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domenica 19 settembre 2021

Qualche appunto sulla crisi della GKN

  

Si dice che la crisi della GKN, la quale ha recentemente licenziato oltre quattrocento lavoratori altamente politicizzati e davvero molto bravi (a tal punto da organizzare in poche settimane una impressionante mobilitazione andata in scena a Firenze sabato 18 settembre), dipenda dalla sua acquisizione da parte di un fondo americano specializzato nella ristrutturazione e rivendita di stabilimenti industriali in crisi, e che questa crisi dipenda dalle prospettive della transizione ecologica.

E’ una tendenza alla moda quella di mettere in mezzo la transizione ecologica e le tensioni che provocherà al sistema industriale e sociale dei paesi europei.

Ora, questa idea di mettere in mezzo la transizione ecologica, per di più al 2035, mi pare in questo caso davvero poco convincente. Intanto il Pnrr (allegato 1.1.2 del Piano in discussione in Commissione) punta a 30 milioni di vetture elettriche in Europa al 2030, ed il 50% al 2050, poi la GKN Driveline produce componenti e sistemi di trasmissione per l’automotive. Ora, se pure l’elettrico fa uso di diverse ‘piattaforme’ e qualche differenza di coppia e spinta tra elettrico e motorizzazione tradizionale esiste (ma non per l’ibrido), la ditta produce anche componentistica per grandi macchine, agricole e mezzi per movimento terra e persino areospaziale. Per entrambe le ragioni è palese che ci sarebbero spazi per continuare l’attuale produzione per decenni.



Il problema deve essere un altro. Intanto la multinazionale inglese, acquisita dal fondo americano, produce da trenta anni negli stabilimenti italiani semiassi e giunti per Fca (non proprio azienda all’avanguardia nell’elettrico), e per il 20% ad altri. Poi, casomai, ci sarebbe da guardare piuttosto alla subalternità dell’Italia da Germania e Francia (alla seconda nel contesto della fusione PSA-FCA). La Germania, infatti, impose agli stabilimenti GKN in suolo tedesco di produrre per le aziende tedesche invece di servirsi all’estero (neppure dagli stabilimenti della stessa multinazionale, se in Italia), noi, evidentemente non possiamo. È un tipico caso di norme che si interpretano per gli amici, o i forti, e si applicano per i deboli.

E tanto meno abbiamo la possibilità di esercitare questa necessaria forma di sovranità industriale e tecnologica da quando Fca è diventata di fatto francese (casomai, a questo punto, il gruppo si servirà da stabilimenti francesi). Ovvero da quando Stellantis (che è partecipata con capitale pubblico francese e non italiano) è stata costituita in una ‘fusione’ di FCA con PSA che è, di fatto, un’acquisizione della parte italiana da parte di quella francese non solo per la produzione di auto, quanto per tutta la filiera della componentistica. E la politica nazionale ha guardato alla cosa in modo dissimmetrico. Mentre i francesi hanno prodotto il “Plan de soutien à l’automobile. Pour un industrie verte e compétitive, e lo hanno finanziato con otto miliardi, noi non abbiamo fatto nulla e non abbiamo messo un euro (se non per un prestito senza condizioni agli azionisti di FCA).

Quella che deve essere attaccata è quindi questa non decisione di politica industriale, che si estende alle tecnologie connesse (da produrre in casa e internamente, per il piano d’oltralpe) e l’acquiescenza verso la lettera, ad esempio, con la quale la Fca ha invitato i fornitori italiani a smettere ogni attività di sviluppo. O quella avuta a suo tempo verso l’entrata nel capitale di Faurencia (gigante francese della componentistica, che mette l’ex società italiana con sede a Londra in oggettivo conflitto di interesse verso lo sviluppo della componentistica in Italia).

 

Ora, se questo è lo sfondo, che fare? E’ molto difficile riconvertire una fabbrica a questo livello di specializzazione, il cui valore aggiunto dipende interamente dall’esistenza di un prodotto inserito nelle catene di fornitura globali con accordi negoziati al livello più alto e protetti da una fitta rete di brevetti. La protezione dalla concorrenza, che garantisce i profitti monopolistici (GKN è leader di settore), nel sistema attuale deriva infatti, per gran parte, dai vincoli regolamentari tecnici (standard e certificazioni) e dal correlato meccanismo di protezione della proprietà intellettuale (brevetti). Nessuno può dunque inserirsi nel settore, facendo concorrenza a Faurencia, o alla stessa GKN, solo per la proprietà delle macchine o per la qualità ed abilità dei lavoratori (a tutti i livelli, dai manager agli operai).

Allargando lo sguardo, la stessa supremazia dell’occidente globale (nel quale si devono inserire anche i paesi orientali allineati, come Giappone, Corea, India e via dicendo) riposa su questa organizzazione nella quale “testa” e “braccia” sono separate e le seconde sono intercambiabili e trattengono una quota minima della catena del valore. Valore che va tutto alla “testa”, se del caso transitando opportunamente per paradisi fiscali, in pagamento dei diritti di brevetto.

Se non interviene un vero e proprio ordine sovrano (ma bisognerebbe essere sovrani almeno come i francesi e in primo luogo lo dovremmo volere), i meccanismi di mercato organizzati negli accordi internazionali negoziati (interni o meno al Wto) impediscono, quindi, di prendere in autogestione una fabbrica a questo livello e di tenerla a galla. Questo i lavoratori di GKN lo sanno benissimo.

 

Quel che bisognerebbe espropriare, dunque, non sono le macchine e l’edificio, quanto i brevetti. In altre parole bisognerebbe fare come la Francia e imporre a FCA di utilizzare fornitori italiani e sviluppare intorno ad un piano, adeguatamente finanziato, una reinternalizzazione di filiera. Passando nel caso più duro anche per un sequestro a tempo dei brevetti, fino a che non se ne sviluppino di nuovi con il coinvolgimento della ricerca pubblica nazionale.

Se, realmente, Italia e Francia stanno per stipulare un Trattato bilaterale (come dicono alcune indiscrezioni), questo dovrebbe essere uno degli articoli: il rispetto reciproco delle filiere nazionali e l’integrazione non subalterna con quelle internazionali.

Ad un livello molto profondo i nostri lavoratori e sistemi tecnici di fornitura dei settori chiave come l’automotive, l’aerospaziale, il biotecnologico, l’elettronica, sono la nostra ricchezza. E questa partita, almeno in prospettiva, è anche più importante della questione della rinegoziazione del Patto di Stabilità o delle proiezioni di potenza mediterranee (ad esempio, in contenimento delle ambizioni neoimperiali turche o per stabilizzare l’arco nordafricano), per citare due ‘agende’ certamente presenti nell’accordo Italo-Francese.

Si gioca il futuro in queste battaglie.

 

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