Il
libricino[1] edito da Castelvecchi è la
traduzione della Lectio magistralis che la professoressa Fraser ha tenuto alla
rassegna di incontri “Ripensare la comunità”, che la casa editrice ha
tenuto nel 2019 a Roma[2]. Si tratta dunque di un
testo molto sintetico, scritto per essere letto. Un testo che contiene numerose
formule eccessivamente sintetiche, per certi versi comprensibili per il genere
del testo ma che dimostrano anche in qualche modo la scarsa dimestichezza con l’insieme
del dibattito marxista della tradizione accademica americana (con importanti
eccezioni, ovviamente[3]). Parte, infatti, dalla
proposta di superare “l’economicismo”, ma si muove alla fine interamente entro
di esso; critica in Marx la sottovalutazione del lavoro riproduttivo, senza
comprendere i contesti ravvicinati e polemici dei testi che critica; sviluppa,
in forma travestita, quel che è un discorso di dipendenza riferito a donne e
‘colored’, ma certamente generalizzabile; costruisce, alla fine, una proposta
che ha un tono decisamente già sentito e in effetti è in contrasto con alcune
delle sue premesse (se non altro quelle libertarie).
Ma
veniamo in ordine. Per la Fraser bisogna superare gli stretti economicismi e
“occuparsi di trasformare la relazione tra la produzione e il suo retroterra di
condizioni di possibilità, cioè la riproduzione sociale, il potere dello Stato,
la natura non-umana e le forme di ricchezza che si trovano fuori dei circuiti
ufficiali del capitale, ma comunque alla sua portata”[4]. Ciò è quanto dovrebbe
fare il socialismo, ed in effetti è quanto, però, è sempre stato entro il
perimetro della sua critica. Presente già con Marx, che, tuttavia, aveva altre
priorità polemiche e altri avversari[5] e dunque enfatizzava
diversamente le componenti del suo discorso. Per fare mente locale bisogna almeno
considerare alcuni fatti scheletrici: Marx opera tra gli anni quaranta e
ottanta dell’ottocento, tra Francia e Inghilterra per lo più, mentre il capitalismo
delle fabbriche, ancora non monopolistico, è in fase di espansione e
consolidamento. Al suo tempo il 30% dei lavoratori nelle fabbriche, a
Manchester ed in tutti i posti più avanzati, erano donne, e il 15% erano
bambini. Nella sua opera maggiore, nel capitolo “La giornata lavorativa”,
come nel successivo “Macchine e grande industria”, è aspramente
denunciato il lavoro minorile, fino al 50% e dall’età di sei anni, e quello
femminile, reso possibile proprio dall’effetto di moltiplicazione della forza
dato dalle macchine[6].
Nulla lo fa ritenere che questo effetto venga meno (sarà, piuttosto Engels, che
gli sopravvive per dieci anni, e la generazione successiva a partire dal ‘Bernsteindebatte’
e dalla teoria dell’imperialismo di Lenin, ad assistere al consolidamento della
tendenza alla crescita dei salari dei lavoratori industriali e quindi alla
mascolinizzazione della forza lavoro[7]). Peraltro, sono
rintracciabili passi[8] in cui Marx appoggia
l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro e fuori casa, se pure nelle
modalità in cui si verificava significava solo l’incremento del più selvaggio
sfruttamento. Come altri in cui sottolinea il ruolo “nobile ed eminente” delle
lotte femminili per l’emancipazione dallo sfruttamento sul lavoro[9]. Tuttavia sono passi
sparsi, non c’è dubbio manchi una teoria organica. Nel testo marxiano, da una
parte, non si vede abbastanza come problema specifico il fatto che la forza
lavoro possa essere distinta per sesso (relegando l’altro sesso alla
riproduzione e quindi alla remunerazione indiretta che determina, nella microfisica
del potere di coppia, un potenziale di dipendenza), e ciò sia perché non è abbastanza
evidente al suo tempo sia, e soprattutto, perché il tema dell’organizzazione
della vita quotidiana è presente in alcuni autori molto influenti dai quale
intende prendere le distanze, o che, pur rispettandoli, intende superare[10]. Dall’altra, nella
dottrina che i due autori creano in comune viene formulata una teoria implicita
dello Stato troppo poco differenziata[11]. Teoria che sarebbe stata
oggetto dei volumi successivi della sua opera maggiore, se il tempo lo avesse
concesso.
La
questione è sicuramente molto complessa, un tentativo iniziale di perimetrarla
era stato compiuto in un recente post[12] che si concentrava sul
femminismo “della differenza”, invalso a partire dalla critica degli
ambienti marxisti, o comunque entro la “controcultura”, negli anni sessanta. Un
movimento potente che parte proprio dai campus americani, e che vede la Fraser,
per elementari ragioni anagrafiche, fortemente coinvolta. Il tono centrale del
movimento è antiautoritario, la tendenza è di sostituire all’analisi
strutturale, per grandi meccanismi funzionali e ad elevato livello di
astrazione, una lettura che finisce per mettere in generale sotto accusa la
pretesa del più generale movimento di liberare tutti. Il discorso di
liberazione sarebbe infatti “neutro”, se rivolto all’intera società, senza
essere distinto in discorso di genere, delle donne alle donne e degli uomini
agli uomini. Ed a sua volta il “neutro” sarebbe, a partire dal linguaggio (la
linguistica è la filosofia e scienza umana egemonica negli anni di incubazione
di questa tendenza) in sé oppressivo. Precisamente oppressivo
dell’universale femminile. Ne conseguirebbe, abbastanza logicamente, che
l’unico modo di rispondere è quello di separarsi. Si tratta di rivendicare,
insomma, la priorità di un conflitto tra i sessi sul conflitto di
classe e l’esistenza di una differenza essenziale fondata sul terreno
della presunta omogeneità interna di queste. Le altre differenze di ceto, di
ruolo, restano, ovviamente, ma quella tra uomini e donne sovraintende a tutte.
Le teorie della differenza, che nascono dentro e contro il più ampio movimento
della contestazione antiautoritaria, finiscono per focalizzare interamente la
propria attenzione sui temi della cultura, l’ideologia e le forme di resistenza
al potere. Questo è ciò che è contenuto nella frase, spesso richiamata dall’autrice
come refrain ormai consolidato, “superare l’economicismo”. Si intende superare
l’idea che le differenze economiche siano quelle essenziali.
Come
noto Nancy Fraser ha il grande merito di aver visto da tempo i limiti di questa
forma influente entro la quale si è formata. In “Fortune del femminismo”[13], una raccolta che va
dalla critica ad Habermas nel 1985 (a TAC[14]) ad interventi che si
dispiegano fino al 2010, incornicia il suo femminismo in una teoria della
dipendenza focalizzata sulla critica al Welfare State, ma sfocia in una presa
di distanza della “terza ondata” del femminismo che abusando del pensiero di
Lacan e di una impostazione post-strutturalista finisce per smarrire ogni
carica critica al capitalismo. Ovvero di farsi esso stesso “nuovo spirito del
capitalismo”[15].
Fatto
sta che per la nostra il socialismo del XXI secolo “deve superare non solo lo
sfruttamento del capitale sul lavoro salariato, ma anche il suo appropriarsi
del lavoro di cura non stipendiato, dei beni pubblici e della ricchezza
espropriata a soggetti razzializzati e alla natura non-umana”. Ovvero, sempre
secondo le formule che propone, deve trovare una via “tra il comunismo
sovietico e la socialdemocrazia”. A parere dell’autrice il marxismo, invece,
avrebbe inquadrato esclusivamente il capitalismo come sistema di sfruttamento
di classe, incentrato sulla relazione tra capitalisti e lavoratori nel momento
della produzione (e non della riproduzione). Una visione che quindi si sarebbe concentrata
solo sul “segreto laboratorio” della produzione, dimenticando di interrogarsi
sulla condizione di possibilità di quest’ultima. È un’accusa sommaria ed
ingiusta.
Avrebbe,
il marxismo, trascurato in altre parole di osservare le condizioni non
economiche:
1- La
“riproduzione sociale”, ovvero il lavoro domestico, la nascita e
crescita dei figli, la cura degli adulti e degli anziani e disoccupati. Tutte
figure necessarie, ma alle quali “il capitalismo non attribuisce alcun valore,
non si preoccupa di rinnovarle e cerca di evitare di pagarne il prezzo fintanto
che può”;
2- La
riserva di ricchezza espropriata alle persone sottomesse per motivi
razziali;
3- I
doni
e contributi a basso costo provenienti dalla natura non-umani;
4- I
beni pubblici forniti dagli Stati o da altri poteri non
privati.
Con
questa notevole serie di scoperte che il vecchio Marx si sarebbe dimenticato di
sottolineare, la Fraser costruisce la sua vaga nozione di “capitalismo come
ordine sociale istituzionalizzato”. Un ordine nel quale vigono ingiustizia,
irrazionalità e mancanza di libertà.
Il
punto che dichiara essere cruciale, e nel quale si differenzia la sua nozione
di socialismo, sarebbe molto semplicemente il seguente: “la divisione tra la
produzione economica, dove il lavoro è remunerato con salari in danaro, e la
riproduzione sociale, dove invece spesso non è pagato, ma ammantato di
sentimentalismo e ricompensato in ‘amore’. Storicamente di genere, questa
divisione rinforza una fondamentale asimmetria di genere nel cuore della
società capitalistiche e radica il subordinamento della donna, il binarismo di
genere e l’eteronormatività”[16]. Si tratta quindi di una
divisione strutturale tra lavoratori “liberi” e “altri dipendenti”.
Insomma, sarebbero “liberi” quelli che sono salariati, e “dipendenti” quelli
che non risultano occupati (e, quindi, dipendono per la loro sopravvivenza
fisica e sociale da qualcun altro).
Questa,
alla fine, sarebbe la “visione ampliata”, del capitalismo e quindi anche del
socialismo.
Ora,
messa in questo modo, cioè nella dichiarazione di dipendenza di chi non viene
direttamente remunerato in cambio di lavoro, e tenendo conto che non propone
una soluzione socialdemocratica, non è molto chiaro l’obiettivo. La proposta
(non volendo neppure andare verso una soluzione interamente statalizzata) è di
rovesciare l’ordine, non subordinando più alla produzione di merci per il
mercato la riproduzione sociale, ma, al contrario, mettendo al centro la
riproduzione. Quindi propone di dissolvere gli Stati in favore di “nuove
unità politiche demarcate per funzione, le quali operino a differenti livelli e
basi di partecipazione sulla base dei principi di competenza”[17]. Per la verità la formula
è di assoluta vaghezza, come le successive. E potrebbe essere incorporata nella
prospettiva neoliberale della governance per agenzie sovranazionali. Ma sembra
concretizzarsi nella evocazione di una distribuzione egualitaria delle risorse
necessarie alla riproduzione sociale e nella dichiarazione che il plusvalore
(per il quale, a dire proprio il vero, adopera la definizione piuttosto di
‘surplus’) debba essere “distribuito democraticamente”. Dunque, bisogna
eliminare i mercati. Leggendo il testo si scopre che non devono essere tutti e
in generale eliminati, probabilmente l’idea evoca l’Urss, ma solo alcuni. Qui la
Fraser introduce una curiosa e poco chiara, almeno in questo testo, distinzione
tra “mercati in alto”, quelli che organizzano attraverso il sistema dei prezzi
la creazione del surplus, “mercati in basso”, quelli che distribuiscono le
risorse alla riproduzione, (suppongo attraverso la distribuzione delle merci
via acquisto individuale), e “mercati in mezzo” (che non sono identificabili
chiaramente). Propone, cioè, che non ci siano mercati, in favore di
distribuzioni “democratiche” per la riproduzione di base e per il surplus (“mercati
in alto e in basso”), ma si possano lasciare “mercati in mezzo”. Con le sue
parole; “presumendo che ci sia un’eccedenza sociale da destinare si deve
considerare la ricchezza sociale collettiva come un tutt’uno. Nessun individuo,
azienda o Stato può possederla o averne il diritto di disporne. Reale
proprietà collettiva, l’eccedenza deve essere allocata attraverso processi
decisionali di pianificazione collettiva che possono e devono essere
organizzati democraticamente. I meccanismi di mercato non dovrebbero svolgere
alcun ruolo a questo livello. Né mercati, né proprietà privata in cima”[18]. Se fosse a livello
statuale assomiglierebbe abbastanza alla soluzione sovietica, la quale riteneva
peraltro di organizzare la pianificazione secondo procedure costituzionali
democratiche. Tuttavia anche per questo ha precisato che lo Stato nazionale si
deve dissolvere in favore di agenzie sovranazionali, e quindi tutto assume una
colorazione decisamente utopica (o distopica).
Invece
la “base”, ovvero “il livello dei bisogni minimi”, come “riparo, vestiario,
cibo, educazione, sanità, trasporti, comunicazioni, energia, tempo libero”,
dovrebbero essere direttamente forniti come diritti e non sulla base della
capacità di lavorare. Ciò, significherebbe, che “i valori d’uso che produciamo
per soddisfare queste esigenze non possono essere merci, bensì beni pubblici”. Ovviamente
fornito dalle citate “agenzie”.
Infine,
lo spazio “in mezzo” (non molto chiaro, dato che la base è distribuita senza
lavoro e l’eccedenza distribuita democraticamente) dovrebbe essere affidato a
cooperative, comunità, organizzazioni autogestite e progetti autogestiti.
Quindi,
ricapitolando, ci sarebbero questi “mercati” in mezzo, che quindi scambiano
come “merci” quel che residua tra i bisogni ed il surplus. Sfortunatamente non
è facile immaginare che cosa resti, tolto il livello dei bisogni minimi ed il
“surplus”.
Qui
termina la conferenza, avendo gettato all’uditorio una visione grandiosa,
completamente slegata da qualsiasi possibile orizzonte di fattibilità, piena di
contraddizioni e frettolose liquidazioni. Una visione che cerca di identificare
l’esito immanente delle scelte e dell’assiomatica posta. Se si individua come
distinzione essenziale “produzione vs riproduzione”, e si trasferisce sul piano
‘strutturale’ (termine che nelle sue mani significa più o meno ‘necessario’) la
caratterizzazione storica sessuale di entrambe, leggendola come fonte di potere
e/o dipendenza, ne deriva la separazione della produzione dalla riproduzione. Ma
questo può solo significare che tra la produzione di ‘surplus’ ed il suo
impiego per la riproduzione deve essere interposta un’agenzia che collettivizzi
il primo e lo distribuisca. Tuttavia, questa soluzione è esattamente lo schema
sovietico. Allora lo spirito libertario ed il contesto di origine dell’autrice
(ma anche la pressione dell’auditorio) si affacciano avanzando l’interdetto. Ne
seguono due cose, la richiesta di “dissolvere lo Stato” e la rinominazione dei “mercati
in mezzo”, affidandoli alla “società civile”.
Francamente
cosa le due cose significhino, se non una etichetta adatta a non scontentare lo
spirito neoliberale che domina interamente il mondo, non è chiaro. Quel che è
invece chiaro è il vicolo cieco nel quale questo modo di ragionare porta.
[1] - Nancy Fraser, “Cosa
vuol dire socialismo nel XXI secolo?”, Castelvecchi, 2020
[2] - Un ciclo di lezioni alle quali
hanno partecipato: Saskia Sassen, Ricardo Antunes, Boaventura de Sousas, Teresa
Forcades, Piero Bevilacqua, Pascal Chabot, Mario Reale, Nicola Zamperini,
Roberta Menchù, Marc Augé, Vandana Shiva, Charles Melman. Qui
la locandina.
[3] - Una scuola marxista
nordamericana di primaria rilevanza è ricostruita nel mio libro “Dipendenza”,
Meltemi 2020.
[4] - Fraser, cit., p.6
[5] - La costruzione ideologica
marxiana, ovvero la teoria per gli scopi dell’agitazione politica, trova forma
e cresce in uno specifico contesto organizzativo e polemico. Si confronta da
una parte con le varie tendenze anarchiche, da Bakunin a Proudhon, dall’altra
con i socialismi di Fourier e Owen.
[6] - Karl Marx, “Il Capitale”,
Vol I, cap. 8 e 13.
[7] - Si può individuare un ciclo
nella sessualizzazione del lavoro manufatturiero, mentre nell’organizzazione
del lavoro artigianale e contadino pre rivoluzione industriale la divisione del
lavoro tra i sessi è più connessa ai segmenti del ciclo produttivo, nella prima
fase dell’industralizzazione uomini e donne sono richiamati nelle fabbriche (se
pur non a parità di salario), e spesso anche bambini, nella fase successiva,
quando cresce la dimensione delle fabbriche e la meccanizzazione, insieme alla
composizione organica del capitale e alla estensione del controllo sul mondo
(con conseguente estensione e consolidamento dei rapporti ineguali con le
colonie), la crescita dei salari (cd. “dividendo imperiale”) ottiene un duplice
effetto, la mascolinizzazione della forza lavoro e la sua domesticazione.
Questa è la condizione nella quale si trova l’occidente all’esordio del New
Deal e delle svolte socialdemocratiche. Questa è la scena primigenia della
seconda ondata del femminismo, nel quale si forma la nostra.
[8] - Ad es. “Resoconto di un discorso
di Marx sulle conseguenze dell’uso delle macchine”, 28 luglio 1868, in “Scritti”,
1867-1870, Lotta Comunista, 2019, p. 510. Quando disse “io non sostengo che non
sia bene che le donne prendano parte alla nostra produzione sociale” (ma è
abominevole come lo fanno ora).
[9] - Karl Marx, “Rapporto del
Consiglio generale al IV Congresso generale di Basilea”, 1 settembre 1869, in “Scritti”,
cit., p. 125
[10] - Si tratta, ovviamente, dei
cosiddetti “socialisti utopisti”, ed in particolare di Fourier.
[11] - Ci siamo appena tornati in “Glosse
a ‘Il concetto di nazione. Ovvero una patata bollente per il marxismo’, di
Carlo Formenti”.
[13] - Nancy Fraser, “Fortune del
femminismo”, Ombre Corte 2014 (ed. or. 2013).
[14] - Jurgen Habermas, “Teoria
dell’Agire Comunicativo”, Il Mulino 1986, (ed.or.1981).
[15] - Fraser, cit., p. 245
[16] - Fraser, “Cosa vuol dire
socialismo”, cit., p.24
[17] - Idem.
[18] - Ivi, p.42
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