“Critica
della Critica – il postmodernismo”
Questa
è la seconda puntata di tre della lettura del libro di Andrea Zhok, “Critica
della ragione liberale”, uscito per l’editore Meltemi nel 2020.
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Nella prima
parte è stato trattato il processo di costruzione delle
invarianti della ragione liberale e dei suoi caratteri tipici per come emergono
dal testo in esame,
- In questa seconda parte proveremo a
ricostruire la lettura che il libro compie dei “Regimi di ragione” che
scaturiscono dalla struttura liberale e neoliberale di pensiero e pratica,
quindi della ragione postmodernista,
-
Nella terza parte, i “Regimi di verità”
della ragione liberale verranno mostrati nelle loro applicazioni politiche,
ovvero nella particolare forma di politico impolitico che è generato dalla
ferrea logica liberale (tanto più forte quando non si vede e ci si pensa
avversari).
Venendo
alle tendenze ideologiche che strutturano dall'interno il fenomeno neoliberale
e cioè a quelle che Zhok chiama i “Regimi” della ragione liberale, ovvero i “Regimi
di libertà” o “Regimi di ragione”, si può provare a dire in questo
modo: si tratta di un sistema di motivazione o di giustificazioni, ma capaci di
dare forma a pratiche sociali reali. Non si tratta meramente di sovrastrutture.
Il liberalismo è, in altre parole, profondamente interconnesso con la linea di
sviluppo emersa nel lungo periodo anche nel mutare delle condizioni economiche
e di quelli che il marxismo chiama “modi di produzione” (‘schiavista’, ‘feudale’,
‘mercatista’, ‘capitalista’). Il testo dice, confermando la propria
ambizione, che “affonda le proprie radici in tendenze storiche di
lungo periodo”. Frase di enorme portata, a ben vedere, perché nella sua potente
metafora naturalista (“radici” e “tendenze”, che rinviano nella loro
associazione all’immagine di un seme dal quale scaturisce un albero) sembra
confermare un destino. Inoltre, un destino dell’occidente (in
quanto, come abbiamo visto, la ‘radice’ più profonda è posta nel linguaggio scritto).
Anzi, nella struttura più intima di questo, la forma di scrittura alfabetica come
“base di consolidamento dei tratti individuali nei soggetti umani”. La ‘nascita
dell’individualismo’ sarebbe dunque una “specificità inizialmente europea”
come scrive, e, da questa, scaturirebbe la forma della logica che determina il
sorgere di alcune specifiche tradizioni letterarie come la filosofia, la
storia, il diritto[1].
Delimiterei questa affermazione, che suona troppo larga, negli scopi del testo e dentro
la decisione che lo apre e situa: individuare la linea evolutiva della
nostra forma, per come si è materialmente data (ovvero quella che porta
al liberalesimo). Bisogna intendersi, l’operazione è di enorme difficoltà, da
una parte notare con che cosa si sia fatti è, a rigore, un’operazione
impossibile. Siamo sempre dentro la nostra lingua, senza la quale non possiamo
pensare, e siamo nell’abitare dei suoi concetti chiave, come, appunto
“libertà”, “essere”, “trascendenza”, “immanenza”, “dio”, etc. (ma possiamo parlarne, e aumentarne la comprensione). Dall’altra, l’idea
guida secondo la quale ‘la chiave della fisiologia della scimmia è nell’uomo’, che pare implicata qui, presupporrebbe ciò che vuole dimostrare. Si appoggerebbe, cioè, su una sorta di ‘filosofia
della storia’ determinista. Sarebbe, con ciò, pacificamente dimostrato che l’individualismo, che esita nella società moderna per effetto delle componenti che Zhok
correttamente mette in mostra, sia presente già nella ‘scimmia’ e da questa si sia sviluppato secondo la sua potenza.
Anzi, che capiamo la ‘scimmia’ poiché sappiamo come è fatto ‘l’uomo’. Propongo
un’alternativa: ‘l’uomo’ è quel che è rimasto e risultato dalle ‘scimmie’ sopravvissute. Non
è tanto la fisiologia della ‘scimmia’ che individuiamo, guardando ‘all’uomo’,
quanto i tratti di questa che hanno vinto la lotta della vita. E l’hanno vinta
magari per caso, per circostanze fortunate, per la fortuna di un giorno. E' chiaro che l’alfabetizzazione
produce un evidente vantaggio cognitivo, come scrive[2], ma che da ciò derivi la
nascita ‘dell’uomo’ (ovvero, della autonomia mentale e della libertà
individuale come valore centrale), pur essendo collateralmente relazionato al
vantaggio citato, deriva dall’inibizione delle alternative che in altri luoghi
hanno prevalso. Non è solo nella linea genealogica Grecia-Roma-Rinascimento-Europa
moderna che il ceppo indoeuropeo del linguaggio si è propagato.
Prendiamo
l’impresa tecnico-scientifica. Nel libro di Andrea è presente una sintetica[3] caratterizzazione della
logica scientifica come componente essenziale della “grande convergenza”.
In essa la ‘tecnoscienza’ è interpretata come la mira ad una forma di dominio
causale (e quindi tecnico) sui processi naturali. Desiderio che si afferma a
partire dal XVI secolo e induce una sempre più pronunciata svolta quantitativa
ed un vasto processo di ‘razionalizzazione’. Facendo uso della lettura epocale
di Koyré e di un testo recente collettaneo[4], individua nell’analiticità,
nella manipolazione causale, la matematizzazione, l’obiettivismo (presenti già
in Galileo), che nel loro insieme invertono la visione del mondo, lo snodo
decisivo di questa svolta. Di qui si può assumere, nel mentre procede un
colossale processo storico di secolarizzazione, e quindi di trasferimento della
funzione socio-integrativa e di potere della religione, che la “natura” sia
dotata di “leggi” le quali non sono presenti ai sensi, ma necessitano di un linguaggio
(matematico) per essere comprese. Questa mossa attiva un trasferimento di
autorità del quale la ragione liberale è perfetta espressione. Ma il sorgere, o
meglio l’affermarsi, proprio in quel secolo e torno di paesi, dell’impresa
scientifica è interconnesso strettamente con l’affermazione di una
interconnessione tra produzione, scambi commerciali in estensione e correlato
sviluppo finanziario che vede il dinamismo di nuovi ceti e lo spostamento
progressivo del centro dinamizzante del nascente capitalismo internazionale dal
Mediterraneo al Nord Europa. Non è per caso che il primo sviluppo della
tecnoscienza sia intensamente presente in Italia, mentre un paio di generazioni
dopo si sposti in Inghilterra e Paesi Bassi[5]. Anche qui la ‘scimmia’
che vince fa ‘l’uomo’.
Quel
che conta è, alla fine, che di ciò stiamo parlando. Non del fatto che
l’individuo altri non lo possano pensare, che non sia possibile storia,
filosofia, letteratura, etc… Ma, qui, in questo testo, ci chiediamo noi
come lo pensiamo. Tanto basta.
La
ragione liberale è dunque connessa in primo luogo a forme di obiettivismo
naturalistico, le quali sono da valutare insieme all'ascesa della tecnica e dei
processi di ipostasi del mezzo. Nella riflessione filosofica del 900, ad
esempio, ha rivestito un ruolo importante questa interpretazione dello sviluppo
storico nel quale trova un punto centrale la questione della tecnica o della
tecnologia. Interpretata come una sorta di ‘fattore destinale’, una sorta di
fatto storico che definisce le forme di sviluppo ancorandole alla ‘volontà di
potenza’ della specie umana. Questa interpretazione di grande successo si
ritrova da una parte nella “Dialettica dell'illuminismo” di Adorno e Horkheimer,
ma soprattutto è rintracciabile nel lavoro di Martin Heidegger e degli autori
ispirati a lui, come Herbert Marcuse, Gunter Anders ed Emanuele Severino.
Naturalmente l'elenco si può allungare a dismisura, questo è quello proposto a
titolo di esempio nel testo. Questa interpretazione di grande successo non
viene costruita per caso. Correttamente Zhok ricorda che se si assume questa
prospettiva il capitalismo e tutti i suoi processi degenerativi, di tipo
sociale e culturale, diventano solo un ‘effetto collaterale’, tutto sommato
marginale, di un processo più profondo e molto più lungo nel tempo e lo spazio di
progressiva dominazione tecnologica. Questo processo, che ad essere
completamente esteso parte con le prime schegge e lance neolitiche e dunque avvolge
la specie come tale, sarebbe ricostruito con straordinario abuso di
proiezione come assoggettamento della volontà di dominio da parte del
soggetto. Con questa ermeneutica novecentesca ‘la tecnica’ viene posta al
centro della vicenda storica. Ne consegue quello che era probabilmente uno
degli obiettivi politici sin dall’avvio (questi pensieri, all’origine
sedimentati nei circoli della ‘rivoluzione conservatrice’ tedeschi[6], neutralizzano
frontalmente la prospettiva marxiana). L’economia, per essa l'economia politica,
e la società stessa sono poste in posizioni dipendenti da accessorie. Quest’interpretazione
conduce per sua necessaria dinamica a spiacevoli implicazioni fataliste che,
dal punto di vista sostenuto in questo libro, hanno anche seri limiti di
analisi. La tecnica sembra, infatti, l’incarnazione principale di un
impulso umano dominante, nominato come “volontà di potenza”, rispetto al quale
ogni valore ogni preferenza e inclinazione devono necessariamente venire meno.
L'unico motore dell'uomo è quindi la volontà di potenza, ovvero l'acquisizione
di una capacità di fare non subordinata a nessun fine che non sia ad
essa immanente, da perseguire e non vincolata dall'esterno. Se si segue questa
interpretazione la pulsione all'acquisizione del dominio sarebbe propria
dell'uomo (dove in alcune versioni femministe ‘uomo’ significa ‘esemplare
maschio della specie’), e si incarnerebbe necessariamente nel sistema della
tecnoscienza moderna. Ovvero nella grande macchina la quale, a sua volta,
farebbe scaturire come prodotto necessario le forme dell'economia
capitalistica.
Ma
questa lettura è ben lontana da essere ovvia e necessaria. In essa si assumono sin
dall'origine le forme dell'uomo hobbesiano: aggressivo, assoggettante,
acquisitivo. Una forma di uomo che non è certo sovrastorica.
Se
non per il dominio egemonico del pensiero liberale, nel senso situato ed al
contempo esteso difeso in questo libro, non si capirebbe per quale motivo tra
le diverse ragioni, le diverse pulsioni, i diversi desideri e tra le forme di
vincolo ed ordinamento presenti nell'uomo, tra tutte le spinte di tipo gregario
affettivo riproduttivo e religioso, proprio la volontà di potenza debba
assumere un profilo così dominante e assolutizzante. Solo perché lo ha ora?
In
effetti questa visione, che corrisponde alla trasformazione del mondo in una
collezione di mezzi neutrali e presenta il mondo stesso come una sommatoria di
cose, è strettamente connessa al dominio della scienza, e questa al sistema
sociale dominante. La scienza mira ad isolare un sistema di relazioni causali
determinate e quantitative, selezionate per poter essere calcolate, stagliate
sullo sfondo di un mondo dove vigono leggi inderogabili. Questa visione
naturalistica e la traduzione ontologica di questo approccio metodologico
cosiddetto scientifico è, naturalmente, di grande efficacia. Ma questa
visione è anche insostenibile sul piano fenomenologico. Pone una
gerarchia vera e propria di autorevolezza, al cui vertice mette ciò che è
prodotto secondo i criteri di accreditamento propri delle scienze della natura,
e via via più in basso tutte le altre forme di sapere.
Si
tratta, in effetti, di non altro che un'altra espressione della “Ragione
liberale”, e secondo la tesi di Zhok insieme a tutto il postmodernismo
filosofico che, per certi versi, gli si oppone. La stretta associazione tra
liberalismo, ovvero capitalismo, e la tecnoscienza è un'opinione condivisa
dalla prospettiva cosiddetta postmoderna in filosofia, ma essa stessa è fondata
ideologicamente già a partire da Hobbes per poter escludere la contendibilità
razionale di valori. Per derazionalizzare sin dall'inizio la dimensione del
senso e del valore, riducendole questa volta a mero sentire e ponendolo
nell'ambito dell'interiorità privata. Da questo punto in poi nasceranno le
opposizioni tra “ragione” e “sentimento” nel quale la ragione viene isolata
dalla sensibilità e dall'emozione dalla preferenza e dal valore e si riduce a
una forma di calcolo. Simmetricamente la dimensione assiologica residua è
ridotta a qualcosa di razionale e spesso in questa mossa riposa un particolare
stile orgogliosamente irrazionale.
L'intera
linea oppositiva è però funzionale all'edificio della Ragione liberale per il
come è stato esaminato. I soggetti individuali vivono la sfera del valore come
inattingibile alle ragioni pubbliche e strettamente privata, e ciò produce una
società che non può essere niente più che non somma di individui isolati. Come
sostiene Zhok:
“fondamentale per lo sviluppo della
ragione liberale è leggere il mondo come risolto nel gioco positivo tra
obiettivismo naturalista e soggettivismo emotivista, tra durezza della ragione tecno
scientifica e mollezza della interiorità sensibile. La ragione liberale non è
identificabile con la ragione contro il sentimento, né con la durezza delle
hard sciences di contro la mollezza dell'intimismo emotivista, ma proprio
con questa opposizione complementare. Tale opposizione astratta, lungi
dall'essere onnicomprensiva, delegittima dati fenomenologici primari: essa
cancella la continuità tra la sfera del ragionamento e sfera senziente, così
come quella tra valore e realtà, e come la continuità fondamentale tra
dimensione individuale e dimensione intersoggettiva”[7].
La
riflessione di matrice analitica si è sviluppata in area anglosassone mentre il
postmodernismo filosofico essenzialmente in area francese. Esso ha avuto
successo e si è sviluppato nella particolare atmosfera culturale susseguente al
maggio ’68. Infatti, solo Michel Foucault aveva già sviluppato i tratti di
fondo della sua riflessione a quella data, tutti i maggiori rappresentanti del
cosiddetto postmodernismo filosofico nascono nel ‘68. Esso incide quindi in
maniera decisiva sulla loro elaborazione e determina la loro ricezione e
successo. Come continua l’autore, però, per valutare correttamente il
retroterra di questo vasto fenomeno bisogna considerare la figura, già durante
i primi anni 60, di Sartre che dava a questo atteggiamento un'impronta
soggettivistica, storicistica ma politicamente impegnata. Rispetto alla
posizione di Sartre il ‘68 francese determina una cesura, in primo luogo, nei
confronti del Partito Comunista Francese (che si dimostrò incapace di cogliere ed
orientare i fermenti innovativi presenti nel movimento studentesco), in secondo
luogo a seguito del riflusso dello stesso processo di mobilitazione. Ne seguì la
disillusione della possibilità stessa di superare il capitalismo attraverso le
chiavi interpretative fornite dal marxismo.
Queste
condizioni generali storiche forniscono le motivazioni ed il movente per una
teorizzazione che nonostante abbia molte caratteristiche diverse conserva un’omogeneità
di base. Osservando il lavoro di Foucault, Deleuze, Lyotard, Derrida e Baudrillard
il testo di Zhok ricostruisce come il soggettivismo e lo storicismo, che
caratterizzavano la posizione sartriana, vennero destrutturati e abbandonati.
Ciò che si ottenne, alla fine, fu una profonda destrutturazione e dissoluzione
dello stesso soggetto (in primis del “soggetto rivoluzionario”) e una fondamentale
sfiducia nel senso storico. L'antiscientismo, portato della ‘critica della
tecnica’, nella tradizione avviata da questi studiosi si traduce quindi
direttamente nel rigetto completo del razionalismo. Quello che viene meno è il
tentativo stesso di descrivere lo sviluppo di ‘forme razionali della storia’ e
di sostenere le proprie tesi producendo specifiche pretese di verità,
sottoponendole alla discussione. Vengono derubricati tutti i concetti chiave: ‘storia’,
‘soggettività’, ‘verità’, ‘identità’, ‘umanità’, ‘stato’, ‘società’, ‘valore’ e
da ultimo quello stesso che li radicava, ‘autenticità’. La dimensione
soggettiva, che ovviamente rimane operativa, è reinterpretata come ‘soggettività
negativa’, cioè come il rifiuto dell'oggettività, rifiuto dei suoi criteri,
rifiuto della stabilità e appello alla relatività radicale. Si tratta, a tutta
evidenza, di un segno dei tempi[8].
La
forma più chiara di questa postura intellettuale è nell'opera di un filosofo
abbastanza atipico, che è visto da Zhok come filologicamente leggero ma di
grandissima potenza narrativa. Foucault in effetti ricerca nel suo lavoro ragioni
profonde negli eventi storici, poste per così dire dietro gli eventi; ragioni
irriducibili alle accidentalità. Sorge però una particolare e inaggirabile contraddizione
interna, inerente al concetto di ‘verità’ e di ‘finalità immanente’, entrambi svalutati
esplicitamente dalle sue opere teoriche ma utilizzati necessariamente nelle narrazioni
storiche. Che, altrimenti, andrebbero interpretate come letteratura ed esercizi
di stile (molto ben riusciti). È piuttosto curioso che sia possibile produrre,
infatti, genealogie storiche con pretese di verità se si dichiara non esistere
alcuna finalità immanente nella storia, o qualunque unità di coscienza che la
possa individuare, a partire dall'idea stessa di umanità. In sostanza ogni
giudizio, e quindi gli stessi giudizi espressi implicitamente ed esplicitamente
dall'autore, non potrebbe che rappresentarsi come semplice esito di rapporti
di potere. L'esercizio di potere esso stesso non sarebbe buono o cattivo,
perché non c'è alcuna verità morale ed alcun senso umano cui questo giudizio possa
appellarsi. Né esiste una collettività che lo fondi, perché questa, a sua
volta, è solo un prodotto dell’esercizio narrativo stesso. Un effetto del suo “effetto
di verità”. Ogni esercizio di potere, dunque, ogni categorizzazione che vi
prelude sono ingiustificabili, legittimati in sostanza solo da ciò che eventualmente
emerge. La propensione di fondo motivante l'azione di Foucault, persino sul
piano biografico, è quindi spinta abbastanza naturalmente verso la
rilegittimazione o l'emancipazione di tutte le forme di soggettività
tradizionalmente emarginate, come il folle carcerato il pervertito. Se nessun
potere si legittima per la maggiore razionalità, l’aderenza a valori, un
qualche fondamento sociale dato e preesistente, allora nello scontro delle
‘volontà di potenza’, tutto sommato, non resta che dire che i marginali, i
pochi e gli sconfitti hanno un vantaggio di legittimazione. O, almeno, lo
possono pretendere più di altri. Al contempo non c'è in Foucault la possibilità
di richiamarsi ad alcuna soggettività autentica, e questo sostanzialmente
fornisce alle rivendicazioni solo il bersaglio negativo residuale di avversare
il potere o le stesse categorizzazioni, ma non lascia nessuna aspirazione
positiva.
Questo
sforzo è, in altre parole, interamente volto alla distruzione ed ha, per
Zhok, un carattere autenticamente critico, ma viene ulteriormente potenziato e
portato a livelli ancora più radicali dai successori, a partire da Gilles Deleuze.
Deleuze è contemporaneo di Foucault, ma gli sopravvive a lungo. Tuttavia, la
sua produzione è tutta successiva al ‘68 ed è sviluppata in collaborazione con
Felix Guattari. Per Deleuze l'ontologia non deve più occuparsi d'identità, ma
solo di differenze, non deve più puntare a scoprire, ma a inventare. La
filosofia è quindi l'arte di formare e di inventare, o di fabbricare, concetti.
Per lui “la filosofia non consiste nel sapere, non c'è una verità che la
ispiri; Ci sono piuttosto delle categorie come quella di interessante, di
notevole o di importante, che decidono della riuscita dello scacco, non prima
però di aver costruito”. Questa base che fondamentalmente sembra utile a un
esercizio di finzione letteraria, più che per un'indagine filosofica, lo pone
al tipo opposto dello stile analitico, evitando anche il confronto
argomentativo. Le tesi di Deleuze colpiscono l'unitarietà del soggetto umano,
la persona che viene disassemblata in gesti, parole, relazioni. Si determina
una sorta di ‘filosofia della differenza’ che predilige il divenire all'essere,
il suggerire al dire, la fluidità alla stasi, il nomadismo alla stanzialità.
Stranamente
questa impostazione radicalmente fluidificante e piuttosto evidentemente
connessa con lo spirito del capitalismo ad essa coeva, per non parlare della
lotta ideologica ed imperialista tra i sistemi mondo, è immaginata dall'autore
come antiliberale. L'antiliberalismo, immaginato e preteso da Deleuze, parte
dall'idea per cui il liberalismo sarebbe in effetti una teoria politica che
assume come fondamento l'esistenza di individui razionali, con una propria
agenda di interessi e rappresentati da un governo. Secondo questa
interpretazione la mossa di minare, danneggiare o distruggere la soggettività
unitaria degli individui, la loro razionalità e poi tutte le realtà strutturali
distrugge il liberalismo stesso. Ma in realtà, secondo la linea la
ricostruzione genealogica prodotta in questo testo, Deleuze non fa con ciò che
aderire a uno dei due poli dell'oscillazione liberale. Non fa altro che occupare,
cioè, la casella opposta e complementare al razionalismo economico,
interpretando le pulsioni anarcoidi ed individualiste di cui si nutre costantemente
il sistema di mercato. In concreto, come dice Zhok “il principale contributo
delle suggestioni deleuziane sul piano politico è quello di disarmare qualunque
opposizione reale allo status quo capitalista, consegnando ogni ‘protesta’ ad
una dimensione di ‘trasgressività’ privata, perfettamente compatibile con i più
ordinari funzionamenti del capitale”[9].
Invece
Lyotard pone sotto attacco quelle che chiama “le metanarrazioni”, ovvero
tutti i tentativi di giustificazione e di fondazione del ‘sapere’, del ‘vero’
del ‘giusto’ (la prima “metanarrazione” è il marxismo, ovviamente). Concepisce
la postmodernità come “guerra alla totalità” (ad Hegel). Anche qui ciò implica
un appello alle ‘differenze’. Non esiste per Lyotard nessun modello autentico o
più autentico di società da perseguire, compreso il modello che miri
semplicemente alla autodeterminazione democratica. Quello che resta al centro
della dimensione politica è lo scontro tra “generi di discorso” o tra “giochi
linguistici” reciprocamente incompatibili. La nozione è ripresa da
Wittgenstein, ma mutilandola del riferimento alle “forme di vita”,
riconducendoli quindi a formulazioni verbali individuali. Se non c’è la
società, e neppure il soggetto, restano forme di sfere autoreferenziali
autistiche, senza vie di uscita razionali. Resta la minaccia del dissidio, dove
per dissidio si intende la prevaricazione dell'uno sull'altro, o l’espressione
puramente artistica, la provocazione.
Infine,
Derrida che prende le mosse da uno studio della fenomenologia husserliana, ma a
partire dal ‘67 prende una particolare strada che lo identificherà come padre
del “decostruzionismo”. Al centro della sua riflessione quella forma
particolare di segno che è il segno scritto. Partendo da una prospettiva
fenomenologica dove “tutto ciò che si manifesta è ciò che è in quanto ha per
noi un significato”, ogni manifestazione presente diventa per lui portatrice
del suo significato in quanto rimando al non presente. Cioè in quanto rimando a
un altro da sé, ad una traccia. Ma questa traccia viene concepita come una
sorta di scrittura, che chiama archi- scrittura. Il richiamo alla scrittura
essenziale, in quanto segno, rinvia alla negazione frontale di ciò che il più
fondamentale degli aspetti della fenomenologia husserliana cioè
l'identificazione di diversi livelli di Fondazione. Se si fa venir meno la
gerarchia tra la percezione, il ricordo, la fantasia, la gerarchia dei segni,
quella dei significati, quella delle evidenze, non c'è più alcun modo di
distinguere un ‘significato’ da una ‘verità’. Una volta impostato il
funzionamento dei significati in questo modo resta un panorama di un sistema di
segni in perenne infinito rinvio, gli uni agli altri, ed ogni cosa diventa leggibile
come un testo. Un testo che, però, rinvia solo ad altri testi. L'analisi
filosofica diventa così un’indagine intra testuale senza meta e senza finalità.
Secondo il punto di vista di Zhok l'opera di Derrida dopo il ‘67 non è
interpretabile facilmente come filosofica, se si pensa che la filosofia ha
qualche necessario riferimento alla conoscenza (e che la conoscenza rinvia
necessariamente a qualche forma di verità). Si tratta, piuttosto, di un’attività
intellettuale brillante ed affascinante, configurata come una serie di esercizi
che rimangono all'interno del gioco semantico dell'analisi testuale, nel quale
diversi concetti estratti dai testi vengono esposti nei loro contrasti e ne
viene mostrata la natura relazionale. Un'opera acuta, utile per riflettere su
assonanze, sulle associazioni, talvolta sull’origine tipologiche o con fini
definitori, ma del tutto inadeguata “a trarre la benché minima conclusione di
valore operativo”[10]. A volte Derrida si
occupa di autori di peso politico come Marx[11] o di tematiche politiche
come la democrazia e la sovranità, ma senza argomentazioni capaci di
indirizzare un agente nel contesto di scelte concrete politiche o etiche. In
questo senso l'operazione complessiva appare nichilistica.
Naturalmente
per Zhok quello che conta non è tanto tentare di confutare autori che, per loro
stessa natura e per il modo in cui sono costruiti i loro testi, si sottraggono
alla possibilità di essere confutati, in quanto non mettono a disposizione
delle tesi e non individuano specifiche pretese di verità argomentata, quanto
comprenderne l'impatto etico politico in relazione agli sviluppi della “ragione
liberale”. Questi autori sono sostanzialmente accettabili o rigettabili in
blocco. A seconda se si condivide il loro spirito antiautoritario e la
vocazione ribelle, tendenzialmente aristocratica.
In
definitiva secondo il punto di vista di questo testo la riflessione del postmodernismo
francese si colloca, ma del tutto inconsapevolmente, all'interno di uno
dei due poli definitori della “Ragione liberale”, perché mentre rigetta
l'obiettivismo e il razionalismo scientista, che ne è una forma, ricade nel
polo complementare del soggettivismo antirazionalistico. Pur se gli autori
postmoderni si concepiscono come politici e come militanti anticapitalistici (e
sono impegnati nel riconoscimento dell’inadeguatezza del Partito Comunista Francese)
giungono alla diagnosi di obsolescenza della intera lezione marxiana, finendo
per leggere il capitalismo come un blocco istituzionale complessivo.
Identificano la società borghese, lo Stato, i partiti e i sindacati come un'unica
struttura unitaria da contestare nel suo insieme. Ogni ricerca
dell'efficienza, della razionalità mezzi fini, della verità, sono percepiti
come parte di un ordinamento oppressivo da contestare. Le stesse istanze di
insofferenza individuale, espresse dalla loro provenienza di classe e dalla
tensione di forze borghesi che si sentono escluse dall'accesso al loro ruolo
sono trasfigurate come potenza emancipativa. L'intero spettro delle loro
aspettative teoriche e politiche è spostato in direzione di un ribellismo
soggettivista, che crede di fare qualcosa di politicamente progressivo nell'assumere
atteggiamenti relativistici ed antirazionalisti. Questo carattere si traduce in
pratica in una fuga da tutte le pretese di spiegazioni, da tutte le teorie di
insieme da tutte quelle che chiamano le “grandi narrazioni”. Si traduce nel
richiamo al pluralismo politico ed epistemico, che però diventa immediatamente
soggettivismo individualista, impermeabile alle esigenze di ogni consenso
razionale, ed impermeabile a ogni e qualsiasi teoria generale.
Questa
tendenza centrifuga è, a ben vedere, una perfetta incarnazione
dell'individualismo liberale classico ed è perfettamente metabolizzabile, e
molto facilmente dal clima neoliberale incipiente nel quale si svolge la scena.
Ciò anche a causa del capitale sociale di cui dispone la maggior parte degli
autori, per provenienza di classe e dinamiche di mercato. Questo rifiuto
antiautoritario, cioè il rifiuto di ogni pretesa di verità strutturata, di ogni
pretesa universale, si ripercuote sul piano politico, anche al di là delle
intenzioni, in un'operazione che disarma completamente la critica teorica.
E lascia come solo spazio i meccanismi auto riproducenti del mercato. In
sostanza è un'operazione che si pensa come anti-oppressiva, che si immagina
come anticapitalistica, e finisce per infiacchire ogni possibilità di
contestazione razionale e, dunque, finisce per favorire il potere inerziale
dello status quo. Questa parabola siamo in grado di vederla davanti ai nostri
occhi proprio ora che essa si è conclusa.
Tutte
le analisi apparentemente radicali rivolte ad opzioni marginali, alla ricerca
di differenze, al gioco delle frasi, alla decostruzione dei significati, si
configurano, alla fine, come un'operazione in grande stile di sterilizzazione e
privatizzazione del pensiero. Non consentono di trarre alcuna conclusione
fondata che sia intersoggettivamente condivisa sul mondo reale e ostacolano
ogni accordo rivolta a favorire una qualsiasi iniziativa collettiva. In
sostanza si tratta “di una grande operazione di chiusura nel privato,
travestita da razionalità filosofica”[12] .
Apparentemente
emerge, soprattutto con lo sguardo dell’oggi, un paradosso: “nell'intento di
liberare l'individuo dall'oppressione del potere, delle istituzioni, dello
Stato, della società, del capitale, del partito, del razionalismo e della tecnoscienza,
questa tendenza culturale ha portato a una completa soggezione e dissoluzione
dell'individuo stesso che pensava di liberare”. Nel momento in cui non si può
più parlare infatti di autore, di agente razionale, e non si può più parlare
neppure di umanità o di natura umana, allora viene a cadere e si dissolve la
possibilità stessa di porre la questione circa forme di vita autentiche o
inautentiche. Ovvero viene a cadere la possibilità di definire qualcosa come
sfruttamento, alienazione, perché non esiste autenticità o alienazione se non
il rapporto ad un’essenza umana. In linea di principio la rivendicazione della
grande società multinazionale, o del suo management, e quella dei suoi
lavoratori precari, sovrasfruttati e sottopagati (purché non parte di quale
minoranza riconoscibile e vittimizzata) sono da considerare del tutto
equivalenti. Si tratta di “narrazioni” in fondate, quella dell’efficienza
comparata verso quella dello sfruttamento. Non esiste, e non può esistere, una
teoria della natura umana, una rivendicazione di forme di vita appropriate, sulla
quale fare leva per denunciare razionalmente le condizioni imposte.
Se
si dissolve il soggetto agente con la sua ragione, la sua natura, allora l'intera
dimensione storica scompare dal novero dei concetti rilevanti. Non ci sono più
criteri per concepire entità storiche sovraindividuali (e quindi gli Stati, i
popoli, le classi, l'umanità tutta) che siano mossi da progetti comuni o da
valori comuni.
Il
paradosso è, quindi, che il postmodernismo appare una teorizzazione
antiautoritaria e libertaria ma, nel farlo, apre alla svolta neoliberale la
quale andava nella stessa direzione (contro lo Stato e i corpi intermedi) e,
con essa, anche alle sue compressioni della libertà che oggi vediamo ovunque
intorno a noi.
Nella
Terza Parte, e ultima, vedremo come questa linea genealogica di
lunghissimo periodo si traduce, anche sulla scorta del clima postmoderno, in
applicazioni politiche, ovvero in un particolarissimo, ed anche qui
paradossale, forma di ‘politico impolitico’. Uno stile che è generato dalla
ferrea logica liberale (tanto più forte quando non si vede e ci si pensa
avversari).
[1] - Qui potrebbero essere
rintracciati facilmente alcuni controesempi, ovviamente la filosofia greca ha
la sua specificità, ma anche le sue relazioni e debiti con le forme di pensiero
antecedenti in regioni nelle quali la scrittura era completamente diversa, come
l’Egitto, per dirne uno. O l’oriente medio, nel quale civiltà di grande
complessità (e altamente stimate) antecedono di millenni il ‘miracolo greco’.
Ma potrebbe essere anche messo in questione la specificità del racconto
storico, come proprio dell’occidente. Un esempio di questa diversa
interpretazione in Sanjay Subramanyam, “Mondi connessi. La storia oltre
l’eurocentrismo (secoli XVI- XVIII)”, Carocci, 2014, ma potrebbe anche
essere ricordata la protesta di Amartya Sen, “L’altra India. La tradizione
razionalista e scettica alle radici della cultura indiana”, Oscar
Mondadori, 2005. O, infine, il lavoro di Francois Jullien sulla filosofia
orientale (es. “Trattato sull’efficacia”, Einaudi 1998, ed. or. 1996).
Certo, anche il sanscrito in effetti appartiene alle lingue indoeuropee e il
mondo arabo, direttamente e dopo per suo tramite quello delle grandi terre di
mezzo dei due fiumi, sono talmente intrecciati con la nostra linea evolutiva da
poter assumere che il termine posto nel libro sia, in fondo, solo una
espressione semplificante. Ma l’antico Egitto, e le lingue dell’estremo
oriente, il cinese in specie, non sono affatto del nostro ceppo. Infatti, sono
esattamente prese per contrasto (sinteticamente, la tesi è che lingue che si
fondano su ideogrammi invece che sulla scrittura fonetica nella quale con
pochissimi segni e regole si può creare infiniti nuovi concetti, parole, frasi
e testi. Dunque, c’è anche un altro quadro, un’altra filiazione.
[2] - “La mente alfabetizzata si
diffonde in quanto consente al soggetto un accesso potenziato all’esperienza,
accesso che si converte in una potenziale superiorità cognitiva”. Zhok, p.38
[3] - Alexander Koyré, “Dal mondo
del pressappoco all’universo della precisione”, Einaudi 2000.
[4] - G.Gorham, B.Hill, E.Slowik,
C.K.Waters (a cura di), “The language of nature”, London 2016.
[5] - L’analisi dell’impresa scientifica tra 1600 e 1700, prima
centrata nel mediterraneo italiano e francese e poi spostata, quale baricentro,
al nord, in particolare in Inghilterra, mostra i suoi stretti legami interni
con lo sviluppo economico (cosa che non prefigura la direzione causale,
ovviamente). Ovvero con lo sviluppo delle classi e degli interessi dell’emergente
borghesia commerciale e poi proto-industriale. Laboratori, riviste
scientifiche, accademie, sono finanziate da potenti forze private (in Italia) o
pubbliche (in Francia). In altre parole, la ricerca scientifica non è affatto,
come vorrebbe la retorica dominante, astratta e disinteressata ricerca della
“verità”, non è una teologia (anche se in parte lo è, con gli effetti di
legittimazione e potere che ne conseguono). La ricerca scientifica è sforzo organizzato di risolvere
problemi emergenti e concreti. Nel 1400 e 1500 era stata connessa, in una fase
di espansione, con i consumi delle élite: l’astronomia aveva un legame ben
rintracciabile con l’arte della astrologia (che durerà fino a Newton); la
botanica si connetteva con la farmacologia che offriva i suoi servigi
esclusivamente alle classi dominanti, le uniche che potevano pagarne i rimedi;
la matematica si sviluppa per gli interessi della contabilità, connessa con
l’accumulazione del denaro in mano a banchieri e commerci di lunga percorrenza,
in una fase di monetizzazione e finanziarizzazione; a partire dalla “Nova
scienza” di Tartaglia (1537) si sviluppa la balistica e poi la
cantieristica navale e i connessi problemi di fisica applicata in cui si
impegna Galilei. Dalla seconda metà del seicento la scienza mostra la sua
efficacia concreta in campi di interesse degli Stati nazione in via di
consolidamento e della borghesia commerciale, impegnata ad estendere le rotte e
porre le premesse per il dominio coloniale del mondo. Navigazione, costruzione
di navi, artiglieria; orologeria, e di qui meccanica, studi sulla velocità
della luce per determinare la longitudine in mare aperto, navigazione a vela e
calcolo vettoriale, fluidodinamica per rimodellare gli scafi, le analisi di
Eulero sulla meccanica dei corpi rigidi per risolvere il problema del
beccheggio delle navi, cannocchiale e telescopio, la “aritmetica politica”
(ovvero la statistica matematica), sviluppata per le crescenti esigenze di
controllo degli Stati e la cartografia… Si veda, ad esempio, Lucio
Russo, E. Santoni, “Ingegni minuti. Una storia della scienza in Italia”,
Feltrinelli 2010.
[6] - Indubbiamente un così vasto
movimento di pensiero ha provenienze molteplici e profondamente radicate, si
può fare a lungo l’esercizio di trovarne diramazioni nazionali (es. francesi) o
antecedenti. Gli stessi padri della sociologia lo sono in certo senso (in
primis Sombart e Max Weber). Alcune di queste relazioni possono essere
rintracciate in un contesto di risposta e reazione alla sfida marxiana, e del
movimento che ne scaturisce. Anzi, alla doppia sfida del liberalismo politico e
del marxismo. Quindi alla concezione lineare della storia, alla critica della Zivilisation,
del progresso ed all’americanismo in alcuni esponenti. Gli scritti di Spengler,
ad esempio, sulla tecnica ed ovviamente Carl Schmitt ed Ernst Junger.
[7] - Zhok, p.236.
[8] - Il particolare clima nel quale
avvengono queste avventure di pensiero è posto al termine di un ventennio di espansione
economica e di trasformazione della società uscita dalla seconda guerra. Un ventennio
nel quale l’Europa recupera una posizione economica salda, sviluppando
enormemente la propria industria che comincia a competere con quella americana,
ma, al contempo, subendo la crescita dei settori intermedi che spingono per
avere una risposta all’altezza delle proprie ambizioni. L’influenza delle lotte
anticoloniali, da una parte, e delle rivendicazioni delle minoranze di colore
nelle periferie (non solo americane), dall’altra, nel contesto di una forte
lotta redistributiva, ma anche in qualche frangia radicalizzata, del comunismo cubano
e delle repressioni sovietiche nell’Est Europeo, creano un particolare clima
antiautoritario che si dirige contro ogni espressione di potere. L’insieme
delle ambizioni di ceti intermedi scolarizzati (si è anche in un quindicennio
di enorme espansione dell’offerta di istruzione superiore) che premono per non
ripetere la ‘noiosa’ e lenta esperienza dei padri e madri, delle lotte operaie,
delle suggestioni internazionali in un decennio esaltante, si fonde nel rendere
dominante, e intuitivamente ‘giusto’, ogni pensiero che si presenti come ‘nuovo
e radicale’ e voglia farla finita con le grigie burocrazie, siano esse dell’Est
come dell’Ovest.
[9] - Zhok, p. 242
[10] - Zhok, p. 246
[11] - Jacques Derrida, “Spettri di
Marx”, Raffaello Cortina Editore, 1994 (ed. or. 1993).
[12] - Zhok, p. 250
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