Si
dice che la crisi della GKN, la quale ha recentemente licenziato oltre
quattrocento lavoratori altamente politicizzati e davvero molto bravi (a tal
punto da organizzare in poche settimane una impressionante mobilitazione andata
in scena a Firenze sabato 18 settembre), dipenda dalla sua acquisizione da
parte di un fondo americano specializzato nella ristrutturazione e rivendita di
stabilimenti industriali in crisi, e che questa crisi dipenda dalle prospettive
della transizione ecologica.
E’
una tendenza alla moda quella di mettere in mezzo la transizione ecologica e le
tensioni che provocherà al sistema industriale e sociale dei paesi europei.
Ora,
questa idea di mettere in mezzo la transizione ecologica, per di più al 2035,
mi pare in questo caso davvero poco convincente. Intanto il Pnrr (allegato 1.1.2
del Piano in discussione in Commissione) punta a 30 milioni di vetture
elettriche in Europa al 2030, ed il 50% al 2050, poi la GKN Driveline produce
componenti e sistemi di trasmissione per l’automotive. Ora, se pure l’elettrico
fa uso di diverse ‘piattaforme’ e qualche differenza di coppia e spinta tra
elettrico e motorizzazione tradizionale esiste (ma non per l’ibrido), la ditta
produce anche componentistica per grandi macchine, agricole e mezzi per movimento
terra e persino areospaziale. Per entrambe le ragioni è palese che ci sarebbero
spazi per continuare l’attuale produzione per decenni.
Il
problema deve essere un altro. Intanto la multinazionale inglese, acquisita dal
fondo americano, produce da trenta anni negli stabilimenti italiani semiassi e
giunti per Fca (non proprio azienda all’avanguardia nell’elettrico), e per il
20% ad altri. Poi, casomai, ci sarebbe da guardare piuttosto alla subalternità
dell’Italia da Germania e Francia (alla seconda nel contesto della fusione
PSA-FCA). La Germania, infatti, impose agli stabilimenti GKN in suolo tedesco di
produrre per le aziende tedesche invece di servirsi all’estero (neppure dagli
stabilimenti della stessa multinazionale, se in Italia), noi, evidentemente non
possiamo. È un tipico caso di norme che si interpretano per gli amici, o i
forti, e si applicano per i deboli.
E
tanto meno abbiamo la possibilità di esercitare questa necessaria forma di
sovranità industriale e tecnologica da quando Fca è diventata di fatto francese
(casomai, a questo punto, il gruppo si servirà da stabilimenti francesi). Ovvero
da quando Stellantis (che è partecipata con capitale pubblico francese e non
italiano) è stata costituita in una ‘fusione’ di FCA con PSA che è, di fatto,
un’acquisizione della parte italiana da parte di quella francese non solo per
la produzione di auto, quanto per tutta la filiera della componentistica. E la
politica nazionale ha guardato alla cosa in modo dissimmetrico. Mentre i
francesi hanno prodotto il “Plan de soutien à l’automobile. Pour un
industrie verte e compétitive”, e lo hanno finanziato con otto
miliardi, noi non abbiamo fatto nulla e non abbiamo messo un euro (se non per
un prestito senza condizioni agli azionisti di FCA).
Quella
che deve essere attaccata è quindi questa non decisione di politica industriale,
che si estende alle tecnologie connesse (da produrre in casa e internamente,
per il piano d’oltralpe) e l’acquiescenza verso la lettera, ad esempio, con la
quale la Fca ha invitato i fornitori italiani a smettere ogni attività di
sviluppo. O quella avuta a suo tempo verso l’entrata nel capitale di Faurencia
(gigante francese della componentistica, che mette l’ex società italiana con
sede a Londra in oggettivo conflitto di interesse verso lo sviluppo della
componentistica in Italia).
Ora,
se questo è lo sfondo, che fare? E’ molto difficile
riconvertire una fabbrica a questo livello di specializzazione, il cui valore
aggiunto dipende interamente dall’esistenza di un prodotto inserito nelle
catene di fornitura globali con accordi negoziati al livello più alto e protetti
da una fitta rete di brevetti. La protezione dalla concorrenza, che garantisce
i profitti monopolistici (GKN è leader di settore), nel sistema attuale deriva
infatti, per gran parte, dai vincoli regolamentari tecnici (standard e
certificazioni) e dal correlato meccanismo di protezione della proprietà
intellettuale (brevetti). Nessuno può dunque inserirsi nel settore, facendo
concorrenza a Faurencia, o alla stessa GKN, solo per la proprietà delle
macchine o per la qualità ed abilità dei lavoratori (a tutti i livelli, dai
manager agli operai).
Allargando
lo sguardo, la stessa supremazia dell’occidente globale (nel quale si devono
inserire anche i paesi orientali allineati, come Giappone, Corea, India e via
dicendo) riposa su questa organizzazione nella quale “testa” e “braccia” sono
separate e le seconde sono intercambiabili e trattengono una quota minima della
catena del valore. Valore che va tutto alla “testa”, se del caso transitando
opportunamente per paradisi fiscali, in pagamento dei diritti di brevetto.
Se
non interviene un vero e proprio ordine sovrano (ma bisognerebbe essere sovrani
almeno come i francesi e in primo luogo lo dovremmo volere), i
meccanismi di mercato organizzati negli accordi internazionali negoziati
(interni o meno al Wto) impediscono, quindi, di prendere in autogestione una
fabbrica a questo livello e di tenerla a galla. Questo i lavoratori di GKN lo
sanno benissimo.
Quel
che bisognerebbe espropriare, dunque, non sono le macchine e l’edificio, quanto
i brevetti. In altre parole bisognerebbe fare come la Francia e imporre a
FCA di utilizzare fornitori italiani e sviluppare intorno ad un piano, adeguatamente
finanziato, una reinternalizzazione di filiera. Passando nel caso più duro anche
per un sequestro a tempo dei brevetti, fino a che non se ne sviluppino di nuovi
con il coinvolgimento della ricerca pubblica nazionale.
Se,
realmente, Italia e Francia stanno per stipulare un Trattato bilaterale (come
dicono alcune indiscrezioni), questo dovrebbe essere uno degli articoli: il rispetto
reciproco delle filiere nazionali e l’integrazione non subalterna con quelle
internazionali.
Ad
un livello molto profondo i nostri lavoratori e sistemi tecnici di fornitura
dei settori chiave come l’automotive, l’aerospaziale, il biotecnologico, l’elettronica,
sono la nostra ricchezza. E questa partita, almeno in prospettiva, è anche più
importante della questione della rinegoziazione del Patto di Stabilità o delle
proiezioni di potenza mediterranee (ad esempio, in contenimento delle ambizioni
neoimperiali turche o per stabilizzare l’arco nordafricano), per citare due ‘agende’
certamente presenti nell’accordo Italo-Francese.
Si
gioca il futuro in queste battaglie.
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