ondata” del femminismo che abusando del pensiero di Lacan e di una impostazione post-strutturalista finisce per smarrire ogni carica critica al capitalismo. Ovvero di farsi esso stesso “nuovo spirito del capitalismo”[15].

 

Fatto sta che per la nostra il socialismo del XXI secolo “deve superare non solo lo sfruttamento del capitale sul lavoro salariato, ma anche il suo appropriarsi del lavoro di cura non stipendiato, dei beni pubblici e della ricchezza espropriata a soggetti razzializzati e alla natura non-umana”. Ovvero, sempre secondo le formule che propone, deve trovare una via “tra il comunismo sovietico e la socialdemocrazia”. A parere dell’autrice il marxismo, invece, avrebbe inquadrato esclusivamente il capitalismo come sistema di sfruttamento di classe, incentrato sulla relazione tra capitalisti e lavoratori nel momento della produzione (e non della riproduzione). Una visione che quindi si sarebbe concentrata solo sul “segreto laboratorio” della produzione, dimenticando di interrogarsi sulla condizione di possibilità di quest’ultima. È un’accusa sommaria ed ingiusta.

Avrebbe, il marxismo, trascurato in altre parole di osservare le condizioni non economiche:

1-      La “riproduzione sociale”, ovvero il lavoro domestico, la nascita e crescita dei figli, la cura degli adulti e degli anziani e disoccupati. Tutte figure necessarie, ma alle quali “il capitalismo non attribuisce alcun valore, non si preoccupa di rinnovarle e cerca di evitare di pagarne il prezzo fintanto che può”;

2-      La riserva di ricchezza espropriata alle persone sottomesse per motivi razziali;

3-      I doni e contributi a basso costo provenienti dalla natura non-umani;

4-      I beni pubblici forniti dagli Stati o da altri poteri non privati.

 

Con questa notevole serie di scoperte che il vecchio Marx si sarebbe dimenticato di sottolineare, la Fraser costruisce la sua vaga nozione di “capitalismo come ordine sociale istituzionalizzato”. Un ordine nel quale vigono ingiustizia, irrazionalità e mancanza di libertà.

Il punto che dichiara essere cruciale, e nel quale si differenzia la sua nozione di socialismo, sarebbe molto semplicemente il seguente: “la divisione tra la produzione economica, dove il lavoro è remunerato con salari in danaro, e la riproduzione sociale, dove invece spesso non è pagato, ma ammantato di sentimentalismo e ricompensato in ‘amore’. Storicamente di genere, questa divisione rinforza una fondamentale asimmetria di genere nel cuore della società capitalistiche e radica il subordinamento della donna, il binarismo di genere e l’eteronormatività”[16]. Si tratta quindi di una divisione strutturale tra lavoratori “liberi” e “altri dipendenti”. Insomma, sarebbero “liberi” quelli che sono salariati, e “dipendenti” quelli che non risultano occupati (e, quindi, dipendono per la loro sopravvivenza fisica e sociale da qualcun altro).

Questa, alla fine, sarebbe la “visione ampliata”, del capitalismo e quindi anche del socialismo.

 

Ora, messa in questo modo, cioè nella dichiarazione di dipendenza di chi non viene direttamente remunerato in cambio di lavoro, e tenendo conto che non propone una soluzione socialdemocratica, non è molto chiaro l’obiettivo. La proposta (non volendo neppure andare verso una soluzione interamente statalizzata) è di rovesciare l’ordine, non subordinando più alla produzione di merci per il mercato la riproduzione sociale, ma, al contrario, mettendo al centro la riproduzione. Quindi propone di dissolvere gli Stati in favore di “nuove unità politiche demarcate per funzione, le quali operino a differenti livelli e basi di partecipazione sulla base dei principi di competenza”[17]. Per la verità la formula è di assoluta vaghezza, come le successive. E potrebbe essere incorporata nella prospettiva neoliberale della governance per agenzie sovranazionali. Ma sembra concretizzarsi nella evocazione di una distribuzione egualitaria delle risorse necessarie alla riproduzione sociale e nella dichiarazione che il plusvalore (per il quale, a dire proprio il vero, adopera la definizione piuttosto di ‘surplus’) debba essere “distribuito democraticamente”. Dunque, bisogna eliminare i mercati. Leggendo il testo si scopre che non devono essere tutti e in generale eliminati, probabilmente l’idea evoca l’Urss, ma solo alcuni. Qui la Fraser introduce una curiosa e poco chiara, almeno in questo testo, distinzione tra “mercati in alto”, quelli che organizzano attraverso il sistema dei prezzi la creazione del surplus, “mercati in basso”, quelli che distribuiscono le risorse alla riproduzione, (suppongo attraverso la distribuzione delle merci via acquisto individuale), e “mercati in mezzo” (che non sono identificabili chiaramente). Propone, cioè, che non ci siano mercati, in favore di distribuzioni “democratiche” per la riproduzione di base e per il surplus (“mercati in alto e in basso”), ma si possano lasciare “mercati in mezzo”. Con le sue parole; “presumendo che ci sia un’eccedenza sociale da destinare si deve considerare la ricchezza sociale collettiva come un tutt’uno. Nessun individuo, azienda o Stato può possederla o averne il diritto di disporne. Reale proprietà collettiva, l’eccedenza deve essere allocata attraverso processi decisionali di pianificazione collettiva che possono e devono essere organizzati democraticamente. I meccanismi di mercato non dovrebbero svolgere alcun ruolo a questo livello. Né mercati, né proprietà privata in cima”[18]. Se fosse a livello statuale assomiglierebbe abbastanza alla soluzione sovietica, la quale riteneva peraltro di organizzare la pianificazione secondo procedure costituzionali democratiche. Tuttavia anche per questo ha precisato che lo Stato nazionale si deve dissolvere in favore di agenzie sovranazionali, e quindi tutto assume una colorazione decisamente utopica (o distopica).

Invece la “base”, ovvero “il livello dei bisogni minimi”, come “riparo, vestiario, cibo, educazione, sanità, trasporti, comunicazioni, energia, tempo libero”, dovrebbero essere direttamente forniti come diritti e non sulla base della capacità di lavorare. Ciò, significherebbe, che “i valori d’uso che produciamo per soddisfare queste esigenze non possono essere merci, bensì beni pubblici”. Ovviamente fornito dalle citate “agenzie”.

Infine, lo spazio “in mezzo” (non molto chiaro, dato che la base è distribuita senza lavoro e l’eccedenza distribuita democraticamente) dovrebbe essere affidato a cooperative, comunità, organizzazioni autogestite e progetti autogestiti.

 

Quindi, ricapitolando, ci sarebbero questi “mercati” in mezzo, che quindi scambiano come “merci” quel che residua tra i bisogni ed il surplus. Sfortunatamente non è facile immaginare che cosa resti, tolto il livello dei bisogni minimi ed il “surplus”.

 

Qui termina la conferenza, avendo gettato all’uditorio una visione grandiosa, completamente slegata da qualsiasi possibile orizzonte di fattibilità, piena di contraddizioni e frettolose liquidazioni. Una visione che cerca di identificare l’esito immanente delle scelte e dell’assiomatica posta. Se si individua come distinzione essenziale “produzione vs riproduzione”, e si trasferisce sul piano ‘strutturale’ (termine che nelle sue mani significa più o meno ‘necessario’) la caratterizzazione storica sessuale di entrambe, leggendola come fonte di potere e/o dipendenza, ne deriva la separazione della produzione dalla riproduzione. Ma questo può solo significare che tra la produzione di ‘surplus’ ed il suo impiego per la riproduzione deve essere interposta un’agenzia che collettivizzi il primo e lo distribuisca. Tuttavia, questa soluzione è esattamente lo schema sovietico. Allora lo spirito libertario ed il contesto di origine dell’autrice (ma anche la pressione dell’auditorio) si affacciano avanzando l’interdetto. Ne seguono due cose, la richiesta di “dissolvere lo Stato” e la rinominazione dei “mercati in mezzo”, affidandoli alla “società civile”.

Francamente cosa le due cose significhino, se non una etichetta adatta a non scontentare lo spirito neoliberale che domina interamente il mondo, non è chiaro. Quel che è invece chiaro è il vicolo cieco nel quale questo modo di ragionare porta.



[1] - Nancy Fraser, “Cosa vuol dire socialismo nel XXI secolo?”, Castelvecchi, 2020

[2] - Un ciclo di lezioni alle quali hanno partecipato: Saskia Sassen, Ricardo Antunes, Boaventura de Sousas, Teresa Forcades, Piero Bevilacqua, Pascal Chabot, Mario Reale, Nicola Zamperini, Roberta Menchù, Marc Augé, Vandana Shiva, Charles Melman. Qui la locandina.

[3] - Una scuola marxista nordamericana di primaria rilevanza è ricostruita nel mio libro “Dipendenza”, Meltemi 2020.

[4] - Fraser, cit., p.6

[5] - La costruzione ideologica marxiana, ovvero la teoria per gli scopi dell’agitazione politica, trova forma e cresce in uno specifico contesto organizzativo e polemico. Si confronta da una parte con le varie tendenze anarchiche, da Bakunin a Proudhon, dall’altra con i socialismi di Fourier e Owen.

[6] - Karl Marx, “Il Capitale”, Vol I, cap. 8 e 13.

[7] - Si può individuare un ciclo nella sessualizzazione del lavoro manufatturiero, mentre nell’organizzazione del lavoro artigianale e contadino pre rivoluzione industriale la divisione del lavoro tra i sessi è più connessa ai segmenti del ciclo produttivo, nella prima fase dell’industralizzazione uomini e donne sono richiamati nelle fabbriche (se pur non a parità di salario), e spesso anche bambini, nella fase successiva, quando cresce la dimensione delle fabbriche e la meccanizzazione, insieme alla composizione organica del capitale e alla estensione del controllo sul mondo (con conseguente estensione e consolidamento dei rapporti ineguali con le colonie), la crescita dei salari (cd. “dividendo imperiale”) ottiene un duplice effetto, la mascolinizzazione della forza lavoro e la sua domesticazione. Questa è la condizione nella quale si trova l’occidente all’esordio del New Deal e delle svolte socialdemocratiche. Questa è la scena primigenia della seconda ondata del femminismo, nel quale si forma la nostra.

[8] - Ad es. “Resoconto di un discorso di Marx sulle conseguenze dell’uso delle macchine”, 28 luglio 1868, in “Scritti”, 1867-1870, Lotta Comunista, 2019, p. 510. Quando disse “io non sostengo che non sia bene che le donne prendano parte alla nostra produzione sociale” (ma è abominevole come lo fanno ora).

[9] - Karl Marx, “Rapporto del Consiglio generale al IV Congresso generale di Basilea”, 1 settembre 1869, in “Scritti”, cit., p. 125

[10] - Si tratta, ovviamente, dei cosiddetti “socialisti utopisti”, ed in particolare di Fourier.

[13] - Nancy Fraser, “Fortune del femminismo”, Ombre Corte 2014 (ed. or. 2013).

[14] - Jurgen Habermas, “Teoria dell’Agire Comunicativo”, Il Mulino 1986, (ed.or.1981).

[15] - Fraser, cit., p. 245

[16] - Fraser, “Cosa vuol dire socialismo”, cit., p.24

[17] - Idem.

[18] - Ivi, p.42


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