In
guerra la prima vittima è la verità. Ma la seconda è la ragione. Troppo carica
di emozioni, la guerra, per lasciare in campo la fredda ragione. Emergono in
essa i più radicati spiriti di identificazione di gruppo, belluini, ed emerge l’identificazione
dell’altro come inumano. Ne stiamo vedendo gli effetti in una nazione, come l’Italia,
che si pensava pacifica e si scopre, in tutti i suoi organi di stampa, essere
animata dal più aspro militarismo e da spiriti di guerra. Tutti sembrano volere
la guerra, se del caso anche nucleare. Non si può tradurre in alcun altro modo,
sotto il profilo decisivo dei fatti e delle conseguenze, la richiesta
rilanciata a reti unificate della “no fly zone” sull’Ucraina. Ovvero dello
scontro diretto, immediato, tra la potente forza aerea e missilistica russa e
la potentissima forza aerea Nato.
Nell’immagine mezzi corazzati italiani in movimento.
Emerge
nell’occidente liberale qualcosa di davvero profondo; un cuore di tenebra[1]. Quando Cristoforo Colombo
scopre l’America, ci racconta Todorov[2], oscilla tra l’orientamento
a pensarli come esseri umani con i medesimi diritti, identici a sé
stesso, o differenti e per questo inferiori. In entrambi i casi, scrive
l’autore, “si nega l’esistenza di una sostanza umana realmente altra,
che possa non consistere semplicemente in un grado inferiore, e imperfetto, di
ciò che noi siamo”. Se si guardano con attenzione le due possibili figure dell’alterità
del canone occidentale sono entrambe fondate sull’egocentrismo, ovvero sull’identificazione
senza nemmeno avvedersene dei propri valori e delle proprie cognizioni e
categorie con i Valori e la Ragione in generale. Quindi del proprio io con l’universo.
Quel che emerge è, in altre parole, il sentimento di espulsione dal novero
stesso dell’umano dell’altro, che, poiché ci si oppone e non ci riconosce il
diritto di possedere il mondo, è quindi un pazzo (abbandonato dalla Ragione), e/o
un mostro (privo dei Valori), e va fermato con ogni mezzo. Chi, invece, è con
noi, ovvero vuole essere noi, è ovviamente inferiore ma può raggiungerci. Farà
il suo purgatorio e poi lo accoglieremo, un giorno, nelle nostre braccia (la Ue
e la Nato). Vuole essere l’occidente, avere i nostri giocattoli, conformarsi
alla nostra cultura e per questo benignamente lo accogliamo (non prima di aver
completato gli esami). Un esame potrebbe anche essere, perversamente ma non senza
logica, anche questo bagno di sangue. Non è il sangue il lavacro della Storia? L’espiazione
che può comprare la salvezza?
John
Mearsheimer è rinfrescante, da questo punto di vista. Non si sente in lui l’odore
di incenso e di zolfo che promana da questi nebbiosi, antichi, climi. L’autore
di numerosissimi importanti testi[3], di scuola realista, da
tantissimo tempo[4]
chiarisce che l’atteggiamento di Putin verso l’Ucraina è provocato dall’occidente.
Secondo la scuola realista, semplicemente, le potenze possono essere grandi o
meno, ma quando sono in grado di farlo proteggono se stesse dalle altre. Questa
intenzionale e consapevole semplificazione delle ramificazioni di cause intrecciate
che determinano le azioni[5] fa perno su un
semplicissimo fatto: le grandi potenze si temono. E dunque si contendono
il potere per garantirsi la sicurezza. Ne deriva una politica internazionale
che è sempre stata “una faccenda spietata e pericolosa”[6]. Deriva da questo
sottofondo di paura che lo scopo primario di ogni Stato è massimizzare la
propria quota di potere nel mondo e dunque sottrarne agli altri. Il mondo è quindi
‘condannato alla perpetua competizione tra grandi potenze’. E questo comportamento
aggressivo è necessariamente praticato anche da Stati che mirano alla propria sicurezza
e solo a questa. Le ragioni principali sono tre: manca un’autorità centrale che
possa proteggere gli uni e gli altri (e gli uni dagli altri); il mondo è pieno
di armi; nessuno può conoscere le reali intenzioni di tutti (oggi e nel futuro).
Deriva
da questo guardare al mondo come è, e non come ci piacerebbe
(esercitando la colpa del wishful thinking[7]), che i fattori ideologici
(se un paese è, ad esempio, democratico o autocratico) rivestono scarsa
importanza. Secondo il punto di vista descritto non è la buona volontà di
questo o quello a determinare i comportamenti aggregati degli Stati nel
contesto internazionale, ma la necessità della sopravvivenza e sicurezza. È realistico
per ogni potenza essere offensiva (preventivamente offensiva), ogni qual volta
può. In effetti gli Stati Uniti sono stati in guerra (preventiva) sei volte in
venticinque anni (Iraq, Serbia verso Bosnia e Kosovo, Afghanistan, Iraq, Libia)
due anni su tre.
Dal
punto di vista del dibattito interno di potenza entro l’egemone statunitense la
posizione difesa da Mearsheimer (e da Kissinger) è quella del “bilanciamento d’oltremare”.
Contrastando l’isolazionismo[8] e le altre Grandi
Strategie alternative dell’impegno selettivo[9] e del dominio globale[10]. Secondo la dottrina del “bilanciamento”
nelle aree decisive, Europa, Asia orientale e Golfo Persico gli Stati Uniti
dovrebbero mandare i soldati a combattere solo se una Grande Potenza (ovvero
Cina, Giappone, Russia, Europa) sta prendendo il sopravvento[11].
Sulla
base di queste premesse il professore americano ritiene che i problemi che
hanno portato alla guerra risalgano all’aprile 2008, quando al vertice Nato di
Bucarest fu dichiarato che Ucraina e Georgia sarebbero diventati membri. La Russia
rispose subito che la considerava una minaccia esistenziale. La Russia, in
quanto potenza interessata alla propria sopravvivenza, considera cioè una minaccia
in grado di terminarla (in quanto potenza) la trasformazione dell’Ucraina in
paese liberale e filoamericano. Particolarmente se questa aderisse alla Nato
(potrebbe forse “farla franca” con la sola adesione alla Ue). Qui cade una
specifica caratteristiche dell’approccio realista: mentre l’intervistatore
evoca la categoria dell’imperialismo per descrivere la pretesa dei Russi che un
vicino non faccia qualcosa anche se lo desidera, Mearsheimer risponde che è
solo la politica delle grandi potenze. Per farlo comprendere fa un esempio che
illustra la nostra cecità selettiva: chiunque capisce in occidente che se sei
vicino agli Stati Uniti non gli metti le dita negli occhi aderendo ad un’alleanza
nemica e puntandogli i cannoni contro. Ovvero, con le sue parole, “se prendi un
bastone e gli colpisci negli occhi [sai che] si vendicheranno”. Qui cade
semplicemente un fatto: nessuno può invitare le forze armate di una potenza
rivale vicino ad una grande potenza (immaginiamo le forze armate cinesi al
confine messicano con gli Usa).
Questa
cosa non è giudicata dalla scuola realista con le lenti sfumate della morale;
non è giusta o sbagliata, morale o immorale (lo sarà pure, ma è irrilevante ai
fini pratici), ma semplicemente è. Il punto difeso è che se il mondo funziona
in un certo modo, cercare di cambiarlo per ragioni ideologiche produce necessariamente
disastri (come quello Ucraino). E li può produrre anche senza volerlo, ad
esempio l’espansione ad Est non era rivolta a contenere la Russia fino al 2014,
perché fino a quella data nessuno al riteneva una Grande Potenza e quindi una
potenziale minaccia. Secondo la visione di Mearsheimer, è più semplice: si espandeva
l’era di influenza per creare una zona più ampia zona di cooperazione
economica. Ovvero, in termini di analisi marxista, per ampliare l’area di
controllo del capitale (come vedremo un fatto chiave della dinamica imperialista).
Dalla
reazione russa nel 2014 in avanti è stata quindi inventata la storia secondo la
quale il problema è personalizzato in Putin che è aggressivo e vuole
ripristinare l’Unione Sovietica come territorio, per cui si rivolgerà dopo agli
stati baltici e via dicendo. Si tratta di una storia di giustificazione. In realtà,
sostiene il nostro, l’analisi delle forze in campo dice che la Russia non ha i
mezzi economici per fare guerre simili. Il potenziale di potere è insufficiente.
Ne deriva che la vera minaccia per gli Stati Uniti viene solo da chi quel
potenziale lo ha, e dunque la Cina. Quindi la politica giusta sarebbe quella
opposta: distogliere l’attenzione dall’Europa e fare una alleanza con la Russia
contro la Cina.
Qui
termina l’articolo di Mearsheimer, che in sostanza invita a riconoscere il
diritto alla sicurezza della Russia (che implica alla fine anche quello dell’Ucraina)
e di operare con compromessi attivi tra potenze per tenere legate, piuttosto, Europa e Russia insieme in modo da circondare la Cina. E riclassifica, sulla
base di semplici ma non banali considerazioni realiste, l’azione della Russia,
in quanto Grande Potenza, come aggressività difensiva.
Difesa
motivata dall’espansione della sfera di influenza occidentale, la cui punta di
lancia è la Nato ma che non si limita alla dimensione militare, avendo una dimensione culturale
di tipo assimilazionista ed una economica di tipo imperialista. Dunque, occorre
spendere alcune parole su questa ultima affermazione, avendo trattato la prima all’avvio.
Il termine “imperialismo” viene spesso usato in modo aspecifico, risultando in
sostanza qualcosa che si avvicina ad un giudizio morale, un insulto, o il
semplice comportamento standard di chiunque abbia un potere sovranazionale. Come
abbiamo visto Mearsheimer rifiuta di usarlo per questo essere sostanzialmente
inutile.
Ma
c’è un’altra accezione, specifica, per la quale è imperialismo il comportamento
Usa, da Clinton a Bush e Obama, mentre non lo è quello Russo (in questo caso,
si intende). Questa definizione, che è del tutto diversa da quella in essere
nel mondo precapitalista, quando il potere politico ed economico erano
diversamente intrecciati e il controllo passava molto più per la terra e gli uomini
stanziati, viene messa a fuoco all’inizio del secolo scorso da Hobson[12] e poi affinata da
Hilferding[13],
Luxemburg[14]
e Lenin[15]. La scala del capitalismo
potentemente industrializzato e finanziarizzato, e dominato da grandi
conglomerati industria/finanza di inizio novecento (che assomiglia sotto molti
profili al nostro) rese necessarie quelle che Baran chiama “lotte esasperate
per assicurarsi sbocchi per gli investimenti e fonti di materie prime”[16]. Storicamente seguì una violenta corsa agli
armamenti tra le grandi potenze, che assorbì parti sempre maggiori dei loro
prodotti nazionali, guadagnando una crescente centralità economica. Le guerre
frizionali che ne seguirono furono: la guerra cino-giapponese, la guerra ispano-americana,
la guerra dei Boeri, la repressione della rivolta dei boxer, la guerra
russo-giapponese, la Rivoluzione russa del 1905, la rivoluzione cinese del
1911-12 e, finalmente, la Prima guerra mondiale.
La
pressione finanziaria determinata dalla necessità di sbocchi controllabili ed
arene di investimento redditive e sicure affonda le sue radici in una intera
organizzazione economico-sociale che nel suo complesso condiziona il pubblico,
i principali funzionari, i legislatori, i leader intellettuali e via dicendo. Ma,
come già scriveva l’inglese Hobson (critico dell’espansione dell’imperialismo
inglese), in questa organizzazione agiscono moventi finanziari e industriali di
gruppi ben precisi che si assicurano l’attiva cooperazione della politica, ma
anche l’appoggio di massa garantito dagli appelli alla missione di civiltà
della nazione (tradotti per lo più, oggi, in appelli per la missione
civilizzatrice della civiltà europea e della sua forma politica) e speculando
su quelli che al tempo chiamava gli “istinti primitivi della razza”.
Più specifica e
precisa è l’analisi sul punto di Lenin che in un opuscolo del 1916 “L’imperialismo
come fase suprema del capitalismo”[17],
da Berna, attribuisce la guerra in corso al funzionamento essenziale del
meccanismo di accumulazione del capitalismo. Il meccanismo cui risale la spiegazione è la semplice
tendenza del capitale all’autovalorizzazione unitamente al suo carattere
plurale. Oltre a questo semplice, ma potente, modello viene sottolineato che la
tendenza all’autovalorizzazione e alla concentrazione[18]
porta al monopolio e questo alla fusione del capitale finanziario con quello
industriale. È da questa fusione che scaturisce l’immane livello della
competizione intercapitalista e quindi l’imperialismo. Alla fine, si ha la
guerra.
Ricapitolando, la definizione più concisa di
imperialismo è “lo stadio monopolistico del capitalismo”. I suoi cinque
principali caratteri sono: la concentrazione della produzione e del capitale
che crea i monopoli; la fusione del capitale bancario con quello industriale; l’importanza
della esportazione del capitale; il sorgere di associazioni monopolistiche
internazionali che si ripartiscono il mondo; la compiuta ripartizione della
terra tra le più grandi potenze capitalistiche. La ripartizione, però, comporta
sempre lotta, in ogni luogo. Se non altro per indebolire i capisaldi
dell’egemonia avversaria, ed è una lotta nella quale, come sottolinea anche
Hobson, prevalgono gli interessi finanziari su quelli industriali (e sono
comunque interconnessi)[19].
Chiaramente
questa scheletrica analisi, in fondo due pampleth di poche decine di pagine che
generano una enorme letteratura secondaria, non deve portare all’opposto della resezione
metodologica di Mearsheimer a ricondurre tutto dalla politica di potenza a
quella finanziaria. Leggere in modo lineare e meccanico la finanza
internazionale come causa della guerra e minaccia alla pace, vero mandante
delle avventure coloniali, e quindi ricondurre la sorte delle nazioni alle mani
dei Rothschild, come semplifica Berta[20],
è certamente eccessivo. Si tratta di un’interconnessione molto più complessa e
che richiede una spiegazione più ampia, che sarà non a caso tentata nella
pluridecennale opera di Giovanni Arrighi[21].
Varrebbe la pena, ma il discorso si farebbe sia lungo sia complesso, dare
attenzione anche al lavoro dei coniugi Patnaik[22].
Resta comunque il
fatto che qui si contrappongono due politiche di potenza, entrambe aggressive e
brutali, l’una offensiva e l’altra difensiva. L’una imperialista in senso
tecnico e l’altra no (ma solo per carenza di mezzi e non di volontà).
Ad entrambe bisogna
opporsi, ma calcolando le conseguenze. La pace si fa con la pace.
[1] - Il romanzo di Conrad racconta di
una cultura (impersonata da Kurz) che non si interroga sui fini della propria
azione, limitandosi a dare esito alla propria volontà di potenza e dominio
onnilaterale.
[2] - Tzvetan Todorov, “La
conquista dell’America. Il problema dell’altro”, ET Storia, 1984.
[3] - Cito, “La grande illusione.
Perché la democrazia liberale non può cambiare il mondo”, Luiss, 2019 (ed.
or. 2018) e “La tragedia delle grandi potenze”, Luiss, 2019 (ed. or.
2014)
[4] - Nel 2014 ha pubblicato, ad
esempio, su Foreign Affairs l’articolo “Why the Ukraine crisi is the
West’s faul”, nel quale conclude che la guerra nel Dombass era stata provocata
dall’occidente. È stato il blocco occidentale che non ha cessato di avanzare
verso la Russia, senza ammettere che ci possano essere ‘stati cuscinetto’,
amici di entrambi, come era l’Ucraina. E in esso ricorda l’affermazione molto
chiara del presidente ‘filo-occidentale’ Boris Yeltsin in occasione della
guerra Jugoslava, nel 1995: “questo è il primo segnale di che cosa potrebbe
accadere se la Nato arrivasse fino ai confini della federazione russa … le
fiamme delle guerra potrebbero bruciare tutta l’Europa”.
[5] - Semplificazione che, in
particolare, non tiene conto di ciò che è al centro dello schema analitico
marxista (almeno classico, la versione leniniana introduce fattori diversi),
ovvero i vincoli e le strutture di nesso determinate dai meccanismi di riproduzione
del capitale, del valore e con esso (essendo questo un rapporto sociale) del
potere politico e sociale. Per cui la ‘nazione’, sia essa o meno una ‘grande
potenza’, è essa stessa attraversata e costituita da direzioni di dominio e
direzione interne, che si intrecciano anche all’esterno, ed agisce in questi
limiti. Ovviamente Mearsheimer lo sa e lo descrive in “La tragedia”, a
p. 40. La teoria semplifica la realtà ignorando i fattori interni e trattando
come ‘scatole nere o palle da biliardo’.
[6] - Mearsheimer, “La tragedia”,
cit., p.32.
[7] - Credere a ciò che si desidera
credere.
[8] - Posizione secondo la quale gli
Stati Uniti, difesi da due oceani e da oltre 5.000 testate nucleari, non
potendo essere invasi dovrebbero disinteressarsi degli altri emisferi.
[9] - In base alla quale bisogna
concentrarsi sulle potenziali grande potenze rivali, stazionando in esse o ai confini.
Grandi potenze potenzialmente rivali che sono, si noti, l’Europa, l’Asia e il
Golfo Persico.
[10] - Secondo la quale gli Stati
Uniti, lungi dall’essere isolati o da un impegno selettivo, semplicemente
dovrebbero dominare l’intero pianeta o, come vorrebbe Wolfowitz e i neo-con,
tramite un unilaterale controllo, o, come vorrebbero i dem (che il testo chiama
“imperialisti liberali”), Albraight e Clinton, tramite una condivisione multilaterale
a dominio Usa.
[11] - Si veda John Mearshmeier,
Stephen Walt, “The case for offshore balancing. A superior U.S. grand strategy”,
Foreign Affairs, luglio-agosto 2016.
[12] - Hobson, “L’imperialismo”,
Newton & Compton, 1966 (ed or. 1902)
[13] - Rudolph Hilferding, “Il
Capitale finanziario”, Mimesis 2011 (ed or. 1910)
[14] - Rosa Luxemburg, “L’accumulazione
del capitale”, PGreco 2012, (ed. or. 1913)
[15] - Si veda qui, Alessandro Visalli,
“Dipendenza”, Meltemi 2020, cap. I, p.30 e seg.
[16]
- Paul Baran “Il surplus economico”, Feltrinelli 1962 (ed. or. 1957),
p.18
[17] - Lenin “L’imperialismo fase
suprema del capitalismo”, Editori Riuniti 1974 (ed. or. 1917).
[18] - Una importante nota a p. 47
recita: “Marx distingue ‘concentrazione’ e ‘centralizzazione’. Per il processo
di concentrazione osserva che ‘ogni capitale individuale è una concentrazione
più o meno grande di mezzi di produzione, con il corrispondente comando
su un esercito più o meno grande di operai. Ogni accumulazione diventa il mezzo
di accumulazione nuova. Essa allarga, con la massa aumentata della
ricchezza operante come capitale, la sua concentrazione nelle mani di
capitalisti individuali, e con ciò la base della produzione su larga
scala e dei metodi di produzione specificatamente capitalistici. L’aumento del
capitale sociale si compie con l’aumento di molti capitali individuali’. Quanto
al processo di centralizzazione Marx rileva che questo si distingue da quello
di concentrazione ‘pel fatto che esso presuppone solo una ripartizione
mutata di capitali già esistenti e funzionanti, che il suo campo di azione non
è dunque limitato all’aumento assoluto della ricchezza sociale o dai limiti
assoluti dell’accumulazione. Il capitale qui in una mano sola si gonfia da
diventare una grande massa, perché là in molte mani va perduto. È questa la centralizzazione
vera e propria a differenza dell’accumulazione e concentrazione’”.
K. Marx, Il capitale, I, 3, p. 74, (corsivi nel testo).
[19] - A.Visalli, “Dipendenza”,
cit., p. 110.
[20] - G. Berta, L’ascesa della
finanza internazionale, Feltrinelli,
2013, p. 184.
[21] - Sulla quale rimando a “Dipendenza”,
cit.
[22] - Si veda Prabhat Patnaik, Utsa
Patnaik, “Una teoria dell’imperialismo”, Meltemi 2021, ed or 2016. E il
post “Utsa
Patnaik, Prabhat Patnaik, ‘L’imperialismo nell’era della globalizzazione”.
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