“I Regimi di Verità – Il politico-impolitico, travestimenti liberali”
Questa
è la terza puntata ed ultima della lettura del libro di Andrea Zhok, “Critica
della ragione liberale”, uscito per l’editore Meltemi nel 2020.
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Nella prima
parte è stato trattato il processo di costruzione delle
invarianti della ragione liberale e dei suoi caratteri tipici per come emergono
dal testo in esame,
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Nella seconda
parte è stato ricostruita la lettura che il libro compie
dei “Regimi di ragione” che scaturiscono dalla struttura liberale e
neoliberale di pensiero e pratica, quindi della ragione postmodernista,
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In questa terza parte, i “Regimi di
verità” della ragione liberale verranno mostrati nelle loro applicazioni
politiche, ovvero nella particolare forma di politico impolitico che è generato
dalla ferrea logica liberale (tanto più forte quando non si vede e ci si pensa
avversari).
In
sostanza dalla ricostruzione del liberalesimo nel libro, e riportata nella
prima parte, emergono, secondo quanto propone l’autore, due prescrizioni e due
idealizzazioni.
La
prima prescrizione scaturisce dall'idea di libertà negativa,
essenzialmente interpretata come richiesta di non interferenza. La seconda
è l'individualismo assiologico, ovvero una concezione per cui il valore si
manifesta essenzialmente nell'acquisizione di desideri individuali. “Non
interferenza” e “desiderio individuale” come valore sono, quindi, le due
prescrizioni definenti la “Ragione liberale”. In loro presenza si sa di
essere al cospetto di una versione, delle tante, del liberalesimo.
Queste
prescrizioni reggono e sono (normalmente tacitamente) giustificate
dall’esistenza di due idealizzazioni (assunzione di un’idea, o un modello, come
universale).
La
prima idealizzazione è l'assunto ideale dell'esistenza dei
diritti naturali, che uniscono la normatività del diritto positivo con
l'autoevidenza di un fondamento presente già in natura. Infine, troviamo
l'assunto ideale per cui la libera interpretazione di individui, che si muovono
sulla base delle prescrizioni prima e seconda, è sufficiente a generare sempre esiti
positivi. In altre parole, la seconda idealizzazione è il paradigma della mano
invisibile.
Se
si richiede la ragione per la quale le due prescrizioni devono essere tenute
per valide, si incontrano sempre versioni delle due idealizzazioni, in una
delle varie forme in cui si presentano.
Pippo Rizzo, "Treno notturno in corsa", 1926 |
Le prime due definiscono uno spazio assiologico specifico e le seconde hanno un carattere idealizzante teologico, ovvero introducono visioni specifiche del funzionamento dei rapporti intersoggettivi. Il quadro concettuale liberale, bisogna sottolineare, non emerge come frutto di una riflessione organica, ma prende forma come collazione di argomenti di solidità dubbia, ma efficaci sul piano della tensione politica e coerenti con lo sviluppo delle forze produttive e dei rapporti sociali, nonché istituzionali e politici. Essenzialmente si afferma, in altre parole, per la sua capacità di abbattere, contestare o criticare un regime già esistente, quindi per il suo carattere negativo. Infatti, rifarsi a un ‘diritto di natura’, nelle condizioni storiche del tempo (XVI-XVII secolo), permette di delegittimare e di indebolire la sovranità regale, creando un set di giustificazioni opportunamente separate dalla tradizione. Un insieme di ragioni il cui basso contenuto veritativo e la scarsa fondazione delle premesse emerge solo ogni qual volta diventa concreto, mentre è efficacissimo e potente come arma polemica. È solo il successo finale, in ogni ambito della vita, della “Ragione liberale” che ne determina e rende visibili le disfunzioni. Tutte queste incrinature di cui parla il libro sono presenti sin dall’inizio, ma iniziano a manifestarsi solo a partire dalla seconda metà del diciannovesimo secolo fino alla Prima guerra mondiale. Quindi si manifestano pienamente solo nel mondo contemporaneo. Naturalmente si tratta di linee di tendenza lunghe e variamente denunciate, nella letteratura sociologica, ad esempio, già la sociologia classica (da Weber[1] a Durkheim e Mauss[2]) denuncia l’erosione della coesione sociale, nello stesso momento in cui si afferma la fredda “razionalità allo scopo”. Nello stesso contesto del welfarismo imperante assistiamo all’emergere poi, da una parte, di quella che Onofrio Romano, in un bel libro chiama “una sensazione di soffocamento e disseccamento nella clausura dorata dello Stato del benessere [che] attanaglia il corpo sociale. [e] Questo nodo costituisce il comune terreno di critica su cui si trovano i neoliberali e i radicali di sinistra”[3], dall’altra si assiste agli esiti sistemici di un processo di erosione egemonica e incrudimento delle dinamiche competitive alla scala del sistema-mondo (o, meglio, delle interazioni tra il sistema-mondo occidentale, quello orientale socialista e gli emergenti[4]) che confluiscono in quello che James O’Connor, in un influente libro, chiamò “La crisi fiscale dello Stato”[5]. La drammatica crisi antropologica, segnale di quella che si ripresenterà dopo la parentesi anestetizzante degli anni novanta (un intermezzo nel quale sembrò che la crisi egemonica, al contempo economica e strategica, dell’occidente fosse superata a vantaggio delle sue élite e classi medie), fu diagnosticata tempestivamente da autori come Christopher Lasch[6], Cornelius Castoridias[7], Daniel Bell, Ronald Inghehart[8], Antonhy Giddens[9], se pure con colori e direzioni politiche diverse (negli ultimi due salutando l’era “postmaterialista”). Si possono ricordare anche Talscott Parsons, con il suo complesso ‘struttural-funzionalismo’[10] e Robert Merton, che descrive un funzionalismo senza struttura, o la ‘teoria dei sistemi’ di Niklas Luhman. Potrebbero essere citati, nella storia delle scienze, anche gli indebolimenti prodotti da Heisenberg, Einstein, e tanti altri. Da questa enorme costellazione di stimoli emerge, con differenze anche significative tra la versione anglosassone e quella continentale, la soluzione neoliberale[11] di cui vediamo in questi ultimi anni l’indebolimento[12]. Subentra una repentina “crisi da orizzontalismo”, analoga a quella mostratasi nel 1929. Il modello ha infatti prodotto, e lasciato accumulare come la cenere sotto un camino, una proliferazione della finanza speculativa ed altamente inefficiente in termini di sistema, una crescita alla lunga insostenibile di ineguaglianze che scavano sotto i bastioni del consenso e producono un’enorme quantità di disattivazione esistenziale e rabbia. Di cui è motore ed effetto al tempo l’assottigliamento, sempre più visibile, della classe media[13].
Di
qui il testo finisce per concentrarsi su alcuni centri logici della
costellazione di pensiero e di prassi liberale. Punti nei quali, per componenti
crescenti della società, la “frizione” tra le promesse di liberazione
individuale e scatenamento del desiderio (in uno sperato mondo dell’abbondanza sotto
la tutela della “Ragione liberale” fattasi ideologia), e la realtà della
continua crescita delle ineguaglianze più feroci e dello sfruttamento più
selvaggio si fa sempre più manifesta. Quel che accade si potrebbe descrivere in
questo modo: mentre la società si fraziona per strati funzionali e geografici
tra chi può accedere alle risorse di capitale, ed ai relativi gradi di
interconnessione, e chi resta abbandonato e sconnesso, i connessi “sovraestendono”
le risorse ideologiche della “Ragione liberale” per inibire sul piano
culturale, e respingere sul piano politico-organizzativo l’insorgenza
potenziale dei marginali. Non è un caso che, man mano la crisi morde (alcuni),
i toni (di altri) si facciano sempre più striduli e la danza totemica più
frenetica. Né lo è che qualunque
“vittima” sia sacralizzata, purché non sia economica, non sia un
abitante delle periferie reali, materiali, e lo sia solo delle periferie
mentali e “post-materiali”.
Questa
‘sovraestensione’ è lo sfondo sulla base del quale Zhok, nel 2020, sente
l’urgenza di scrivere questo importante libro. Si tratta della risposta che
strati sociali minoritari (ma non trascurabili quantitativamente) che si
sentono superiori esprimono verso la sfida esistenziale portata dai “paria”. La
superiorità percepita si esplica nella dotazione di ‘capitale culturale’, ‘relazioni
sociali’, disponibilità di ‘capitale spaziale’[14], accesso a ‘risorse
simboliche’ e ad ‘attività dinamiche’ che restituiscono prospettive
esistenziali (se pure, per molti illusorie) e, non ultimo ma non
necessariamente, ‘capitale economico’ fisso o mobile. Si tratta di una
differenza di status non necessariamente di censo. Proprio il rischio che il
censo declinante impedisca la conservazione dello status (autopercepito e
riconosciuto tra pari) sottende alle danze totemiche più frenetiche.
Naturalmente la sfida è portata, a questa ‘compagnia di danza’, solo dai veri
“paria”, non certo dagli oggetti sacrificali (‘resi sacri’) scelti da individui
“desideranti” che, interpretando lo spirito del tempo ed in coerenza con
questo, fanno leva sui “capitali” detenuti per sottrarsi a regole e solidarietà
percepiti come soffocanti. Scelti precisamente per la loro capacità di attivare
un rito la cui principale funzione è l’autolegittimazione degli
officianti.
Possiamo
riassumere lo sfondo in questo modo. Le disastrose tensioni introdotte dalla “Ragione
liberale” e dal suo braccio armato neoliberale nella struttura sociale e
nelle personalità socialmente confermate, dopo la ‘felice’ pausa degli anni Novanta
(nei quali permanevano comunque sufficienti strutture welfaristiche e strutture
di senso per controbilanciare l’acido dissolutore che le stava intaccando), nel
primo decennio del nuovo millennio giungono ad una rottura. Nel secondo
decennio, quindi, il caos sistemico ha preso il sopravvento, le potenze
politico-militari e i sistemi d’ordine che lo trattenevano hanno perso influenza.
La fragilità finanziaria si è resa manifesta, l’assurdità delle regole scritte
per tempi diversi è emersa fragorosamente, altri centri d’ordine sono emersi.
Dentro lo stomaco delle ex ricche società occidentali il gemito dei troppi
esclusi si è fatto continuo ed insopportabile, elezione dopo elezione. Il
triplice colpo della Brexit, venuto dopo la lezione greca (e quella Irlandese),
dell’elezione di Trump, delle tornate “antisistemiche”, ha evocato a questo
punto il fantasma del “populismo”.
Ora,
dopo due decenni così interessanti, in questo avvio del terzo decennio,
apparentemente di pausa e riflusso, si gioca il destino a medio termine del
mondo. L’ossessione della crescita fondata sulle esportazioni, in un mondo
nel quale la cosiddetta mondializzazione ripiega per “grandi spazi”[15] (e la finanza è attaccata
alla tenda a ossigeno delle Banche Centrali), davanti la sfida strategica della
potenza cinese e del network in formazione intorno ad essa (Russia, in primo
luogo, poi Iran, Venezuela, Pakistan, Siria, Nepal) non è più credibile e
sostenibile per tutti. Bisognerà che qualcuno sia salvato e altri
condannati siano essi territori, settori, individui. Tutto sta giungendo al suo
limite.
Stava
già accadendo, ma l’intero sistema di tensioni strutturali ha visto cadere il
‘cigno nero’ della pandemia come un maglio. Il libro cade esattamente un attimo
prima di questo evento.
Capita
così una congiuntura particolare: si divaricano ancora le condizioni che
determinano un “momento Polanyi”[16] sull’occidente, ma, al
contempo, rifluisce nettamente il “momento populista”[17]. Nel decennio trascorso
questo aveva preso una forma specifica. Si era presentato come chiusura
nazionalistica, ricerca di purezza identitaria (se non etnica), una sorta di
ostentato plebeismo, vitalismo, protezionismo. Ma non bisogna ingannarsi, a
questo servono libri preziosi come questo. In tutte le forme di “populismo”
(sia “di destra”, egemonico, sia di “sinistra”, poco più che abbozzato) erano
comuni alcune caratteristiche, proprie della lunga fase neoliberale e della sua
conseguente disgregazione sociale. Caratteristiche nella quale affondano le
radici le ragioni ultime della rivolta. Si trattava, in altre parole, di un
adattamento, con fortissimi elementi di continuità, allo spirito del tempo
neoliberale (ovvero, alla “Ragione liberale” che Zhok qui descrive) dal quale
molti si sentivano traditi pur senza essere in grado di pensare
altro. Una reazione che si nutriva ambiguamente dello stesso veleno[18] che genera il “momento Polanyi”, ovvero
della disgregazione e iperindividualismo. Ma se ne nutriva in larga misura
inconsapevolmente, quindi senza essere in grado di dosarlo in modo da farlo
divenire farmaco.
Si
è, dunque, ora in un momento di stallo. Coloro i quali restano profondamente
connessi alla “Ragione liberale” e, al contempo, sono (o sperano e sentono di
essere) ancora connessi alla sua promessa di futuro, rispondono alla sfida “sovraestendendo”
i suoi concetti per respingere “i barbari” che si erano spinti fino alle porte.
Coloro che si sentono scacciati, ma sono altrettanto connessi alla “Ragione
liberale” (che è, alla fine, la “Ragione” del mondo), rispondono con rabbia, ma
senza una vera direzione strategica. Tra la danza rituale e la sostituzione
sacrificale dei primi e la cieca rabbia dei secondi si allarga un insuperabile
fossato.
Il
vecchio appare sempre più morto, ma il nuovo non può nascere.
Perché
si apra la possibilità della nascita bisogna, prima, sgombrare le macerie. A
questo serve il libro del quale, ora, finalmente, leggeremo la terza parte.
La
seconda si era chiusa con la descrizione della cultura postmoderna, la terza si
apre con la superficie visibile, in un certo senso, dei “regimi della Ragione
liberale”. Sulla base dell’obiettivismo naturalistico e della svolta
postmoderna avviene (per ragioni di complessa costituzione, come vedremo) il
rifugio nel diritto naturale soggettivo e quindi nella logica
“rivendicazionista” dei “Diritti Umani”. Di qui procedono spinte alla
disgregazione sociale (Zhok parla di “liquefazione”) di cui sono immagine anche
apparentemente insospettabili dinamiche rivendicative come il femminismo di
seconda (e successive) generazione e la danza frenetica del “politicamente
corretto”.
Diritti
Umani
Alcune
tappe simboliche del processo di formazione del costrutto politico e giuridico
dei “Diritti Umani” sono: il 1948, cioè la Dichiarazione universale dei
diritti umani; il 1968, con l’imporsi della piattaforma rivendicativa
fondata sulle esigenze di realizzazione dell'individuo; e l’89 o il ’91, quando
il crollo del muro di Berlino e dell'URSS eliminano il contendente dell’unico
egemone rimasto. Nel testo è presente un’interessantissima descrizione del tema
dei diritti dell'uomo, passaggio teorico fondamentale che viene promosso nel ‘48
con la Dichiarazione universale dei diritti umani promossa dall’ONU, e per esso
dagli Stati Uniti, e che si rifà, da una parte, alla Dichiarazione di indipendenza
americana del 1776, dall’altra alla Dichiarazione dei diritti dell'uomo
del cittadino francese del 1789. C’è, però, una importante differenza tra i
due antecedenti. La Dichiarazione americana non è una carta dei diritti e il
testo è dedicato prevalentemente a motivare le ragioni dell'indipendenza dalla
corona britannica, e gli argomenti sui diritti dell'uomo sono inseriti solo come
cappello retorico introduttivo e chiave di una legittimazione che si pretende
estranea alla fedeltà al re[19]. Si può dire che il
famoso preambolo per il quale tutti gli uomini sono creati uguali, cioè dotati
di inalienabili diritti, tra cui la vita, la libertà e il perseguimento
della felicità, serve, in tutte le Dichiarazioni di questo periodo ad affermare
che i governi sono istituiti per garantire questi diritti, e quindi sia
diretta ad affermare che il fondamento della vita sociale non deriva dal re,
non deriva dalla tradizione, ma deriva da Dio per come viene interpretato nel
testo. Compiendo questo rovesciamento del canone fondativo si esprime con la
massima chiarezza, e si pone al centro della scena, una mossa emancipativa di
primario valore. Ma i contenuti e fondamenti dei diritti inalienabili, su cui
si basa quella mossa, sono ridotti al contempo ai minimi termini; non è il caso
di ricordare che in tutti gli uomini non erano incluse né le donne né,
tantomeno, gli schiavi. Del resto, quando dieci anni dopo viene approvata la Costituzione
americana non ci sono in essa Dichiarazioni dei diritti. Queste vengono
aggiunte ancora dopo nel 1789 e nel ‘91, anche sulla scorta della Rivoluzione
francese, in forma di emendamenti alla Costituzione, e in esse si parla di
diritti civili interni alla nazione americana.
Invece
la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789 francese
ha una caratterizzazione dei diritti dell'uomo molto particolare. Ci si appella
qui a diritti naturali inalienabili e sacri dell'uomo, cioè ad una
dimensione universalistica astorica; però, già dal terzo articolo, la Dichiarazione
prende una piega storicamente determinata, eminentemente politica, e la libertà
individuale viene limitata dalle leggi “espressione della volontà generale”, quindi
giustificate dal bene della società verso le quali la resistenza del cittadino è
giudicata inammissibile. Dunque, il protagonista della Dichiarazione del 1789 è
la legge civile, definita dalla Nazione, all'interno della quale il
cittadino trova il suo spazio di libertà. L'intera Dichiarazione si rivolge al
cittadino.
Centocinquanta
anni dopo, la Dichiarazione del 1948 è diversa. Per la prima volta l'idea di un
“Diritto naturale” che appartiene individualmente a ciascun membro della
specie umana è effettivamente articolato. Ci si trova di fronte a un
tentativo di creare un corpus di diritti nel senso comune del diritto legale
che però, diversamente dai codici delle leggi finora conosciute, non dipende
da alcun organismo politico. È chiaro che una delle spinte decisive per
scrivere questo documento consisteva nel desiderio di trovare un modo per
condannare i criminali nazisti che non facesse riferimento alla legge tedesca. Peraltro,
atrocità come l'olocausto non sarebbero risultate legali neppure secondo la
legislazione razzista del Terzo Reich, ma di fronte a ciò che si presentava
come male assoluto e avendo vinto la guerra emergeva con potenza, da
entrambe le parti vincitrici, la necessità di trovare un punto di vista
superiore astorico che non concedesse alcun terreno di legittimità la
legislazione nazista. In questa ottica, storicamente data, l'idea di diritto
umano con i suoi antecedenti storici si sposava perfettamente a questa funzione.
Naturalmente a questa esigenza storica si univa la tendenza e la cultura
individualista e antitradizionalista americana.
Ma
nelle fasi preparatorie emersero subito notevoli difficoltà. Nell'inquadrare
dal punto di vista etico e filosofico il testo, ad esempio, l'Associazione Antropologica
Americana mosse critiche molto severe alla possibilità stessa di
concepire qualcosa come una ‘dottrina universale dei diritti umani’. Gli
antropologi osservarono come fosse impensabile considerare come base di
partenza dell'analisi un individuo desocializzato. Ciascun individuo si
determina sempre ed inevitabilmente come parte di un gruppo sociale, con una
forma di vita sanzionata nei modelli il comportamento. In questa prospettiva
una Dichiarazione che pretendesse di applicarsi a tutti i singoli esseri umani,
prescindendo dalle appartenenze culturali (e quindi in effetti prescindendo
dalle particolarità dello sviluppo della cultura nazista in Germania) rischiava
di essere implicitamente imperialista. Come sostenne l'Associazione “e rischia
di diventare un’affermazione di diritti concepiti solo nei termini dei valori
prevalenti nei paesi dell’Europa occidentale e dell’America”[20]. In sostanza si rischiava
di ripetere la mossa del “fardello dell'uomo bianco” che aveva alimentato il
colonialismo. Queste ragionevoli considerazioni vennero semplicemente ignorate.
In
effetti il progetto non era affatto descrittivo, nessuno pensava che i “diritti
umani” fossero una sostanza data, ma espressamente normativo, tutti la
ritenevano un’opportuna norma da porre. Secondo le parole di René Casin “poggiava
su un atto di fede in un domani migliore”. È ovvio che sul piano logico l'idea
che potesse esistere qualcosa come un “diritto di natura” è un esempio
sfacciato di fallacia naturalistica che trasforma una presunta
naturalità in norma. In natura noi possiamo trovare fatti, ma i valori
implicano delle norme. Non le implicano ‘naturalmente’ e senza il passaggio
della scelta politica e, quindi, della contingenza storica.
Nell'articolo
tre della Dichiarazione troviamo scritto che “ogni individuo ha diritto alla
vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona”. Tutti possiamo
leggerla come una considerazione condivisibile: chi potrebbe mai desiderare che
gli sia tolta la vita o la libertà. Chi potrebbe mai desiderare di vivere
nell'insicurezza. Ma da questi valori ragionevoli non scaturisce alcuna
norma. Il fatto che un individuo abbia diritto alla libertà significherebbe
che la sua libertà non può mai essere vincolata. Ma evidentemente esistono
leggi, carceri, punizioni per i casi nei quali la libertà distrugge il vivere
comune e civile. La questione è, piuttosto, sempre quanta libertà e sotto
quali condizioni. La questione è quella posta dalla Costituzione francese.
Ma se ammettiamo che la libertà di cui si tratta è quella consentita dal
diritto positivo dei vari Stati, allora la Dichiarazione è totalmente vuota. Se,
viceversa, non facciamo riferimento a nessuna registrazione reale non si sa di
che cosa si sta parlando. Peraltro, nella stessa frase è dichiarato, oltre al
diritto alla libertà, anche quello alla sicurezza. Dunque, si pone il problema
di quanta sicurezza e del conflitto tra la sicurezza di uno e la libertà
dell’altro (ad esempio, di costringerlo a lavorare, di rendere insicura la sua
vita, per es. aumentando la “flessibilità” e “precarietà”, per ridurne la forza
negoziale).
Il
tema è sempre, in altre parole, come limitare la libertà o quanta
libertà può limitare la sicurezza. Norberto Bobbio osservava che i “diritti
naturali” non sono “diritti”, ma al massimo “esigenze” che poi devono essere
fatte valere negli ordinamenti normativi positivi. La cosa è particolarmente
evidente appena ci si accosta al gruppo dei “Diritti umani” di contenuto
sociale (articoli da 22 a 27), qui la situazione è davvero paradossale. Si
tratta infatti di “diritti” inseriti inizialmente sotto la pressione dell'Unione
Sovietica (la quale comunque si astenne dalla votazione finale). Di norma
quando si levano gli scudi per denunciare le violazioni dei “Diritti umani”
questi sono sistematicamente ignorati, perché sono ininterrottamente violati
ovunque dal ‘48 a oggi. Il fatto è che per essi ogni individuo ha il “diritto
umano” al lavoro, o alla “protezione contro la disoccupazione”, o, ancora, ad “una
rimunerazione equa e soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua
famiglia un’esistenza conforme alla dignità umana” (art. 23). Oppure ha diritto
a “ferie periodiche retribuite” (art. 24). Si tratta evidentemente di un libro
dei sogni che conta violazioni innumerevoli anche nei paesi più benestanti.
Anzi che è sistematicamente violato, disapplicato e distrutto tanto più quanto
più il liberalismo e la sua forma pura neoliberale si afferma.
Ma
questi “Diritti” hanno anche un contenuto che Zhok non esita a definire traviante.
In sostanza stabiliscono il principio dell'esistenza di istanze individuali che
possono legittimamente abbattere ogni altra considerazione, cioè che agiscono
come assi di briscola. Che possono travolgere l’interesse collettivo, ogni
sovranità nazionale, e vanno sopra e al di là di ogni consenso. In effetti sono
stati espressamente preordinati come arma per andare al di là del consenso nel
caso storico dato nazista. Tuttavia, essi riescono ad andare anche oltre le
forme di consenso democratico. Se il discorso pubblico assume come dati, e rielabora
non criticamente, la validità dei “diritti umani” e se i titolari più
autorevoli se ne fanno carico sul piano operativo, la cosa diventa una potentissima
arma ideologica. Una cosa che inizia a prendere forma durante la guerra fredda
come arma contro un altro consenso (tramite la sistematica denuncia della
violazione dei “diritti umani” da parte degli Stati Uniti a sostegno etico e
legittimazione delle proprie iniziative sia contro l'Unione Sovietica e contro
la Repubblica Popolare Cinese ed i loro alleati) e da allora viene usata, senza
soluzione di continuità, contro chiunque si elevi ad ostacolare il dominio
imperiale statunitense.
In
effetti, già l’idea in sé dei “diritti umani” può essere accusata di
individualismo metodologico il quale è, esso stesso, alla base della microfondazione
della teoria economica. I diritti sono immaginati come inerenti all'individuo
naturale, cioè a un individuo astratto astorico, aculturale e dunque sono
utilizzabili come marcatore e punto di riferimento del giudizio sulle azioni e
sulle dinamiche collettive. Il dispositivo dei “diritti umani” crea, cioè, un decisivo
passaggio teorico in cui richieste individuali che non fanno per sé stesse
riferimento a nessun organismo sociale dato (o contesto culturale noto)
e che finora nessuno ha riconosciuto possono essere poste come eticamente
fondanti ed esistenti in natura e restare lì, in attesa che qualcuno ad un certo
punto se ne faccia carico. Magari in appoggio alle sue istanze politico-strategiche.
Questa
visione è costituzionalmente irrazionalista, in quanto pone come eticamente
fondanti esigenze che, per definizione, non hanno bisogno del criterio
epistemico più fondamentale e sul quale c'è ampio consenso: cioè l'accordo
intersoggettivo. Inoltre, è una lista aperta alla quale si può
sempre aggiungere qualcosa. Negli ultimi anni si è aggiunto il “diritto alla pace”,
il quale è tuttavia sistematicamente violato, ma sempre dal più forte; il “diritto
alla sessualità”; il “diritto all'informazione”; il “diritto all'acqua”, eccetera.
Da ora anche il “diritto alla scelta del genere”. In sostanza, dice Andrea Zhok,
ciò che sta succedendo qui è che l'idea di diritto sul piano fondazionale sta
diventando indistinguibile da un semplice desiderio. Il dispositivo
teorico dei “diritti umani”, essendo fondato internamente su un invisibile
individualismo metodologico, delegittima necessariamente gli ordinamenti
sociali come sorgente di diritto e accredita, al loro posto, il desiderio
individuale come fonte di diritto.
Questo
è il passaggio cruciale.
Nel
momento in cui si fa posto all'idea che le propensioni o i desideri
personali siano fonte primaria di diritto si crea un particolare sfondo. A
questo punto il desiderio personale è legittimato a imporre obblighi a terzi.
Naturalmente non il desiderio del singolo individuo, perché ciò collasserebbe
immediatamente nella guerra di tutti contro tutti hobbesiana; ciò che accade è che,
piuttosto, la forma privilegiata per l'ottenimento di norme sociali diventa
la rivendicazione.
Cioè,
la forma privilegiata diventa il contenzioso, la sfida aggressiva che si
appella contro un potere estraneo per avere ragione. Questa metamorfosi della
sfera normativa è di primissima rilevanza. Come ricorda Zhok, in tutta la
storia umana la fonte primaria della normatività sociale è sempre stata, al
contrario, la concordia pratica; ovvero la capacità di certe aspettative
di far funzionare un gruppo sociale.
L'obiettivo
implicito è sempre stato poter creare società, dunque la norma è sempre
stata incarnata in costumi prevalenti, in tradizioni, in regole sia tacite come
scritte. A sua volta la legge scritta serviva a discernere i casi dubbi,
districare le situazioni ambigue. Determinava, e si determinava, come fonte
normativa di assemblee dei magistrati o del sovrano. Nel diritto moderno gli
usi e costumi o la normatività sociale viene tacitata e retrocessa sullo sfondo,
venendo in primo piano le fonti costituzionali e la creazione corrente di norme
positive, in quanto si assume che il diritto scritto abbia già assorbito nel
tempo quella originaria base informale e la includa in una forma
particolarmente sorvegliata, precisa e razionalizzata. Ma il funzionamento di
ogni regola e di ogni legge presuppone necessariamente la condivisione di abiti
collettivi, di usi, di pratiche sociali, che rendono la norma intelligibile. Se
si distacca eccessivamente da questi tende a rimanere sulla carta. Secondo
quanto sostiene invece Zhok “il ‘rivendicazionismo’ implicito del
paradigma dei ‘diritti umani’ capovolge radicalmente il senso della normatività
sociale, pretendendo che i desideri soggettivi si impongano ai costumi
consolidati, anzi, appellandosi spesso proprio all’esigenza di opporsi al
costume consolidato, che in quanto ‘tradizionale’ e ‘collettivo’ porterebbe con
sé uno stigma, un sospetto di irrazionalità ed oppressione. In quest'ottica il,
‘diritto umano’, invece di assumere come il diritto positivo ed ordinare una
funzione regolatrice pacificatrice, tende a rappresentare il grido di battaglia
di rivendicazioni sempre nuove, cioè di richieste che qualcun altro si adegui
alle mie esigenze”[21]. Ciò accade perché ad
ogni diritto di qualcuno corrisponde sempre il dovere di qualcun altro. La
crescita di alcuni diritti implica sempre la dislocazione di comportamenti
altrui e la limitazione di libertà altrui. Ovvero la contribuzione altrui
all'implementazione di un certo diritto.
Ne
scaturisce una conseguenza paradossale: ogni società infarcita di ‘diritti
soggettivi’ è anche una società con elevatissimi tassi di repressione, coazione
e sorveglianza. Ne deriva una società disciplinare, dove la possibilità di
violare qualche diritto altrui è un fantasma ossessivo sempre presente. Inoltre,
produce un’illimitata tendenza al contenzioso all'aggressione di tutti contro
tutti. Se, infatti, le ragioni non sono frutto delle mediazioni, ma devono
emergere contro altri e il mondo è concepito con un mondo di estranei,
ciò che si afferma è sostanzialmente il principio liberale dell'interazione
competitiva. Della sfida per ottenere quanto più possibile a scapito della
controparte. In altre parole, “ciò che sul mercato e la competizione per il
massimo vantaggio economico, sul piano normativo diviene la lotta per
rivendicare il massimo riconoscimento dei propri desideri”[22]. Tutto ciò milita per la
sacralizzazione delle inclinazioni, opinioni, desideri personali, che esige
semplicemente di trovare qualcuno che ti dia ragione e ti attribuisca i mezzi.
Inoltre,
e anche qui paradossalmente, il “paradigma rivendicazionista” dei “diritti
umani”, nella generale conflittualità sociale e litigiosità produce depoliticizzazione
e forme di intolleranza diffusa perché è espressione della vittoria di un
desiderio armato, cioè organizzato, potentemente finanziato, e riapre le
porte al diritto del più forte. Sia esso la forza di uno studio legale, di
uno stato potente, di una lobby organizzata, questa forma di diritto inventata
con l'imporsi del modello dei diritti umani soggettivi è una forma fluida
contendibile, reinventabile, capace di superare tutte le barriere di consenso
pubblico di sovranità nazionale o di legittimazione democratica. Dunque, ‘l'individualismo
metodologico’, ‘il rivendicazionismo’ e la manipolabilità che caratterizzano il
paradigma dei diritti umani non sono errori contingenti. Sono
espressione, nella cornice intellettuale che sta venendo alla luce, di un’impostazione
aliena alla fondazione democratica e parte di una dimensione sovranazionale
dove i diritti sono definiti da chi li implementa di fatto. In questo modo la
libertà si traduce in arbitrio, ovvero viene esercitata senza appellarsi ad
alcuna dimensione razionale normativa e valoriale comune che ne circoscriva e
definisca la portata, ma viene letta come “poter fare quel che si vuole perché
lo si vuole”.
Ma
in questo modo la libertà negativa inizia a divorare sé stessa. Questo
processo involutivo mostra delle similitudini anche con fenomeni come il
femminismo della ‘seconda generazione’.
Femminismo
La
problematica femminista nel dopoguerra[23] è connessa in modo
piuttosto intimo con l'emergere di questa forma di ‘rivendicazionismo’ dei
diritti. Tuttavia, essa opera non su uno qualsiasi dei molti temi sociali ma sul
più fondativo e sul più radicale. Quello da cui è sempre dipesa, cioè, la
divisione e il rapporto tra i sessi e dunque la sopravvivenza di ciascuna
società. La specie umana è, infatti, quella in cui la riproduzione e
l'allevamento della prole impegnano di gran lunga il maggiore investimento di tempo
e di risorse rispetto a qualunque altra specie. La specie umana si caratterizza
per una gravidanza prolungata, per un parto di norma singolo, e per una lunga
cura dopo la nascita. In altre parole, per un esteso addestramento sociale. Sono
queste componenti strutturali che portano in luce le specificità, le
potenzialità ed i vantaggi evolutivi che ci caratterizzano rispetto al resto
del regno animale. In particolare, le caratteristiche vincenti di adattabilità e
ubiquità. Ne deriva che la specie umana dispone di una complementarità
funzionale davvero molto pronunciata tra i sessi. Una complementarità che si
può ricostruire già a partire dalle prime “società” note, quella cosiddetta dei
“cacciatori raccoglitori” (che poi, in effetti, include la gran parte della
storia nota dell'umanità). In queste società, dominanti fino alla soglia
dell'età moderna in gran parte del pianeta, si può dire che la caccia fosse
un'attività a trazione maschile, che implicava mobilità sul territorio, mentre
le raccolte implicavano meno forza e resistenza ed erano attività a trazione
femminile[24].
Ciò perché, come ricorda Zhok, la prole per lungo tempo ha bisogno di sostegno e
sorveglianza, cura, e qualcuno deve prestarla. All'origine di questa divisione,
secondo la ricostruzione che ne fa Andrea, ci sono quindi due caratteristiche
naturali: la prima è il dimorfismo sessuale che caratterizza la specie, per cui
nell'uomo tendenzialmente l'esemplare maschile a una maggiore massa muscolare;
la seconda caratteristica è l’asimmetria nella facoltà riproduttiva, per cui
essendo la specie umana mammifera la gravidanza e l’allattamento sono
esclusivamente femminili.
Tuttavia,
ciò non implica, di per sé, gerarchia[25].
Molto
spesso i gruppi di cacciatori raccoglitori manifestano un elevato livello di
uguaglianza se si vanno ad analizzare la dignità, il potere decisionale, tra i
soggetti maschili e soggetti femminili. Piuttosto che ‘dominio’ si dovrebbe qui
parlare di ‘complementarità funzionale’. Una complementarità che esprime una co-essenzialità.
Entrambi i sessi producono e sono indispensabili alla sopravvivenza del gruppo.
Come si legge in un testo specificamente dedicato al tema, nella sua prima
parte, di Emmanuel Todd[26], la situazione è
altamente differenziata nelle diverse epoche e territori, tuttavia la scena
originaria si può riassumere come struttura familiare nucleare (una coppia e i
loro figli e figlie), con sistema parentale bilaterale, matrimonio esogamico,
possibilità di divorzio, talvolta forme di poliginia o poliandria, elevato status
della donna. Questa organizzazione è fluida e poco strutturata, abbastanza
indifferente verso le pratiche omosessuali (assoluta in caso di quella
femminile), poche fobie.
Quando
questa forma sociale, molto gradualmente, viene sostituita dalle società
agricole stanziali ed emergono organizzazioni anche vaste, a partire dall'età
del bronzo, compaiono forme gerarchiche e maggiori differenziazione nelle forme
organizzative familiari. Quella distinzione tra ‘interno’ ed ‘esterno’, per la
quale il femminile aveva competenza sull’interno, quindi sostanzialmente sulla
famiglia e sui rapporti intrafamiliari, e il maschile invece si occupava dei
rapporti esterni, della caccia della guerra, man mano che si estendono le
dimensioni dei gruppi sociali si struttura e si muta in una distinzione ‘privato’
verso ‘pubblico’. Anche qui, per lo più, la donna ha il controllo e la competenza
nella sfera privata mentre l'uomo in quella pubblica. Ma la ‘sfera pubblica’
subisce una notevole estensione. In questa descrizione semplificata per
funzione e ruolo sessuale andrebbe inserita una distinzione che si crea (o
consolida) in questa forma sociale e che riguarda la forza gerarchica del
gruppo familiare in questione nel suo complesso. Per cui ai livelli più bassi (‘subalterni’)
si tende al lavoro di tutti, in parte anche all'esterno, e ai livelli più alti (‘dominanti’,
o ‘aristocratici’) si tende invece a una partizione più tipica. Osservando la
cosa dal punto di vista dei ceti alti che poi è quello ovviamente più noto, per
effetto del tramandarsi delle fonti storiche, e al quale implicitamente la
ricostruzione di Zhok fa riferimento, nella sfera pubblica nasce il potere. È
del tutto evidente che questo potere, infatti, non coinvolge gli schiavi e/o
vari ‘paria’. Si tratta del potere legale, del potere politico, creato nel
luogo in cui vengono fatte e modificate le leggi scritte, in cui si consolidano
le istituzioni, che via via si fa sempre più complesso ed esteso e che
essenzialmente è definito nell'ambito extrafamiliare che, a questo punto, si
configura essenzialmente come sfera di competenza maschile (maschile e
nobiliare).
Questo
è l’ambito di cui abbiamo ufficialmente storia, appunto l’ambito del quale la
storia scritta nella sfera pubblica ci riconduce notizia. E noi abbiamo notizia
scritta sempre di figure maschili che si stagliano con nettissima prevalenza
rispetto alle figure femminili proprio a partire da questa arcaica divisione
del lavoro. Abbiamo, naturalmente, anche notizia sempre di figure maschili
dominanti (con qualche significativa eccezione nelle società più “femministe”,
come, ad esempio, l’antico Egitto, o l’età ellenistica nella quale si afferma
una relativa equivalenza tra uomini e donne[27]). Intendere questa asimmetria
dei ruoli nel potere pubblico, nelle classi dominanti in particolare, come “oppressione”
delle donne nelle medesime classi è un evidente anacronismo storico. In quanto
proietta il nostro moderno, e contemporaneo, senso di giustizia, strettamente
legato alle idee di parità e di uguaglianza nella versione che ci viene
tramandata dalla tradizione liberale, su un passato semplificato e idealizzato.
Idealizzato perché, ad esempio, trascura che i rapporti gerarchici
“patrilineari” non sono uniformemente presenti nel mondo antico, e non lo sono
stati sempre. Ad esempio, Sahra Pomeroy ricorda[28] che durante l’età
ellenistica la situazione delle donne migliora sensibilmente, e l’educazione
delle ragazze inizia ad essere di interesse per le famiglie. Nell’Egitto dei
Tolomei, partendo da una tradizione molto più paritaria, la cosa è ancora più
pronunciata. Ma anche nel mondo romano, nel quale, pur in un contesto
patrilineare e fortemente militarista, in epoca tardo repubblicano e imperiale
la situazione migliora, fino ad arrivare alla piena parità legale nel diritto
ereditario con il codice Giustiniano (533 d.c.). Comunque sia, pur con
significative eccezioni, l’insieme del mondo antico è dominato da assetti
‘patrilineari’ (di tipo “stipite” o “comunitari”[29]), come evoluzione da una
forma arcaica meno strutturata. Anche nei casi più gerarchici e lontani dalla
nostra sensibilità bisogna ricordare che il nostro ideale di eguaglianza e
libertà è estraneo alla stragrande maggioranza della storia umana fino ai tempi
recentissimi. Piuttosto, la nozione antica di giustizia è espressa dalla
formula latina “unicuique suum tribuere” (attribuire a ciascuno ciò che
gli spetta). E ciò che nel mondo antico e nelle società tradizionali spettava a
ciascuno era precisamente la sua appropriata posizione e il suo compito in una
società che con gli occhi contemporanei, ovvero con i miei propri occhi e con
gli occhi del professore Zhok, è permeata di relazioni gerarchiche da capo a
fondo. Relazioni gerarchiche costituenti la stessa personalità dei membri.
Prima
del diciottesimo secolo ovunque nel mondo la posizione di ciascun individuo era,
infatti, sempre definita in relazione all'armonia sociale complessiva ed alla
sua relazione di subordinazione rispetto a qualcun altro. Ogni individuo era
inserito in un ordine, il quale faceva riferimento ad altri ordini. In questi
modelli di società e nelle personalità che in essi erano nati e si erano
formati, definire un comportamento “giusto” significava ‘stare nel posto’
rappresentato da una rete di doveri di obbedienza e reciproci doveri di cura.
Nella nostra sensibilità contemporanea questa idea è altamente repulsiva;
l'idea di dipendere dalla benevolenza di un superiore è un affronto alla nostra
originaria dignità. Ma nella storia umana questa è stata la condizione normale
di tutti, non specificamente delle donne. Questa caratteristica che noi
leggiamo come “paternalismo” è la nota caratterizzante tutte le etiche
tradizionali a noi giunte perché informate da un modello di società a ciò
ordinato. In una delle civiltà di cui abbiamo più documentazione, quella
romana, per gran parte della sua storia esiste una chiara ed espressa
condizione di subordinazione legale della donna rispetto al padre e al marito,
ma, al contempo, abbiamo ampia testimonianza anche dell’influenza e della
capacità o di farsi valere delle donne. Ovvero, l’inferiorità dello status
pubblico non corrispondeva automaticamente a ‘oppressione’ e ‘sfruttamento’, e,
comunque, non impediva forme compatibili con il quadro dato di “realizzazione
personale”. Il punto è che questa realizzazione non ha la forma del ‘trionfo
individuale’, piuttosto ha quella della ‘buona rappresentazione di ciò che
compete al ruolo’. In questo sistema di concetti e valori ‘una vita ben spesa’ è
una vita nella quale ‘tutto è compiuto secondo il proprio posto’. ‘Diritti’ e ‘doveri’
si bilanciavano secondo il principio di una sorta di “benevola complementarità”.
Difficile, quindi, a priori (e soprattutto senza proiettare i nostri valori) dire
quale fosse la posizione ‘più comoda’, se rispondere ai propri doveri di
gravidanza e cura o a quelli del lavoro e della guerra. Doveri di lavoro che
nelle classi inferiori erano estesi evidentemente a tutti e due i sessi (ma non
quelli della guerra).
Quello
che cambia avviene nella rivoluzione industriale e qui nasce anche il ‘primo
femminismo’. Il suo inizio simbolico viene fatto risalire alla pubblicazione
nel 1792 del libro di Marie Wollstonecraft. In effetti anche sul piano
strettamente funzionale a partire dalla metà del diciottesimo secolo fino al diciannovesimo
secolo diventa via via piuttosto evidente l’insostenibilità del vecchio modello
sociale. Nel 1851 il censimento britannico dimostra che il 30% delle donne tra
i 30 e 40 anni sono nubili, cosa che avrebbe comportato normalmente un alto
rischio di mancanza dei mezzi di sussistenza. Tuttavia ciò dipendeva dal fatto
che molte donne, soprattutto nelle classi popolari (anzi nelle esclusivamente
classi popolari), erano, in effetti, impiegate nel lavoro e quindi a partire
dalla metà del secolo, su pressione di un movimento molto forte e crescente (al
quale parteciparono sia donne che uomini tra le classi alte, si pensi al ruolo
di Harriet Taylor e del suo secondo marito il filosofo John Stuart Mill) si
mise mano, gradualmente, ad una radicale modifica della posizione sociale della
donna in direzione di una parificazione dei diritti formali con l'uomo. Un
processo che implicava l'accesso a tutti i livelli educativi e la parità legale
in tutte le forme il diritto di proprietà, ma poi, successivamente, anche il
diritto di voto e di piena partecipazione politica. Una lotta grandiosa che
occuperà il tempo dal 1906 al 1971 (l'ultimo paese a dare diritto di voto
appena partecipazione politica alle donne fu la Svizzera).
A
cavallo tra la fine degli anni 60 e l'inizio degli anni 70, però, anche il
femminismo subisce una metamorfosi radicale. Nel ‘68 un articolo del New
York Times usa per la prima volta la distinzione tra un ‘femminismo della
prima ondata’, con cui nomina il femminismo tradizionale emancipativo e per il
suffragio che aveva avuto evidente successo nei 150 anni precedenti, e un
femminismo ‘della seconda ondata’. Questa nuova forma di femminismo nasce
nell'atmosfera culturale rappresentata dal ‘68 e sulla base degli esiti delle lotte
del femminismo della ‘prima ondata’ nei paesi occidentali e nella parte
abbiente della popolazione occidentale. Qui l'idea di una parità completa tra
uomo e donna si era ormai affermata, dunque le nuove generazioni avevano
metabolizzato l'idea di uguaglianza tra i sessi e le leggi e costituzioni le
assorbivano. Tra gli anni ‘50 e gli anni ‘60 questo processo si scontra con ritardi
ed arretramenti, ovvero con scorie e normali inerzie. Ci sono aree più
arretrate e ci sono generazioni più anziane, ci sono luoghi dove l'ordinamento
tradizionale dei rapporti continua a opporre una resistenza al cambiamento, ci
sono, anche legalmente, elementi di trattamento asimmetrico residuali da
emendare (per esempio, in Italia l'abolizione dell’attenuante per il diritto
d'onore si trascinerà fino al 1981). Inoltre, è proprio della concorrenza e
dell'aver posto come ordinatore fondamentale della società all'economico che
ogni fattore di debolezza dell’offerente forza lavoro sul mercato venga
sfruttato per abbassarne il valore (e quindi la remunerazione).
Dunque,
si aprono subito due possibilità strutturali, coerenti con il
capitalismo e il suo orientamento all'accumulazione di valore astratto, per
risolvere la asimmetria biologica determinata dall'impegno di cura caricato in
particolare, o in modo asimmetrico, sulle donne: o queste rinunciano alla
procreazione, e si riducono a fornitrici di forza lavoro esattamente analoga a
quella maschile (e, quindi, dal punto di vista del capitalismo hanno pari
valore); oppure la loro parziale indisponibilità ne determina necessariamente
una riduzione del valore. Concretamente solo un intervento di tipo statale, che
sia esterno e prescinda dalle logiche competitive del mercato, può risolvere
questo problema senza costringere a una rinuncia delle funzioni di cura.
Nella
versione radicale della cultura del ’68, di cui si è fatto cenno nella seconda
parte di questa lettura, questi rapporti di complementarità funzionale tra uomo
e donna vengono interpretati però come alias del modello del rapporto
capitalistico tra ‘sfruttati’ e ‘sfruttatori’, peraltro proiettando un canone
storico e contemporaneo sull'intera storia dell'umanità. Tutto il rapporto tra
uomo e donna nell’intera storia della specie umana viene concepito e raccontato,
anche a fini polemici, come il più antico sistema di sfruttamento ‘di classe’
(con notevole abuso di concetto). Uno sfruttamento fondato sulla divisione
sessuale del lavoro che può essere superato soltanto superando questa
divisione. Viene proposta una lettura della storia in cui il ‘potere maschile’
sarebbe stato costantemente esercitato utilizzando strumentalmente istituzioni
come il ‘matrimonio’, l’allevamento dei figli o le pratiche sessuali. Questo
sistema di sfruttamento viene considerato analogo, in alcuni casi sinonimo, del
‘capitalismo’ e godrebbe ancora di grande seguito perché gli sfruttati non avrebbero
preso conoscenza della propria condizione e vi collaborerebbe, sia pure
inconsapevolmente. Dunque, il ‘femminismo della seconda ondata’ predilige una
militanza politica oppositiva, ma anche persuasiva, e, in alcuni casi, tende al
separatismo. Esso diverge in maniera fortissima dal femminismo classico e dalle
sue istanze di uguaglianza e diritti. La ‘seconda ondata’ mira, piuttosto, a un
rovesciamento del potere; addirittura, ad un rovesciamento rivendicativo che
sani tutte le ingiustizie del passato. Cioè il secondo femminismo è mosso da un
ideale rivendicativo che non punta a costruire una nuova unità ed un nuovo
equilibrio, ma punta al riconoscimento di quella che viene definita come una
irriducibile ‘differenza’. È un atto di sfida nei confronti del sesso maschile
che è identificato ora come nemico. Naturalmente questo processo nasce dentro
lo spirito antigerarchico e antiautoritario del tempo e si sintonizza
spontaneamente, con la nuova atmosfera neoliberale che si va imponendo, la
quale è tutta rivolta a cancellare ogni traccia di egalitarismo e ogni senso di
unità sociale. Uno dei punti di attacco è la nozione di “patriarcato”
per il quale, strettamente parlando, si intende che la gestione del potere pubblico
avviene per linea maschile (cosa che non implica automaticamente oppressione
della parte femminile). Ma nel 1970 Kate Millett[30] individua una nuova e
diversa nozione di patriarcato: in esso la subordinazione femminile nella sfera
del potere pubblico è vista automaticamente, e senza bisogno di giustificazione
o dimostrazione argomentativa, come espressione di un sistema di oppressione e sfruttamento
delle donne da parte degli uomini. Ovvero senza porlo come tema o argomentarlo l'interpretazione
presuppone le condizioni del mondo contemporaneo e le sue categorie mentali e
culturali specifiche come sovrastoriche, e le utilizza per interpretare e comprendere
un sistema sociale diverso (peraltro proiettando all'indietro anche i sistemi
moderni di sfruttamento capitalistico). Seppure la Millett riconoscesse i
progressi avvenuti sul piano legale istituzionale dal ‘femminismo la prima
ondata’ lamentava la mancanza dei risultati sul piano della coscienza, degli
abiti mentali. Anche questo elemento è perfettamente coerente con lo spirito
del tempo e la svolta culturalista. In questa nuova accezione essenzialmente il
‘patriarcato’ non indica necessariamente una dimensione ‘strutturale’,
quanto una dimensione ‘culturale’, ‘ideologica’, inerente alla struttura psichica,
la quale doveva essere abbattuta per portare la “rivoluzione sessuale” a
compimento. Siamo, cioè, in perfetta continuità con lo sforzo postmodernista. Anche
il femminismo abbandona da allora la dimensione dell'analisi strutturale
socioeconomica e si concentra sul tentativo di ottenere un rivolgimento
essenzialmente culturale. Uno spostamento ricco di conseguenze perché concorda
con la tendenza soggettivistica del periodo che non disturba più gli assetti
che nel frattempo si stavano trasformando in direzione neoliberale[31], non toccando i processi
economici, e si concentra piuttosto sul fattore di opinione; ma anche perché
sposta la percezione dei rapporti di potere come fattore di natura morale. Lo
sfruttamento diventa espressione di una mentalità maschile e moralmente
deformata, da qui emerge l'idea che la violenza dell'uomo sulla donna è una
forma costitutiva essenziale del ‘patriarcato’. Da questa struttura logica si
avvia quel movimento di sensibilizzazione al tema della violenza sulle donne (che
naturalmente ha tanti meriti però finisce per promuovere anche una visione
unilaterale a tratti paranoica del rapporto tra i sessi).
La
sottovalutazione dei rapporti strutturali, rispetto a quelli culturali, porta
con sé anche una apparentemente paradossale conseguenza, in realtà espressione
specifica della posizione di classe dei denuncianti o meglio delle denuncianti:
creare una cornice sistematicamente accusatoria da parte della cosiddetta ‘classe
femminile’, sfruttata, verso la ‘classe maschile’, sfruttatrice, che oscura
quella che è da sempre, in tutta la storia dell'umanità storicamente nota (ovvero
dall'epoca stanziale in poi) la principale subordinazione (se pure non sempre vissuta
come tale). Le subordinazioni per ceto e quelle per censo sono, infatti, sempre
state quelle dominanti, le principali, più evidenti e più determinanti nella
vita concreta delle persone che hanno attraversato la storia di questo pianeta.
Tutti gli uomini e tutte le donne di ceto e di censo superiore hanno sempre
esercitato, entrambi, un potere su tutte le donne e su tutti gli uomini di ceto
o di censo inferiore (insieme ad obblighi e responsabilità il cui tradimento,
a ben vedere, provocava sempre rivolte). E questa gerarchia di potere è
stata l’elemento biograficamente dominante della vita di miliardi di persone.
Questo è l’enorme fenomeno che viene semplicemente oscurato e diventa
trascurabile dalla scelta della divisione fondamentale ‘politica’ (ovvero tra
l’amico ed il nemico) secondo l'asse maschile/femminile per il quale una principessa
sarebbe per sé stessa oppressa da uno stalliere. E compare in questa
costellazione di concetti e valori l’idea di dover correggere un torto storico,
come se le donne contemporanee fossero eredi dirette di tutte le donne
sfruttate della storia (mentre, evidentemente e se mai, ogni donna vivente è erede
sia degli sfruttatori e sia delle sfruttate volendo definire gli
uni e gli altri secondo il sesso, avendo sempre sia madri come padri). Ma più
specificatamente, ogni donna contemporanea è, più plausibilmente, erede di una
storia di sfruttamento o di dominazione che deriva dal censo della sua
famiglia. Ci sono eredi degli sfruttatori ed eredi degli sfruttati.
Peraltro,
in alcune versioni del pensiero femminista della ‘seconda ondata’ lo stesso
amore romantico è stato visto come un ‘inganno ideologico’, un imbroglio. Alcuni
esiti sono stati, coerentemente, verso il separatismo e la scelta “politica”
dell’omosessualità. Anche questa è una conseguenza logica, seppure rigida,
dell'individuazione come nemico dell'intero sesso maschile. Come ricorda Jessa
Crispin[32], il femminismo è (o
rischia di essere) un “processo mentale narcisistico autoriferito”, che classifica
le proprie azioni come eroiche, una forma di esclusione di discorso particolarmente
potente e subdola (solo i pari possono accedere ad esso), “un mastino che si
finge un micetto con una goccia di latte sul naso” (il che, detto tra parentesi,
è, in effetti, molto femminile). Si è trattato, e si tratta, anche di un’impresa
di piccole élite che spingono per l’affermazione di una politica identitaria,
generata con il medesimo meccanismo psicologico della formazione di tutti i
gruppi umani in fusione – l’identificazione di un nemico che concentri su di sé
“il male”, in modo da poter essere “il bene” -.
Sempre
la Crispin ricorda quel che sopra abbiamo riportato, ma giova leggerlo anche da
lei:
“le
donne hanno sempre lavorato. Molte sono sempre state costrette a farlo. Le nubili,
le vedove, le indigenti, le svantaggiate hanno sempre lavorato. Quando le femministe
hanno deciso di combattere per il diritto al lavoro, ciò che intendevano era il
diritto di diventare medici, avvocati e via dicendo. Le donne hanno sempre
pulito gabinetti e pavimenti, sono sempre state pagate per toccare corpi altrui
come infermiere, badanti e lavoratrici del sesso.
Né
le donne combattevano per svolgere i lavori dei poveracci: in fabbrica, in
miniera, nei mattatoi. Fin dall’inizio, il presupposto era che il lavoro fosse
una cosa buona, gratificante, che noi ci stavamo perdendo. Non qualcosa che
distrugge corpo ed anima, che ti uccide da giovane o ti spinge a desiderare che
lo faccia”[33].
In
una versione più recente si può registrare la dissociazione tra sesso e genere,
che non significa soltanto che il primo termine indica i tratti biologici mentre
il secondo quelli psicologici, ovviamente non necessariamente pienamente
coincidenti, quanto la tendenza a identificare il secondo essenzialmente come
pura entità culturale. In intima connessione con l'idea che il dominio ‘patriarcale’
sia un'ideologia di sfruttamento emerge a questo punto l'idea per cui lo stesso
genere sarebbe un costrutto culturale, imposto su una base biologica tutto
sommato malleabile, il cui scopo è di definire i generi ‘maschili’ e ‘femminili’,
rispettivamente, come il gruppo ‘che comanda’ e quello ‘che obbedisce’. Nel
momento in cui io concepisco il genere come un costrutto culturale e lo
collego con questa narrazione semplificata (e falsa) emerge, come conseguenza
politicamente logica, l'idea che sia possibile decostruire e ricostruire
altrimenti i generi, per accedere a un'agenda politica diversa. Detto
altrimenti, se si ammette che la distinzione polare tra ‘maschile’ e ‘femminile’
è esito di uno sfruttamento storico, e ancora pienamente operativo, è
abbastanza ragionevole immaginare che se lo decostruisco, o lo cancello, allora
questo sfruttamento ne viene annullato. Viene messo, quindi, sotto accusa il ‘binarismo
sessuale’ e quindi anche, sulla scorta delle letture di Derrida o di Lacan, la
tendenza delle categorie linguistiche di costruirsi per opposizioni binarie. Anche
qui si tratta, come ovvio, di un’applicazione del post-modernismo filosofico
che fa uso di alcune tesi psicanalitiche e fa riferimento soprattutto a un’autrice
importante e radicale come Judith Butler[34]. In effetti per la Butler
il ‘genere’ non è un nome ma un ‘performativo’ cioè un'espressione che fa
essere il proprio significato. Ne consegue che il ‘corpo’ dotato di ‘genere’ è
una sorta di fabbricazione, una performance, ed è ‘prodotto’ attraverso gesti ed
atti a loro volta condizionati dal prevalente discorso pubblico. Per cui la ‘femminilità’
e la ‘mascolinità’ sono travestimenti del carattere performativo del
genere, artificialmente plasmato dal dominio maschilista e dall’eterosessualità
obbligatoria. Queste sono le ragioni per cui punto di caduta di una discussione
che sopprima i condizionamenti storici e quelli culturali sull'intera divisione
di genere, per Butler, è la dissoluzione di ogni opposizione, la
fluidificazione del genere teorizzato dalla queer Theory. Saremmo, in un certo
senso, all'apogeo della “Ragione liberale”. Viene sostituita ogni identità ed ogni
normalità, come ogni naturalità con un appello all'arbitrio soggettivo di essere
qualunque cosa si voglia e di rivendicare questa possibilità come
diritto.
Secondo
il punto di vista che si difende nel libro non si predilige ovviamente un
obbligatorio necessario binarismo sessuale o una sessualità obbligatoria.
Ovviamente chiunque è libero di fare le sue scelte in questo campo, purché si
comprenda che la complementarità biologica tra i sessi, e quella psicologica
tra i generi maschili e femminili, con tutte le articolazioni e divisioni possibili
e con tutti gli stati intermedi, non può essere trattata come una distinzione
sociologica accanto a mille altre. Una complementarità è necessaria, oltre che
essere fondante ed essere preliminare per la riproduzione fisica ma anche e
soprattutto sociale della specie, cioè per la procreazione per l'accudimento
per l'esistenza di un ordinamento familiare e per la relativa educazione. Zhok
sostiene, in sostanza, che ci vuole cautela per toccare questo punto, perché
potrebbe provocare squilibri relazionali e reazioni violente. Non è un ambito
in cui sia appropriato un atteggiamento militante, bensì un atteggiamento di
equilibrato approfondimento, che consenta di comprendere e giustificare
naturalmente l'esistenza di casi che non rientrano nel canale binario. Sviluppare
tolleranza, accettazione, e normalizzare la diversità. Tutte cose in linea con
le versioni del femminismo della ‘prima onda’, ma problematiche nell’atteggiamento
rivendicativo sorto nella ‘seconda onda’. Se si prova, facendo uso di un
atteggiamento forte, a spiegare a tutti coloro i quali si collocano nel quadro
binario tradizionale che sono in errore, o addirittura colpevoli. Ovvero, che
stanno supportando inconsapevolmente un'ideologia oppressiva e che dovrebbero
educare i propri figli in modo diverso. In quanto l’educazione derivante da una
millenaria ed ubiqua tradizione sarebbe solo lo sfortunato esito di
condizionamenti psicologici passati, eccetera, ciò porterebbe al livello di
conflittualità che il professore Zhok giudica essere elevatissimo e rovinoso.
Ciò anche considerando che “naturalmente armonizzare i rapporti tra i sessi e
un'operazione utile e necessaria, di per sé una operazione complessa a causa di
tutte le tendenze centrifughe individualistiche competitive che sono proprie
del liberalismo affermato, tuttavia si tratta di un’attività doverosa ed eticamente
raccomandabile”.
Politiche
delle identità
Queste
tendenze si inseriscono nel più generale quadro che ha preso il nome di “politiche
delle identità”. Questa è un'espressione complicata e in base alla quale i
gruppi sociali che si sentono oppressi non cercano più di ottenere riconoscimento
come uguali, cioè come parte della comune umanità, ma sulla base del fatto che
sono speciali. Da una prospettiva egalitaria e comunitaria si passa ad una
prospettiva rivendicativa e competitiva. Questo spostamento coincide con la
rivoluzione liberale. Anche questo fenomeno avviene dentro uno spostamento
strutturale che è a monte, cioè quello della progressiva perdita di credito a
partire dai primi anni ‘70 della lezione marxiana e socialista, o comunista,
che comporta una riduzione delle analisi attente alla dimensione strutturale o collettiva
dei fenomeni. Tutta la prospettiva su cui muovevano le lotte sociali precedenti
era, infatti, quella della costruzione di una ‘società nuova’, cioè di una ‘comunità
nuova’ o di una ‘nazione nuova’ ovvero la costruzione di nuove identità
collettive. Tutta questa prospettiva è interamente ed integralmente
scomparsa dall'orizzonte in concomitanza con la svolta neoliberale e con essa è
scomparsa sia la tradizione culturale letteraria e sia la rete dei concetti. Al
suo posto è emersa una sfera di identità alternative affiancate le une alle altre,
libere da scegliere individualmente come un prodotto su uno scaffale al
supermercato.
In
linea generale, invece, le identità fondate e capaci di riprodursi socialmente,
estendendosi da una generazione all'altra, hanno una ricchezza di contenuto
interno che viene coltivata ed elaborata e quindi trasmessa. Si tratta di culture
che sono amate da coloro i quali vi partecipano e conciliano in sé una
pluralità di differenze ed inclinazioni. Le identità che si costruiscono,
invece, sulla scorta di un gesto inaugurale di negazione, quindi di aggressione
e separazione, sono costruite a partire dal concetto di nemico. Sono qualcosa
che assomiglia strutturalmente al processo di costruzione del “nazionalismo”,
nel quale l’identità collettiva ‘nazione’ è generata per negazione di
un'altra nazione: dove, cioè, non è più in questione tanto la coltivazione del
proprio interno, della propria cultura, della propria società o delle proprie tradizioni,
ma diventa centrale la negazione del proprio ‘esterno’. Per esempio, il
disprezzo nei confronti degli altri paesi, che conferisce identità nel senso di
non essere quell'altro. Potremmo ricordare il tentativo di formare l’identità
italiana attraverso l'ostilità verso la ‘perfida albione’, ovvero le democrazie
occidentali, che fa parte della nostra storia. Il punto è che l'identità e l’unità
politica si formano attraverso la negazione del nemico. I soggetti che vi
appartengono non sanno e non gli interessa sapere se c'è molto, o poco, che li
unisce internamente nel lungo periodo, ma trovano un’identità nel momento in
cui identificano un nemico comune. Nel farlo si sentono simili e vicini. Tipicamente
questa tipologia identitaria emerge sul piano psicologico nella forma di una
rivendicazione pubblica di “orgoglio”. L'orgoglio, e la risposta psicologica
simmetrica ‘l'umiliazione’, e questo genere di politiche d'identità, si
costruiscono come risposte ad azioni ovvero a uno stigma percepito. In questo senso
è chiaramente una dinamica comprensibile, ma contiene in sé il problema di non
essere in grado di istituire un’identità veramente collettiva. Porta in
essere ‘comunità’ che hanno soltanto forma rivendicativa, come desiderio di
conquistare tutte le garanzie e diritti speciali riservati. Le stesse sono
immediatamente indisponibili ad altri compiti (come la lotta per l’emancipazione
economica generale) in quanto nel porli il confine ‘amico/nemico’ che le costituisce
si dissolverebbe e potrebbero scoprire di essere attraversate al loro interno
dai nuovi confini.
Questo
è un punto decisivo: lo spostamento dell’agenda politica, tra
l’era socialdemocratica (o ‘socialista’) e quella neoliberale, ha fatto cambiare
radicalmente natura al “politico”. Creando quello che ho provato a nominare
come “politico-impolitico”. Nel senso che questo ‘politico’ si costruisce
moltiplicando le frontiere oppositive sulla base di presunte “identità oppresse”
sistematicamente scelte in modo da non porre in questione l’indisponibile
assetto generale della società (colpito dal “Tina” neoliberale, o da quello che
Mark Fisher chiamava “realismo capitalista”[35]), ma dissolverla
attraverso l’identificazione come ‘nemici’ per lo più degli umiliati ed
oppressi reali. Se si guarda da quest’angolo la natura ‘di classe’
(ovvero lo status e il ceto dal quale sono identificate queste ‘fratture’ da
politicizzare) risulta chiaro. Come risulta chiara la sua natura ‘impolitica’. Allo
scopo di porre in questione l’assetto generale della società (i modi di
distribuzione, la creazione di ricchezza, la ripartizione del potere effettivo,
etc.) questo “politico” relativo alle ‘identità’ è strutturalmente
indisponibile. Anzi è neutralizzante. Lungi dai sogni di assemblaggio delle “lotte”,
per farlo non bisogna porre le questioni. Non appena si ponessero queste si
dissolverebbero[36].
Le
lotte identitarie avviano, quindi, processi di frazionamento sociale
potenzialmente illimitati, esposti nel discorso pubblico dalla sfera materiale
a quella simbolica. Questo processo di frazionamento è visibile già all'interno
del ‘femminismo della seconda ondata’, che iniziò subito a frazionarsi secondo
ulteriori faglie rivendicative, per cui abbiamo le femministe di colore, quelle
privilegiate bianche, quelle separatiste, quelle che spingono per la fluidificazione
dei generi e così via. Ma, come appena detto, la cosa più rilevante è che
queste dinamiche rendono impossibile impostare una lotta sociale comune per
obiettivi strutturali, nel momento in cui moltiplicano le lotte individuali per
obiettivi simbolici. In altre parole, ogni tentativo di unire le forze per
definire politiche per una società o per una comunità, o una nazione, migliore
sono sistematicamente ostacolate da una politica delle identità che si mostra
essere in effetti una politica della progressiva disintegrazione di ogni
identità[37].
Politicamente
corretto
Il
‘politicamente corretto’ è un'operazione di organizzazione dei discorsi interna
all'élite. Specificatamente è un'operazione di organizzazione egemonica interna
per regolare le liti intellettuali. Il suo impatto sociale non è proporzionale
dal numero delle persone coinvolte. Dal punto di vista popolare le
gesticolazioni e le censure del politicamente corretto sono infatti di
interesse assolutamente minoritario, restano quasi non viste, tuttavia, le
minoranze coinvolte in queste pratiche sono collocate nei punti strategici della
creazione dell'opinione pubblica, cioè nei giornali, nelle scuole, nell'università
e si tratta quindi di minoranze il cui impatto tende a essere significativo. Il
senso profondo del ‘politicamente corretto’ consiste nell'escludere dal numero
del tollerabile (ovvero di ciò che si può dire e possibilmente di ciò che si
può pensare) tutto quello che si presenta come potenzialmente offensivo o
lesivo di gruppi presunti vittimizzati. Lo slittamento rilevante qui è
che nel momento in cui la percezione soggettiva e il desiderio individuale
diventano essi stessi sorgenti potenziali di diritto di normazione
morale, come è stato visto, cioè quando si ammette che qualcuno può imporre
limiti all'espressione altrui sulla sola base del proprio senso soggettivo
di cosa sia offensivo o improprio, allora si apre un processo intrinsecamente
privo di moderazione ed illimitato. Ad una parte viene attribuito un privilegio
unilaterale che prescinde dal bisogno di confrontarsi con la controparte, i cui
diritti vengono compressi, e le richieste di rispetto non hanno bisogno di
sollevare altro argomento che non sia il proprio disagio personale, il proprio
senso soggettivo di vulnerazione e di insulto di fronte a certe espressioni,
oppure a certi temi o certi argomenti. Si tratta di un processo, per così dire,
di sacralizzazione della vittima. Operazione assolutamente
caratteristica del trionfo della “Ragione liberale”. Il punto di partenza
logico è la cornice assiologica liberale, nella quale non esistendo più valori
obiettivi l'unico valore sui generis è il sentimento della libertà negativa.
Date queste premesse e visto che la libertà negativa non ha propri contenuti,
l'unico contenuto positivo su cui si può convergere è, infatti, una doppia
negazione. L’avversione verso negazioni della libertà soggettiva. Ogni
negazione della libertà soggettiva è violenza. E la violenza si esercita su un
oggetto passivo che è quindi la vittima. La vittima è chi ha subito, e
quindi proverbialmente è ‘per definizione’ senza colpa. Come sostiene Zhok “nella
cornice liberale la tutela delle vittime è perciò l'unica cosa rimasta su cui
creare un simulacro di unità etica”[38].
Ma
chi sono le vittime? Il punto è che la vittima è una fonte normativa primaria,
quindi la creazione di un gruppo vittimizzato è la mossa etica fondante.
Una volta che qualcuno è riuscito accreditarsi nella posizione di vittima
acquista automaticamente quella autorità morale che nella società moderna è
stata sottratta a tutte le altre voci, che quindi, a questo punto e per definizione,
esprimono solo opinioni personali. Il ‘politicamente corretto’ è naturalmente un'arma
asimmetrica, ed essendo essenzialmente di natura morale esercita un impatto in
tutte quelle aree sociali nelle quali il discredito assume un ruolo
fondamentale. Dove, cioè, la posizione di potere o di carriera è determinata
dal credito presso i propri pari ed al ruolo intellettuale rivestito. Perciò il
‘politicamente corretto’ è per sua natura un'arma debole se è rivolta verso i
ceti popolari o ceti subordinati, i quali vivono in un altro mondo, ma è
un'arma potentissima se usata nei contesti sociali apicali, in cui la carriera
si fa sulla base del consenso tra i pari. Qui violare il conformismo del ‘politicamente
corretto’ può costare letteralmente l'intera vita sociale. Il ‘politicamente
corretto’ esercita, quindi, la funzione di blocco sacro o tabù in senso tecnico,
ovvero di interdizione sacrale.
Tra
le altre cose anche l’affermarsi di queste forme di inibizione preventiva a
certi discorsi crea uno scollamento tra le forme delle discussioni dell’élite e
le forme di discussione popolare, dove simili censure hanno scarsa presa. In un
regime democratico questo scollamento ha pesanti ripercussioni e crea fratture
insanabili nel dibattito pubblico, inoltre l'articolazione dei gruppi definiti
come ‘vittime’, quindi come socialmente in credito, produce una competizione
sociale verso rivendicazioni particolari con esiti naturalmente divisivi senza
limiti. A questo proposito è molto interessante notare ancora una volta che c'è
un solo gruppo che non compare mai, neppure per caso, tra quelli letti come
oppressi e bisognosi di tutele speciali e questo gruppo è il ‘proletariato’, in
qualunque delle possibili definizioni contemporanee[39]. La frammentazione di
ogni società in una miriade di istanze rivendicative particolari, che sono per
definizione non universalizzabili è selezionata cioè favorevolmente dal sistema
economico, perché crea un agone competitivo frammentato e depotenzia ogni
istituzione politica che guardi alla società il suo complesso. Inoltre,
colpisce sistematicamente le idee di normalità e naturalità, con tutti i loro
corollari, colpisce cioè l'idea di natura umana.
Conclusioni
Il
senso di questa lunga riflessione non è di condannare, in blocco, l’intero
sviluppo storico del liberalismo (operazione in sé antistorica), ma di prendere
le distanze dagli esiti che si generano in occidente e in questo secolo.
L’emergere della “Ragione liberale”, a partire dagli impulsi determinati dalle
nuove forme culturali, dall’espansione dell’economia monetaria e dalle
condizioni della rivoluzione scientifica (e dagli altri fattori della “Grande
convergenza”) è stata una soluzione adattiva di successo nel nostro occidente.
Questo successo non è dipeso da una più organica teorizzazione ma proprio da
risposte parziali, qui e lì necessarie per colmare lo spazio tra un sistema
resistente e gli impulsi delle nuove classi emergenti. La tesi fondamentale di
Zhok è che proprio per questo la “Ragione liberale” ha avuto successo.
“l’essere un contenitore culturale vago e piuttosto informe l’ha resa
permeabile a variazioni in corso d'opera, a integrazioni pragmatiche e a una
certa ‘ecumenicità’ (donde la natura variegata delle istanze che si sono dette ‘liberali’)”[40].
La
conseguenza è rilevante:
“In
ultima istanza la ragione liberale ha trovato una chiara identità solo nei suoi
tratti negativi, in ciò contro cui si schierava (il superamento dell'Ancien Régime),
lasciando alla contendibilità futura ulteriori aspetti. E questo carattere che
sta alla radice dell’apparente difficoltà odierna di ‘non dirsi liberali’:
dopotutto in qualche senso chiunque non sostenga apertamente il ritorno a forme
di vita teocratiche, monarchiche oligarchiche a base ereditaria può essere
inserito in qualche modo nella grande famiglia liberale”.
Le
soluzioni di successo che la Ragione liberale ha, via via, escogitato sono la
“tolleranza”, la “teoria del bilanciamento dei poteri”, l’affermazione della
“virtù della libera iniziativa economica”, lo “Stato di diritto”, il contributo
ai moderni stati democratici. Tutte queste soluzioni per Zhok sono consolidate
e vanno conservate (se pure in qualche caso temperate e comunque relativizzate).
Tuttavia,
al contempo, la Ragione liberale, nel momento in cui ha manifestato quella che definisce
una “forza progressiva”, ha anche mostrato dei limiti. Alla metà dell'Ottocento
questi limiti sono risultati evidenti e denunciati nel “Manifesto del
partito comunista” da Karl Marx con acutezza che tuttavia confermava, al
contempo, la sua fascinazione per quelli che gli apparivano come gli elementi ‘progressivi’
dominanti nel lungo processo storico che stava descrivendo. I processi di
disgregazione sociale e culturale derivanti, e connessi all'infittirsi delle
dinamiche di competizione capitalistica per i nuovi mercati e l'espansione della
fase finanziaria, già alla fine dell'Ottocento, però, portarono in luce gli
elementi disgreganti decisamente distruttivi connessi con quella che si può
chiamare, la “Prima globalizzazione”. Con essa il disorientamento
individuale, la rabbia sociale che furono deviate verso esiti sciovinisti
nazionalisti fino alla guerra mondiale.
Il
vero problema per l’autore è che:
“Il
nucleo portante della visione liberale non è frutto di alcuna visione etica,
filosofica, religiosa, umana, non è mossa da un progetto, non da una prospettiva
di civiltà, non da un quadro morale, non da un’intuizione ideale. In esso si
ritrova la necessità di utilizzare ogni visione utile a liberarsi del
vecchio mondo, con il peso delle sue tradizioni e dei suoi vincoli, e si
ritrova la necessità di gestire un nuovo potere, conferito dalle inedite capacità
di manipolazione scientifica e incremento produttivo. Non c'è mai nella ragione
liberale alcuna ‘profondità etica’. E anzi per il liberale già parlare di
qualcosa come una ‘profondità etica’ appare incongruo e sospetto. C'è
l'esigenza per chi si va a liberando dell'ingombro del vecchio mondo di trovare
coperture giustificative, soluzioni pratiche che gli consentono di cavalcare
con successo le nuove forze sociali ed economiche si sono liberate. È perciò
che il trascolorare dell'essenza del liberalismo classico nelle categorie
dell'economia neoclassica non presenta alcuna difficoltà: non c'era una visione
strutturata dell'uomo, del mondo, del giusto e dello sbagliato da trasporre, ma
solo una versione minimalista e pragmatica, traducibile senza resti in una
visione che rendeva l'umano un fantoccio senz'anima, la storia un non senso, e
la società un'illusione. La forma di vita liberale, implementata dal sistema di
relazioni capitalistiche, ha proceduto ad elevare il mezzo all’altezza del
fine, lo strumento in posizione di scopo, il potere al posto del valore. Ciò ha
condotto una progressiva ‘liquidazione del mondo’, concependo ogni momento
dell'esistenza come uno snodo, un transito provvisorio verso la conquista di
maggior potere, maggior libertà d'agire, maggior capitale. Le identità sociali sono
state frammentate indefinitamente e spoliticizzate. Le identità territoriali
sono state trafitte e debilitate dai movimenti di capitali e forza lavoro. Le identità
personali sono state impoverite e scosse dalla rottura delle relazioni di
riconoscimento, dalla mobilità e flessibilità, dalla precarietà e
dall'insicurezza”[41].
L’azione
collettiva è resa più ardua dalla rottura delle comunanze e dalla frammentazione
dei rapporti materiali, dalla identificazione per moto proprio di sempre più ‘identità’
in reciproco conflitto.
Poiché
la Ragione liberale, nella sua essenza, è assenza di limite e di
senso allora sostanzialmente la natura si trasforma in una sorta di grande
deposito di mezzi e strumenti, di cose indifferenti, predisposta al calcolo.
L'unica radice di valore resta il singolo individuo, ed essa vale solo per sé. Una
sfera residuale di valore che ha la forma di un'apparenza soggettiva
insindacabile e può essere espressa solo in atti individuali, quindi nelle
scelte di mercato. Ma si tratta di una sfera che non ambisce, e non può farlo,
a costruire alcuna realtà condivisa. Il valore viene ridotto a emozione. Questa
idea che la società può funzionare con la sola adozione di regole formali,
mentre tutto il resto viene lasciato la libera scelta individuale è palesemente
insostenibile, falso empiricamente, sostanzialmente disgregante ed anche
logicamente incoerente. Perché dovremmo concordare nel rispetto delle stesse
regole formali e sulla base di quale motivazione? Perché le regole formali
permettono la pace, il benessere economico? Se fosse così sarebbe l'adesione ai
valori condivisi, quelli che appunto valorizzano pace e benessere economico
come valori chiave ed essenziali, a giustificare l'adozione delle regole.
Allora le regole non sarebbero più ciò che dicono di essere (formali), potrebbe
essere revocate in favore di regole differenti o di decisioni sostanziali che
permettono di restituire in modo migliore quei valori.
Questa
forma di isolamento soggettivo caratteristico e coerente con la Ragione
liberale si esprime nella sua forma più sistematica attraverso le istanze del “rivendicazionismo”.
“Ogni
gruppo, sottogruppo, in ultima istanza ogni individuo lotta per essere
riconosciuto come vittima di qualcosa di qualcuno, in modo da poter conquistare
spazio diritti a scapito di altri individui e gruppi. Un sistema di
rivendicazioni oppositivo ha preso il posto del tentativo di creare consenso
positivo intorno a qualcosa; al suo posto emerge la ricerca di un consenso
negativo come legittima rivalsa. Vengono così a crearsi a getto continuo linee
di frattura e risentimento: donne contro uomini, omosessuali contro
eterosessuali, bianchi contro neri, islamici contro cristiani, nord contro sud,
vegani contro carnivori, giovani contro anziani eccetera. L'epoca che inneggia
la diversità fa di questa diversità un campo di battaglia in cui i rapporti tra
diversi prendono una forma oscillante tra il contenzioso sindacale la causa
giudiziaria”[42].
L’altra
tendenza emergente è quella che porta ad individuare, come linea di frattura
essenziale, quella tra ‘progressismo liberale’ e ‘reazionarismo imperialistico’.
Il primo remerebbe in direzione della corrente, procedendo ancora allo
smantellamento delle unità sociali residue ed alla liquidazione delle identità
più coriacee. Al contrario la linea cosiddetta ‘reazionaria’ sarebbe quella che,
rigettando questo movimento, cerca di ripristinare condizioni pre-liberali. Ovviamente
questi ultimi, ad esempio espressi da alcune delle affermazioni del presidente
Reagan o della Thatcher verso stili di vita più tradizionali o valori patriottici
(ma si potrebbe elencare anche Bush junior e Trump) sono sempre stati del tutto
illusori. Non si può tornare a forme di vita preesistenti.
Tuttavia,
l’analisi condotta in questo libro chiede di andare oltre le forme di
opposizione apparente, in realtà perfettamente in linea con la direzione liberale.
È assolutamente indispensabile frenare le tendenze distruttive messe in essere
dalla “Ragione liberale”, nel momento in cui si espande senza freni. Bisogna
disporre, in altri termini, di un apparato frenante[43]. A questo fine, però,
bisogna anche riconoscerla, perché questa, come ogni discorso egemonico
largamente dominante, è presente anche nelle forme oppositive (anzi, data la
sua natura storica, specialmente in queste).
L’intero
discorso di Andrea Zhok, per come lo leggo, è incorporato in questa decisione
di lettura, che necessariamente si fa ‘filosofia della storia’. Scriveva Benjamin
in “Sul concetto di storia”:
“articolare
storicamente ciò che è passato non vuol dire conoscerlo ‘come è stato veramente’.
Vuol dire impadronirsi di un ricordo per come balena nell’istante di un
pericolo”[44].
Ed
oggi il “pericolo” al quale chiama la riflessione è questo ridursi senza resti
di tutto “a strumento della classe dominante” (ancora Benjamin), e quindi
bisogna “cercare di strappare la tradizione al conformismo che è in procinto di
sopraffarla”. Michael Lowy riporta[45] un passo contenuto nelle
note preparatorie, che richiama direttamente la metafora del ‘sistema frenante’
proposta da Zhok: “Marx dice che le rivoluzioni sono la locomotiva della storia
universale. Ma forse le cose stanno in modo del tutto diverso. Forse le
rivoluzioni sono il ricorso al freno di emergenza da parte del genere umano in
viaggio su questo treno”. Un passaggio non incluso nel testo finale.
Sul
piano pratico bisogna quindi ostacolare l'ampliamento costante di tecnologie distruttive,
di cose disponibili per gli atti di compravendita, l'estensione della capacità
del denaro di esercitare il suo potere e di disporre quindi dell'esistenza di
soggetti talmente immiseriti da essere a sua totale disposizione. Occorre
adottare sistematicamente correttivi per modulare, arrestare e far regredire le
tendenze all'opera. Realizzare un limite.
[1] - Si veda, in particolare Max Weber, “L’etica
protestante e lo spirito del capitalismo”, del 1904, che inaugura una lunga tradizione (per la verità
anticipata dalle intuizioni di Marx) poi ripresa da Benjamin nel frammento “Il
capitalismo come religione”,
del
1921, e riprende molti elementi da “Il
capitalismo moderno”, di Werner
Sombart, del 1902.
[2] - I quali già nel 1903 diagnosticano
l’insostenibile antropologia liberale, decostruendo la credenza del carattere
originario dell’attore sociale, gli effetti perversi derivanti da questa
dimenticanza nelle strutture di produzione e riproduzione sociale. Si tratta,
del resto, della ripresa di elementi di critica già presenti in Hegel che del
processo storico di affermazione del liberalismo trionfante vede solo i prodromi,
l’individuo ha natura intersoggettiva nel senso che è sempre il frutto di
eventi storici ed è costruito a ridosso “dell’altro” (e quello di questo).
Marcel Mauss “Saggio
sul dono”, 1903.
[3] - Onofrio Romano, “La
Libertà Verticale”, Meltemi, 2020, p.75.
[4] - Che ho cercato di descrivere in
Alessandro Visalli, “Dipendenza”, Meltemi 2020.
[5] - Pur se la sensazione di assoluta
assenza di vie di uscita che promana dalla lettura del libro risente
dell’implicita mancata presa di consapevolezza degli spazi di espansione
monetaria aperti dal delinking del dollaro con l’oro del 1971. Cfr. James
O’Connor, “La crisi fiscale dello Stato”, Einaudi, 1973. Lettura
parziale qui.
[6] - Christopher Lasch, “La
ribellione delle élite”, 1995
[7] - Castoridias, Lasch, “La
cultura dell’egoismo”,
1986.
[8] - Ronald Inglehart, “La
società postmoderna”, 1996
[9] - Antony Giddens, “Identità
e società moderna”, 1991
[10] - Una delle fonti principali della
sistemazione habermasiana. Che riprende il particolare “automatismo” nella
emergenza dell’ordine sociale in grado di spiegarlo senza deliberazione e
scelta politica.
[11] - Naturalmente si deve intendere sui
termini, è vero che ci sono differenze rilevanti tra il neo-liberismo e
l'ordoliberismo. Le formule che scaturiscono in diversi ambienti culturali ed
orientamenti politici dalla crisi del liberismo originario, nei primi anni del
novecento, e fanno parte di una vasta ricerca di un "nuovo
liberalismo" -Keynes- o di un "neoliberismo". Ma mentre il primo
si propone di limitare il mercato attraverso un’azione statale compensativa,
che salvi di questo l’essenziale, ovvero la libertà di azione degli individui;
il secondo, al contrario, intende usare una gabbia normativa sostenuta dalla
forza dello stato per purificare il mercato e far affermare in esso la forma
pura della concorrenza. La mossa eleva la concorrenza a principio centrale
della vita sia sociale sia individuale, ma lo fa riconoscendo che l’ordine di
mercato non è affatto un ordine di natura: è il prodotto di una costruzione
politica intrinsecamente storica. Questo movimento che porta alla messa a punto
della proposta neoliberale parte per gli autori dal “Convegno Lippman”, dal 26
al 30 agosto 1938, che precede di qualche anno la fondazione della Società Mont
Pelerin (1947). Sono
invitati Hayek, von Mises, Rueff, Aron, Ropke, Von Rustow, Rougier. Nel discorso inaugurale Rougier ricorda che il liberalismo
non si identifica affatto con il laissez-faire, ma è un ordine legale che
richiede l’intervento dello stato. Malgrado l’opposizione di Von Mises (che
sarà in minoranza anche nella successiva Società Mont Pelerin), la linea
centrale condivide questa impostazione, in favore di un “interventismo
liberale”. Lo scontro si determina tra ortodossi (Von Mises e Hayek, Robbins e
Rueff) e i riformatori (Ropke e von Rustow, che insistono sul fondamento
sociale del mercato, ma anche Lippman e Rougier) per i quali ‘essere liberali
significa essere progressisti’ adeguando continuamente l’ordine sociale e
legale alle scoperte, ai cambiamenti strutturali, senza pianificare interamente
il traffico, ma creando un “codice della strada”. Insomma, come scrive Lippman,
“gli ‘ultimi liberali’ non hanno capito che ‘ben lungo dall’essere
astensionista, l’economia liberista presuppone un ordine giuridico attivo e progressista,
teso al continuo adattamento dell’uomo a condizioni sempre mutevoli. Serve un
‘interventismo liberista’, un ‘liberalismo costruttivo’ ed un dirigismo statale
che certo si deve differenziare sostanzialmente rispetto alla pianificazione ed
al collettivismo” (Dardot e Laval "Il nuovo spirito del mondo",
p.182). Un dirigismo “che implica la protezione della libertà, non il suo
asservimento; deve garantire che la conquista di benefici sia il frutto di una
vittoria dei più adatti all’interno di una competizione leale, e non il
privilegio dei più garantiti o di coloro meglio collocati socialmente”. Questo
liberismo rinnovato è, insomma, il regno della legge, e contemporaneamente il
governo delle élite, uno stato forte organizzato da competenti la cui qualità
sia l’esatto opposto della “mentalità magica e impaziente delle masse” (ivi.
p.196). Ne deriva, ovviamente, che la democrazia è affetta da una debolezza
congenita determinata dalla eccessiva influenza dei popoli sul governo,
attraverso l’opinione pubblica ed il suffragio universale. L’eterno bersaglio
del neoliberalismo, per la stretta logica interna che lo contraddistingue, è
dunque il potere del popolo, che va limitato e ricondotto alla guida degli
esperti. Ma nel neoliberalismo, e sin dai suoi esordi, è presente anche
un’altra corrente, non perfettamente coincidente: l’ordoliberalismo tedesco.
L’ordine è concepito come dovere politico, nato come movimento conservatore nei
circoli antinazisti, prevede “una teoria della trasformazione sociale che fa appello
alla responsabilità degli uomini” ed il cui problema fondamentale è come
riformare l’ordine sociale dopo lo stato totalitario. Certo l’ordine liberale
muove dalla creazione di uno stato di diritto che è all’origine stessa della
forma capitalista, l’economico non è per loro un insieme di processi naturali
ai quali in qualche modo si aggiunge la regolazione ed il diritto, in accordo o
in ritardo. L’ordoliberalismo respinge dunque ogni forma di riduzione del
giuridico a sovrastruttura, e ogni concezione unitaria del ‘capitalismo’
fondata su una autonomia dell’economico. Ne sono espressione autori importanti
come Ropke, che in “Civitas umana” rifiuta frontalmente il laissez-faire e
identifica l’economia di mercato “vitale”, come un’opera d’arte, un prodotto
della civiltà particolarmente difficile e che presuppone molto.
L’ordoliberalismo è, a sua volta, diviso in due gruppi principali: gli
economisti e giuristi della Scuola di Friburgo, come Euckel e Bohm, i sociologi
Alfred Muller-Armack, Wilhelm Ropke e Alexander von Rustow. La distinzione è
tra la struttura giuridica e quella sociale come focus, i primi sono
concentrati sulla crescita economica, dalla quale deriverebbero i progressi
sociali, mentre i secondi sono preoccupati degli effetti di disintegrazione
sociale propri dei meccanismi di mercato e allo Stato affidano anche il compito
di garantire e strutturare un soziale umwelt, un ‘ambiente sociale’, che
reintegri gli individui nella società. Alla wirtschaftspolitik, ‘politica
economica’, si contrappone la gesellschaftspolitick, ‘politica della società’.
[12] - Un indebolimento che non produce
ancora il rovesciamento che si determinò almeno altre tre volte (la prima
al termine della crisi mondiale del 1875-90, quando si affermano le prime forme
difensive di welfarismo conservatore al contempo della espansione e
trasformazione in chiave imperialista del sistema
militare/industriale/finanziario denunciato da Hobson, Hilferding e Lenin; la
seconda quando il collasso delle due guerre induce ad una nuovo governo del
capitalismo, sotto la ferma diarchia dei vincitori – Usa e Urss -; la terza
quando il lungo ciclo avviato dalla crisi del ’29 giunge ad una svolta
sistemica e si rovescia nuovamente nella soluzione neoliberale), per la
persistenza delle strutture ideologiche di fondo – che il testo in oggetto
cerca di disvelare e decostruire – sfidate dalla revoca delle loro strutture e
condizioni di esistenza. In altre parole, una visione materialista temperata
(non dogmatica, né determinista) consente di vedere che la parabola ideologica
descritta poggia su una “buona novella” legittimante e su condizioni materiali
che non la contraddicano almeno per i più: quella che si sia almeno su un
percorso ascendente di ricchezza e benessere. Senza benessere l’intera
narrazione liberale viene meno. La revoca, provocata specificamente dal
successo del liberalismo nel consentire ai forti di vincere (di essere
“liberi”), delle condizioni materiali di benessere per la grande maggioranza
rende contraddittorio l’intero paradigma. Si tratta di una ideologia, in altre
parole, che si regge necessariamente sulla promessa della “società dei due
terzi” (in cui due terzi siano almeno classe media possidente). Ma questa è
tramontata in occidente, in particolare dopo la violenta ristrutturazione
seguita al 2008 e accelerata dal Covid. Si può vedere anche per contrasto. Oggi
una ideologia sconnessa dalle sue basi materiali viene “iperestesa” come
reazione. È il canto del cigno.
[13] - Per leggere un recente testo
che, da parte decisamente delle élite mondiali, o presunte tali, parte dalla
insostenibilità di sistema (ma propone una soluzione “recuperante”), si veda
Klaus Schawb e Thierry Malleret, “Covid
19: The Great Reset”, 2021. Un altro autore specializzato in questa
sottoletteratura è Richard Florida, il quale nel 2011 ha pubblicato un libro
dal medesimo titolo “The Great Reset”, Harper. O Richard Baldwin,
specializzatosi nel descrivere ad ampio raggio i processi di innovazione
tecnologica ed i suoi effetti sul mutamento sociale e politico (e geopolitico),
si tratta ti libri come “La grande convergenza”, quando nel 2016 ipotizzava una
terza ondata della mondializzazione (ne abbiamo parlato in questo
post), o, il più recente “Rivoluzione
globotica”, di tre anni dopo. In un ambito per certi versi più
ristretti, focalizzato sul mutamento tecnologico, si può leggere Brynjolfsson e
McAfee (“La
macchina e la folla”, 2017) Tyler Cowen (“La
media non conta più”, 2015) o Jerry Kaplan
(“Le
persone non servono”, 2016).
[14] - Formula che allude alla
differente possibilità di accesso ai diritti sociali che si manifesta e produce
quando un processo di formazione della rendita (o meglio, della sua
appropriazione) non ordinato al bene pubblico determina crescenti differenziali
di complessità sociale, di qualità, efficienza ed interconnessione. Cfr.
Bernardo secchi, “La
città dei ricchi e la città dei poveri”, Laterza, 2014; David Harvey, “L’esperienza
urbana”, Il Saggiatore, 1989; David Harvey, “Geografia
del dominio”, Ombre Corte 2001.
[15] - Per molte ragioni che qui non si
possono ripercorrere, ma è un processo già in corso almeno da un decennio e che
la crisi del Covid-19 ha potentemente accelerato. Tutte le linee di connessione
si stanno in questo momento, sotto i nostri occhi, riarticolando.
[16] - Una rivolta della società alla
costrizione dell’economico per effetto del rovesciamento della disgregazione
del sociale e la crisi di legittimazione di poteri non più in grado di
contrastarlo.
[17] - La forma politica del “momento Polanyi”, che
vive della caduta di legittimazione, ma necessita di un’espressione specifica
per addensarsi, dunque ne dipende. L’espressione politica entra in crisi per
effetto delle sue contraddizioni interne e l’incapacità manifesta a produrre
una risposta e soluzione plausibile e operabile.
[18] - Il veleno è la disgregazione
sociale, individualismo ‘post-materialista’, dominio dei nuovi media
disintermedianti, discredito delle élite, snellezza, leaderismo.
[19] - Il problema specifico che era
davanti alla Commissione ed al Congresso Continentale nel 1776, con la guerra
coloniale già in corso, era di trovare un principio di legittimazione che
giustificasse la secessione. Chiaramente si tratta di un processo molto
complesso e convulso, la più famosa Dichiarazione di Indipendenza
“continentale” fu nello stesso anno preceduta dalla Dichiarazione dei Diritti
della Virginia, promossa da George Mason, e adottata dalla Quinta Convenzione
della Virginia riunita a Williamsburg. La formulazione di maggio è dunque: “tutti
gli uomini sono per natura ugualmente liberi e indipendenti, e hanno alcuni
diritti intrinseci di cui ... non possono privare o spogliare la loro
posterità; vale a dire, il godimento della vita e della libertà, con i mezzi
per acquisire e possedere proprietà, e perseguire e ottenere la felicità e la
sicurezza”, poi tradotta nella
Dichiarazione in “Riteniamo che queste verità siano evidenti, che tutti gli
uomini sono creati eguali e sono dotati dal loro Creatore di certi diritti
inalienabili, che tra questi sono la Vita, la Libertà, la ricerca della
Felicità”.
[20] - Zhok, p.
261
[21] - Zhok, p.
272
[22] - Zhok, p.
273
[23] - Si veda, sul tema del femminismo
“della seconda onda”, e sulla sua corrente principale il post “Pochi
appunti sul femminismo della differenza”. Sul piano storico e della
provenienza delle idee il ‘femminismo della differenza’ (che, certo, è
altamente differenziato al suo interno e si può solo qui riportare
idealtipicamente), muovendo dal contesto della ‘controcultura’ degli anni
sessanta e dalle università americane, è fondato sulla pretesa di individuare
un dimorfismo ontologico su base naturalistica per evidenza più fondamentale, o
radicale, delle divisioni di classe all’epoca oggetto della critica radicale.
Il contesto culturale degli studi linguistici e strutturalisti (e, poco dopo,
della penetrazione del post-strutturalismo), favorisce quindi una critica con
toni estetici radicali che identifica l’esteriorità del conflitto “tra i sessi”
come prioritario sul conflitto “di classe”. È uno spostamento decisivo di
bersaglio: invece del capitalismo viene scelto, nel contesto giova ricordarlo
del welfare compiuto e di una società affluente, come bersaglio il livello più
‘profondo’ della differenza sessuale. In alcune versioni si scivola verso la
costruzione di una femminilità idealizzata, materna, e quindi per definizione
non violenta, armonica, naturale. In questa teologia e cristologia trasposta il
maschile prende il posto del diavolo. E quindi si veste del simmetrico male,
anche esso naturale e quindi ineliminabile: violento sin nelle sue
manifestazioni più essenziali, gerarchico, entropico. La costruzione concettuale
del “patriarcato”, e la denuncia del “fallologocentrismo” come elemento
essenziale ed ineliminabile di ogni cultura umana conosciuta (in particolare
scritta) e di ogni forma di organizzazione sociale, induce la duplice mossa del
‘separatismo’ (seguendo il mito della ‘sorellanza’) e della ritirata dal
pubblico-politico (in favore di un privato-politico che inconsapevolmente
copiaincolla la classica divisione storica premoderna dei ruoli). Tutto questo
avviene, giova ricordarlo, in un clima di scoraggiamento e riflusso seguito
alla perdita di spinta egemonica, e poi al crollo, del ‘mondo nuovo’
socialista. Emerge quindi la lotta sull’ordine simbolico (Muraro) che rinuncia
alla critica diretta dei rapporti sociali, immaginando che la liberazione di
tutti emerga come effetto spontaneo dall’azione individuale per l’affermazione
femminile (un’idea straordinariamente simile a quella della ‘mano invisibile’).
[24] - Questa ricostruzione storica è
sostenuta nel libro sulla scorta di un libro di B. Chapais, “Primeval
Kinship”, Cambridge 2008, e sulla base di “The Cambridge Encyclopedia of
Hunters and Gatherers”, 1999, come anche di Marlowe “Hunting and Gathering.
The human sexual division of foraging labor”, 2007, e un articolo di Dyle
ed altri, “Sex equality can explain the unique social structure of
hunter-gautherer bands”, “Science, 2015. Zhok,
p.284.
[25] - La narrazione femminista,
invece, proietta uniformemente l’esperienza media degli ultimi due secoli,
interpretati solo in parte retrospettivamente (ma anche da una qualificata
minoranza dei e delle contemporanee) come ‘oppressione’ a base sessuale,
sull’intera storia dell’umanità nota e su tutti e cinque i continenti.
[26] - Emmanuel Todd, “Breve storia
dell’umanità”, LEG 2020 (ed.or. 2017).
[27] - Todd,
op.cit., p. 135
[28] - Sahra
Pomeroy, “Families in Classical and Hellenistic Greece”, Oxford, 1997.
[29] - Partendo dalla forma familiare
più semplice, che tuttavia permane come modello base nel mondo di lingua
inglese, “nucleare pura” (coppia con figli che si allontanano e restano liberi
di sperimentare, e senza vincoli di ripartizione ereditaria – non egualitaria
-), si passa alla forma “stipite” (o “ceppo”), nel quale il figlio primogenito
maschio eredita tutto e le giovani coppie coabitano con la famiglia del padre
(patrilocalità). In questo modello le figlie sono trattate esattamente come i
figli “cadetti” (si tratta del modello dominante tradizionale in Germania,
Giappone, Corea, e Svezia). Quindi la forma “Comunitaria esogamica” nella quale
i fratelli sono equivalenti, ma prevalgono sulle sorelle (modello Cinese e
Russo). Poi ci sarebbe la famiglia “comunitaria endogamica” simile al
precedente, ma con preferenza per matrimoni tra cugini (entro l’albero
parentale), fino al 50% in Pakistan (è il modello arabo, con una patriliearità
molto pronunciata).
[30] - Kate Millett, “La politica del
sesso”, Rizzoli, ed.or. 1970
[31] - Per fare un breve promemoria,
mentre negli anni che ancora risentono del grande shock della depressione degli
anni trenta la questione politica essenziale era stabilizzare l’occupazione e
metterla su una traiettoria crescente che coinvolgesse salari, stili di vita e
capacità produttive, dalla metà degli anni settanta il clima muta radicalmente.
La crisi fiscale del New Deal, in incubazione per tutti gli anni sessanta e
tenuta sotto controllo dei paesi guida attraverso una continua rincorsa tra
stimoli (di cui la corsa allo spazio e, soprattutto, la guerra fredda sono
espressione) e deficit (nel senso di squilibri tra sistemi economici), e l’emersione
dell’area dei “petrodollari”, e più in generale della ‘finanza ombra’, crea le
condizioni per una inversione. Nel contesto della crescente paura per gli
effetti distributivi dell’inflazione e di una stanchezza per i sistemi
fortemente regolati, le classi medie occidentali si rivolgono verso un diverso
schema legittimante: la questione politica diventa la libertà di scambio e di
impresa. Questa nozione si ritrova, in numerose versioni, a tutte le scale. Anche
l’individuo complessivamente estraneo all’accumulazione, e non dotato di
capitale finanziario, ricerca ora principalmente la libertà di determinarsi e
di intraprendere secondo il suo desiderio. Lo spostamento sull’enfasi per il
cosiddetto “capitale culturale” ne è sia un effetto (perché questo fenomeno
avviene nel contesto della maggiore istruzione provocata dall’espansione, in
corso da un quindicennio e quindi giunta a maturazione, della istruzione di
massa) sia una causa. In questo contesto la formazione del femminismo della ‘seconda
ondata’, con la sua enfasi culturalista e l’attenzione per la liberazione
individuale, ha una chiara riconoscibilità fisiognomica.
[32] - Jessa Crispin, “Perché non
sono femminista. Un manifesto femminista”, SUR, 2018 (ed. or. 2017).
[33] - Crispin, op.cit., p.35
[34] - Judit Butler, “Questioni di genere”,
Laterza, 2013 (ed.or. 1990); “Fare e disfare il genere”, Mimesis, 2104
/ed.or. 2004); “Parole che provocano. Per una politica del performativo”,
Raffaello Cortina, 2010 (ed. or. 1997).
[35] - Mark Fischer, “Realismo capitalista”, Nero 2018 (ed. or. 2009).
[36] - Questo è un altro modo di porre
la questione del populismo.
[37] - Zhok, p. 311
[38] - Zhok, p.
315
[39] - Il concetto di “proletariato”
merita un appunto. Si tratta di un evidente costrutto politico e dal tempo
della formulazione alla metà del secolo XIX deve essere ripensato in funzione
della diversa organizzazione sociale. Per comprenderne il senso va traguardato
insieme al concetto gramsciano di “blocco storico” e secondo il progetto di
contendere l’egemonia nel sociale e nel politico. Il nucleo del potenziale
“blocco storico” in grado di contendere l’egemonia nella sfera pubblica prima,
nella società e nell’arena dello Stato poi, al quale bisogna riferirsi non
può che essere il variegato e frammentato mondo delle classi lavoratrici, le
più sacrificate dalla forma attuale del modo di produzione capitalista. Il
concetto di “classe” che si adopera in questo contesto è quindi di natura
espressamente funzionale. Non ha a che fare con la dotazione di risorse
individualmente possedute, o l’accesso ai consumi, più o meno distintivi
(ovvero dal “ceto”), quanto alla posizione della propria autoriproduzione
rispetto al capitale. Non necessariamente, anche se principalmente, la
posizione che determina l’appartenenza di classe, si cattura nell’esistenza o
meno di “lavoro salariato”. Né, tanto meno, nella figura dell’operaio (ovvero
del lavoratore addetto alla produzione di beni industriali).
Il punto è che la forma, storicamente determinata, del
nesso tra ‘lavoro vivo’ e ‘lavoro morto’, ovvero tra attività
lavorative subordinate a mezzi e oggetti del lavoro stesso, attraversa tutte le
molteplici modalità della sua definizione. Riceve un
salario come contropartita della sua relazione funzionale con “lavoro morto”
(ovvero mezzi produttivi e forme totali della produzione dalle quali viene
oggettivato) anche chi apparentemente lavora con partita Iva, è connesso ad una
piattaforma, impegnato nelle varie forme di cottimo, anche iperspecializzate
(anzi, soprattutto, se iperspecializzate). E la relazione funzionale implica
sempre che il capitale (che si incarna nell’insieme dei mezzi produttivi e
del nesso generale che li rende tali) si valorizzi. Questa relazione
implica sempre dipendenza.
Fanno parte
della “classe” lavoratrice, dunque, tutti coloro che si trovano connessi nella
forma della remunerazione dietro prestazione a sistemi produttivi ad essi
esterni e nei quali sono sussunti (e trasformati in oggetti). Ne fanno parte
anche se le modalità cooperative che contraddistinguono il loro lavoro sono
mediate da sistemi a maglia larga, invisibili, altamente tecnologici (è il caso
delle cosiddette “piattaforme”, ma anche di tante modalità più o meno glamour
di lavoro a cottimo o frammentato). Se
la segmentazione dell’opera, anche nella iperspecializzazione apparentemente
liberante o autonoma, rende impossibile controllare il proprio “valore” (o di
“fare il proprio prezzo”). Se, infine, il senso complessivo dell’opera si perde.
Non ne
fanno parte non tanto i “ceti medi” (dato che, come detto, non è questione
di “ceto”), quanto coloro i quali traggono la propria autoriproduzione dal
controllo di segmenti di capitale e quindi, nel nesso essenziale
capitale/lavoro che costituisce la forma sociale del modo di produzione
capitalistico, dipendono per la propria esistenza come soggetti economici dalla
permanenza di tale nesso. Ciò anche se la frazione di capitale è
piccola, periferica, subalterna (ad altre).
[40] - Zhok,
p.341
[41] - Zhok,
p.345
[42] - Zhok,
p.352
[43] - Questa metafora riverbera le
tesi “Sul concetto di storia” che Walter Benjamin compilò dalle parti
del 1940. Qui è l’idea della rivoluzione come “freno di emergenza” di un mondo
che, altrimenti, trascinato dall’angelo della storia andrebbe verso la
distruzione. In questa idea è presente una complessa costituzione, elementi
romantici, ovviamente, e anarchici, anche, ma soprattutto una forma anomala ed
originalissima della tradizione ebraica (cui è, peraltro, legato anche Marx). Idea
già presente in “Strada a senso unico”, del 1923-35, quando, dopo aver
letto “Storia e coscienza di classe” di Lukacs, il critico tedesco si
avvicina al marxismo. Nel capitolo “Segnalatore d’incendio”, scrive “se la
liquidazione della borghesia non si sarà compiuta a un punto quasi esattamente
calcolabile dello sviluppo economico e tecnico (lo segnalano inflazione e
guerra chimica) tutto sarà perduto. Prima che la scintilla raggiunga la dinamite,
la miccia accesa va tagliata”. La rivoluzione non è né il risultato
inevitabile, e naturale, del progresso economico e tecnico, né la sua
accelerazione e prosecuzione. Proprio il contrario, essa è la sua interruzione
prima del disastro.
[44] - Walter Benjamin, “Sul concetto
di storia”, 6, in Senza scopo finale. Scritti politici (1919-1940), Castelvecchi
2017 (p.242). Anche in “Angelus novus”, Einaudi, 1962, p. 77.
[45] - Michael Lowy, “La rivoluzione
come freno d’emergenza”, Ombre corte, 2020 (ed. or. 2019), p. 47.
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