Shoshana
Zuboff, nel suo noto “Il capitalismo della sorveglianza”[1], racconta come il news
feed[2] di Facebook sia il frutto
di ricerche ed applicazioni di data science costate ciclopici investimenti che
hanno finito per produrre algoritmi predittivi in grado di selezionare ed elaborare
istantaneamente, e per ogni utente, oltre 100.000 elementi. Scansionando e
raccogliendo, ogni volta, qualunque cosa sia stata postata nell’ultima
settimana da ciascuno degli amici, quindi da chiunque venga seguito, da
qualunque gruppo frequentato, e da ogni pagina con il like. Per cui il software
crea e modifica costantemente un “indice di rilevanza personale” per tutti i
post candidabili ad essere inseriti nel feed scelti tra migliaia per individuare
e proporre nel feed solo quello che più probabilmente, scrive Will Oremus, “vi
darà piangere, sorridere, cliccare, premere like, condividere o commentare”[3]. È come un guanto stretto
intorno a noi, che dà sistematicamente la precedenza ai post delle persone con
le quali abbiamo interagito e quelli che hanno coinvolto persone simili a
quelle con le quali interagiamo.
Ogni
utente ha dunque uno “specchio sociale” che provoca del tutto intenzionalmente
una sorta di fusione tra noi e l’ambiente sociale modellato dal
software. Si tratta, in altre parole, di un effetto espressamente progettato
per ottenere, come sostiene la Zuboff, “un loop chiuso in grado di alimentare,
rinforzare e amplificare le inclinazioni di un utente, per farlo fondere con il
gruppo e aumentare la sua tendenza a condividere informazioni personali”. Ciò che
queste meccaniche sfruttano è semplicemente la difficoltà a formarsi un sé
autonomo in parte connaturato alle meccaniche sociali umane, ma in parte
rafforzato enormemente in questi tempi di grande incertezza. L’ingegnerizzazione
di questa forma di meccanica della sorveglianza sfrutta l’esigenza di sentirsi
come altri (e quindi diversi da altri ancora), migliori di alcuni, e
consente di gonfiare il proprio io alla ricerca di indispensabili forme
di popolarità, autostima e quindi felicità. I social media sono perciò
descrivibili come contesti artificiali pensati espressamente per indurre ed
incentivare la tendenza del ritorno al branco; ci attirano in uno
specchio sociale e catturano la nostra attenzione sfruttando il fascino del
confronto sociale, ma nel fare ciò massimizzano la pressione sociale e la
conformità (oppositiva).
Ci
sono alcune cose rilevanti in questa terrificante descrizione:
- Spiega
perché sui social media, divenuti così centrali nella vita di tanti e quindi
nella formazione del dibattito pubblico, si crei una crescente
polarizzazione tra branchi reciprocamente non solo ostili, quanto proprio
non comunicanti (in quanto basato sulla conoscenza di fatti ed interpretazioni
del tutto diverse);
- Spiega
perché di volta in volta alcuni temi emergano con la forza di una valanga e si
impongano, ricreando sempre nuovi branchi e nuove partizioni sociali (altrettanto
incomunicabili delle precedenti);
- Rende
chiaro come mai vediamo sempre conferme a quel che ‘riteniamo’ di pensare
(ma che è un costrutto sociale indotto dall’algoritmo).
Scrive
il mio amico Maurizio Denaro (che conosco nella vita ‘reale’ e con il quale ho
pranzato, questo antico rito che una volta definiva la vera conoscenza):
“mi piace, di
tanto in tanto, ricordare quanto siano fugaci i dibattiti, di questi tempi, e
di come argomenti che sembravano tali da far crollare il mondo, tornano nel
dimenticatoio:
1) chi
si ricorda del MES? anche quello sanitario, che senza il nostro SSN sarebbe
crollato e non si sarebbe potuta affrontare la pandemia?
2) chi
si può dimenticare dello spread, indice di tutti i mali del nostro paese e maestro
di direzione, verso riforme salvifiche e fondamentali.
3) ed
il debito pubblico? quello ogni tanto ce lo ricordano, ma non troppo, che ad
oggi ne devono far debito per uscire dalla loro crisi, ma adesso far debito non
è male, e non sono le prossime generazioni a doverlo ripagare, chi non lo
dicono, ma tanto fa niente.
4) la
legge elettorale, fondamentale, senza quella la riduzione dei parlamentari
rischia di essere una puttanata, niente, non è prevista tra le riforme che ci
chiede l'UE, quindi non serve, tanto della democrazia ce ne siamo dimenticati.
Allora forse non vale
più neanche il tempo di litigare, che sò, sulla pandemia, che quando
decideranno non sarà più rilevante, che sò, sull'Afghanistan, che ce lo eravamo
dimenticati, e così sarà tra qualche settimana.
Buon fine
settimana”.
Questo
post non raccoglierà “like” da nessuno dei due branchi.
Fatti:
la pandemia.
Questi
ultimi mesi sono stati investiti da un evento straordinario, in qualunque modo
lo si voglia vedere, che impatta la vita di tutti noi, ma lo fa in modo molto
diverso per ciascuno. All’inizio del 2020 si è presentata infatti una pandemia
subdolamente simile alle malattie polmonari alle quali siamo abituati. In essa
il tasso di mortalità è abbastanza basso (anche se superiore all’operazione al
cuore che subì mio padre anni fa), ma la contagiosità molto alta (e ancora più
con alcune delle varianti che si sono prodotte). Da un sito che controllo
talvolta[4] leggo che nel mondo ci
sono stati ad ora 220 milioni di casi registrati e 4,5 milioni di morti (2% dei
casi). Per fare un esempio, l’influenza “asiatica”, diffusa in tutto il mondo
nel 1957, provocò un milione di morti e spinse la creazione di vaccini
antinfluenzali annuali. Simile fu l’impatto della “influenza di Hong Kong”, nel
1968.
L’Italia
è al nono posto per morti (ma al sedicesimo per milione di abitanti con i suoi
2.145 morti per milione di abitanti). Nel 2020 ha visto i morti per tutte le
cause aumentare di centomila unità, rispetto alla media dei cinque anni
precedenti, ciò su 4.035.000 casi diagnosticati[5]; si tratta del più alto livello
di mortalità dal dopoguerra, con un aumento del 9%. È da segnalare che i dati
anomali di mortalità in Italia, rispetto alla media dei cinque anni precedenti
(ed in effetti a tutto il dopoguerra), sono limitati a poche regioni: Piemonte,
Valle d’Aosta, Lombardia e Trento. Le altre regioni non registrano mortalità
più alte della media. Inoltre è molto sbilanciata per età, nella classe 65-79
anni il 20% dei decessi è stato da connettere al Covid; infine per sesso, in
quanto colpisce in particolare gli uomini.
L’epidemia,
come noto, si è svolta per “ondate” (come è quasi sempre accaduto), dove la
prima (che colse impreparato l’intero sistema) fu apparentemente più piccola,
anche se la rilevazione era molto meno efficace, ma provocò molti morti a causa
del semi-collasso del sistema sanitario nazionale.
Il
confronto con il numero dei decessi restituisce, infatti, una curva del tutto diversa.
Per
terminare questa analisi dei principali fatti, la distribuzione dei decessi
attribuiti al Covid è enormemente sbilanciata verso le coorti di età più grandi.
Il 60% circa dei morti è attribuibile a quella degli ultra ottantenni (che è
normale abbiano anche altre patologie), mentre il 30 % a quella degli ultra
sessantacinquenni. Solo l’8% alla classe tra cinquanta e sessantacinque anni, e
solo il 1% a quella sotto i cinquanta anni.
Come
si vede dal grafico i picchi di mortalità sono stati vicini ai 1.000 morti al
giorno, e la campana della fase acuta superiore ai 500. Per dare un’idea in
Italia muoiono normalmente circa 650.000 persone all’anno, quindi poco meno di
2.000 al giorno. Ma questo dato, di per sé rilevante, è accentuato dal fatto
che le morti (e le ospedalizzazioni gravi) sono concentrate in poche regioni e
province.
A
partire dal 2021 sono disponibili alcuni vaccini, sviluppati a tempo di record
ed approvati in emergenza dalle autorità sanitarie mondiali[6], somministrati[7] ormai in Italia a 38
milioni di persone, con una incidenza delle dosi somministrate molto alta
(circa 90%), ed un numero di dosi per centomila abitanti di centotrentatremila
che ci colloca al 35° posto nel mondo. per fasce di età gli ultranovantenni
sono vicini al cento per cento (95%), gli ottantenni al 93%, i settantenni al
90%, i sessantenni al 85% ed i cinquantenni al 77%. Le coorti meno a rischio di
morte dei quarantenni al 67% e via via di meno (ventenni e trentenni al 60%, sotto
al 40%). La stima è che al 22 settembre si raggiungerà la soglia dell’80% dei
vaccinati. Questa soglia era stata considerata nei modelli epidemiologici sufficiente
per spezzare le catene di contagio e rendere la malattia tollerabile per il
sistema sanitario nazionale, ma la variante “delta” che è molto più contagiosa rende
questo calcolo incerto. Su questa dimensione tecnica della valutazione c’è una
incomprensibile mancanza di trasparenza.
Divagazione:
decisioni e fratture comunicative
Come
capita normalmente in tutti i campi i decisori tendono alla logica DAD (Decidi,
Annuncia, Difendi), invece di offrire alla discussione pubblica i motivi
razionali e l’analisi delle priorità delle scelte.
Ogni
politica, e soprattutto ogni azione conseguente, comporta infatti sempre la
distribuzione di oneri per alcuni e spesso immediati a fronte di benefici
distribuiti diversamente nel tempo e nello spazio; questa è la ragione per la
quale non manca mai di sollevare ostilità e spesso reazioni organizzate. Spesso
queste si organizzano in un vero e proprio conflitto che, grazie anche all’interessata
infrastruttura dei social, subisce un processo di “escalazione”. Dalla divergenza
di opinioni si passa all’identificazione di un “nemico”, per cui si alza una
insuperabile barriera comunicativa. Ogni azione, ed ogni tentativo di
comunicazione, sarà immediatamente distorto in uno schema amico-nemico e visto
come tattica, inganno, menzogna etc.
Questo
processo di verifica da entrambi i lati della frattura comunicativa.
Tra i fattori che rendono sempre più forte il
processo di “escalazione” (cioè l’escalation del conflitto) ci sono alcuni che
conviene focalizzare:
·
la riduzione della complessità
cognitiva;
progressivamente gli attori, per una pulsione psicologica di base alla
semplificazione di quadri complessi e stressanti (difficilmente si può
immaginare qualcosa di più complesso e stressante di una pandemia), tendono a
farsi un’immagine sempre più sintetica del conflitto e delle sue motivazioni.
Tendono a darne spiegazioni univoche ed a ricercare un colpevole ben definito. Si
cercano “complotti”.
·
il cambiamento dello status
dell’avversario; quando l’escalazione è arrivata ad un livello alto l’avversario viene
deumanizzato e gli viene negato ogni aspetto positivo, attribuendogli solo un
profilo astratto di “nemico”.
·
si attivano fenomeni di
“anticipazione pessimistica” in base ai quali ognuno si attende il peggio
dall’altro e con ciò lo provoca effettivamente.
·
gli attori sociali restano intrappolati
dalla quantità di risorse (economiche, tecniche, sociali e politiche) che hanno
investiti via via nel conflitto; ne segue che non possono più ritirarsi senza
perderle (tipica è la paura di “perdere la faccia”, ovvero i follower, ma anche
il tempo impegnato nella controversia).
Il processo stesso di “escalazione” può essere
ricondotto ad alcune fasi tipiche:
·
in una prima fase gli attori pensano ancora che la
controversia possa risolversi in una soluzione di mutuo beneficio (vince-vince)
e quindi rimane in primo piano l’oggetto stesso di divergenza; tale fase può
essere subarticolata come segue:
o
un primo momento di irrigidimento, nel quale si entra nel conflitto, si
iniziano a creare le identità collettive e, conseguentemente, le percezioni si
fanno sempre più selettive;
o
in un secondo, i dibattiti in corso tra le parti ed al loro interno
generano polarizzazione (inizia a distinguersi tra leader, membri dei gruppi,
simpatizzanti e spettatori); la comunicazione inizia ad essere usata più che
per cercare soluzioni al problema per acquisire un vantaggio simbolico, inizia
il duello verbale;
o
se il dibattito non porta effetti, gli attori possono passare alla
politica del fatto compiuto, ovvero agire indipendentemente dalla controparte
cercando di forzarle la mano; si tratta di una violazione dei rapporti di
dialogo comunque esistenti nella fase precedente e del superamento di una
soglia psicologica che provoca un’ulteriore escalazione; il conflitto diventa
di ostacolamento.
·
in una seconda fase gli attori entrano nella
prospettiva di chi pensa che la sua vittoria deve comportare la sconfitta
dell’avversario (vince-perde), ad esempio non si consente più all’avversario di
“salvare la faccia”; tale fase può essere subarticolata come segue:
o
ogni attore crea una propria immagine del “nemico” e simmetricamente si
fa un’immagine eroica di sé; in tale fase si manifestano le anticipazioni
pessimistiche e si chiudono i canali di comunicazione reale; le azioni
diventano rivolte a cercare alleati ed a colpire l’avversario, non più la sua
azione;
o
se il conflitto passa sul piano di azioni rivolte a far “perdere la
faccia” all’avversario (cioè a colpire la sua identità sociale) si è superata
una soglia psicologica fondamentale e un punto di non ritorno; da questo
momento in poi è un conflitto di valori e di appartenenza che non prevede
comunicazione;
o
a questo punto normalmente si passa alle minacce ed agli ultimatum che
vincolano entrambe le parti a passare altre soglie di scontro o a cedere e
ritirarsi (su questo passaggio si può collocare il Green Pass sotto il
profilo della sua funzione nel conflitto);
·
la terza fase è quella dell’azione fisica, in
essa sono possibili atti di violenza mirata o generalizzata (naturalmente non
nei casi che sono qui oggetto di analisi); il conflitto entra in una fase
terminale in cui gli attori ammettono di poter subire danni pur di farne di più
all’avversario (perde-perde).
La
strategia di “de-escalazione” dovrebbe passare a questo punto per il
ridimensionamento dei fini degli attori (il decisore dovrebbe accettare di
contenere e non eradicare il virus, rimuovendo gli eventuali fini eterogenei, e
i ‘ribelli’ non vedere la cosa come un conflitto per la rivoluzione – liberale o
socialista -, ma solo come una politica sanitaria complessa). Quindi per la “depolarizzazione”,
che passa per la ricomplessificazione della materia (fornire da entrambe le
parti descrizioni meno manichee). Tipicamente questo può passare per l’ampliamento
delle soluzioni ammissibili (per cui, come vedremo al termine, la centralità
vaccinale può essere attenuata e affiancata da più flessibili procedure di
distanziamento, da ristrutturazione e potenziamento graduali delle capacità di
cura e di trattamento anche emergenziale, di riarticolazione dei luoghi e tempi
di lavoro e vita, risolvendo i nodi di sovraffollamento) anche al prezzo di
forzare alcuni vincoli sistemici (la principale ragione per cui l’elenco sopra
indicato non si implementa adeguatamente, e soprattutto strutturalmente, è che ci
sono vincoli obiettivi di tipo europeo, sui quali torneremo dopo) e di
modificare la mentalizzazione del problema (non pensare alla pandemia come un ‘cigno
nero’, che passerà tornando al business-as-usual, ma come un segnale sistemico
di disfunzionalità che vanno affrontate e risolte).
Fatti:
vaccini ed effetti
Torniamo,
dopo questa divagazione, alla descrizione. L’impatto positivo principale dei
vaccini (e quello per il quale sono stati progettati) è di aver modificato drasticamente
l’incidenza delle ospedalizzazioni, e soprattutto della mortalità, più
incerto l’impatto sulle diagnosi ovvero sulla diffusione della malattia. I dati[8] direbbero comunque che si
è registrata una riduzione dell’80% per il rischio di infezione (che ora impatta
molto più sulle classi degli under quaranta e giovani), e del 90% e 95%,
rispettivamente, per il rischio ricovero e decesso. Si tratta, ovviamente, di
elaborazioni non semplici ed elaborate con il modello statistico di Poisson. Molte
ricerche sembrano affermare che le persone vaccinate con successo, ovviamente
non tutte, mediamente se vengono in contatto con il virus ostacolano la sua
replicazione e quindi serbano una minore carica virale e per meno tempo. Qui ci
sono numerosi fraintendimenti e difetti di lettura degli stessi paper
scientifici (i quali non sono scritti per essere compresi da tutti, ma solo
dalla comunità scientifica). È chiaro che nei grandi numeri ci siano casi di
contagio da parte di vaccinati, ciò sia perché il vaccino non funziona per tutti
ed in ogni caso (a grandi linee c’è un 10% di casi in cui fallisce, e che sale
man mano che ci si allontana dal momento della somministrazione) sia perché le
condizioni di contagio sono diverse (è molto diverso se una persona con bassa
carica virale, nel quale il virus non riesce a replicarsi o lo fa poco, entra
in contatto con un’altra per pochi secondi in un’area semiaperta, come un bar
mentre si prende un caffè, o sta due ore in un pub affollato). Tuttavia quel
che è rilevante per l’impostazione di una politica pubblica di sicurezza
sanitaria non è il singolo caso, che si può tollerare, quanto l’effetto
aggregato. Per cui se abbasso la probabilità di contagio, vaccinando, e riduco
le occasioni di stare in contatto tra persone a diverso grado di vulnerabilità,
complessivamente avrò una circolazione del virus meno rapida e quindi avrò meno
pressione sul sistema sanitario. Ciò significa che potrò gestire i malati e ridurre
al minimo la mortalità.
Questa
è, mi pare, la base razionale delle misure di confinamento selettivo (il fatto
che sia la base razionale non significa che sia la ragione dell’adozione,
o che sia tutta la ragione). Né, tantomeno, che giustifichi il modo in cui è
stato promosso. In effetti sembra giustificarlo molto poco (ma non abbiamo
esatta contezza del grado di fragilità del sistema sanitario né delle stime dei
modelli, e questa assenza di trasparenza è una delle cose più gravi della
situazione).
Questi
i fatti, per come sono descritti dalle fonti ufficiali e sulla base delle
tecniche di raccolta ed elaborazione statistica normalmente adoperate.
Ora
proviamo a raccontarli in una diversa cornice.
Il
2019 era terminato con la formazione del governo ‘bianco-giallo’ (PD e M5S) e
con la riduzione dell’anomalia delle elezioni del ciclo 2016-18 (ciclo
populista) un poco ovunque. Questa è una circostanza di sfondo molto
importante, come proveremo a dire dopo, perché parte della rivalsa che si
intravede nelle decisioni governative ne risente. In un generale clima di
normalizzazione all'inizio del 2020 è cominciata a circolare la notizia di una
malattia classificata inizialmente come ‘polmonite atipica’ che si diffondeva
in oriente (dove si era avuta l'esperienza della Sars e della Mers), ed in
particolare in Cina, in un'area di grande densità ed importanza come la regione
di Wuhan (circa la dimensione demografica dell'Italia).
Con
qualche sconcerto, e un malcelato e divertito senso di superiorità, i nostri
media riportarono che, dopo un'esitazione iniziale, il governo centrale cinese
(Pcc) rispose con misure senza precedenti di blocco assoluto delle attività
nell'intera regione. Si riportava di persone chiuse in casa, distribuzione di
viveri, severissimi blocchi alla circolazione, immediata chiusura di tutte le
attività non indispensabili. Ma anche di un immediato supporto dal resto del
paese e costruzione a tempo di record (singoli giorni) di enormi, nuovi,
ospedali. Il blocco durò un paio di mesi ed fu accettato disciplinatamente
dalla popolazione. Rientrata l'epidemia seguì, in tutti i paesi orientali, un
maniacale tracciamento di tutto e tutti per prevenire altri focolai. Quando si
sono presentati sono stati immediatamente ripristinati i blocchi (anche per
milioni di persone, anche nei porti della costa), fino ad ora.
Dopo
un paio di mesi la cosa, però, si presentò improvvisamente e brutalmente nel
bergamasco e poi in buona parte della Lombardia. Il governo italiano,
politicamente debole e con una forte opposizione (Lega e Fratelli d'Italia)
dotata di un fortissimo consenso (ed al governo in quelle regioni), esitò per
alcune settimane (promuovendo anche brindisi pubblici ai “navigli” di Milano),
terrorizzato dal dover interrompere le attività connesse al tempo libero ed
alla produzione. Come ricordiamo la Confindustria (come fa tutt’ora) si mobilitò
immediatamente per scongiurare il blocco delle attività produttive. Lentamente però
il progresso dell'epidemia, e l'impennata dei casi ospedalizzati in modo grave
(che saturarono subito le pochissime terapie intensive sopravvissute a decenni
di tagli alla sanità) costrinse il governo a dichiarare, con la costante e ferma
opposizione del governo lombardo, il lock down. Un lock down, si intende,
all'acqua di rose e limitato a più o meno la metà dei lavoratori e delle
attività. Tuttavia, per la scala geografica totale (mal giustificata dai numeri,
dato che interessava poche regioni) e l’impatto sulle vite dei cittadini si
trattava di una misura senza precedenti noti (durante la spagnola ci furono
lock down, ma per lo più in singole città).
Divagazione:
impatti sociali e sociointegrazione liberale
Questo
lock down parziale mise in evidenza drasticamente l’enorme differenza creata
dal capitalismo contemporaneo tra coloro che sono impegnati in attività
produttive, godendo di qualche protezione e garanzia residuale (alla
deregolazione degli ultimi trenta anni) e l'enorme massa di coloro che sono
precari, saltuari, impegnati in attività ‘deboli’ come il turismo, la
ristorazione, il tempo libero (attività che l’analisi marxista, e l’economia ‘classica’,
individuava come “improduttive”). Attività nelle quali, accelerando negli anni
della ristrutturazione post 2007, si erano in effetti rifugiati i capitali
deboli ed era proliferata una grande massa di lavoro senza garanzie e
protezioni, debolissimo, supersfruttato, o al limite tra lavoro autonomo,
imprenditoria e semi-dipendenza. Una costellazione che è stata colpita come da
un ciclone dal dissimmetrico impatto del virus e delle misure di emergenza[9].
Una
vastissima area, quindi, includendo anche il piccolo commercio fermato dal lock
down, che è stata sostanzialmente abbandonata a se stessa (a causa delle esitazioni
e dei vincoli imposti dal combinato della Ue e della Tesoreria). Pochi fondi e
in grande ritardo sono stati destinati in un momento in cui la nuova politica
della Bce avrebbe potuto consentire di accedere senza limiti all'emissione di
debito (se in tale direzione non fosse operante un divieto non palese ma molto
concreto)[10].
È
difficile sottovalutare questa circostanza. Il tremendo colpo subito dalle
parti più deboli della società del lavoro rappresenta un enorme acceleratore
della crisi della democrazia. Come mostravano Durkheim e Marx (sul piano della
denuncia), tra gli altri, la qualità della partecipazione dipendono in modo
sostanziale dal presupposto dell’esistenza di una corretta, trasparente ed
inclusiva del lavoro, non dalla sola presenza di possibilità di discussione
pubblica. La coesione sociale dipende e deriva dalla società del lavoro non
alienato, e da questo la possibilità di sentirsi membro della società e
partecipe politico di essa. Non è la comunicazione (peraltro distrutta in
radice dal medium verticistico dei luoghi ufficiali - televisione e giornali –
e da quello alternativo dominato dagli algoritmi “della sorveglianza”) ad
essere fonte di integrazione, che in genere nelle condizioni sociali attuali
diventa piuttosto fonte di “escalazione” di conflitti, quanto la pratica nella
quale membri paritari si riconoscono nella reciproca indipendenza, sviluppando
un senso comune di appartenenza attraverso la cooperazione nella produzione
di qualcosa nel mondo. Ovvero nell’esperienza di lavorare gli uni per gli altri. Ovviamente questa, prima di Marx, è stata la
lezione di Hegel. È in questo modo che si crea il presupposto per raggiungere
il senso del proprio valore. E, cosa molto importante,
non è qui tanto una questione dell’entità delle entrate monetarie, ma proprio
delle condizioni sociali di un lavoro che determinano la sensazione che il
proprio contributo abbia un peso. La sensazione di non stare costruendo
qualcosa di intellegibile nel mondo, di non produrre o farlo non comprendendo
il proprio ruolo e contributo, è ciò che espelle l’individuo dal senso
di essere nella società. In altre parole, più i membri di una società hanno
la possibilità di svolgere compiti complessi, cooperativi, più alta è la
partecipazione e più si attivano anche politicamente.
La disattivazione politica che si vede ovunque,
l’indifferenza e l’individualismo dominante, l’assoluta incomprensione del
sacrificio per gli altri, derivano da questo. Da una cattiva divisione del
lavoro e da una società del lavoro male ordinata. Qui la critica di Marx, che
reputava non a torto che il capitalismo fosse inadatto a organizzare una divisione
del lavoro idonea a creare coesione ed attivazione, è centrale.
Ciò significa che la ristrutturazione necessaria delle
strutture sociali di formazione della personalità e della politica dovrebbe
passare per l’idea
durkheimana che la società dovrebbe sforzarsi di selezionare i lavori più
significati e cooperativi in modo che il singolo lavoratore sia messo
in condizione di comprendere il modo in cui il proprio ruolo si incastri
nell’insieme delle attività interconnesse e nella generale divisione del
lavoro, trovandovi il suo posto. Dovrebbe anche significare il
contrasto, cosa che è decisamente contro lo spirito del capitalismo neoliberale
(e del capitalismo in generale), di tutte le forme di lavoro precario,
intermittente, flessibile e umiliante, sottopagato, frammentato e svuotato di
senso, monotono, routinario. Giungendo fino a potenziare il lavoro cooperativo
autogestito o, al capo opposto, il servizio pubblico obbligatorio indipendente
da censo o posizione sociale.
Reazioni
Tornando
ancora al racconto, si deve ricordare che successivamente l'epidemia si attenuò
e nell'anno successivo (tra l'ottobre 2020 e l'inizio del 2021) si ripresentò
più forte, ed anche al sud, inducendo un altro lock down per le regioni più
colpite (fu introdotta la classifica “rosso-arancio-giallo” e limitata la
circolazione interna).
Nel
frattempo il governo Conte negoziò l'accesso al nuovo meccanismo (New
Generation Eu[11])
di sostegno per la ristrutturazione del sistema economico e sociale europeo e,
immediatamente, è stato sostituito dal governo Draghi che ha l'appoggio anche
della Lega.
In
questa condizione di grande stress e di paura, la prima pienamente
comprensibile reazione di molti (e di alcuni ancora oggi), veicolata e
rafforzata dalla creazione di branchi che abbiamo prima descritto, è stata di
dire che il Covid non esiste. Di fronte all'evidenza (ed al
moltiplicarsi di casi noti nel proprio ambito di conoscenze personali) dopo settantamila
morti e riscontrato che gli ospedali buttavano per strada tutti quelli che non
avevano covid, una parte si è impegnata a dire che la malattia esisterà pure ma
comunque non bisogna fermare la vita (che, se no, diventa “nuda”[12]) e quindi non si dovevano
fare Lock Down. Uno degli argomenti, comprensibile se pure egoistico, era che chi
è giovane (la grande maggioranza dei lavoratori deboli nei settori prima
descritti), in fondo, non si ammala in modo grave. Nella versione più brutale, chiaramente
favorita dalla ricerca ossessiva dei ‘like’ nei social, si trattava di lasciare
che la natura facesse il suo corso. Alla fine nella vita si muore (ovviamente chi
lo scriveva, senza vergogna, sapeva di essere al sicuro).
Qui
ha fatto capolino l'idea, nella dinamica dei gruppi in fusione che
progressivamente si staccavano dal generale ambiente di discorso, creando una
propria rete di fonti, di rimandi, di teorie e di fatti, che in effetti c'erano
(ci dovevano essere necessariamente) cure nascoste e che qualche progetto
doveva (quindi) essere in corso.
Peraltro,
dopo i primi settantamila morti, quando i lock down ridussero i casi
(soprattutto dipendenti delle aziende private ospedaliere del nord, nelle
regioni leghiste), molti operatori in cerca di visibilità mediatica cominciarono
a dire che a quel punto “il virus era morto”, con poca coerenza con la
precedente affermazione sull'inutilità dei blocchi. Dunque, coerentemente, se
il virus era “clinicamente” morto, allora non bisognava tracciare nulla, che
questo era un'insopportabile violazione della privacy (anche se brutta copia e
non funzionante delle app di controllo orientali). E, ovviamente, non doveva
essere imposto nessun presidio, o profilassi, come le mascherine. Ricordiamo,
infatti, che di volta in volta sono state difese, nelle aree di discussione che
sempre più si rafforzavano, linee di conflitto noi/loro intorno a qualunque
politica di contrasto venisse avanzata. I Lock down, ovviamente, ma anche le
mascherine, l’app immuni, etc.
Quando
purtroppo è ripresa la malattia, ma nel frattempo sono stati approvati a tempo
di record (data la situazione che stava, niente di meno, che mettendo a rischio
l'egemonia bisecolare dell'occidente e facendo collassare il suo strumento
principe: la globalizzazione) alcuni vaccini (in occidente, perché cinesi,
cubani e russi avevano fatto prima e con tecniche più tradizionali), allora il
repertorio si è allargato a questi: inutili, dannosi, non sperimentati,
prodotto di business (cosa vera). Una parte rilevante della critica si è
concentrata sulle cosiddette “cure precoci”[13]. In effetti arrivando,
con poca coerenza, ad osteggiare vaccini da 20 euro una volta all’anno in
favore di cure altamente complesse e costose, ad esempio a base di sieri
derivati dal sangue (che, per essere affidabili richiedono lavorazioni altamente
specialistiche) che, ovviamente, nel sistema capitalista in cui viviamo
sarebbero comunque offerte dalle medesime ditte a costi enormemente superiori.
Ma
ormai ci sono intere biblioteche di dati ed elaborazioni, ognuna con i suoi
riferimenti più o meno condivisi nella ‘comunità scientifica’ (che fortunatamente
genera sempre ipotesi di minoranza, anche per la spinta a differenziarsi[14]), che non comunicano. Ogni
gruppo autorafforzato dagli algoritmi e dalla spinta umana ad avere riscontro,
fama, conformità, ha i suoi.
Mentre
questa polemica continua (si spera che in autunno-inverno arrivino finalmente
le prime cure approvate, ma sono per lo più delle stesse ditte che producono i
vaccini[15]) e viene dimostrato dai
numeri che i vaccini almeno eliminano sostanzialmente le terapie
intensive e i morti, è cominciata la battaglia degli esperti di statistica e
degli analisti autopromossi (per lo più con formazione umanistica). Si registra
quindi un profluvio di analisi su paper complessi in inglese e sui database
israeliani, inglesi, svedesi, etc. senza adeguata comprensione dei dati e capacità
(che è tecnicamente non banale e occorre apprenderla) di disaggregarli. Una
piena applicazione del paradosso di Simpson[16].
In
questa dinamica di progressiva distruzione del terreno comune e sociale alla
fine è emersa la grande battaglia di “libertà” del Green Pass.
Fermiamoci
qui, perché si tratta in effetti di una questione molto complessa.
Logica
dell’argomento dei no-Green Pass
La
logica dell'argomento opposto dall’area di discussione ‘ribelle’ alla
confusionaria e contraddittoria politica pubblica del Green Pass si può
riassumere come segue:
A. Fatto
1.
Il vaccino protegge dai casi gravi della malattia,
B. Fatto
2.
Il vaccino non impedisce il contagio,
C. Fatto
3.
I giovani non si ammalano in modo grave.
D. Conseguenza
1.
E' ingiustificato vaccinare i giovani (under 40 anni).
Quindi:
E. Conseguenza
2. Costringerli in modo surrettizio è un abuso non necessario.
Infatti
(argomento complementare, ma necessario):
F. Fatto 4.
I vaccini danneggiano e/o possono provocare reazioni avverse anche nei giovani,
Quindi:
G. Conseguenza 1
(versione b). Il bilancio costi/benefici è negativo e non c'è neppure un
beneficio collettivo compensativo.
e
H. Conclusione 1.
La politica del Green Pass è quindi irrazionale e illogica
Ne
consegue logicamente che:
I. Conclusione
2.
Non servendo alla lotta pandemica essa deve quindi servire a qualcosa di altro.
E questo altro è da rintracciare nei suoi effetti di potere (questione “Grand
Reset”[17] e questione “Dittatura
sanitaria” o “tecnocratica”[18]).
Questa
filiera logica conduce al dominio delle posizioni libertarie (e complottiste,
C2) nella mobilitazione. La quale non si attiva a partire dalla obiettiva e
gravissima carenza del servizio pubblico e mancanza di ristrutturazione del
sistema economico (che rende tanti, ed in particolare giovani, in condizioni di
debolezza tale da non poter sopportare due o tre mesi di arresto di attività) o,
sui vincoli finanziari (che impediscono il supporto che in Cina è stato
garantito dal primo giorno), bensì intorno a parole d'ordine coerenti con il sottostante
senso comune sedimentato in questi ultimi decenni:
- <libertà>
- <sfiducia>
(nel pubblico, si intende, ben meritata).
A
questo senso comune si trovano uniti sul piano sociologico:
- marginali
(resi tali dall'organizzazione economica),
- fortemente
abbienti (spesso in posizione di imprenditori e/o di rentier che non vogliono
sopportare limitazioni).
Sul
piano culturale:
- liberisti
conseguenti,
- libertari
di destra e sinistra.
Divaricazioni
ed egemonia neoliberale
Come avevo già scritto, di fronte a questa sfida si
è quindi manifestata una profonda divaricazione. Una lacerazione ha
attraversato diagonalmente la società e tutte quelle che sembravano, ante la
crisi, delle comunità politiche in formazione. La sfida della sicurezza ha
lacerato il corpo dei “contenitori dell’ira”[19], portando allo scoperto
la loro matrice e cultura neoliberale. In particolare, quella che si potrebbe
chiamare ‘l’area della sovranità costituzionale’, di ispirazione marcatamente
euroscettica e di pratica politica -in varie forme- populista, si è lacerata ed
è entrata in una fase di pronunciata “asfissia politica”. In grandissime linee
l’ipotesi politica che l’aveva ispirata era di tentare un compromesso tra forze
di diversa ispirazione e cultura politica intorno all’ipotesi che l’oggettivo
interesse per l’espansione della “domanda interna” potesse essere punto di
convergenza di una nuova maggioranza politica dalla periferia e dal basso.
Ovvero che un accorto esercizio della logica oppositiva del populismo (inteso
al senso di Laclau) potesse ripoliticizzare le forze sparpagliate dalla
rivoluzione neoliberale intorno al “programma minimo” di una ripresa di
capacità sovrana a base popolare. Il tentativo di mettere tra parentesi tante
vecchie fratture, quella tra “riformisti” e “rivoluzionari”, ad esempio, per
iniziare almeno di uscire dall’angolo e riprendere il cammino verso una società
più decente. Secondo l’idea che un passo produce forza per fare il successivo. Una
ipotesi, per intendersi, interclassista e caratterizzata da un riformismo ‘forte’
(o strutturale).
Tuttavia, nella seconda fase della crisi, già dalla
metà del 2020, sotto la spinta delle conseguenze diseguali delle misure di
protezione sanitaria su un sistema economico e sociale reso fortemente
frammentato dal trentennio neoliberale, abbiamo assistito alle mobilitazioni
delle frazioni più precarizzate e di quelle più deboli del lavoro autonomo o
professionale/imprenditoriale. E questa mobilitazione si è spontaneamente
rivolta contro lo Stato, accusato di esercitare un potere “biopolitico”
eccedente, e contro i ceti “protetti” dei lavoratori dipendenti. Ha
inseguito le più stravaganti ipotesi, ha assunto toni di aspra difesa della
libertà offesa. L’ipotesi di “alleanza della domanda interna” è andata in
frantumi.
Quel che è emerso alla luce è che buona parte
dell’area si muoveva sotto la ferma egemonia di quei ceti intermedi indeboliti,
attori della svolta neoliberale degli anni seguenti al riflusso ma oggi traditi
nel loro affidamento ad essa. La reazione emersa ha opposto, non senza una sua
quale coerenza, la risposta di protezione difensiva delle
macchine statuali alla violazione della libertà individuale, identificandola
quale profonda violazione dell’ordine liberale[20]. Dimentica di ogni sbandierato
orientamento al socialismo sono riemersi tutti i temi libertari profondamente
radicati nella società italiana e nelle sue medie borghesie, siano esse
orientate a sinistra, destra o centro.
Sono esplose quelle precarie “catene di equivalenza”
che, sotto l’astratto slogan della “domanda interna” facevano sembrare simili
le domande di chi in effetti odia lo Stato (e specificamente lo Stato fiscale e
disciplinatore) e chi al contrario lo vuole potenziare dopo un quarantennio di
indebolimento; chi vuole solo ascendere alla posizione dalla quale può
nuovamente, e finalmente, sfruttare il lavoro debole (di commessi, impiegati,
operai) per vincere la lotta della vita e raggiungere il proprio posto in essa,
e chi, magari, vorrebbe ridurre all’opposto il proprio grado di sfruttamento e
guadagnare condizioni di lavoro più dignitose; chi ha bisogno di indebolire il
lavoro per sfruttarlo e chi questo lavoro lo presta; chi abita le periferie e
chi ne fugge disperatamente, o non vuole scivolarvi; chi si sente in basso e
chi in alto.
Nei mesi tra la metà del 20 e del 21 il sistema dei
media, ed in parte il frastuono dei social, hanno restituito un’immagine per la
quale a mobilitarsi ‘contro’ sono micro e piccoli imprenditori, autonomi, commercianti,
più che insegnanti, impiegati, operai e funzionari pubblici. In parte è
una percezione deformata dai media (i quali sistematicamente hanno sovrarappresentato
alcune manifestazioni ed ignorato altre), in parte dipende dal fatto che alcuni
strati dei primi soffrono maggiormente le misure di protezione prese. Le
subiscono senza le protezioni residuali il trentennio di espansione del welfare
di cui i secondi ancora godono. Ma si muovono anche perché su di essi la
cultura neoliberale ha maggiore presa. Si muovono perché per loro è più aspro
lo scollamento tra la promessa di autopromozione o di elevamento nella quale
sono stati formati e la realtà di scivolamento e stagnazione in cui vivono.
Promessa sulla quale contano per ancorare l’autoriconoscimento in una logica di
competizione verticale propria della loro soggettivazione come classe.
Insomma, in questi mesi, è riemersa una
frattura strutturale che ha anche un suo versante culturale e
cognitivo. La “alleanza per la domanda interna” è una astratta necessità politica,
ma anche nelle condizioni odierne una concreta impossibilità. Questi ceti e
gruppi, quelli che Wright Mills chiamava in mezzo al trentennio “un’insalata di
occupazioni”, fatta di dirigenti, professionisti, addetti alle vendite,
impiegati, artigiani, piccoli e medi imprenditori, accomunati da molto poco
oltre a certi parametri di reddito rilevati ex post e il desiderio di un
certo status sociale, vogliono ascendere. Vogliono staccarsi
dai ceti popolari e dai lavoratori, e vogliono, anzi che questi gli servano per
farlo.
Conclusioni
sul Green Pass
Dunque:
1. allo
stato il GP è un dispositivo di distrazione a bassa efficacia e non sicura
necessità (ma la distrazione è andata perfettamente a segno anche a causa della
reazione), ma in linea di principio la circostanza che chi non si vaccina (e
non dimostra in altro modo di non essere portatore del virus) possa essere
oggetto di qualche precauzione non è sbagliata.
2. Mentre
il Fatto 1 prima descritto è sostanzialmente vero, i Fatti 2 e 3,
in diversa misura, non sono correttamente espressi. In questa forma lavorano
con una logica binaria troppo semplificata tipica di un processo di “escalazione”
indotto dai social sul fondo della sfiducia e della disgregazione della
personalità sociale. E' illogico, oltre che non sufficientemente dimostrato,
che chi è vaccinato ed ha avuto una normale reazione contagi nello stesso modo,
e questa considerazione pesa nella forma aggregata che devono prendere le
politiche di pianificazione pubblica. I giovani e molto giovani potrebbero
essere esposti alle controindicazioni di lungo periodo, anche gravi, la scelta
di vaccinarli va quindi ponderata in modo molto attento (inclino a pensare che
non sia opportuno, l'unico argomento solido è che potrebbero contagiare gli
over 50 non ancora vaccinati che sono molti).
3. Naturalmente
ciò non implica che tutte le misure siano logiche ed appropriate (non lo sono
mai, in quanto esito di una logica ibrida come quella politica). Ad esempio, non
mi sembrano necessarie le mascherine per i professori vaccinati, andrebbe
evitata qualsiasi stigmatizzazione dei lavoratori non vaccinati e moltissime
delle misure disciplinari che si propongono non sono affatto giustificate e
mostrano altre “agende” all’opera (ci sono forze, cioè, che stanno cercando di
cogliere l’occasione per aumentare il disciplinamento sociale dei lavoratori, e
non solo).
4. E'
grave la costruzione di una simbolica e di una separazione tra ‘puri’ ed ‘impuri’
che va combattuta aspramente evidente, infatti, la decisione di vaccinare è sempre
una scelta dalla potente funzione mistica, esibisce i simboli della competenza,
distingue tra buoni e cattivi (o tra puri ed impuri), e divide. Ma soprattutto unisce.
Ovvero funge da dispositivo di potere e creazione di coesione, indicando un
nemico interno sul quale concentrare il male. Si tratta di un dispositivo
tipico del politico[21].
5. Dunque,
il vaccino è un dispositivo tecnico efficace, necessario, compatibile con le
nostre 'libertà' (anzi volte a salvaguardale nella misura del possibile), ma
ANCHE un regolatore sociale e un produttore di potere.
Come
si reagisce? Non urlando <libertà> (perché questa è sempre, nella sua più
intima essenza sociale) e immaginandosi come ‘ribelli’ che combattono lo Stato
(il quale in sostanza non fa nulla di diverso da quel che deve fare, anche se
lo dovrebbe fare diversamente e soprattutto con altre forme di comunicazione e
mobilitazione). Svolgendo una critica razionale, ordinata, non reattiva
(rispondendo dichiarando ‘impuro’ quel che altri chiamano ‘puro’ e viceversa),
e cercando di mettere il potere di fronte alle proprie reali contraddizioni che
sono:
- la
mancanza di investimenti strutturali,
- la
conservazione di aree di privilegio intoccabili come le imprese,
- il
rifiuto di riorganizzare la produzione e riproduzione sociale per rendere più
capace il mondo di affrontare le crisi, non solo sanitarie.
La
necessaria ristrutturazione: dal calice di cristallo alla coppa di ferro
Infatti
il nostro problema essenziale non è che abbiamo incontrato il “cigno nero”
della pandemia, quello è solo il fattore scatenante finale. Il nostro problema
è che l’intero sistema produttivo e riproduttivo nel quale viviamo, altamente
finanziarizzato e interconnesso, è come un calice di cristallo. È esile,
elegante, sottile, durissimo e fragile. È stato lasciato crescere per
decenni sulla base della ricerca costante, sotto la spinta di una concorrenza
più o meno manipolata e secondo il principio della massima accumulazione a
brevissimo termine. Il sistema di premi e punizioni che il sistema ha elargito
ai suoi attori (a partire dai manager fino all’ultimo lavoratore) puntava
parossisticamente sul rendimento a brevissimo termine, come se mai potesse
arrivare una crisi.
È
bastata la minaccia (resa credibile non solo da astratti modelli matematici,
che spesso hanno sbagliato per difetto o per eccesso, quanto dallo spettacolo
di alcuni sistemi sanitari di ‘eccellenza’ messi in ginocchio in poche
settimane) di una malattia infettiva che, se ben curata, uccide pochi, ma
capace in potenza di mettere contemporaneamente nella necessità di avere
bisogno di cure rare e costose per sopravvivere (un posto in terapia intensiva
costa circa millecinquecento euro al giorno e all’avvio della crisi ne erano
disponibili poco più di tremila), per mettere davanti all’evidenza di non avere
margini. Nell’antico Egitto le ricorrenti carestie avevano insegnato ad una
casta sacerdotale e politica avveduta la necessità di mettere da parte, anno su
anno, ingenti scorte per affrontarle. Limitavano la crescita, certo, ma
rappresentavano l’assicurazione che la carestia, con il correlato di epidemie,
invasioni, sommosse, rivoluzioni, non sarebbe arrivata un brutto giorno a
distruggere tutto.
La
nostra furbissima economia neoliberale, e i governi di quegli Stati che per
decenni abbiamo descritto come residui di epoche passate e sostanzialmente
inutili e dannosi, hanno pensato che pagare il costo assicurativo di avere una
robusta sanità ed efficienti servizi territoriali di prevenzione fosse uno
spreco. Li abbiamo quindi lentamente smantellati. Tenere ospedali di riserva
per quando sarebbe giunta una emergenza, formare più medici, potenziare la rete
dei medici di prossimità, creare ambulatori, avere industrie strategiche, anche
se leggermente meno competitive, che potessero garantire le forniture di ciò
che sarebbe stato necessario, è sembrato un lusso superfluo. Come in ogni altro
settore.
E,
sotto la pressione del sistema di vincoli in parte autoinflitto che ci
sovrasta, ancora lo pensiamo. Altrimenti gli investimenti andrebbero in altra
direzione e il numero chiuso a medicina sarebbe stato rimosso.
Il
calice di cristallo si sta dunque rompendo, piccole fessure
si intravedono, ma i nostri decisori (ovvero il complesso sistema d’azione
costituito dalle élite nazionali e da quelle internazionali connesse e
dominanti, dalle tecnostrutture specializzate non solo sanitarie, dai gruppi di
pressione e partiti politici) cercano di guardare altrove.
E,
soprattutto, cercano di distrarci.
A
questo serve il modesto dispositivo tecnico del Green Pass. Viene esacerbato e
accompagnato da dichiarazioni fuori luogo e polarizzanti, in un gioco tra
opposti che si sostengono a vicenda, allo scopo di non farci guardare che i
nodi giungono al pettine.
Da
decenni ogni fabbrica produce i suoi beni utilizzando prodotti intermedi di
terzi e appoggiandosi su una rete di servizi che è spesso estesa su più nazioni
e continenti, e che è condivisa con tante altre, di settori merceologici del
tutto diversi. Ogni azienda, inoltre, si appoggia su servizi finanziari
condivisi con tante altre. Non è sempre stato così, una volta le aziende erano
più integrate verticalmente, poi si è detto che dovevano concentrarsi sul “core
business”; una volta investivano con risorse proprie, poi si è detto che la
liquidità andava impiegata nella finanza che rendeva di più, e tanto per tutto
il resto c’era la “leva”; una volta si privilegiavano gli investimenti sul
territorio, o comunque nella stessa area amministrativa, poi si è detto che la
frontiera era la delocalizzazione; una volta i lavoratori erano trattenuti e ci
si investiva, poi si è detto che l’organizzazione flessibile ed il lavoro
agile erano il futuro. Tutta questa interconnessione è servita a porre il
mondo del lavoro sotto costante ricatto di delocalizzazione, a cercare di ottenere
ovunque le condizioni migliori, a guadagnare sempre di più, inseguendo il più
marginale sconto di prezzo ovunque fosse.
Ma,
al contempo, tutta questa interconnessione fa sì che se oggi chiudo un settore
economico (quello metallurgico come quello dei mobili) potrei assistere
all’imprevista chiusura anche di quelli che ho lasciato aperti, perché l’intero
ecosistema produttivo collasserebbe. Ad esempio, la fonderia che chiudo
d’autorità potrebbe essere indebitata con una banca la quale per reagire alla
perdita potrebbe stringere il credito anche alla fabbrica tessile che non ho
chiuso, o potrebbe essere il cliente fondamentale di un fornitore anche
dell’impianto tessile. Quando questo fornitore dovesse chiudere, costringerebbe
il nostro tessile a sostituirlo d’urgenza, in un momento in cui gli scambi
internazionali faticano a riprendersi ed il costo di molte materie prime e
semilavorati è aumentato.
Quel
che dovremmo fare è sostituire il calice di cristallo con un coppa di ferro.
E’
per non farlo vedere che si stimola l’istinto individuale, colpendo i suoi
luoghi simbolici e compensativi, con misure ad alto impatto simbolico come il
Green Pass.
Dovremmo
imparare che un sistema economico deve avere una parziale indipendenza, per non
subire le conseguenze di interruzioni per i più diversi motivi di beni o
servizi essenziali. L’organizzazione a rete leggera delle imprese dovrebbe
essere vista come un lusso che non ci possiamo sempre permettere. I magazzini
semivuoti egualmente. La mondializzazione senza limiti deve essere inquadrata
come un errore di percorso (o meglio, un progetto sbagliato).
Quel
di cui avremmo bisogno, ben oltre le misere e spesso sbagliate misure del Pnrr,
è che le attività produttive vengano irrobustite, le catene logistiche
radicalmente accorciate o comunque rese ridondanti, i magazzini rinforzati. Bisognerà
affrontare la tendenza, intrinseca alla traiettoria di sviluppo tecnologico, di
potenziare le tecnologie di controllo cosiddette “industria 4.0” e di
sostituzione del lavoro, di erogare i servizi in remoto, di smantellare l’inefficiente
ma cruciale per il tessuto civile e urbano piccola distribuzione. Farsi carico
dell’enorme problema del ripensamento e riqualificazione della città e del
territorio[22].
La
via di uscita è una profonda razionalizzazione degli apparati produttivi,
riducendo l’inutile differenziazione dei prodotti e le tante fonti di lavoro
improduttivo, ampliando l’indipendenza del paese e la sua robustezza,
garantendo la partecipazione di tutti alla produzione, alla sua organizzazione,
ai suoi frutti.
La
posizione politica: oltre il populismo
Per
questo, al di là della polarizzazione in corso, che leggo essenzialmente come
rivelatore e come cortina fumogena ad un tempo (rivela la vera natura di
molte forze che sembravano agire per il cambiamento, mentre cercavano solo di
tornare ai tempi d’oro e dal lato dell’intenzionalità dei promotori nasconde
le necessità di reale cambiamento), il punto dirimente deve essere inquadrato
come politico. E deve partire dalla percezione della frattura che la crisi
pandemica ha aperto.
Una frattura che si è manifestata anche sul piano
della tattica politica. Abbiamo visto
esaurire il ciclo del “neopopulismo” ad immediato ridosso della crisi. Si
trattava di potenti tecniche per aggregare in poco tempo “contenitori dell’ira”
capaci di effetti elettorali significativi e anche, in alcuni casi irripetibili[23], vincenti. Ma al fine di una reale politica
antisistemica sono esempi inservibili. Se hanno fallito la trasformazione in
“contenitori di potere” è per ragioni interne e inaggirabili. Il
potere non è contenuto nella figura organizzativa formalmente apicale, in
nessun caso e tanto meno nella macchina pubblica statuale. Il potere, quello
effettivo, ovvero quello di cambiare, è contenuto nelle relazioni circolanti in
un molto più vasto sistema ed ha carattere continuo, non discontinuo. Nessuna
“catena equivalenziale” può quindi fare il miracolo di evitare il duro lavoro
della “guerra di posizione” e della costruzione di effettiva egemonia[24].
Molti seguono sistematicamente ogni e qualsiasi mobilitazione,
pensando di appropriarsene, ma è un errore grave e molto noto. Lenin, in “Che
fare?” lo chiamò “codismo”[25].
La questione è piuttosto di capire, in una situazione
dinamica, non tanto chi si muove oggi, ma chi è nella posizione di fare leva per agire nel vero
conflitto in essere contrastandone la forza motrice. Contrastandola per
indurre l’avvio di un riequilibrio dei rapporti di forze che possa indurre
degli elementi di socialismo, dei quali c’è assoluto bisogno. Senza i quali
nessuna soluzione potrà essere trovata neppure ai dilemmi sistemici
sommariamente descritti. Per fare questo non si deve partire dalla mera
fotografia dell’esistente, immaginando che chi oggi è attivo o inattivo lo
resti sempre, e non bisogna immaginare la questione del potere come un episodio
singolo. Una “presa”. Bisogna comprendere, e bene, cosa è per noi il
popolo e cosa sono i suoi nemici. Sapendo che verso i nemici
si combatte, verso il popolo si lavora a creare unità di interesse e sentire.
E bisogna aver fermo e compreso che in sé la contraddizione tra chi intende
elevarsi abbassando gli altri, ovvero aumentando il saggio di sfruttamento a
proprio vantaggio, e chi ne subisce l’azione sistemica è una contraddizione
antagonista. Che può sia scivolare in una relazione con nemici, sia essere
ricondotta ad una dimensione organicamente equilibrata, ma solo se viene
trattata espressamente. Inserendo i desideri, le pulsioni, e le ambizioni delle
diverse soggettività sociali in un quadro non competitivo, socialista, appunto.
Si tratta allora di distinguere tra inimicizia e divergenza (di
rappresentazione, teoria delle funzioni sociali, prospettiva temporale). Tra
la lotta e la discussione.
Per emergere dunque dalle contraddizioni e dai
conflitti che questi due anni hanno fatto venire allo scoperto, bisogna
liberarsi dell’idea che l’assetto sociale postmoderno, creato dalle specifiche
forze introdotte dall’equilibrio del dopoguerra su generazioni che questa
avevano subito e consolidato in cultura appresa dalle nuove generazioni, sia di
fatto irreversibile. Ma non è la coscienza degli uomini che determina
il loro essere, è più vero il contrario, l’essere sociale determina la
loro coscienza. C’è infatti una contraddizione inscritta
profondamente, nelle ossa stesse, che lavora a scalzare la
coscienza postmoderna la quale paralizza l’azione sociale: l’individualismo
edonista ha perso le condizioni di sicurezza ed affidamento che lo rendevano
possibile. Nelle condizioni del lavoro contemporaneo ed in quelle della
vita della grandissima parte della popolazione, in particolare di coloro che
non possono scaricare su altri, o sperare di farlo, i propri pesi, si affaccia
la semplice logica che solo l’azione collettiva, nuovamente, può o potrà
rimettere in questione i rapporti di forza.
È tutta, sempre questione di rapporti di forza. E
ciò nel paese, non al suo esterno. Altrimenti si resta prigionieri del
gattopardo neoliberale, nei suoi numerosi travestimenti (uno dei quali, lo
ribadisco, è la mobilitazione sul Green Pass). Mentre si giocherella con la
pietra filosofale, sperando di essere finalmente l’avanguardia rivoluzionaria
tanto attesa, il senso comune neoliberale, la coscienza data, lavorerà a
riprodursi travestito. La cosa non potrebbe essere più seria.
Abbiamo passato alcuni anni ad indicare nella
struttura di nessi e dominazione dei trattati europei il punto archimedeo da
scalzare per rimettere in gioco e rendere contendibile le istanze di giustizia
civile e popolare in Europa. Su questa parola d’ordine, o con il linguaggio di
Laclau, intorno a questa “catena equivalenziale” abbiamo aggregato forze
eterogenee. L’esperienza mostra che si è trattato di un effimero consenso.
Ora alcuni pensano di ripetere la mossa del “neopopulismo”, raccogliendolo intorno al
significante vuoto <libertà>. Ma non è vuoto, è occupato dal nemico.
Inoltre la coscienza postmoderna è ormai scalzata
dalle sue contraddizioni interne, e permane solo come zombie. Ci vorrà tempo
perché produca i suoi effetti, e bisognerà restare forse a lungo nelle trincee,
ma l’unica strada feconda è quella che si sforza di oltrepassare l’impolitico
neoliberale e tutti i suoi travestimenti e recepire il nuovo bisogno di
collettivo e di umanità, dandogli forma. Che ha pazienza di lavorare sulle
fratture che si aprono, giorno dopo giorno. Tessendo e cucendo, senza perdere
il filo dell’interesse da difendere. Ovvero del miglior interesse del paese,
che è sempre quello dei suoi lavoratori. Che si sforza di identificare i luoghi
ed i temi nei quali, intorno agli assi ordinatori centro/periferia ed
alto/basso si stanno comunque polarizzando estetiche, linguaggi, priorità e
valori, quindi soggettività di gruppo incompatibili con lo stato delle cose
presenti. È capace di non farsi ingolosire da immediate traduzioni elettorali,
ma di lavorare alla cultura politica, ovvero alla creazione di una struttura
sociale densa e ad una rete di impegni e riconoscimenti con la necessaria
decisione e passo. Conquistando una piazzaforte dopo l’altra e fidando
che l’essere sociale ha ricominciato a lavorare a nostro
favore.
Questo resta dunque il punto politico da porre (cosa che non significa sia l’unico)[26]. Tutte le
mobilitazioni reattive, guidate dalle forze sociali che sono state cresciute e
coltivate dalla svolta neoliberale, e da questa ora tradite, sembrano essere
nuove e ‘ribelli’, ma accrescono solo l’egemonia neoliberale nelle sue
fondamenta più intime. Quando il sistema potrà erogare qualche spicciolo,
riattivando un anche piccolo ciclo di crescita tale da far gocciolare qualcosa,
rientreranno immediatamente. E di questo svezzamento alla politica gli resterà
solo l’ostilità per ogni iniziativa pubblica, per ogni politica collettiva, per
lo Stato. Ostilità che sono proprie della egemonia neoliberale, la
costituiscono.
Gli resterà l’idea di essere portatori di diritti
inalienabili a fronte di qualunque interesse collettivo di qualsiasi genere, di
essere i possessori unici di un concetto e pratica di ‘libertà’ che termina
esattamente ai confini del proprio corpo e non si interessa di altro. “Libertà”
secondo la classica nozione liberale.
La prima esperienza di mobilitazione sarà anche l’ultima,
a meno che non si imponga una prospettiva socialista nel paese. Allora li
ritroveremo dall’altra parte della barricata, ma non saranno loro ad essere
cambiati, saremo noi a non aver mai capito per cosa si battevano.
[1] - Shoshana Zuboff, “Il
capitalismo della sorveglianza”, Luiss 2019.
[2] - La pagina che si apre quando si
clicca sul simbolo a sinistra in alto e mostra i post selezionati dall’algoritmo.
[3] - Zuboff, p. 475.
[6] - La cosa è oggetto di furiose
polemiche, in parte per la comprensibile paura dei vaccini (costante, dato che
si tratta di farmaci che si prendono quando si è sani, mentre se si ha, ad
esempio, mal di testa non ci si preoccupa di prendere farmaci come l’Aulin dalle
controindicazioni note ed attestate), in parte per una latente tecnofobia (si
tratta di vaccini elaborati, almeno alcuni, con una tecnica a Rna – che molti
confondono con una tecnica che manipola il Dna non avendo fatto biologia al
liceo – in sperimentazione da 30 anni ma sinora applicata per cure contro il
cancro etc.), in parte per ostilità anticapitalista e antimonopolista (la quale,
tuttavia, se applicata in questo modo porterebbe per coerenza a dover tornare
nei boschi con l’arco a cacciare), infine per sfiducia nelle procedure
pubbliche (accentuata dalla urgenza ben comprensibile con la quale sono state
esperite).
[9] - Richard Sennett, con le sue note
ricerche sul lavoro evidenzia il potere erosivo per la personalità del lavoro
debole, intermittente, senza prospettive e senza capacità di un racconto
sensato e continuo, nel quale sono intrappolati con la società neoliberale la
maggioranza dei lavoratori contemporanei (quando non sono disoccupati). Le
persone che svolgono solo lavori temporanei, sottolinea il sociologo, si sentono svalutati e non possono integrare il proprio lavoro
nella propria storia di vita. Come ricorda anche Honneth questa circostanza
distrugge anche la capacità di sentirsi membri solidali ed attivi della società
politica. Produce un senso potente di “deragliamento personale” e rende impossibile, questo è importante,
provare senso di solidarietà per gli altri. Il lavoro senza scopo produce
quindi una personalità chiusa, difensiva, interamente individualista, e, Honneth dirà, anche impolitica. Storie troppo brevi, e le tattiche del moderno
management (volte a creare disciplinamento interno di gruppo e mascherare il
potere del capo) che spesso creano e distruggono gruppi di lavoro, punendoli
collettivamente per i fallimenti individuali, rendono impossibile sentirsi
solidali e creare unità sociali coese e immersive. Il lavoro mobile, flessibile
e temporaneo “sospende la realtà” e induce a pensare solo al presente, in modo
strettamente individuale. Si veda Axel Honnett, Richard Sennett, Alain
Supiot, “Perché
lavoro?”, 2020.
[10] - E’ evidente che l’Italia è sotto
una tutela particolarmente stretta, per cui l’accesso alle risorse economiche
aggiuntive che i programmi di acquisto di titoli pubblici (che, nella sostanza,
li annullano) della Bce è soggetto a strettissimi vincoli negoziali. Negoziati che
si svolgono sotto traccia, tenuti nascosti anche al Parlamento, e che
impediscono a tutta evidenza di destinare risorse alla ristrutturazione
sistemica (della sanità, ma non solo) di cui ci sarebbe bisogno. Si veda, per
una ricognizione generale dei temi connessi, “Spartiacque,
il 2020”.
[11] - Si veda “Bastone
e carota”.
[12] - Faccio riferimento, ovviamente,
alle esternazioni di Agamben.
[13] - Mi spiego meglio. Una cura precoce
implica che sia erogata fuori degli ospedali, a chiunque sia positivo, prima
dei sintomi, e sostanzialmente ‘fai da te’ (se va bene sotto la guida di un
medico generico che non ha le necessarie specializzazioni ed esperienza). Talvolta
sono cure erogate con farmaci ad alto impatto, alcuni dalle gravissime
controindicazioni, persone che magari potrebbero cavarsela con due giorni di
febbre. Il rischio è che il mix di farmaci produca nel suo complesso danni
notevolmente maggiori (per la platea di applicazione) dell’evoluzione della malattia
dei pochi. Si ricorda che si tratta di una malattia che normalmente conduce all’ospedalizzazione
il 3,5% ca. dei contagiati (https://www.agenas.gov.it/covid19/web/index.php?r=site%2Fgraph1)
e che quindi per il 96,5% dei casi si risolverebbe comunque con pochi giorni di
febbre o poco più.
[14] - Anche se il presupposto del dibattito
alternativo (che è stato soggetto al processo di “escalazione”) è che le voci
di minoranza nel dibattito scientifico, essendo non “mainstream”, sono per
definizione più libere, il clima competitivo entro la comunità scientifica
potrebbe anche indurre alcuni ad esasperare la propria posizione per semplice
tattica opportunista. Non, quindi, per convinzione quanto per emergere e
trovare un ‘seguito’ (amplificato da social e media) in grado di promuoverlo e
farlo emergere dall’anonimato.
[15] - Pfizer e Astra Zeneca, ad
esempio.
[17] - Si veda Klaus Schwab, Thierry
Malleret, “Covid
19: The Great reset”, 2020.
[18] - Tema molto ampio, sul quale dovremo tornare. Uno
dei modi di affrontarlo è cercare di comprendere quale oggetto, soggetto e processo sia
qualificabile come democratico in una società reale e complessa (non nel
modello implicito e ipersemplificato che ce ne facciamo sulla base
dell'esperienza saltuaria di qualche episodio deliberativo a piccola scala). Se
è vero che una ragione procedurale in grado di essere qualificata come
democratica deve essere in linea di principio capace di procedere in giudizio
contro se stessa restando permeabile alle critiche, tuttavia nelle condizioni
delle nostre società nazionali complesse ed inserite in tecnomacchine altamente
delicate ciò che si autoorganizza è in prima battuta la comunità giuridica e
non una qualche omogenea fusione di senso, di scopo o di sangue. Una simile
comunità vive di due piani di legittimità: del sistema normativo nel suo
insieme e delle singole norme. La riscattabilità di principio delle pretese di
validità normativa delle norme è quindi articolata su entrambi i piani. Quando
avviene (ed avviene di rado) si unisce validità di fatto e legittimità e quindi
si attiva una funzione socio-integrativa che dovrebbe essere una delle
prestazioni essenziali della democrazia giuridicamente istituita. Cosa è
essenziale, a questo riguardo? Parecchie cose, tra queste che le ragioni
valide non siano ristrette in modo pregiudiziale. Tuttavia ciò non significa
che tutto possa essere detto ed ogni enunciato valga per argomento in ogni
contesto. Le ragioni in grado di contare restano relative alla logica del
problema da affrontare. Ecco che fa capolino la questione che, frettolosamente,
si iscrive come “tecnocrazia” (quando si staglia sul modello implicito dell’assemblea).
Ciò che bisogna ottenere per sviluppare una dinamica all’altezza della
necessità di gestione di una società sia democratica sia complessa è di
chiarire di volta in volta criteri ed interessi legittimi e accordarsi circa
gli aspetti rilevanti per trattare l'eguale in modo eguale ed il diseguale in
modo diseguale. Dunque articolare intorno al singolo problema, e coerentemente
con la natura di questo, il nesso tra diritto e politica. In altre parole,
quando si dà una produzione normativa (leggi o regolamenti) la sua legittimità
non si deve commisurare solo alla giustezza dei giudizi morali, ma anche (tra
l’altro) alla disponibilità, alla pertinenza, rilevanza e completezza delle
informazioni fornite; quindi all’adeguatezza con cui si propone che queste
interpretino correttamente le diverse situazioni e prospettino i problemi e
soprattutto all’equità dei compromessi raggiunti. Chiaramente
l’autodeterminazione democratica dei cittadini che si consultano supera, sul
piano della capacità sociointegrativa e della legittimazione etica, la mera
prestazione data dalla normazione costituzionale d’una società mercantile che –
aspirando a soddisfare semplicemente le aspettative di felicità d’individui privati economicamente attivi – tenti di garantire (fallendo)
un bene comune minimale, sostanzialmente inteso come non politico. Al contrario
l’autodeterminazione si sostanzia e dipende dalla capacità di
istituzionalizzare e rendersi permeabile a quelle che si potrebbero descrivere
come procedure e presupposti comunicativi, e quindi dall’interazione delle
consultazioni istituzionalizzate e non con le opinioni pubbliche informali. Si
potrebbe dire che essa punta ad una sorta di intersoggettività di livello
superiore, ma, attenzione, che resta incorporata nelle procedure democratiche
nella misura in cui contengono in forma implicita processi d’intesa e/o nella
rete comunicativa delle sfere pubbliche politiche. Si tratta di non farsi catturare né
dal modello mercantile liberale, né dal modello anarcoide (al fondo anche esso
liberale) dell’assemblea. Cosa che implica prestare attenzione alla necessaria,
ineliminabile, interazione tra il sistema politico istituzionalizzato, che è
l’unico in grado davvero di agire, e le strutture comunicative della sfera
pubblica che sono rappresentabili come una diffusa rete di “sensori” i quali
reagiscono alla pressione delle situazioni problematiche complessive con il
sollecitare opinioni influenti.
Ora, la questione di democrazia e tecnocrazia sta in questa delicata
relazione, che non si risolve con un taglio secco, tra due sfere d'azione tra
le quali agisce una sorta di “chiusa idraulica” (l'immagine è di Habermas,
1996) rappresentata dai presupposti e dai procedimenti comunicativi per la
formazione democratica dell’opinione e della volontà. La questione della “tecnocrazia”
non si risolve tutta d’un pezzo, bisogna spenderla nella moneta di piccolo taglio
di una discussione di merito ed adeguatezza.
[19] - Si veda il post “Dai contenitori
dell’ira ai contenitori di potere”.
[20] - Si veda Andrea Zhok, “Critica della ragione liberale”, Meltemi 2020
[21] - Altro punto su cui si dovrebbe tornare. Una decisione pubblica
non è mai solo un calcolo. Non è, nella sua essenza, l’espressione di una
volontà. Non è il risultato di un voto. In una decisione pubblica c’è sempre
l’attivazione di un’arena di conflitto e lo spegnimento di qualche altra.
Ci sono sempre attori valorizzati ed altri oscurati. C’è sempre una posta
palese ed altre invisibili; ogni attore ne ha, e non sempre collimano. Una
decisione pubblica non è mai logica. Ha sempre un contenuto emotivo ed un
significato politico. Produce, riproduce e celebra dei valori sociali, e
dunque è il risultato (e la matrice) di una società esistente o nascente. Ogni
decisione interpreta il flusso della storia dell’organizzazione o del milieu
che è stato attivato per strutturarla e giustificarla, essa crea sempre
alleanze (e non sarebbe concepibile senza di esse), nasce nel conflitto e lo
delimita. Articola una sua legittimità e dispiega i simboli della competenza e
della reputazione. Per arrivare a definire una decisione strutturante (ad
esempio, come quella di entrare o uscire dall’Euro) bisogna accedere ai
problemi, definirli, riconoscerli tali, traguardarne l’esito. Il “setting
decisionale” inquadra le identità valide nel campo decisionale, i soggetti
riconoscibili e gli attori, le Istituzioni attivate e quelle inibite. Per
arrivarci bisogna selezionare l’informazione pertinente e le tecniche “valide”.
Il punto è che ogni decisione viene presa in condizioni di scarsità di tempo,
di attenzione, di chiarezza ed è un processo sociale e politico importante in
sé. Una sorta di “rituale sacro”, come scriveva James March (“Decisioni e
organizzazioni”, Il Mulino 1993). Ogni decisione è in parte mera
applicazione di routine e norme, in parte attivazione di memoria selettiva, in
parte intuizione di nuove possibilità, in parte imitazione, in parte tradizione
e fede. Lavora con scopi, conseguenze future, preferenze future (che sono
sempre gestite strategicamente), con l’informazione (che è fonte di potere, di
garanzia ritualistica, oggetto di strategie, riserva di senso, …). Ci sono due
principali “finzioni” (che svolgono una fondamentale funzione di legittimazione
sociale) che vanno considerate per non immaginare che sia questione solo di
definire una buona e razionale “soluzione”: che le scelte siano ricondotte ai
decisori; che i problemi siano ricondotti alle scelte.
Il processo decisionale è essenzialmente un confronto-scontro che fa uso
dei materiali disponibili (tra cui, sia bene inteso, hanno grande importanza le
“riserve di senso” incorporate nelle norme e nei discorsi normativi) per
attivare impulsi di forza, contrattare, formare coalizioni, stimolare lealtà,
riscuotere crediti. I risultati dipendono dalle preferenze di partenza degli
attori e dal potere che può essere mobilitato da ognuno. Le scelte sono quindi
piuttosto da ricondurre alla sedimentazione (o agglomerazione) di un “sistema
d’azione” efficace (più dei concorrenti) e non ai “decisori”. I problemi sono
definiti insieme alle scelte (non di rado sono le scelte a individuare i “loro”
problemi. Un ottimo esempio è la stringa <l’offerta crea la domanda>, nel
momento in cui chi la propone “decide” implicitamente di includere nel suo
“sistema d’azione” l’organizzazione degli industriali ed escludere altri). Il
significato della decisione assunta, o che si predilige, incorpora quindi
sempre l’informazione solo se questa è collegabile a storie coerenti e
raccontabili. Se fa sistema.
Informazioni e processo decisionale consolidano una struttura di
significati nella quale si collocano; che le sostiene e le crea. In questo
senso l’attività decisionale pubblica (ma anche quella privata) è una sorta di
“rituale sacro” e comporta attività “altamente simboliche”. Come scrive March,
“essa esalta i valori fondamentali di una società, in particolare il concetto
che l’esistenza è alla mercé della volontà umana e che tale controllo si
esercita mediante scelte, individuali e collettive, fondate su un’esplicita
previsione di alternative e sui loro probabili effetti”. Decisione e potere
sono indissolubilmente uniti per via di questa caratteristica simbolica
ineliminabile.
Allora il processo decisionale non è un luogo “tecnico” (molto spesso,
nella lunga polemica sulla Moneta Unica ed il processo di costruzione europeo,
abbiamo sentito la lamentazione circa l’irrazionalità tecnica-economica della
decisione “politica” assunta), è più la palestra per esercitarsi in valori
sociali, far mostra di autorità, esibire comportamenti distintivi rispetto al
costrutto ideologico centrale (nella nostra cultura occidentale) di <scelta
intelligente e consapevole>. La decisione è politica in questo senso.
Interagire con questa complessa dinamica richiede saggezza ed intuito,
richiede percezione ed empatia per le forze in campo e quelle mobilitabili (che
in campo possono entrare), richiede una strategia rivolta a spingere l’intero
apparato di dati informativi, aspettative ed opzioni disponibili in una
direzione nella quale si dimostri produttiva. Cercando di sviluppare in una
sola mossa ciò che è produttivo e gli strumenti per conseguirlo (insieme agli
attori).
Dunque si potrebbe argomentare, che la crisi che attraversiamo non è solo
un malfunzionamento essenziale della finanza nel suo ruolo di mediazione tra
risparmio ed impieghi produttivi, che ha avuto sin dal medioevo; non è solo uno
scollamento tra la crescita della produttività e l’occupabilità o la rendita
del lavoro; non è solo lo spaccamento della società in enclave incomunicanti ed
il rifiuto della parte fortunata di condividere le sue ricchezze tornate a
livelli ottocenteschi; non è solo prevalenza della competizione e dell’egoismo
sulla cooperazione e solidarietà, senza la quale la società precipita nel caos
e nell’odio. La crisi è soprattutto una rottura di razionalità nel capitalismo
a rete. E’ la dimostrazione che le routine e le soluzioni consolidate nella
tradizione sono ormai spiazzate, che anche le nuove non funzionano più.
[22] - In questa direzione la Iot
territoriale e le smart cities, della cui ambiguità ho parlato in “Le città intelligenti
e la distopia del lavoro perduto”.
[23] - Il riferimento è, ovviamente,
alla parabola del Movimento 5 Stelle.
[24] - Si veda “Guerre
di movimento e guerre di posizione”.
[25] - Scrive in “L’inizio dell’ascesa
del movimento spontaneo”: “vi è spontaneità e spontaneità. Anche negli anni
sessanta e settanta (e persino nella prima metà del secolo) vi furono in Russia
degli scioperi accompagnati da distruzioni "spontanee" di macchine e
simili. In confronto con queste "rivolte", gli scioperi avvenuti dopo
il 1890 potrebbero perfino essere chiamati "coscienti", tanto è
importante il passo in avanti fatto nel frattempo dal movimento operaio. Ciò
prova che in fondo l'"elemento spontaneo" non è che la forma
embrionale della coscienza. Anche le rivolte primitive esprimevano già
un certo risveglio di coscienza: gli operai perdevano la loro fede secolare
nella solidità assoluta del regime che li schiacciava; cominciavano... non dirò
a comprendere, ma a sentire la necessità di una resistenza collettiva e
rompevano risolutamente con la sottomissione servile all'autorità. E tuttavia
questa era ben più una manifestazione di disperazione e di vendetta che una lotta. Gli scioperi della fine del secolo, invece, rivelano
bagliori di coscienza molto più numerosi: si pongono rivendicazioni precise, si
cerca di prevedere il momento più favorevole, si discutono i casi e gli esempi
noti delle altre località, ecc. Mentre prima si trattava semplicemente di una
rivolta di gente oppressa, gli scioperi sistematici rappresentavano già degli
embrioni - ma soltanto degli embrioni - di lotta di classe. […] Abbiamo detto
che gli operai non potevano ancora possedere una coscienza socialdemocratica. Essa poteva essere loro
apportata soltanto dall'esterno.” Viceversa “lo sviluppo spontaneo del movimento operaio fa sì che esso si subordini
all'ideologia borghese […] In ogni caso, la funzione della
socialdemocrazia non è di trascinarsi alla coda del movimento: cosa che nel migliore dei casi è inutile, e, nel peggiore,
estremamente nociva per il movimento stesso. Il Raboceie Dielo, da parte sua, non si limita a seguire questa
«tattica-processo», ma la erige a principio, sicché la sua tendenza deve essere
definita non tanto opportunismo quanto (dalla parola: coda) codismo.”
Vladimir Ilic Lenin, “Che fare?”, 1902.
[26] - Trovo, ad esempio rilevante e ben scelto
il punto posto da Roberto Buffagni in un recente post su Facebook. “Alla radice del conflitto sui vaccini:
liofilizzo una ipotesi. Perché è così aspro il conflitto sui vaccini? È un
conflitto importante, anzi decisivo, oppure una diversione rispetto ai
conflitti reali? Benvenute le critiche anche radicali purché cortesi, è una
cosa difficile e mi manca la preparazione adeguata. Diciamo che ci provo. Ecco
l’ipotesi liofilizzata: Fatta la tara (una grossa tara) della forza
d’inerzia mediatica e della consueta dinamica della polarizzazione politica, il
conflitto sui vaccini è aspro e importante, anzi decisivo, perché è un
conflitto in merito alla legittimazione dell’ordine sociale e ideologico. La
posta in gioco del conflitto sui vaccini è: chi ha il diritto di stabilire
che cos’è la verità, anzi la Verità con la maiuscola? (In forma degradata e
comico-grottesca, è una replica, a parti rovesciate, del conflitto tra
Bellarmino e Galilei). Scrivo “Verità con la maiuscola” perché nel senso comune
confusamente relativista oggi egemone, unica fonte della Verità è “la scienza”.
Epistemologicamente è una sciocchezza, ma tant’è, è una sciocchezza che ce l’ha
fatta. Ora, però, “la scienza” non solo non è in grado di fornire alcuna
“Verità”, che è un concetto filosofico o religioso, ma è una pratica sociale in
cui la formazione del consenso della comunità scientifica è laboriosa,
difficile, influenzabile, e sempre soggetta a possibili revisioni anche
radicali, come esige appunto il metodo scientifico. In breve, “la scienza” vera
e propria non è per nulla adatta a sfornare Verità su ordinazione, come
maritozzi. Invece, i powers that be hanno bisogno, molto bisogno di Verità su
ordinazione (beninteso, ordinazione loro), perché è molto difficile esercitare
un minimo di controllo sociale su masse di persone che: a) hanno introiettato
il principio liberale, inaugurato contro le religioni, che “non esistono verità
assolute”, l’altro principio liberale che “la mia libertà finisce dove comincia
la tua”, ossia non si sa dove, e in attesa di capirlo io faccio quel cazzo che
mi pare; e, ciliegina sul gelato, danno per scontato che il principio di
autorità valga solo per gli stupidi e gli arretrati; b) vivono in una
condizione ossimorica di permanente precarietà senza precedenti storici, per
quanto attiene il proprio ruolo sociale, la propria identità personale, insomma
sono tutti, chi più chi meno, degli sradicati; c) nonostante a) e b), devono
contribuire, ciascuno per la propria parte grande o piccola, a garantire il
funzionamento di una macchina sociale - di una Zivilisation – quanto mai
complicata, delicata, interconnessa a livello mondiale.
In persone cosiffatte, la nascita, lo sviluppo organico, la stabilizzazione
della norma interiore, insomma la Bildung, sono, inevitabilmente, assai
problematici. In qualsiasi società, il controllo sociale viene garantito al 90%
dalla norma interiore, e solo per il 10% dalla norma esteriore (polizia,
tribunali, etc.). La necessità aguzza l’ingegno. Nel corso della pandemia da
Covid19, i powers that be sono stati sospinti, anche dalla logica
dell’ideologia da loro universalmente condivisa, lo scientismo, a fare un vero
e proprio grande reset. No, non è il Grande Reset dei novax. È il grande reset
della legittimazione dell’ordine sociale, oggi in corso d’opera; ossia la
fondazione di una teologia civile fotocopiata – credo inconsapevolmente – dal
programma politico, sociale e teologico positivista di Auguste Comte (vedere
Wikipedia, c’è tutto il necessario). Per impiantare questa nuova teologia
civile, c’è un requisito indispensabile: l’accordo reciproco preliminare del
potere spirituale, la Scienza, e del potere temporale, l’Autorità Politica Positiva
Tecnica). Profetico, Comte ha previsto tutto un secolo e mezzo fa, delegando il
potere spirituale a un Consiglio degli Scienziati, e il potere temporale a un
Consiglio degli Industriali (il programma comtiano è una parodia scientista del
cattolicesimo).
Se la scienza continua ad essere quel che è nata per essere, questo accordo
reciproco preliminare tra Scienza e Autorità Politica Positiva (Tecnica)
semplicemente non c’è: per la banale ragione che a) l’accordo scientifico
unanime in merito a qualcosa che sia immediatamente rilevante per la decisione
politica è molto raro o addirittura inesistente b) dunque, quando si tratta di
decidere politicamente qualcosa, ciascuna delle parti in conflitto pesca i
pareri scientifici che più le convengono, e/o paga e promuove pareri
scientifici a sé favorevoli, trovandoli sempre.
Quindi, si ritorna alla casella di partenza, in cui le decisioni politiche
rilevanti si prendono per ragioni che certo tengono conto della “scienza”
(nessun decisore prende misure che ignorano la legge di gravitazione
universale) ma che la scienza mai potrà garantire come certe e “Vere” al 100%.
Insomma, nella realtà effettuale il decisore decide con uno sforzo
previsionale, nell’incertezza, e si assume la responsabilità di conseguenze che
non sono mai, ripeto mai, interamente prevedibili. Ma l’accordo preliminare tra
“Scienza” e Autorità Politica Positiva (Tecnica), tra potere spirituale e
temporale è necessario per garantire il controllo e la coesione sociale, e la
performatività del sistema. Si assiste dunque, oggi, a una grottesca riedizione
della “lotta per le investiture” tra scienza (potere spirituale) e autorità
politica (potere temporale), in cui paradossalmente il potere spirituale - la
scienza - per come la rappresenta la grande maggioranza della comunità
scientifica, NON combatte, e anzi esulta e festeggia l’aggressione
dell’avversario: perché di vera e propria minaccia esistenziale alla scienza si
tratta, quando il potere politico pretende di stabilire “Verità scientifiche”
ufficiali, di farle oggetto di “fede” [sic] e di sanzionare chi non vi
aderisca.
Le ragioni di questa paradossale esultanza, di questa sindrome di Stoccolma
della comunità scientifica sono tante. Salto le più facilmente identificabili
(vanità, timore, interessi) e mi concentro sulle meno visibili. Secondo me le
ragioni meno visibili della sindrome di Stoccolma della comunità scientifica
sono: a) NON si sono accorti che l’autorità politica sta trasformando la
scienza in una religione, sia perché sono scientisti non pochi scienziati,
specie ai livelli meno avanzati della ricerca, sia perché, lavorando sul serio
come scienziati, sanno benissimo che la scienza effettualmente esistente è
tutt’altra e incompatibile cosa rispetto a qualsivoglia religione, e non li
sfiora il pensiero che qualcuno possa provarci sul serio b) non essendosene
accorti, non ne hanno dedotto le possibili, anzi probabili conseguenze, che per
la scienza effettualmente esistente sono devastanti: se alla pressione degli
interessi economici e politici tradizionali si aggiunge la pressione del ruolo
di garante ideologico dell’intero sistema sociale, la libertà di ricerca si
riduce al lumicino e lo scienziato può venir chiamato di colpo a fare l’eroe,
se vuole continuare ad essere scienziato c) l’opposizione all’insediamento
della nuova teologia civile scientista, come si manifesta nel presente
conflitto sivax/novax, è a dir poco, anzi a dir pochissimo, molto confusa.
Tralasciando i veri e propri mattoidi irrazionali (non pochi) l’asse
ideologico principale conforme al quale gli oppositori combattono le autorità
politiche è “la libertà”, come la intende il senso comune liberale (v. sopra). Ora,
questo è un errore colossale, perché è evidente a chiunque non sia
irrazionale che qualora ve ne sia un fondato motivo, l’autorità politica ha non
solo il diritto, ma il preciso dovere di limitare, anche molto più
gravemente di come oggi accada, la libertà dei cittadini. Il problema è se ve
ne sia il fondato motivo, e il calcolo previsionale rischi/benefici in ordine
al quale si giustifica la limitazione di libertà. Per capire se ve ne sia il
fondato motivo, e per fare un calcolo rischi/benefici della limitazione di
libertà da imporre, è indispensabile che la scienza, e ovviamente la comunità
scientifica senza la quale la scienza non esiste, siano libere, ossia che siano
liberi di argomentare il proprio fondato parere, e sottoporlo al dibattito tra
pari, tutti i membri della comunità scientifica che operano in settori
rilevanti per la decisione. Essi però non possono farlo, sennò si compromette
la legittimazione dell’autorità politica. Dunque, in un mondo migliore, l’asse
ideologico principale del conflitto con l’autorità politica in merito ai
vaccini dovrebbe essere proprio la difesa della scienza e della libertà di
ricerca + la difesa delle forme legali e sostanziali in cui deve avvenire ogni
decisione politica. Noi però non siamo in un mondo migliore, siamo in questo
qui.
Che cosa succede dopo? Succede che i powers that be vincono a mani basse,
perché in un conflitto politico tra sicurezza e libertà, comunque intese (anche
nel modo più stupido) la sicurezza vince sempre; e perché “per il solo fatto di
esserlo, il ribelle perde metà della sua forza” (Richelieu): specie poi se il
ribelle sbaglia di grosso la ribellione. Il processo di insediamento della
teologia civile scientista continuerà, integrandosi agevolmente con la
legittimazione dell’ordine sociale sinora in vigore (fascismo/antifascismo,
progressismo/reazione, UE-mondialismo/nazionalismo-populismo). Tranne errori
catastrofici immediatamente evidenti (es., e Deus avertat, se fra un anno o due
si scopre che i vaccini provocano effetti imprevisti gravi in quote importanti
dei vaccinati) anche le peggiori sciocchezze dette e fatte sinora dalle
autorità passeranno in cavalleria.
Succederà però anche un’altra cosa, ominosa; e succederà per così dire
automaticamente, di default, perché l’imposizione di una Verità Ufficiale a cui
si deve prestare fede, pena sanzioni legali, la produce sempre: produrrà
eretici, produrrà esclusioni, produrrà condanne implicite o esplicite alla
morte civile, produrrà insomma tutti gli effetti collaterali sgradevoli e
“medievali” ai quali il liberalismo classico s’era giustamente vantato di aver
posto fine. E poi, ovviamente, produrrà retroazioni cibernetiche a catena nella
comunità scientifica e nella scienza, nessuna favorevole. Le scienze più
direttamente esposte alla pressione dell’autorità politica, quelle a cui più
spesso e urgentemente sarà chiesto di fornire legittimazione al potere
temporale, ossia le scienze sociali, saranno esposte a una pressione da fondere
il granito. In bocca al lupo a chi vi opera, arrivano tempi interessanti”.


Nessun commento:
Posta un commento