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sabato 12 marzo 2022

Circa l’intervista a John Mearshmeier sulla guerra Ucraina.

 

 

In guerra la prima vittima è la verità. Ma la seconda è la ragione. Troppo carica di emozioni, la guerra, per lasciare in campo la fredda ragione. Emergono in essa i più radicati spiriti di identificazione di gruppo, belluini, ed emerge l’identificazione dell’altro come inumano. Ne stiamo vedendo gli effetti in una nazione, come l’Italia, che si pensava pacifica e si scopre, in tutti i suoi organi di stampa, essere animata dal più aspro militarismo e da spiriti di guerra. Tutti sembrano volere la guerra, se del caso anche nucleare. Non si può tradurre in alcun altro modo, sotto il profilo decisivo dei fatti e delle conseguenze, la richiesta rilanciata a reti unificate della “no fly zone” sull’Ucraina. Ovvero dello scontro diretto, immediato, tra la potente forza aerea e missilistica russa e la potentissima forza aerea Nato.



Nell’immagine mezzi corazzati italiani in movimento.

 

Emerge nell’occidente liberale qualcosa di davvero profondo; un cuore di tenebra[1]. Quando Cristoforo Colombo scopre l’America, ci racconta Todorov[2], oscilla tra l’orientamento a pensarli come esseri umani con i medesimi diritti, identici a sé stesso, o differenti e per questo inferiori. In entrambi i casi, scrive l’autore, “si nega l’esistenza di una sostanza umana realmente altra, che possa non consistere semplicemente in un grado inferiore, e imperfetto, di ciò che noi siamo”. Se si guardano con attenzione le due possibili figure dell’alterità del canone occidentale sono entrambe fondate sull’egocentrismo, ovvero sull’identificazione senza nemmeno avvedersene dei propri valori e delle proprie cognizioni e categorie con i Valori e la Ragione in generale. Quindi del proprio io con l’universo. Quel che emerge è, in altre parole, il sentimento di espulsione dal novero stesso dell’umano dell’altro, che, poiché ci si oppone e non ci riconosce il diritto di possedere il mondo, è quindi un pazzo (abbandonato dalla Ragione), e/o un mostro (privo dei Valori), e va fermato con ogni mezzo. Chi, invece, è con noi, ovvero vuole essere noi, è ovviamente inferiore ma può raggiungerci. Farà il suo purgatorio e poi lo accoglieremo, un giorno, nelle nostre braccia (la Ue e la Nato). Vuole essere l’occidente, avere i nostri giocattoli, conformarsi alla nostra cultura e per questo benignamente lo accogliamo (non prima di aver completato gli esami). Un esame potrebbe anche essere, perversamente ma non senza logica, anche questo bagno di sangue. Non è il sangue il lavacro della Storia? L’espiazione che può comprare la salvezza?

 

John Mearsheimer è rinfrescante, da questo punto di vista. Non si sente in lui l’odore di incenso e di zolfo che promana da questi nebbiosi, antichi, climi. L’autore di numerosissimi importanti testi[3], di scuola realista, da tantissimo tempo[4] chiarisce che l’atteggiamento di Putin verso l’Ucraina è provocato dall’occidente. Secondo la scuola realista, semplicemente, le potenze possono essere grandi o meno, ma quando sono in grado di farlo proteggono se stesse dalle altre. Questa intenzionale e consapevole semplificazione delle ramificazioni di cause intrecciate che determinano le azioni[5] fa perno su un semplicissimo fatto: le grandi potenze si temono. E dunque si contendono il potere per garantirsi la sicurezza. Ne deriva una politica internazionale che è sempre stata “una faccenda spietata e pericolosa”[6]. Deriva da questo sottofondo di paura che lo scopo primario di ogni Stato è massimizzare la propria quota di potere nel mondo e dunque sottrarne agli altri. Il mondo è quindi ‘condannato alla perpetua competizione tra grandi potenze’. E questo comportamento aggressivo è necessariamente praticato anche da Stati che mirano alla propria sicurezza e solo a questa. Le ragioni principali sono tre: manca un’autorità centrale che possa proteggere gli uni e gli altri (e gli uni dagli altri); il mondo è pieno di armi; nessuno può conoscere le reali intenzioni di tutti (oggi e nel futuro).

Deriva da questo guardare al mondo come è, e non come ci piacerebbe (esercitando la colpa del wishful thinking[7]), che i fattori ideologici (se un paese è, ad esempio, democratico o autocratico) rivestono scarsa importanza. Secondo il punto di vista descritto non è la buona volontà di questo o quello a determinare i comportamenti aggregati degli Stati nel contesto internazionale, ma la necessità della sopravvivenza e sicurezza. È realistico per ogni potenza essere offensiva (preventivamente offensiva), ogni qual volta può. In effetti gli Stati Uniti sono stati in guerra (preventiva) sei volte in venticinque anni (Iraq, Serbia verso Bosnia e Kosovo, Afghanistan, Iraq, Libia) due anni su tre.

Dal punto di vista del dibattito interno di potenza entro l’egemone statunitense la posizione difesa da Mearsheimer (e da Kissinger) è quella del “bilanciamento d’oltremare”. Contrastando l’isolazionismo[8] e le altre Grandi Strategie alternative dell’impegno selettivo[9] e del dominio globale[10]. Secondo la dottrina del “bilanciamento” nelle aree decisive, Europa, Asia orientale e Golfo Persico gli Stati Uniti dovrebbero mandare i soldati a combattere solo se una Grande Potenza (ovvero Cina, Giappone, Russia, Europa) sta prendendo il sopravvento[11].

Sulla base di queste premesse il professore americano ritiene che i problemi che hanno portato alla guerra risalgano all’aprile 2008, quando al vertice Nato di Bucarest fu dichiarato che Ucraina e Georgia sarebbero diventati membri. La Russia rispose subito che la considerava una minaccia esistenziale. La Russia, in quanto potenza interessata alla propria sopravvivenza, considera cioè una minaccia in grado di terminarla (in quanto potenza) la trasformazione dell’Ucraina in paese liberale e filoamericano. Particolarmente se questa aderisse alla Nato (potrebbe forse “farla franca” con la sola adesione alla Ue). Qui cade una specifica caratteristiche dell’approccio realista: mentre l’intervistatore evoca la categoria dell’imperialismo per descrivere la pretesa dei Russi che un vicino non faccia qualcosa anche se lo desidera, Mearsheimer risponde che è solo la politica delle grandi potenze. Per farlo comprendere fa un esempio che illustra la nostra cecità selettiva: chiunque capisce in occidente che se sei vicino agli Stati Uniti non gli metti le dita negli occhi aderendo ad un’alleanza nemica e puntandogli i cannoni contro. Ovvero, con le sue parole, “se prendi un bastone e gli colpisci negli occhi [sai che] si vendicheranno”. Qui cade semplicemente un fatto: nessuno può invitare le forze armate di una potenza rivale vicino ad una grande potenza (immaginiamo le forze armate cinesi al confine messicano con gli Usa).

Questa cosa non è giudicata dalla scuola realista con le lenti sfumate della morale; non è giusta o sbagliata, morale o immorale (lo sarà pure, ma è irrilevante ai fini pratici), ma semplicemente è. Il punto difeso è che se il mondo funziona in un certo modo, cercare di cambiarlo per ragioni ideologiche produce necessariamente disastri (come quello Ucraino). E li può produrre anche senza volerlo, ad esempio l’espansione ad Est non era rivolta a contenere la Russia fino al 2014, perché fino a quella data nessuno al riteneva una Grande Potenza e quindi una potenziale minaccia. Secondo la visione di Mearsheimer, è più semplice: si espandeva l’era di influenza per creare una zona più ampia zona di cooperazione economica. Ovvero, in termini di analisi marxista, per ampliare l’area di controllo del capitale (come vedremo un fatto chiave della dinamica imperialista).

Dalla reazione russa nel 2014 in avanti è stata quindi inventata la storia secondo la quale il problema è personalizzato in Putin che è aggressivo e vuole ripristinare l’Unione Sovietica come territorio, per cui si rivolgerà dopo agli stati baltici e via dicendo. Si tratta di una storia di giustificazione. In realtà, sostiene il nostro, l’analisi delle forze in campo dice che la Russia non ha i mezzi economici per fare guerre simili. Il potenziale di potere è insufficiente. Ne deriva che la vera minaccia per gli Stati Uniti viene solo da chi quel potenziale lo ha, e dunque la Cina. Quindi la politica giusta sarebbe quella opposta: distogliere l’attenzione dall’Europa e fare una alleanza con la Russia contro la Cina.

 

Qui termina l’articolo di Mearsheimer, che in sostanza invita a riconoscere il diritto alla sicurezza della Russia (che implica alla fine anche quello dell’Ucraina) e di operare con compromessi attivi tra potenze per tenere legate, piuttosto, Europa e Russia insieme in modo da circondare la Cina. E riclassifica, sulla base di semplici ma non banali considerazioni realiste, l’azione della Russia, in quanto Grande Potenza, come aggressività difensiva.

Difesa motivata dall’espansione della sfera di influenza occidentale, la cui punta di lancia è la Nato ma che non si limita alla dimensione militare, avendo una dimensione culturale di tipo assimilazionista ed una economica di tipo imperialista. Dunque, occorre spendere alcune parole su questa ultima affermazione, avendo trattato la prima all’avvio. Il termine “imperialismo” viene spesso usato in modo aspecifico, risultando in sostanza qualcosa che si avvicina ad un giudizio morale, un insulto, o il semplice comportamento standard di chiunque abbia un potere sovranazionale. Come abbiamo visto Mearsheimer rifiuta di usarlo per questo essere sostanzialmente inutile.

Ma c’è un’altra accezione, specifica, per la quale è imperialismo il comportamento Usa, da Clinton a Bush e Obama, mentre non lo è quello Russo (in questo caso, si intende). Questa definizione, che è del tutto diversa da quella in essere nel mondo precapitalista, quando il potere politico ed economico erano diversamente intrecciati e il controllo passava molto più per la terra e gli uomini stanziati, viene messa a fuoco all’inizio del secolo scorso da Hobson[12] e poi affinata da Hilferding[13], Luxemburg[14] e Lenin[15]. La scala del capitalismo potentemente industrializzato e finanziarizzato, e dominato da grandi conglomerati industria/finanza di inizio novecento (che assomiglia sotto molti profili al nostro) rese necessarie quelle che Baran chiama “lotte esasperate per assicurarsi sbocchi per gli investimenti e fonti di materie prime”[16]. Storicamente seguì una violenta corsa agli armamenti tra le grandi potenze, che assorbì parti sempre maggiori dei loro prodotti nazionali, guadagnando una crescente centralità economica. Le guerre frizionali che ne seguirono furono: la guerra cino-giapponese, la guerra ispano-americana, la guerra dei Boeri, la repressione della rivolta dei boxer, la guerra russo-giapponese, la Rivoluzione russa del 1905, la rivoluzione cinese del 1911-12 e, finalmente, la Prima guerra mondiale.

La pressione finanziaria determinata dalla necessità di sbocchi controllabili ed arene di investimento redditive e sicure affonda le sue radici in una intera organizzazione economico-sociale che nel suo complesso condiziona il pubblico, i principali funzionari, i legislatori, i leader intellettuali e via dicendo. Ma, come già scriveva l’inglese Hobson (critico dell’espansione dell’imperialismo inglese), in questa organizzazione agiscono moventi finanziari e industriali di gruppi ben precisi che si assicurano l’attiva cooperazione della politica, ma anche l’appoggio di massa garantito dagli appelli alla missione di civiltà della nazione (tradotti per lo più, oggi, in appelli per la missione civilizzatrice della civiltà europea e della sua forma politica) e speculando su quelli che al tempo chiamava gli “istinti primitivi della razza”.

Più specifica e precisa è l’analisi sul punto di Lenin che in un opuscolo del 1916 “L’imperialismo come fase suprema del capitalismo[17], da Berna, attribuisce la guerra in corso al funzionamento essenziale del meccanismo di accumulazione del capitalismo. Il meccanismo cui risale la spiegazione è la semplice tendenza del capitale all’autovalorizzazione unitamente al suo carattere plurale. Oltre a questo semplice, ma potente, modello viene sottolineato che la tendenza all’autovalorizzazione e alla concentrazione[18] porta al monopolio e questo alla fusione del capitale finanziario con quello industriale. È da questa fusione che scaturisce l’immane livello della competizione intercapitalista e quindi l’imperialismo. Alla fine, si ha la guerra.

Ricapitolando, la definizione più concisa di imperialismo è “lo stadio monopolistico del capitalismo”. I suoi cinque principali caratteri sono: la concentrazione della produzione e del capitale che crea i monopoli; la fusione del capitale bancario con quello industriale; l’importanza della esportazione del capitale; il sorgere di associazioni monopolistiche internazionali che si ripartiscono il mondo; la compiuta ripartizione della terra tra le più grandi potenze capitalistiche. La ripartizione, però, comporta sempre lotta, in ogni luogo. Se non altro per indebolire i capisaldi dell’egemonia avversaria, ed è una lotta nella quale, come sottolinea anche Hobson, prevalgono gli interessi finanziari su quelli industriali (e sono comunque interconnessi)[19].

 

Chiaramente questa scheletrica analisi, in fondo due pampleth di poche decine di pagine che generano una enorme letteratura secondaria, non deve portare all’opposto della resezione metodologica di Mearsheimer a ricondurre tutto dalla politica di potenza a quella finanziaria. Leggere in modo lineare e meccanico la finanza internazionale come causa della guerra e minaccia alla pace, vero mandante delle avventure coloniali, e quindi ricondurre la sorte delle nazioni alle mani dei Rothschild, come semplifica Berta[20], è certamente eccessivo. Si tratta di un’interconnessione molto più complessa e che richiede una spiegazione più ampia, che sarà non a caso tentata nella pluridecennale opera di Giovanni Arrighi[21]. Varrebbe la pena, ma il discorso si farebbe sia lungo sia complesso, dare attenzione anche al lavoro dei coniugi Patnaik[22].

 

Resta comunque il fatto che qui si contrappongono due politiche di potenza, entrambe aggressive e brutali, l’una offensiva e l’altra difensiva. L’una imperialista in senso tecnico e l’altra no (ma solo per carenza di mezzi e non di volontà).

 

Ad entrambe bisogna opporsi, ma calcolando le conseguenze. La pace si fa con la pace.

 

 

 



[1] - Il romanzo di Conrad racconta di una cultura (impersonata da Kurz) che non si interroga sui fini della propria azione, limitandosi a dare esito alla propria volontà di potenza e dominio onnilaterale.

[2] - Tzvetan Todorov, “La conquista dell’America. Il problema dell’altro”, ET Storia, 1984.

[3] - Cito, “La grande illusione. Perché la democrazia liberale non può cambiare il mondo”, Luiss, 2019 (ed. or. 2018) e “La tragedia delle grandi potenze”, Luiss, 2019 (ed. or. 2014)

[4] - Nel 2014 ha pubblicato, ad esempio, su Foreign Affairs l’articolo “Why the Ukraine crisi is the West’s faul”, nel quale conclude che la guerra nel Dombass era stata provocata dall’occidente. È stato il blocco occidentale che non ha cessato di avanzare verso la Russia, senza ammettere che ci possano essere ‘stati cuscinetto’, amici di entrambi, come era l’Ucraina. E in esso ricorda l’affermazione molto chiara del presidente ‘filo-occidentale’ Boris Yeltsin in occasione della guerra Jugoslava, nel 1995: “questo è il primo segnale di che cosa potrebbe accadere se la Nato arrivasse fino ai confini della federazione russa … le fiamme delle guerra potrebbero bruciare tutta l’Europa”.

[5] - Semplificazione che, in particolare, non tiene conto di ciò che è al centro dello schema analitico marxista (almeno classico, la versione leniniana introduce fattori diversi), ovvero i vincoli e le strutture di nesso determinate dai meccanismi di riproduzione del capitale, del valore e con esso (essendo questo un rapporto sociale) del potere politico e sociale. Per cui la ‘nazione’, sia essa o meno una ‘grande potenza’, è essa stessa attraversata e costituita da direzioni di dominio e direzione interne, che si intrecciano anche all’esterno, ed agisce in questi limiti. Ovviamente Mearsheimer lo sa e lo descrive in “La tragedia”, a p. 40. La teoria semplifica la realtà ignorando i fattori interni e trattando come ‘scatole nere o palle da biliardo’.

[6] - Mearsheimer, “La tragedia”, cit., p.32.

[7] - Credere a ciò che si desidera credere.

[8] - Posizione secondo la quale gli Stati Uniti, difesi da due oceani e da oltre 5.000 testate nucleari, non potendo essere invasi dovrebbero disinteressarsi degli altri emisferi.

[9] - In base alla quale bisogna concentrarsi sulle potenziali grande potenze rivali, stazionando in esse o ai confini. Grandi potenze potenzialmente rivali che sono, si noti, l’Europa, l’Asia e il Golfo Persico.

[10] - Secondo la quale gli Stati Uniti, lungi dall’essere isolati o da un impegno selettivo, semplicemente dovrebbero dominare l’intero pianeta o, come vorrebbe Wolfowitz e i neo-con, tramite un unilaterale controllo, o, come vorrebbero i dem (che il testo chiama “imperialisti liberali”), Albraight e Clinton, tramite una condivisione multilaterale a dominio Usa.

[11] - Si veda John Mearshmeier, Stephen Walt, “The case for offshore balancing. A superior U.S. grand strategy”, Foreign Affairs, luglio-agosto 2016.

[12] - Hobson, “L’imperialismo”, Newton & Compton, 1966 (ed or. 1902)

[13] - Rudolph Hilferding, “Il Capitale finanziario”, Mimesis 2011 (ed or. 1910)

[14] - Rosa Luxemburg, “L’accumulazione del capitale”, PGreco 2012, (ed. or. 1913)

[15] - Si veda qui, Alessandro Visalli, “Dipendenza”, Meltemi 2020, cap. I, p.30 e seg.

[16]  - Paul Baran “Il surplus economico”, Feltrinelli 1962 (ed. or. 1957), p.18

[17] - Lenin “L’imperialismo fase suprema del capitalismo”, Editori Riuniti 1974 (ed. or. 1917).

[18] - Una importante nota a p. 47 recita: “Marx distingue ‘concentrazione’ e ‘centralizzazione’. Per il processo di concentrazione osserva che ‘ogni capitale individuale è una concentrazione più o meno grande di mezzi di produzione, con il corrispondente comando su un esercito più o meno grande di operai. Ogni accumulazione diventa il mezzo di accumulazione nuova. Essa allarga, con la massa aumentata della ricchezza operante come capitale, la sua concentrazione nelle mani di capitalisti individuali, e con ciò la base della produzione su larga scala e dei metodi di produzione specificatamente capitalistici. L’aumento del capitale sociale si compie con l’aumento di molti capitali individuali’. Quanto al processo di centralizzazione Marx rileva che questo si distingue da quello di concentrazione ‘pel fatto che esso presuppone solo una ripartizione mutata di capitali già esistenti e funzionanti, che il suo campo di azione non è dunque limitato all’aumento assoluto della ricchezza sociale o dai limiti assoluti dell’accumulazione. Il capitale qui in una mano sola si gonfia da diventare una grande massa, perché là in molte mani va perduto. È questa la centralizzazione vera e propria a differenza dell’accumulazione e concentrazione’”. K. Marx, Il capitale, I, 3, p. 74, (corsivi nel testo).

[19] - A.Visalli, “Dipendenza”, cit., p. 110.

[20] - G. Berta, L’ascesa della finanza internazionale, Feltrinelli, 2013, p. 184.

[21] - Sulla quale rimando a “Dipendenza”, cit.

[22] - Si veda Prabhat Patnaik, Utsa Patnaik, “Una teoria dell’imperialismo”, Meltemi 2021, ed or 2016. E il post “Utsa Patnaik, Prabhat Patnaik, ‘L’imperialismo nell’era della globalizzazione”.

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